Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la SX?
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
dal corriere.it
Roberto Saviano: «La sinistra unita è inverosimile. Non farei mai il leader» Lo scrittore: «Con me alla guida è al 16%? Ma commetterei un grave errore» di Alessandra Arachi Roberto Saviano
Roberto Saviano, ha sentito di quel sondaggio Ipr? Con Saviano leader, la sinistra unita (alternativa al Pd) potrebbe arrivare al 16% Scenderebbe in campo per salvare la sinistra? «I sondaggi spesso descrivono il mondo che sogniamo: la sinistra unita è un’ipotesi inverosimile. Sarebbe un contenitore con dentro tutto e il suo contrario. Io faccio altro: scrivo, racconto, creo. La politica è un altro lavoro e non è il mio lavoro». In questo sondaggio Ipr per il «Fatto Quotidiano» il suo nome svetta nelle preferenze: è al 72% fra i delusi del Pd, staccando di una cinquantina di punti uno come Pippo Civati e di una quarantina Massimo D’Alema... «Quella percentuale del 72 di delusi dal Pd potrebbe dirci molto: per esempio che sulla questione migranti e sulla sicurezza il Pd non dovrebbe affannarsi a sorpassare a destra Lega e M5S, ma dovrebbe avere una visione che non ha. Bisogna far ragionare ed empatizzare. Ma mi rendo conto che un partito con queste parole d’ordine l’avrebbero potuto creare i fratelli Rosselli o la Kuliscioff, non i dirigenti di oggi». Nel sondaggio, dopo il suo seguono due nomi nelle preferenze dei leader: Stefano Rodotà e Pierluigi Bersani. Che effetto le fa appartenere a questo «triunvirato» di rinascita della sinistra italiana? «Sono due personalità di spessore. Rodotà è un uomo di profondo rigore che per questo è stato accantonato dai 5 Stelle, che lo avevano tirato per la giacchetta. Bersani è un uomo per bene, un politico con una disciplina di altri tempi». Se dovesse scegliere invece lei i compagni di viaggio di un ipotetico «triumvirato» per la guida della sinistra unita? «Tra i tanti errori che potrei commettere nella mia vita futura uno dei più gravi sarebbe mettermi alla guida della sinistra unita». Una lista unica della sinistra dei delusi del Pd con chi dovrebbe allearsi secondo lei? «Pensare alle alleanze di una forza politica che difficilmente vedrà la luce mi sembra prematuro. Nella lista dei nomi che ho visto nel sondaggio vengono ipotizzate alleanze impossibili. Ad esempio: davvero si può credere che De Magistris e Pisapia potrebbero stare insieme? Nel sondaggio si dice che la prima cosa di cui dovrebbe occuparsi la sinistra unita è il lavoro, poi l’onestà e l’ambiente. La giustizia è soltanto a metà classifica, condivide? « «No, la giustizia dovrebbe essere al primo posto, versa in condizioni disastrate nel nostro Paese, con una lentezza esasperante. Per spiegare com’è la giustizia italiana: immaginiamo un bambino scalmanato che distrugge un prezioso lampadario e la mamma gli da uno schiaffo quando ha vent’anni». Quale sarebbe il programma di Roberto Saviano candidato premier? «Posso scherzare (ma non troppo)? Vietare agli scrittori di fare politica». 9 giugno 2017 | 00:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA ] Roberto Saviano: «La sinistra unita è inverosimile. Non farei mai il leader»
Lo scrittore: «Con me alla guida è al 16%? Ma commetterei un grave errore»
di Alessandra Arachi
Roberto Saviano (LaPresse)
shadow
Roberto Saviano, ha sentito di quel sondaggio Ipr? Con Saviano leader, la sinistra unita (alternativa al Pd) potrebbe arrivare al 16% Scenderebbe in campo per salvare la sinistra?
«I sondaggi spesso descrivono il mondo che sogniamo: la sinistra unita è un’ipotesi inverosimile. Sarebbe un contenitore con dentro tutto e il suo contrario. Io faccio altro: scrivo, racconto, creo. La politica è un altro lavoro e non è il mio lavoro».
In questo sondaggio Ipr per il «Fatto Quotidiano» il suo nome svetta nelle preferenze: è al 72% fra i delusi del Pd, staccando di una cinquantina di punti uno come Pippo Civati e di una quarantina Massimo D’Alema...
«Quella percentuale del 72 di delusi dal Pd potrebbe dirci molto: per esempio che sulla questione migranti e sulla sicurezza il Pd non dovrebbe affannarsi a sorpassare a destra Lega e M5S, ma dovrebbe avere una visione che non ha. Bisogna far ragionare ed empatizzare. Ma mi rendo conto che un partito con queste parole d’ordine l’avrebbero potuto creare i fratelli Rosselli o la Kuliscioff, non i dirigenti di oggi».
Nel sondaggio, dopo il suo seguono due nomi nelle preferenze dei leader: Stefano Rodotà e Pierluigi Bersani. Che effetto le fa appartenere a questo «triunvirato» di rinascita della sinistra italiana?
«Sono due personalità di spessore. Rodotà è un uomo di profondo rigore che per questo è stato accantonato dai 5 Stelle, che lo avevano tirato per la giacchetta. Bersani è un uomo per bene, un politico con una disciplina di altri tempi».
Se dovesse scegliere invece lei i compagni di viaggio di un ipotetico «triumvirato» per la guida della sinistra unita?
«Tra i tanti errori che potrei commettere nella mia vita futura uno dei più gravi sarebbe mettermi alla guida della sinistra unita».
Una lista unica della sinistra dei delusi del Pd con chi dovrebbe allearsi secondo lei?
«Pensare alle alleanze di una forza politica che difficilmente vedrà la luce mi sembra prematuro. Nella lista dei nomi che ho visto nel sondaggio vengono ipotizzate alleanze impossibili. Ad esempio: davvero si può credere che De Magistris e Pisapia potrebbero stare insieme?
Nel sondaggio si dice che la prima cosa di cui dovrebbe occuparsi la sinistra unita è il lavoro, poi l’onestà e l’ambiente. La giustizia è soltanto a metà classifica, condivide? «
«No, la giustizia dovrebbe essere al primo posto, versa in condizioni disastrate nel nostro Paese, con una lentezza esasperante. Per spiegare com’è la giustizia italiana: immaginiamo un bambino scalmanato che distrugge un prezioso lampadario e la mamma gli da uno schiaffo quando ha vent’anni».
Quale sarebbe il programma di Roberto Saviano candidato premier?
«Posso scherzare (ma non troppo)? Vietare agli scrittori di fare politica».
9 giugno 2017 | 00:28
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OK Saviano, faccia lo sponsor di un movimento guidato da Rodotà e da Bersani, resta il fatto che a sinistra del PD c'è rimasto uno spazio che può arrivare al 20% sia per i contenuti programmatici sia per la serietà e l'onestà delle persone.
Roberto Saviano: «La sinistra unita è inverosimile. Non farei mai il leader» Lo scrittore: «Con me alla guida è al 16%? Ma commetterei un grave errore» di Alessandra Arachi Roberto Saviano
Roberto Saviano, ha sentito di quel sondaggio Ipr? Con Saviano leader, la sinistra unita (alternativa al Pd) potrebbe arrivare al 16% Scenderebbe in campo per salvare la sinistra? «I sondaggi spesso descrivono il mondo che sogniamo: la sinistra unita è un’ipotesi inverosimile. Sarebbe un contenitore con dentro tutto e il suo contrario. Io faccio altro: scrivo, racconto, creo. La politica è un altro lavoro e non è il mio lavoro». In questo sondaggio Ipr per il «Fatto Quotidiano» il suo nome svetta nelle preferenze: è al 72% fra i delusi del Pd, staccando di una cinquantina di punti uno come Pippo Civati e di una quarantina Massimo D’Alema... «Quella percentuale del 72 di delusi dal Pd potrebbe dirci molto: per esempio che sulla questione migranti e sulla sicurezza il Pd non dovrebbe affannarsi a sorpassare a destra Lega e M5S, ma dovrebbe avere una visione che non ha. Bisogna far ragionare ed empatizzare. Ma mi rendo conto che un partito con queste parole d’ordine l’avrebbero potuto creare i fratelli Rosselli o la Kuliscioff, non i dirigenti di oggi». Nel sondaggio, dopo il suo seguono due nomi nelle preferenze dei leader: Stefano Rodotà e Pierluigi Bersani. Che effetto le fa appartenere a questo «triunvirato» di rinascita della sinistra italiana? «Sono due personalità di spessore. Rodotà è un uomo di profondo rigore che per questo è stato accantonato dai 5 Stelle, che lo avevano tirato per la giacchetta. Bersani è un uomo per bene, un politico con una disciplina di altri tempi». Se dovesse scegliere invece lei i compagni di viaggio di un ipotetico «triumvirato» per la guida della sinistra unita? «Tra i tanti errori che potrei commettere nella mia vita futura uno dei più gravi sarebbe mettermi alla guida della sinistra unita». Una lista unica della sinistra dei delusi del Pd con chi dovrebbe allearsi secondo lei? «Pensare alle alleanze di una forza politica che difficilmente vedrà la luce mi sembra prematuro. Nella lista dei nomi che ho visto nel sondaggio vengono ipotizzate alleanze impossibili. Ad esempio: davvero si può credere che De Magistris e Pisapia potrebbero stare insieme? Nel sondaggio si dice che la prima cosa di cui dovrebbe occuparsi la sinistra unita è il lavoro, poi l’onestà e l’ambiente. La giustizia è soltanto a metà classifica, condivide? « «No, la giustizia dovrebbe essere al primo posto, versa in condizioni disastrate nel nostro Paese, con una lentezza esasperante. Per spiegare com’è la giustizia italiana: immaginiamo un bambino scalmanato che distrugge un prezioso lampadario e la mamma gli da uno schiaffo quando ha vent’anni». Quale sarebbe il programma di Roberto Saviano candidato premier? «Posso scherzare (ma non troppo)? Vietare agli scrittori di fare politica». 9 giugno 2017 | 00:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA ] Roberto Saviano: «La sinistra unita è inverosimile. Non farei mai il leader»
Lo scrittore: «Con me alla guida è al 16%? Ma commetterei un grave errore»
di Alessandra Arachi
Roberto Saviano (LaPresse)
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Roberto Saviano, ha sentito di quel sondaggio Ipr? Con Saviano leader, la sinistra unita (alternativa al Pd) potrebbe arrivare al 16% Scenderebbe in campo per salvare la sinistra?
«I sondaggi spesso descrivono il mondo che sogniamo: la sinistra unita è un’ipotesi inverosimile. Sarebbe un contenitore con dentro tutto e il suo contrario. Io faccio altro: scrivo, racconto, creo. La politica è un altro lavoro e non è il mio lavoro».
In questo sondaggio Ipr per il «Fatto Quotidiano» il suo nome svetta nelle preferenze: è al 72% fra i delusi del Pd, staccando di una cinquantina di punti uno come Pippo Civati e di una quarantina Massimo D’Alema...
«Quella percentuale del 72 di delusi dal Pd potrebbe dirci molto: per esempio che sulla questione migranti e sulla sicurezza il Pd non dovrebbe affannarsi a sorpassare a destra Lega e M5S, ma dovrebbe avere una visione che non ha. Bisogna far ragionare ed empatizzare. Ma mi rendo conto che un partito con queste parole d’ordine l’avrebbero potuto creare i fratelli Rosselli o la Kuliscioff, non i dirigenti di oggi».
Nel sondaggio, dopo il suo seguono due nomi nelle preferenze dei leader: Stefano Rodotà e Pierluigi Bersani. Che effetto le fa appartenere a questo «triunvirato» di rinascita della sinistra italiana?
«Sono due personalità di spessore. Rodotà è un uomo di profondo rigore che per questo è stato accantonato dai 5 Stelle, che lo avevano tirato per la giacchetta. Bersani è un uomo per bene, un politico con una disciplina di altri tempi».
Se dovesse scegliere invece lei i compagni di viaggio di un ipotetico «triumvirato» per la guida della sinistra unita?
«Tra i tanti errori che potrei commettere nella mia vita futura uno dei più gravi sarebbe mettermi alla guida della sinistra unita».
Una lista unica della sinistra dei delusi del Pd con chi dovrebbe allearsi secondo lei?
«Pensare alle alleanze di una forza politica che difficilmente vedrà la luce mi sembra prematuro. Nella lista dei nomi che ho visto nel sondaggio vengono ipotizzate alleanze impossibili. Ad esempio: davvero si può credere che De Magistris e Pisapia potrebbero stare insieme?
Nel sondaggio si dice che la prima cosa di cui dovrebbe occuparsi la sinistra unita è il lavoro, poi l’onestà e l’ambiente. La giustizia è soltanto a metà classifica, condivide? «
«No, la giustizia dovrebbe essere al primo posto, versa in condizioni disastrate nel nostro Paese, con una lentezza esasperante. Per spiegare com’è la giustizia italiana: immaginiamo un bambino scalmanato che distrugge un prezioso lampadario e la mamma gli da uno schiaffo quando ha vent’anni».
Quale sarebbe il programma di Roberto Saviano candidato premier?
«Posso scherzare (ma non troppo)? Vietare agli scrittori di fare politica».
9 giugno 2017 | 00:28
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OK Saviano, faccia lo sponsor di un movimento guidato da Rodotà e da Bersani, resta il fatto che a sinistra del PD c'è rimasto uno spazio che può arrivare al 20% sia per i contenuti programmatici sia per la serietà e l'onestà delle persone.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
8 Settembre 1943-(2.0)
Il clima che si respira oggi, 9 giugno 2017, è quello che si respirava l’8 settembre 1943.
Oggi come allora l’Italia per la prima volta, è decisamente allo sfascio.
Graviano in cella: “Stragi ’93? Non sono di mafia”
“Berlusca mi chiese la cortesia, da qui l’urgenza”
Il boss di Brancaccio intercettato in carcere ad Ascoli parla della trattativa per alleggerire il 41bis
Ma si lascia andare anche a qualche confidenza: “Da detenuto ho messo incinta mia moglie”
Mafie
“Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”. E poi: “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. E ancora: “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”. La voce del boss Giuseppe Graviano irrompe nel processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Ore e ore di intercettazioni in carcere
di F. Q.
Il clima che si respira oggi, 9 giugno 2017, è quello che si respirava l’8 settembre 1943.
Oggi come allora l’Italia per la prima volta, è decisamente allo sfascio.
Graviano in cella: “Stragi ’93? Non sono di mafia”
“Berlusca mi chiese la cortesia, da qui l’urgenza”
Il boss di Brancaccio intercettato in carcere ad Ascoli parla della trattativa per alleggerire il 41bis
Ma si lascia andare anche a qualche confidenza: “Da detenuto ho messo incinta mia moglie”
Mafie
“Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”. E poi: “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. E ancora: “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”. La voce del boss Giuseppe Graviano irrompe nel processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Ore e ore di intercettazioni in carcere
di F. Q.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
(Carlo Clericetti, “Uk, quando i socialisti fanno i socialisti”, da “Repubblica” del 9 giugno 2017, articolo ripreso da “Micromega”).
LIBRE news
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La lezione inglese: se i socialisti tornano a fare i socialisti
Scritto il 12/6/17 • nella Categoria: idee Condividi
Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.
L’elezione a sorpresa di Jeremy Corbyn alla segreteria – grazie a primarie che hanno dato più peso alla base e meno ai notabili – ha rappresentato una rottura e un ritorno alla linea precedente. Non c’è stato osservatore o analista politico che non abbia accolto questa sterzata con commenti impregnati di uno scetticismo a volte ai limiti del dileggio: in questo modo, si è detto, il Labour si condanna a una sterile opposizione, senza alcuna speranza di tornare prima o poi al governo. I sondaggi sembravano confortare questa tesi, visto che fino a un paio di mesi fa accreditavano al Labour consensi intorno al 25%, con un abissale distacco di una ventina di punti rispetto ai rivali Tory. Poi Corbyn ha presentato il suo programma, subito bollato come “massimalista” e “populista”. In realtà, al di là di qualche esagerazione da campagna elettorale, era semplicemente un programma che rovesciava i paradigmi neoliberisti: basta all’austerità diretta a senso unico verso le classi più svantaggiate, basta riduzioni del welfare, ri-nazionalizzazione di servizi essenziali come poste e ferrovie (queste ultime oggetto di una privatizzazione particolarmente fallimentare).
Basta con l’università così costosa da escludere gran parte di coloro che non hanno possibilità economiche: e probabilmente proprio questa è stata la carta vincente nei confronti dei giovani, che sono andati a votare (mentre al referendum sulla Brexit si erano astenuti per due terzi) e hanno votato in maggioranza per Corbyn. Il risultato è stato che un partito che sembrava avviato verso la triste sorte degli altri confratelli ha ottenuto un successo a cui il numero di seggi non rende giustizia: il Labour è arrivato al 40%, testa a testa con il 42,5 dei Tory. Altro che che “così non vincerà mai più”: la linea Corbyn ha dimostrato di essere l’unica che possa sperare di contendere il potere ai conservatori. Una speranza tutt’altro che peregrina: quando le percentuali sono così vicine basta l’ulteriore spostamento di un numero abbastanza limitato di voti per rovesciare la maggioranza dei seggi conquistati. Frutto di un sistema elettorale che produce risultati paradossali: anche questa volta, per esempio, l’irlandese Dup con lo 0,91% conquista 10 seggi, mentre il 7,36 dei Libdem ne vale appena 2 in più e il 3% dei nazionalisti scozzesi gliene assegna 35.
Insomma la lezione, per chi la vuol capire, è molto chiara: se i socialisti non fanno i socialisti prima o poi vanno incontro alla scomparsa. Ogni paese ha le sue dinamiche e le sue specificità: per alcuni quel “poi” è già arrivato, in altri casi – come quello dell’Italia – non ancora, ma è sulla buona strada. Ne dovrebbero tener conto, per esempio, i fuoriusciti dal Pd, le cui analisi sulla globalizzazione, sull’Europa e sull’economia non recidono ancora quel legame con la Terza via che ha distrutto o sta distruggendo la sinistra. Cosa che invece ha fatto, per esempio, il francese Jean-Luc Mélenchon, ottenendo alle recenti presidenziali un successo che – anche in quel caso – nessuno aveva previsto. Il mondo è cambiato, è vero. Ma ciò non significa che non possa cambiare di nuovo. Soprattutto, non sono cambiati i bisogni e gli interessi di chi da questi mutamenti è stato danneggiato e vede un futuro in cui la propria condizione potrà semmai solo peggiorare. Chi vuole rappresentarli dovrà prenderne atto fino in fondo.
(Carlo Clericetti, “Uk, quando i socialisti fanno i socialisti”, da “Repubblica” del 9 giugno 2017, articolo ripreso da “Micromega”).
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La lezione inglese: se i socialisti tornano a fare i socialisti
Scritto il 12/6/17 • nella Categoria: idee Condividi
Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.
L’elezione a sorpresa di Jeremy Corbyn alla segreteria – grazie a primarie che hanno dato più peso alla base e meno ai notabili – ha rappresentato una rottura e un ritorno alla linea precedente. Non c’è stato osservatore o analista politico che non abbia accolto questa sterzata con commenti impregnati di uno scetticismo a volte ai limiti del dileggio: in questo modo, si è detto, il Labour si condanna a una sterile opposizione, senza alcuna speranza di tornare prima o poi al governo. I sondaggi sembravano confortare questa tesi, visto che fino a un paio di mesi fa accreditavano al Labour consensi intorno al 25%, con un abissale distacco di una ventina di punti rispetto ai rivali Tory. Poi Corbyn ha presentato il suo programma, subito bollato come “massimalista” e “populista”. In realtà, al di là di qualche esagerazione da campagna elettorale, era semplicemente un programma che rovesciava i paradigmi neoliberisti: basta all’austerità diretta a senso unico verso le classi più svantaggiate, basta riduzioni del welfare, ri-nazionalizzazione di servizi essenziali come poste e ferrovie (queste ultime oggetto di una privatizzazione particolarmente fallimentare).
Basta con l’università così costosa da escludere gran parte di coloro che non hanno possibilità economiche: e probabilmente proprio questa è stata la carta vincente nei confronti dei giovani, che sono andati a votare (mentre al referendum sulla Brexit si erano astenuti per due terzi) e hanno votato in maggioranza per Corbyn. Il risultato è stato che un partito che sembrava avviato verso la triste sorte degli altri confratelli ha ottenuto un successo a cui il numero di seggi non rende giustizia: il Labour è arrivato al 40%, testa a testa con il 42,5 dei Tory. Altro che che “così non vincerà mai più”: la linea Corbyn ha dimostrato di essere l’unica che possa sperare di contendere il potere ai conservatori. Una speranza tutt’altro che peregrina: quando le percentuali sono così vicine basta l’ulteriore spostamento di un numero abbastanza limitato di voti per rovesciare la maggioranza dei seggi conquistati. Frutto di un sistema elettorale che produce risultati paradossali: anche questa volta, per esempio, l’irlandese Dup con lo 0,91% conquista 10 seggi, mentre il 7,36 dei Libdem ne vale appena 2 in più e il 3% dei nazionalisti scozzesi gliene assegna 35.
Insomma la lezione, per chi la vuol capire, è molto chiara: se i socialisti non fanno i socialisti prima o poi vanno incontro alla scomparsa. Ogni paese ha le sue dinamiche e le sue specificità: per alcuni quel “poi” è già arrivato, in altri casi – come quello dell’Italia – non ancora, ma è sulla buona strada. Ne dovrebbero tener conto, per esempio, i fuoriusciti dal Pd, le cui analisi sulla globalizzazione, sull’Europa e sull’economia non recidono ancora quel legame con la Terza via che ha distrutto o sta distruggendo la sinistra. Cosa che invece ha fatto, per esempio, il francese Jean-Luc Mélenchon, ottenendo alle recenti presidenziali un successo che – anche in quel caso – nessuno aveva previsto. Il mondo è cambiato, è vero. Ma ciò non significa che non possa cambiare di nuovo. Soprattutto, non sono cambiati i bisogni e gli interessi di chi da questi mutamenti è stato danneggiato e vede un futuro in cui la propria condizione potrà semmai solo peggiorare. Chi vuole rappresentarli dovrà prenderne atto fino in fondo.
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Perché mi è stato impedito di pubblicare in tutti i modi questo articolo, valutate voi.
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Il neoliberismo ha conquistato lo Stato, complice la sinistra
Scritto il 15/6/17 • nella Categoria: idee Condividi
Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.
«Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno – scrive Vero su “Megachip” – il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello Stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati – al loro giudizio finale – una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali». Quindi uno Stato in funzione di coordinatore strategico dei grandi interessi economici. «Il cosiddetto “laissez faire” era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale». Nell’accezione più diffusa, invece, proprio lo Stato «deve costruire, mantenere, sorvegliare una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del “capitale umano”». Una distinzione «fasulla», quella tra destra e sinistra, figlia di una narrazione «fraudolenta» del rapporto con l’istituzione statale.
Quella attuale, aggiunge Vero, è «una sinistra che consegna l’anima e il corpo a una “razionalità” irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale». Questa è una post-sinistra, «il cui sogno, da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l’uguaglianza con la lotta alla povertà, è divenuto la scomparsa delle classi: e non nel senso vaticinato da Marx». Ma la responsabilità della sinistra, «specie nell’imminenza del varo dell’euro e dell’Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile)», secondo Vero non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali: «Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo Stato si fa garante».
E la “forgia” di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto-dovere di essere libero e concorrenziale «è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto». Per Sandro Vero è stata «una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un’intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell’auto-misurazione, dell’auto-premiazione, perfino dell’auto-esecrazione». La solidarietà sociale? «E’ divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l’anima dell’individuo, privandolo dell’energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l’infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!».
Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda il filosofo Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.
«Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno – scrive Vero su “Megachip” – il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello Stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati – al loro giudizio finale – una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali». Quindi uno Stato in funzione di coordinatore strategico dei grandi interessi economici. «Il cosiddetto “laissez faire” era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale». Nell’accezione più diffusa, invece, proprio lo Stato «deve costruire, mantenere, sorvegliare una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del “capitale umano”». Una distinzione «fasulla», quella tra destra e sinistra, figlia di una narrazione «fraudolenta» del rapporto con l’istituzione statale.
Quella attuale, aggiunge Vero, è «una sinistra che consegna l’anima e il corpo a una “razionalità” irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale». Questa è una post-sinistra, «il cui sogno, da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l’uguaglianza con la lotta alla povertà, è divenuto la scomparsa delle classi: e non nel senso vaticinato da Marx». Ma la responsabilità della sinistra, «specie nell’imminenza del varo dell’euro e dell’Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile)», secondo Vero non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali: «Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo Stato si fa garante».
E la “forgia” di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto-dovere di essere libero e concorrenziale «è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto». Per Sandro Vero è stata «una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un’intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell’auto-misurazione, dell’auto-premiazione, perfino dell’auto-esecrazione». La solidarietà sociale? «E’ divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l’anima dell’individuo, privandolo dell’energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l’infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!».
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Il neoliberismo ha conquistato lo Stato, complice la sinistra
Scritto il 15/6/17 • nella Categoria: idee Condividi
Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.
«Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno – scrive Vero su “Megachip” – il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello Stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati – al loro giudizio finale – una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali». Quindi uno Stato in funzione di coordinatore strategico dei grandi interessi economici. «Il cosiddetto “laissez faire” era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale». Nell’accezione più diffusa, invece, proprio lo Stato «deve costruire, mantenere, sorvegliare una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del “capitale umano”». Una distinzione «fasulla», quella tra destra e sinistra, figlia di una narrazione «fraudolenta» del rapporto con l’istituzione statale.
Quella attuale, aggiunge Vero, è «una sinistra che consegna l’anima e il corpo a una “razionalità” irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale». Questa è una post-sinistra, «il cui sogno, da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l’uguaglianza con la lotta alla povertà, è divenuto la scomparsa delle classi: e non nel senso vaticinato da Marx». Ma la responsabilità della sinistra, «specie nell’imminenza del varo dell’euro e dell’Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile)», secondo Vero non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali: «Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo Stato si fa garante».
E la “forgia” di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto-dovere di essere libero e concorrenziale «è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto». Per Sandro Vero è stata «una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un’intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell’auto-misurazione, dell’auto-premiazione, perfino dell’auto-esecrazione». La solidarietà sociale? «E’ divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l’anima dell’individuo, privandolo dell’energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l’infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!».
Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda il filosofo Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.
«Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno – scrive Vero su “Megachip” – il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello Stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati – al loro giudizio finale – una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali». Quindi uno Stato in funzione di coordinatore strategico dei grandi interessi economici. «Il cosiddetto “laissez faire” era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale». Nell’accezione più diffusa, invece, proprio lo Stato «deve costruire, mantenere, sorvegliare una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del “capitale umano”». Una distinzione «fasulla», quella tra destra e sinistra, figlia di una narrazione «fraudolenta» del rapporto con l’istituzione statale.
Quella attuale, aggiunge Vero, è «una sinistra che consegna l’anima e il corpo a una “razionalità” irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale». Questa è una post-sinistra, «il cui sogno, da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l’uguaglianza con la lotta alla povertà, è divenuto la scomparsa delle classi: e non nel senso vaticinato da Marx». Ma la responsabilità della sinistra, «specie nell’imminenza del varo dell’euro e dell’Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile)», secondo Vero non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali: «Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo Stato si fa garante».
E la “forgia” di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto-dovere di essere libero e concorrenziale «è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto». Per Sandro Vero è stata «una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un’intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell’auto-misurazione, dell’auto-premiazione, perfino dell’auto-esecrazione». La solidarietà sociale? «E’ divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l’anima dell’individuo, privandolo dell’energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l’infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!».
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
OPINIONI
Massimo Cacciari
Parole nel vuoto
La sinistra? Una storia recente di occasioni perse
È mancata la capacità di ricomporre i frammenti del lavoro, precarizzato e non. E di rappresentarlo. Ora smettiamola di parlarci addosso intorno a identità passate e diciamo con chiarezza, se ne siamo capaci, che cosa vogliamo fare
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Sinistri presagi sui destini della Sinistra chi avesse orecchi per intendere e occhi per vedere poteva avvertirli ormai da qualche decennio. Quando ci si affanna troppo a voler ri-semantizzare un termine, come appunto da troppo tempo avviene per “la Sinistra”, vuol dire che il suo tasso di convenzionalità esce a dismisura e che forse allora è più utile passare alla cosa. De nobis ipsis silemus, de re agitur, diceva quel tale. Tradotto in volgare: smettiamola di parlarci addosso intorno a identità perdute e diciamo con chiarezza, se ne siamo capaci, che cosa vogliamo fare e con chi.
Intere biblioteche hanno dimostrato l’assoluta inconsistenza di una visione statica, priva di profondità storica e culturale, della contrapposizione tra Madame Sinistra e Madame Destra col Centro in mezzo a completare il rassicurante schemino). La realtà è fatta di incroci e meticciamenti di ogni genere, di terre di nessuno, di tradimenti e fra-intendimenti, che non si dispongono mai in serie lineari, secondo i disegni teleologici cari ai “progressisti”. Categorie di ascendenza giacobina si possono trovare ovunque, così come, opposte a queste, altre di tipo organicistico-comunitario; teorie etiche dello Stato e, di contro, “religioni della libertà” trovano dimora a destra come a sinistra, e spesso si confondono all’interno di una stessa corrente. Perfino mitologie nazionalistiche non sono state nella storia appannaggio soltanto delle destre. Vi è destra conservatrice e destra rivoluzionaria; distinzione applicabile anche alla sinistra… almeno fino a qualche tempo fa. Non è guazzabuglio, è complessità, che sempre l’ignoranza, oggi egemone, si vanta di saper semplificare.
Ma il limite essenziale di ogni tentativo volto a definire i confini tra destra e sinistra sta nel carattere quasi sempre astrattamente ideologico che esso ha finito con l’assumere. Il vero è che essere di sinistra nel Novecento comportava un riferimento materiale a classi sociali e a movimenti di lotta all’interno del sistema di produzione capitalistico. Verum factum . Essere di sinistra significava, nel suo fondamento, pensare che le lotte della classe operaia, massificata nel rapporto di produzione, costituissero il Soggetto di qualsiasi trasformazione sistemica, vuoi attraverso processi di riforma, vuoi attraverso salti rivoluzionari. Riformisti e “estremisti” si ritrovavano, infatti, su questa base filosofica comune: il movimento di classe operaia aveva un valore universale , esprimeva un fine autenticamente egemonico. Su questo piano l’opposizione a destre e centri restava davvero chiara ed essenziale.
La sinistra del Novecento è movimento operaio o, praticamente, politicamente, non è. E questo Soggetto esce vittorioso dalla Guerra Mondiale, ed è protagonista della ricostruzione europea. Poteva la Sinistra novecentesca sopravvivere alla sua fine? No, non poteva. Una grande trasformazione, del tutto comparabile con quella che aveva visto il nascere delle società industriali, ha rivoluzionato dalla fine degli anni ’70 organizzazione del lavoro, composizione sociale, rapporti di potere. Un’intera formazione storica tramontava. La sinistra europea ha rappresentato questo tramonto, a volte con nobile nostalgia, il più con indecente albagia.
Si sarebbe potuto, sulla base di un’analisi materialistica dei mutamenti avvenuti, tentare la costruzione di un movimento politico che svolgesse nella nuova epoca una funzione analoga a quella che, pur tra inevitabili divisioni, la sinistra aveva rappresentato nel tragico Novecento? Sì, si poteva. La fine della classe operaia non era la fine del lavoro dipendente, anzi. Era la sua proliferazione sotto le mentite spoglie dell’«autonomia». I disiecta membra del lavoro sociale, precarizzato e non, potevano essere sindacalmente e politicamente ricomposti? Potevano – ma occorreva vederli, impararne lingua e bisogni, farli valere. Essere dalla loro parte . Essere il loro partito , definire queste nuove centralità , e intorno ad esse costruire tutte le alleanze possibili.
Invece è stata la stagione del “popolo”. Che non esiste, che mai è esistito. I populismi vengono da qui. Dal crollo della vera responsabilità politica, che significa analizzare e decidere priorità, decidere chi e come sostenere, difendere, promuovere all’interno della complessità sociale. Non era più definibile una centralità operaia? Certo no. Ma diventava allora inevitabile inseguire la chimera del “popolo” e partiti della nazione? Certo no. Che cosa costituisce il fulcro dell’attuale composizione sociale? Intelligenza, cervello, cultura, innovazione. Stanno forse “al potere”? Costituiscono forse la cura essenziale di governi ed élite? Le cifre dei nostri bilanci dicono quanto. E allora era necessario costruire la forza politica che quei soggetti rappresentasse. O si crede che essi non esistano perché non timbrano il cartellino ogni giorno ai cancelli di fabbriche e uffici? Infine, la sinistra storica, sempre – è bene ripeterlo – in forme diverse, contraddittorie, spesso in osmosi con “il nemico”, ha costruito lo Stato democratico. Ma lo Stato nella sua forma burocratico-centralistica. Lo Stato che presume di porre sempre “la politica al comando”. Anche quest’epoca volgeva al termine già quarant’anni fa. I nuovi protagonisti della vita economica, sociale, culturale esigevano una forma-Stato diversa. Esigevano riconoscimento pieno delle proprie capacità auto-organizzative, del proprio ruolo politico generale. Si potevano costruire vere riforme istituzionali in questa direzione? Si dovevano. E giungiamo ora, invece, all’umiliante chiacchiera su una riforma elettorale, dove la sola, reale posta in gioco è avere a disposizione in parlamento manipoli di fedelissimi.
E a proposito di cooptati, clientele e cortigianeria varia. Esisteva pure nell’antica sinistra un certo spirito critico-eretico, una certa capacità di resistere a quel senso comune mortale nemico del buon senso, che oggi viene invece venerato da ogni parte. Non aveva vita facile, tale spirito, dentro l’allora “movimento operaio”, pure bastava a rendere indigeribili sia l’ossequio alle “leggi” dello statu quo, che il vacuo promettere, che le retoriche sugli “I can” e “I dream”, buone solo a coprire le quotidiane tragedie e le proprie impotenze. Naturalmente, questa avara eredità è stata la prima a venire stracciata.
13 giugno 2017
http://espresso.repubblica.it/opinioni/ ... e-1.304130
Massimo Cacciari
Parole nel vuoto
La sinistra? Una storia recente di occasioni perse
È mancata la capacità di ricomporre i frammenti del lavoro, precarizzato e non. E di rappresentarlo. Ora smettiamola di parlarci addosso intorno a identità passate e diciamo con chiarezza, se ne siamo capaci, che cosa vogliamo fare
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Sinistri presagi sui destini della Sinistra chi avesse orecchi per intendere e occhi per vedere poteva avvertirli ormai da qualche decennio. Quando ci si affanna troppo a voler ri-semantizzare un termine, come appunto da troppo tempo avviene per “la Sinistra”, vuol dire che il suo tasso di convenzionalità esce a dismisura e che forse allora è più utile passare alla cosa. De nobis ipsis silemus, de re agitur, diceva quel tale. Tradotto in volgare: smettiamola di parlarci addosso intorno a identità perdute e diciamo con chiarezza, se ne siamo capaci, che cosa vogliamo fare e con chi.
Intere biblioteche hanno dimostrato l’assoluta inconsistenza di una visione statica, priva di profondità storica e culturale, della contrapposizione tra Madame Sinistra e Madame Destra col Centro in mezzo a completare il rassicurante schemino). La realtà è fatta di incroci e meticciamenti di ogni genere, di terre di nessuno, di tradimenti e fra-intendimenti, che non si dispongono mai in serie lineari, secondo i disegni teleologici cari ai “progressisti”. Categorie di ascendenza giacobina si possono trovare ovunque, così come, opposte a queste, altre di tipo organicistico-comunitario; teorie etiche dello Stato e, di contro, “religioni della libertà” trovano dimora a destra come a sinistra, e spesso si confondono all’interno di una stessa corrente. Perfino mitologie nazionalistiche non sono state nella storia appannaggio soltanto delle destre. Vi è destra conservatrice e destra rivoluzionaria; distinzione applicabile anche alla sinistra… almeno fino a qualche tempo fa. Non è guazzabuglio, è complessità, che sempre l’ignoranza, oggi egemone, si vanta di saper semplificare.
Ma il limite essenziale di ogni tentativo volto a definire i confini tra destra e sinistra sta nel carattere quasi sempre astrattamente ideologico che esso ha finito con l’assumere. Il vero è che essere di sinistra nel Novecento comportava un riferimento materiale a classi sociali e a movimenti di lotta all’interno del sistema di produzione capitalistico. Verum factum . Essere di sinistra significava, nel suo fondamento, pensare che le lotte della classe operaia, massificata nel rapporto di produzione, costituissero il Soggetto di qualsiasi trasformazione sistemica, vuoi attraverso processi di riforma, vuoi attraverso salti rivoluzionari. Riformisti e “estremisti” si ritrovavano, infatti, su questa base filosofica comune: il movimento di classe operaia aveva un valore universale , esprimeva un fine autenticamente egemonico. Su questo piano l’opposizione a destre e centri restava davvero chiara ed essenziale.
La sinistra del Novecento è movimento operaio o, praticamente, politicamente, non è. E questo Soggetto esce vittorioso dalla Guerra Mondiale, ed è protagonista della ricostruzione europea. Poteva la Sinistra novecentesca sopravvivere alla sua fine? No, non poteva. Una grande trasformazione, del tutto comparabile con quella che aveva visto il nascere delle società industriali, ha rivoluzionato dalla fine degli anni ’70 organizzazione del lavoro, composizione sociale, rapporti di potere. Un’intera formazione storica tramontava. La sinistra europea ha rappresentato questo tramonto, a volte con nobile nostalgia, il più con indecente albagia.
Si sarebbe potuto, sulla base di un’analisi materialistica dei mutamenti avvenuti, tentare la costruzione di un movimento politico che svolgesse nella nuova epoca una funzione analoga a quella che, pur tra inevitabili divisioni, la sinistra aveva rappresentato nel tragico Novecento? Sì, si poteva. La fine della classe operaia non era la fine del lavoro dipendente, anzi. Era la sua proliferazione sotto le mentite spoglie dell’«autonomia». I disiecta membra del lavoro sociale, precarizzato e non, potevano essere sindacalmente e politicamente ricomposti? Potevano – ma occorreva vederli, impararne lingua e bisogni, farli valere. Essere dalla loro parte . Essere il loro partito , definire queste nuove centralità , e intorno ad esse costruire tutte le alleanze possibili.
Invece è stata la stagione del “popolo”. Che non esiste, che mai è esistito. I populismi vengono da qui. Dal crollo della vera responsabilità politica, che significa analizzare e decidere priorità, decidere chi e come sostenere, difendere, promuovere all’interno della complessità sociale. Non era più definibile una centralità operaia? Certo no. Ma diventava allora inevitabile inseguire la chimera del “popolo” e partiti della nazione? Certo no. Che cosa costituisce il fulcro dell’attuale composizione sociale? Intelligenza, cervello, cultura, innovazione. Stanno forse “al potere”? Costituiscono forse la cura essenziale di governi ed élite? Le cifre dei nostri bilanci dicono quanto. E allora era necessario costruire la forza politica che quei soggetti rappresentasse. O si crede che essi non esistano perché non timbrano il cartellino ogni giorno ai cancelli di fabbriche e uffici? Infine, la sinistra storica, sempre – è bene ripeterlo – in forme diverse, contraddittorie, spesso in osmosi con “il nemico”, ha costruito lo Stato democratico. Ma lo Stato nella sua forma burocratico-centralistica. Lo Stato che presume di porre sempre “la politica al comando”. Anche quest’epoca volgeva al termine già quarant’anni fa. I nuovi protagonisti della vita economica, sociale, culturale esigevano una forma-Stato diversa. Esigevano riconoscimento pieno delle proprie capacità auto-organizzative, del proprio ruolo politico generale. Si potevano costruire vere riforme istituzionali in questa direzione? Si dovevano. E giungiamo ora, invece, all’umiliante chiacchiera su una riforma elettorale, dove la sola, reale posta in gioco è avere a disposizione in parlamento manipoli di fedelissimi.
E a proposito di cooptati, clientele e cortigianeria varia. Esisteva pure nell’antica sinistra un certo spirito critico-eretico, una certa capacità di resistere a quel senso comune mortale nemico del buon senso, che oggi viene invece venerato da ogni parte. Non aveva vita facile, tale spirito, dentro l’allora “movimento operaio”, pure bastava a rendere indigeribili sia l’ossequio alle “leggi” dello statu quo, che il vacuo promettere, che le retoriche sugli “I can” e “I dream”, buone solo a coprire le quotidiane tragedie e le proprie impotenze. Naturalmente, questa avara eredità è stata la prima a venire stracciata.
13 giugno 2017
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
Perchè non si leggono i messaggi?UncleTom ha scritto:-
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Re: Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la
erding ha scritto:Perchè non si leggono i messaggi?UncleTom ha scritto:-
Perché stamani, caro erding, ero sicurissimo di aver postato questo messaggio :
ULTIM’ORA 12.33 LONDRA, UOMO ARMATO FERMATO COL TEASER A WESTMINSTER
nel 3D : ”La Terza Guerra Mondiale” per il semplice motivo che avevo verificato di essere in quello giusto leggendo il precedente post di ieri:
Il nuovo malware russo
Giu 15, 2017/
94 Comments/
Punti di vista /
Lorenzo Vita
Al secondo post di oggi:
Siria, annuncio Russia: “Abbiamo ucciso
Al Baghdadi in un raid il 28 maggio”
Coalizione anti Isis: “Non confermiamo”
Ho scoperto di essere in :
Come possiamo contribuire a far nascere un partito x la SX?
Vabbè che posso essere vecchio e rimbambito, o che comunque posso sbagliare, ma la verifica l’avevo fatta apposta e andavo tranquillo.
Poi, preso atto che il 3D non era quello giusto, mi sarebbe piaciuto, che il forum potesse leggere un Nickname diverso dal mio, ma non sono stato in grado di cancellare quanto avevo, scritto, o qualcuno ci ha messo la manina, visto che da mesi qualcosa di esterno al Forum, si da’ da fare per evitare quanto pubblico, nel bene o nel male; e alla fine sono stato io a mettere i tratti.
Chi c’è in linea
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