Diario della caduta di un regime.

E' il luogo della libera circolazione delle idee "a ruota libera"
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UncleTom
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REPUBBLICA ITALIANA : ULTIMO ATTO




DALLA GUERRA DI LIBERAZIONE ALLA GUERRA DI DISINTEGRAZIONE





SIAMO OLTRE ILTRAGICOMICO E IL RIDICOLO.

DOVE I FASCISTI CERCANO DI CONVINCERE I MERLI BOCCALONI CHE IL RISCHIO FASCISMO IN ITALIA ESISTE MA SONO ALTRI.

STANNO PREPARANDO IL TERRENO GIORNO DOPO GIORNO.





Il rischio fascismo in Italia esiste. Ma non è a destra
Alessandro Sallusti - Sab, 15/07/2017 - 15:26
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Siamo un Paese veramente tosto, a schiena dritta verrebbe da dire, al punto di andare addosso a un bagnino di Chioggia mattacchione perché un po' nostalgico del Ventennio che fu.

L'uomo è assolutamente innocuo ma che importa, i princìpi sono princìpi e non si può derogare. Noi non si scende a patti con chi non condivide i valori di libertà e democrazia scolpiti nella Costituzione figlia dell'antifascismo. E fino a qui ci siamo. Però mi chiedo: se mettiamo in croce un disgraziato di bagnino simpatizzante del Duce, cosa dovremmo fare a chi simpatizza e a chi fa affari con la Cina, Paese comunista (nella sua versione furba: sì ai soldi, no alle libertà) che ha fatto crepare di tumore in carcere il poeta premio Nobel Lu Xiaobo colpevole di avere contestato il regime?
Uno potrebbe obiettare: ma che dici, quelli sono affari dei cinesi, il bagnino è cosa nostra, noi il pensiero e le parole non le arrestiamo. Falso, a meno che il tuo pensiero non sia di sinistra. Da noi ad arrestare il pensiero ci pensano a volte i magistrati (a me purtroppo è capitato), più spesso l'unica eredità del fascismo (altro che il bagnino) ancora oggi tutelata dalla legge: l'Ordine dei giornalisti, introdotto da Benito Mussolini in persona proprio per controllare l'informazione. E ancora oggi il nostro soviet controlla e censura non solo i contenuti - financo le parole usate - ma decide chi può e chi non può esprimere le proprie idee, qualsiasi esse siano.
Solo per stare in tempi recenti, l'Ordine ha deciso che Filippo Facci, prestigiosa firma di Libero, non può scrivere (aveva rivendicato il diritto a odiare l'islam), così come un anno e passa fa decise che neppure Augusto Minzolini (ex direttore del Tg1 poi senatore di Forza Italia) potesse continuare nella professione. E oggi il soviet ha sentenziato che anche io mi devo fermare (due mesi, farò ricorso), colpevole di avere fatto scrivere qualche articolo al senatore Minzolini (di cui peraltro, ma non è questo il punto, non conoscevo la sospensione).
Ora, la situazione è questa: l'ultimo rimasuglio del fascismo, l'Ordine, decapita il giornalismo non di sinistra e lo scandalo nazionale è il bagnino nostalgico? Io, Facci e Minzolini non siamo certo Lu Xiaobo, l'Italia non è la Cina ma davvero poco ci manca. Da vergognarsi

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 20490.html
UncleTom
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REPUBBLICA ITALIANA : ULTIMO ATTO

DALLA GUERRA DI LIBERAZIONE ALLA GUERRA DI DISINTEGRAZIONE




Il tema è più sentito di quanto si possa credere.

Da il Fatto Quotidiano.it:



• Sezioni

Fascismo, serve un nuovo reato di propaganda?
‘Libertà d’opinione’. ‘Sono crimini, non opinioni’

VIDEO – Il vox di Piero Ricca in attesa che il Parlamento si esprima sul ddl Fiano. “Ci sono problemi
più urgenti”, è il commento più diffuso. Ma c’è chi è favorevole: “Basta impunità, non è mica folklore”

Politica
Il ddl sull’apologia del fascismo divide la politica. E gli italiani. Molti ritengono che le leggi vigenti siano più che sufficienti. Altri considerano utili norme più stringenti. Altri ancora ricordano la lezione di Pier Paolo Pasolini sui nuovi fascismi, e avvertono: “Il vero potere autoritario ormai non si presenta in camicia nera”
di Piero Ricca e Alessandro Sarcinelli
•M5s, destra e Salvini contro il ddl: “Legge liberticida”. Renzi ai grillini: “No, quello era il fascismo”
•l’insulto del deputato ex An Corsaro a Fiano: “Ha quelle sopracciglia per coprire segni circoncisione”
•Apologia del fascismo? L’antidoto c’è perfino in tv. “La Grande Storia” in prima serata. trascina Rai3 (di D. Pretini)

^^^^^^^^


IlFattoQuotidiano.it / Politica


Fascismo, serve un nuovo reato di propaganda? Vox di Ricca: “Libertà d’opinione”. “Sono crimini, non opinioni”
di Piero Ricca e Alessandro Sarcinelli | 16 luglio 2017
291
• 471


VIDEO:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/07 ... i/3729702/



Più informazioni su: Anti-fascismo, Apologia del Fascismo, Emanuele Fiano, Fascismo, Libertà di Espressione, Nazifascismo, Piero Ricca

È necessaria una nuova legge che introduca il reato di propaganda fascista? In attesa del voto in parlamento sul Ddl Fiano, ne abbiamo parlato con i cittadini in strada. Pochi tra gli intervistati in realtà sono informati dell’iniziativa legislativa e mostrano interesse per la questione. “Ci sono problemi molto più seri e urgenti”, è il commento più diffuso. Tra coloro che entrano nel merito, molti dichiarano che la diffusione di messaggi o l’esibizione di simboli di stampo fascista “dev’essere tutelata dal diritto alla libertà di opinione“. “In fondo, contro razzismo, discriminazione e violenza in politica bastano le leggi già in vigore“, aggiungono altri. Ma si trovano anche voci favorevoli. “Basta impunità, non si tratta di folklore. La legge deve fissare un principio chiaro: il fascismo non è un’opinione ma un crimine”. “È giusto contrastare con severità e in ogni forma il pericoloso rigurgito neofascista, soprattutto sul web”. E c’è chi ricorda Pier Paolo Pasolini e la sua lezione sul nuovo fascismo. “Il vero potere autoritario ormai non si presenta in camicia nera”. E voi che ne dite? Il Ddl Fiano va approvato o ritirato? di Piero Ricca, riprese e montaggio Alessandro Sarcinelli
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Re: Diario della caduta di un regime.

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REPUBBLICA ITALIANA : ULTIMO ATTO

DALLA GUERRA DI LIBERAZIONE ALLA GUERRA DI DISINTEGRAZIONE


“Caro lei,.. quando c’era lui…..”


Anche il direttore dell'Espresso si cimenta sul tema del giorno






Noi italiani nati con la camicia (nera)
La voglia di fascismo? È indole italica, 
ci conosciamo: tanti, piccoli capetti. Sta dilagando e non ci cambierà una legge



Allarme (non più All’armi) siam fascisti!

Come può essere capitato?

A noi (pardon), noi italiani democratici che abbiamo scritto la Costituzione vietando al partito che fu di Mussolini di rinascere.

“L’Espresso” ci fece una copertina qualche settimana fa .

C’erano Grillo, Salvini e Berlusconi con fez e manganello.

Tempesta di critiche.

E avevano ragione (a propria insaputa) i lettori (di destra) che ci hanno ricoperti di insulti.

Non dovevamo disegnare solo loro, ma gli italiani: il popolo nato con la camicia (nera) convinto di avere fatto i conti con la propria indole, prima ancora che con la storia, a suon di leggi e divieti.

Voilà, tutti antifascisti mimetizzati nella democrazia, senza risolvere mai quel problemuccio: ci conosciamo, siamo piccoli capetti che danno ragione al capetto più in alto.

A casa, in Parlamento, al bar, su Twitter. Ed è questa normalità, mescolata a nostalgia della nazione e maschilismo diffuso, l’arma segreta del fascismo, la sua intima natura.

Si chiama conformismo, fino a quando di mezzo non ci sono guerra, galera o esilio.

Ma è lo stesso vizio di obbedire che fa ripetere in televisione a tutti le cose che dice il capo.

Lo stesso vizio che ci fa parlare del fascismo per non parlare dei migranti.


Qualche giorno fa, un signore per strada mi dice: «Troppi immigrati, non possiamo mica...».

Io rispondo: «Ha ragione, spariamo ai barconi con donne e bambini, così la smettono».

Lui alza la testa e fa: «Ma che dice, è scemo?».

Io: «Allora rimandiamoli in Libia. Donne stuprate, bambini torturati».

E lui: «Stuprate? Ma allora come si fa?».

Ho pensato che questo tipo di dialogo, ai tempi della politica, spettava ai cosiddetti corpi intermedi.

Quelli che nel fascismo non c’erano ed erano nati con la Repubblica.

Quelli che stiamo eliminando per spending review.

Demolendo con l’insulto, nel nome dello spreco, assieme alla base stessa di una democrazia raziocinante.

Gli immigrati diventati un problema sono la vera emergenza, dentro cui come un fungo velenoso riemerge il fascismo, non certo i busti del duce o le iscrizioni dell’Eur.

La retorica antifascista che ci ha protetti finora, ci ha dato solo l’impressione dello scampato pericolo.

Ha commemorato, non ha ricordato.

Memoria significa fare i conti con il fascismo interiore.

Noi non l’abbiamo fatto, né prima processando il regime, a differenza dei tedeschi, quando mezzo Paese transitava dalla dittatura alla Repubblica, né dopo.

Gli unici conti sono stati fatti a piazzale Loreto, epilogo interiorizzato solo nella letteratura.

Penso a Levi, Fenoglio, Pavese.

E alla guerra civile di Claudio Pavone.

Paradossalmente il “dovere antifascista” della prima Repubblica è ciò che ha permesso di non indagare davvero sul fascismo e che ci riporta a Chioggia, decenni dopo, a rivendicare il “diritto fascista”.


La colpa è nostra, non di quei loschi figuri.

Abbiamo fatto una “defascistazia” lessicale.

E come il politicamente corretto non cancella il razzismo, né ridà la vista a un cieco chiamandolo “non vedente”, professare l’antifascismo per legge ci ha portati a una ipnosi, alla rimozione della pregiudiziale storica che credevamo eterna.

Pregiudiziale che ormai cade dappertutto.

Nel giugno 1945, l’Onu non nasce come parlamento delle nazioni, ma come organizzazione delle nazioni che hanno combattuto l’Asse, con i 5 membri permanenti del consiglio di sicurezza usciti vincitori dal conflitto.

Quel mondo sta andando a pezzi. Trump non sa che farsene (è il primo presidente Usa che a Varsavia non visita il monumento degli insorti nel ghetto e ci manda l’ebrea Ivanka), non perché sia fascista, ma perché - a differenza di Bush - è espressione di un mondo che ha perso i legami con la sua storia.

Con Norimberga e l’atomica, ma perfino con la Guerra fredda.

Cina e India?

Per loro l’antifascismo non ha significato storico né culturale.

Putin?

Per i sovietici la conquista di Berlino fu per decenni il certificato di appartenenza al mondo civile, mentre oggi il presidente russo interpreta la vittoria sul nazismo con una semantica neo-zarista.
UncleTom
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UncleTom ha scritto:REPUBBLICA ITALIANA : ULTIMO ATTO

DALLA GUERRA DI LIBERAZIONE ALLA GUERRA DI DISINTEGRAZIONE


“Caro lei,.. quando c’era lui…..”


Anche il direttore dell'Espresso si cimenta sul tema del giorno






Noi italiani nati con la camicia (nera)
La voglia di fascismo? È indole italica, 
ci conosciamo: tanti, piccoli capetti. Sta dilagando e non ci cambierà una legge



Allarme (non più All’armi) siam fascisti!

Come può essere capitato?

A noi (pardon), noi italiani democratici che abbiamo scritto la Costituzione vietando al partito che fu di Mussolini di rinascere.

“L’Espresso” ci fece una copertina qualche settimana fa .

C’erano Grillo, Salvini e Berlusconi con fez e manganello.

Tempesta di critiche.

E avevano ragione (a propria insaputa) i lettori (di destra) che ci hanno ricoperti di insulti.

Non dovevamo disegnare solo loro, ma gli italiani: il popolo nato con la camicia (nera) convinto di avere fatto i conti con la propria indole, prima ancora che con la storia, a suon di leggi e divieti.

Voilà, tutti antifascisti mimetizzati nella democrazia, senza risolvere mai quel problemuccio: ci conosciamo, siamo piccoli capetti che danno ragione al capetto più in alto.

A casa, in Parlamento, al bar, su Twitter. Ed è questa normalità, mescolata a nostalgia della nazione e maschilismo diffuso, l’arma segreta del fascismo, la sua intima natura.

Si chiama conformismo, fino a quando di mezzo non ci sono guerra, galera o esilio.

Ma è lo stesso vizio di obbedire che fa ripetere in televisione a tutti le cose che dice il capo.

Lo stesso vizio che ci fa parlare del fascismo per non parlare dei migranti.


Qualche giorno fa, un signore per strada mi dice: «Troppi immigrati, non possiamo mica...».

Io rispondo: «Ha ragione, spariamo ai barconi con donne e bambini, così la smettono».

Lui alza la testa e fa: «Ma che dice, è scemo?».

Io: «Allora rimandiamoli in Libia. Donne stuprate, bambini torturati».

E lui: «Stuprate? Ma allora come si fa?».

Ho pensato che questo tipo di dialogo, ai tempi della politica, spettava ai cosiddetti corpi intermedi.

Quelli che nel fascismo non c’erano ed erano nati con la Repubblica.

Quelli che stiamo eliminando per spending review.

Demolendo con l’insulto, nel nome dello spreco, assieme alla base stessa di una democrazia raziocinante.

Gli immigrati diventati un problema sono la vera emergenza, dentro cui come un fungo velenoso riemerge il fascismo, non certo i busti del duce o le iscrizioni dell’Eur.

La retorica antifascista che ci ha protetti finora, ci ha dato solo l’impressione dello scampato pericolo.

Ha commemorato, non ha ricordato.

Memoria significa fare i conti con il fascismo interiore.

Noi non l’abbiamo fatto, né prima processando il regime, a differenza dei tedeschi, quando mezzo Paese transitava dalla dittatura alla Repubblica, né dopo.

Gli unici conti sono stati fatti a piazzale Loreto, epilogo interiorizzato solo nella letteratura.

Penso a Levi, Fenoglio, Pavese.

E alla guerra civile di Claudio Pavone.

Paradossalmente il “dovere antifascista” della prima Repubblica è ciò che ha permesso di non indagare davvero sul fascismo e che ci riporta a Chioggia, decenni dopo, a rivendicare il “diritto fascista”.


La colpa è nostra, non di quei loschi figuri.

Abbiamo fatto una “defascistazia” lessicale.

E come il politicamente corretto non cancella il razzismo, né ridà la vista a un cieco chiamandolo “non vedente”, professare l’antifascismo per legge ci ha portati a una ipnosi, alla rimozione della pregiudiziale storica che credevamo eterna.

Pregiudiziale che ormai cade dappertutto.

Nel giugno 1945, l’Onu non nasce come parlamento delle nazioni, ma come organizzazione delle nazioni che hanno combattuto l’Asse, con i 5 membri permanenti del consiglio di sicurezza usciti vincitori dal conflitto.

Quel mondo sta andando a pezzi. Trump non sa che farsene (è il primo presidente Usa che a Varsavia non visita il monumento degli insorti nel ghetto e ci manda l’ebrea Ivanka), non perché sia fascista, ma perché - a differenza di Bush - è espressione di un mondo che ha perso i legami con la sua storia.

Con Norimberga e l’atomica, ma perfino con la Guerra fredda.

Cina e India?

Per loro l’antifascismo non ha significato storico né culturale.

Putin?

Per i sovietici la conquista di Berlino fu per decenni il certificato di appartenenza al mondo civile, mentre oggi il presidente russo interpreta la vittoria sul nazismo con una semantica neo-zarista.




La roulette del voto
La destra (peggiore) può tornare a vincere

Sovranisti, populisti, anti-parlamentaristi, nazionalisti, no tax, no migranti, fascisti... Si era mimetizzata ma dopo il voto nelle città ha rialzato la testa. E rischia di dominare nelle prossime elezioni. Sotto il comando di Berlusconi
di Marco Damilano


«Non c’è una sufficiente consapevolezza di un pericolo a destra nella vita politica italiana», ad avvertirlo, sembra preistoria, era stato Aldo Moro, in un consiglio nazionale della Dc nel 1961, all’indomani della fallita svolta autoritaria del governo Tambroni. Viene la vertigine, perché da allora sono passati decenni, repubbliche, riforme costituzionali, partiti secolari sono tramontati, leadership scintillanti sono appassite, ma resta l’errore di avversari e analisti: la sottovalutazione, la mancanza di consapevolezza, l’incapacità di vedere cosa si muove nel profondo, nel sotterraneo della società. E come un fantasma, un fiume carsico che riaffiora appena trovi lo sbocco, in questa estate 2017 di deserto della politica, di piazze vuote e urne prosciugate, rispunta la Destra.

Si era quasi dimenticata di esistere, come soggetto politico unitario. Si era camuffata, nascosta, mimetizzata, in una legislatura che l’ha vista divisa in mille rivoli: un frammento attorno a Angelino Alfano a puntellare i governi guidati dagli uomini del Pd (Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni) in cambio di poltrone di lusso, un drappello di leghisti e di fratelli d’Italia di discendenza più mussoliniana che garibaldina, il corpaccione berlusconiano in apparenza dormiente, assente, in coincidenza con l’impeachment del suo Capo cacciato dal Parlamento e ridotto ai servizi sociali dopo la condanna in Cassazione del 2013. E poi l’indecifrabile esercito del Movimento 5 Stelle che ostentava equidistanza, né di destra né di sinistra, incolore come uno schermo trasparente o come il camaleonte, che assume di volta in volta i colori degli avversari. Invece, al momento giusto, nella fase finale della legislatura, quando al voto politico mancano pochi mesi, eccola ritornare, la Destra italiana, con le sue molteplici facce. Sovranista, nazionalista, populista, no tax, no migranti, anti-parlamentarista. E fascista.
La copertina dell'Espresso che annunciava i venti di destra già il 9 aprile scorso
Dopo il ballottaggio delle elezioni amministrative di giugno è il centrodestra «l’attore dominante», si legge nel report post-voto dell’Istituto Cattaneo, che vince in un comune su due, conquista stabilmente le regioni del Nord, mette radici sempre più stabili in Emilia e in Toscana, l’ex cuore rosso del Paese, e nel Centro Italia dove Lazio e Abruzzo, regioni amministrate dal centrosinistra, tornano in bilico. Il Sud si astiene o resta a guardare (con l’eccezione della Puglia di Michele Emiliano) e si conferma un terreno dello scontro che verrà nel 2018, diviso tra ribellismo e rassegnazione, ma non governativo e non rappresentato dalle leadership regionali, tutte in mano al Pd.

Se dalla fredda analisi dei dati quantitativi si passa alle ragioni della valanga neroazzurra, ai temi utilizzati in campagna elettorale e ai suoi uomini più rappresentativi cadono molte raffigurazioni circolate a livello nazionale.

Ad esempio quella di un centrodestra di «chiaro profilo liberale, moderato, basato su radici cristiane, vincente in tutta Europa e oggi anche in Italia», come recita il burocratico comunicato di Berlusconi all’indomani del voto, emesso da Arcore. È il ritratto di un centrodestra simile ai democristiani di Angela Merkel, il Ppe, il partito popolare europeo che ha portato alla presidenza del Parlamento di Strasburgo l’italiano e forzista Antonio Tajani. Piacerebbe molto a Gianni Letta e a un pezzo di Forza Italia che non vuole finire egemonizzato da Salvini.
Peccato a che a Monza, 11,6 chilometri e 26 minuti di macchina da Arcore, la coalizione berlusconiana abbia riconquistato il comune presentandosi con un volto decisamente diverso.

Tra i più votati della coalizione del sindaco berlusconiano Dario Allevi c’è Andrea Arbizzoni di Fratelli d’Italia, quarto consigliere più votato in assoluto per numero di preferenze con lo slogan “Difendi Monza”, una campagna tutta su immigrati, topi, strade sicure, presidio alla stazione, difesa della gente «che non si sente sicura a prendere il treno o un caffè».

Tra i sostenitori c’è Lealtà Azione che si rifà a Leon Degrelle e a Corneliu Codreanu, non esattamente campioni di moderatismo e liberalismo, per l’associazione di estrema destra il sindaco sconfitto di centrosinistra Roberto Scanagatti aveva chiesto il divieto di manifestare per commemorare la Repubblica di Salò il 25 aprile. «Non ci voleva dare gli spazi e ora andiamo direttamente in Comune», esulta su Facebook Stefano Di Miglio, presidente di Lealtà Azione. La lista Fasci italiani del Lavoro, che a Sermide nel mantovano ha preso il 10 per cento e ha portato Fiamma Negrini in consiglio comunale, non è un caso isolato.

A Lucca la lista di CasaPound ha conquistato il 7,8 per cento, più del Movimento 5 Stelle, con Fabio Barsanti, capo ultras della Lucchese. A Todi, nella rossa Umbria, CasaPound ha eletto un consigliere comunale e si è apparentata con il centrodestra che ha strappato il comune al Pd, senza troppi problemi degli altri partner della coalizione (quelli che Berlusconi vorrebbe moderati, liberali, europei eccetera).

Manifestazioni di CasaPound si sono viste a La Spezia e a L’Aquila, comuni strappati alla sinistra, il neo-sindaco del capoluogo abruzzese è anche un ex militante, anche se, garantisce il leader di CasaPound Simone Di Stefano, sono solo convergenze locali, a livello nazionale le distanze restano enormi, ci mancherebbe. Ma intanto con questi risultati diventa concreta la possibilità che liste di estrema destra si candidino in Parlamento per superare lo soglia del tre per cento alla Camera, con l’attuale legge elettorale. Sarebbe la nascita, in Italia, di qualcosa di simile ad Alba Dorata in Grecia. E, dopo tanto parlare di nuovo in politica, in Parlamento tornerebbero i saluti romani.

Solo estremisti, certo. Ma temi, battaglie, parole d’ordine, fanno scuola anche nel cuore del centrodestra vincente. Immigrazione. Frontiere chiuse. No allo ius soli, che il centrosinistra ha portato in aula alla vigilia del voto, dopo anni di paralisi. Il sindaco eletto di Sesto San Giovanni Roberto Di Stefano, Forza Italia, ha strappato alla sinistra la sua Stalingrado dopo settant’anni sventolando la bandiera del no alla moschea. A Budrio, alle porte di Bologna, la sinistra è passata all’opposizione, nella cittadina sconvolta dal delitto di Igor il russo, ancora latitante. E Salvini ha percorso in lungo e in largo i paesini liguri, emiliani, toscani. «Buongiorno da Marliana, qui suonano le campane e girano le palle!», ha salutato il leader della Lega in diretta Facebook dalla cittadina di 3200 abitanti in provincia di Pistoia dove erano arrivati 48 profughi. La sinistra litiga sulla rete e organizza gli apericena, la destra assalta il territorio più remoto e le sue paure.

CONTINUA
UncleTom
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UncleTom ha scritto:
UncleTom ha scritto:REPUBBLICA ITALIANA : ULTIMO ATTO

DALLA GUERRA DI LIBERAZIONE ALLA GUERRA DI DISINTEGRAZIONE


“Caro lei,.. quando c’era lui…..”


Anche il direttore dell'Espresso si cimenta sul tema del giorno






Noi italiani nati con la camicia (nera)
La voglia di fascismo? È indole italica, 
ci conosciamo: tanti, piccoli capetti. Sta dilagando e non ci cambierà una legge



Allarme (non più All’armi) siam fascisti!

Come può essere capitato?

A noi (pardon), noi italiani democratici che abbiamo scritto la Costituzione vietando al partito che fu di Mussolini di rinascere.

“L’Espresso” ci fece una copertina qualche settimana fa .

C’erano Grillo, Salvini e Berlusconi con fez e manganello.

Tempesta di critiche.

E avevano ragione (a propria insaputa) i lettori (di destra) che ci hanno ricoperti di insulti.

Non dovevamo disegnare solo loro, ma gli italiani: il popolo nato con la camicia (nera) convinto di avere fatto i conti con la propria indole, prima ancora che con la storia, a suon di leggi e divieti.

Voilà, tutti antifascisti mimetizzati nella democrazia, senza risolvere mai quel problemuccio: ci conosciamo, siamo piccoli capetti che danno ragione al capetto più in alto.

A casa, in Parlamento, al bar, su Twitter. Ed è questa normalità, mescolata a nostalgia della nazione e maschilismo diffuso, l’arma segreta del fascismo, la sua intima natura.

Si chiama conformismo, fino a quando di mezzo non ci sono guerra, galera o esilio.

Ma è lo stesso vizio di obbedire che fa ripetere in televisione a tutti le cose che dice il capo.

Lo stesso vizio che ci fa parlare del fascismo per non parlare dei migranti.


Qualche giorno fa, un signore per strada mi dice: «Troppi immigrati, non possiamo mica...».

Io rispondo: «Ha ragione, spariamo ai barconi con donne e bambini, così la smettono».

Lui alza la testa e fa: «Ma che dice, è scemo?».

Io: «Allora rimandiamoli in Libia. Donne stuprate, bambini torturati».

E lui: «Stuprate? Ma allora come si fa?».

Ho pensato che questo tipo di dialogo, ai tempi della politica, spettava ai cosiddetti corpi intermedi.

Quelli che nel fascismo non c’erano ed erano nati con la Repubblica.

Quelli che stiamo eliminando per spending review.

Demolendo con l’insulto, nel nome dello spreco, assieme alla base stessa di una democrazia raziocinante.

Gli immigrati diventati un problema sono la vera emergenza, dentro cui come un fungo velenoso riemerge il fascismo, non certo i busti del duce o le iscrizioni dell’Eur.

La retorica antifascista che ci ha protetti finora, ci ha dato solo l’impressione dello scampato pericolo.

Ha commemorato, non ha ricordato.

Memoria significa fare i conti con il fascismo interiore.

Noi non l’abbiamo fatto, né prima processando il regime, a differenza dei tedeschi, quando mezzo Paese transitava dalla dittatura alla Repubblica, né dopo.

Gli unici conti sono stati fatti a piazzale Loreto, epilogo interiorizzato solo nella letteratura.

Penso a Levi, Fenoglio, Pavese.

E alla guerra civile di Claudio Pavone.

Paradossalmente il “dovere antifascista” della prima Repubblica è ciò che ha permesso di non indagare davvero sul fascismo e che ci riporta a Chioggia, decenni dopo, a rivendicare il “diritto fascista”.


La colpa è nostra, non di quei loschi figuri.

Abbiamo fatto una “defascistazia” lessicale.

E come il politicamente corretto non cancella il razzismo, né ridà la vista a un cieco chiamandolo “non vedente”, professare l’antifascismo per legge ci ha portati a una ipnosi, alla rimozione della pregiudiziale storica che credevamo eterna.

Pregiudiziale che ormai cade dappertutto.

Nel giugno 1945, l’Onu non nasce come parlamento delle nazioni, ma come organizzazione delle nazioni che hanno combattuto l’Asse, con i 5 membri permanenti del consiglio di sicurezza usciti vincitori dal conflitto.

Quel mondo sta andando a pezzi. Trump non sa che farsene (è il primo presidente Usa che a Varsavia non visita il monumento degli insorti nel ghetto e ci manda l’ebrea Ivanka), non perché sia fascista, ma perché - a differenza di Bush - è espressione di un mondo che ha perso i legami con la sua storia.

Con Norimberga e l’atomica, ma perfino con la Guerra fredda.

Cina e India?

Per loro l’antifascismo non ha significato storico né culturale.

Putin?

Per i sovietici la conquista di Berlino fu per decenni il certificato di appartenenza al mondo civile, mentre oggi il presidente russo interpreta la vittoria sul nazismo con una semantica neo-zarista.




La roulette del voto
La destra (peggiore) può tornare a vincere

Sovranisti, populisti, anti-parlamentaristi, nazionalisti, no tax, no migranti, fascisti... Si era mimetizzata ma dopo il voto nelle città ha rialzato la testa. E rischia di dominare nelle prossime elezioni. Sotto il comando di Berlusconi
di Marco Damilano


«Non c’è una sufficiente consapevolezza di un pericolo a destra nella vita politica italiana», ad avvertirlo, sembra preistoria, era stato Aldo Moro, in un consiglio nazionale della Dc nel 1961, all’indomani della fallita svolta autoritaria del governo Tambroni. Viene la vertigine, perché da allora sono passati decenni, repubbliche, riforme costituzionali, partiti secolari sono tramontati, leadership scintillanti sono appassite, ma resta l’errore di avversari e analisti: la sottovalutazione, la mancanza di consapevolezza, l’incapacità di vedere cosa si muove nel profondo, nel sotterraneo della società. E come un fantasma, un fiume carsico che riaffiora appena trovi lo sbocco, in questa estate 2017 di deserto della politica, di piazze vuote e urne prosciugate, rispunta la Destra.

Si era quasi dimenticata di esistere, come soggetto politico unitario. Si era camuffata, nascosta, mimetizzata, in una legislatura che l’ha vista divisa in mille rivoli: un frammento attorno a Angelino Alfano a puntellare i governi guidati dagli uomini del Pd (Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni) in cambio di poltrone di lusso, un drappello di leghisti e di fratelli d’Italia di discendenza più mussoliniana che garibaldina, il corpaccione berlusconiano in apparenza dormiente, assente, in coincidenza con l’impeachment del suo Capo cacciato dal Parlamento e ridotto ai servizi sociali dopo la condanna in Cassazione del 2013. E poi l’indecifrabile esercito del Movimento 5 Stelle che ostentava equidistanza, né di destra né di sinistra, incolore come uno schermo trasparente o come il camaleonte, che assume di volta in volta i colori degli avversari. Invece, al momento giusto, nella fase finale della legislatura, quando al voto politico mancano pochi mesi, eccola ritornare, la Destra italiana, con le sue molteplici facce. Sovranista, nazionalista, populista, no tax, no migranti, anti-parlamentarista. E fascista.
La copertina dell'Espresso che annunciava i venti di destra già il 9 aprile scorso
Dopo il ballottaggio delle elezioni amministrative di giugno è il centrodestra «l’attore dominante», si legge nel report post-voto dell’Istituto Cattaneo, che vince in un comune su due, conquista stabilmente le regioni del Nord, mette radici sempre più stabili in Emilia e in Toscana, l’ex cuore rosso del Paese, e nel Centro Italia dove Lazio e Abruzzo, regioni amministrate dal centrosinistra, tornano in bilico. Il Sud si astiene o resta a guardare (con l’eccezione della Puglia di Michele Emiliano) e si conferma un terreno dello scontro che verrà nel 2018, diviso tra ribellismo e rassegnazione, ma non governativo e non rappresentato dalle leadership regionali, tutte in mano al Pd.

Se dalla fredda analisi dei dati quantitativi si passa alle ragioni della valanga neroazzurra, ai temi utilizzati in campagna elettorale e ai suoi uomini più rappresentativi cadono molte raffigurazioni circolate a livello nazionale.

Ad esempio quella di un centrodestra di «chiaro profilo liberale, moderato, basato su radici cristiane, vincente in tutta Europa e oggi anche in Italia», come recita il burocratico comunicato di Berlusconi all’indomani del voto, emesso da Arcore. È il ritratto di un centrodestra simile ai democristiani di Angela Merkel, il Ppe, il partito popolare europeo che ha portato alla presidenza del Parlamento di Strasburgo l’italiano e forzista Antonio Tajani. Piacerebbe molto a Gianni Letta e a un pezzo di Forza Italia che non vuole finire egemonizzato da Salvini.
Peccato a che a Monza, 11,6 chilometri e 26 minuti di macchina da Arcore, la coalizione berlusconiana abbia riconquistato il comune presentandosi con un volto decisamente diverso.

Tra i più votati della coalizione del sindaco berlusconiano Dario Allevi c’è Andrea Arbizzoni di Fratelli d’Italia, quarto consigliere più votato in assoluto per numero di preferenze con lo slogan “Difendi Monza”, una campagna tutta su immigrati, topi, strade sicure, presidio alla stazione, difesa della gente «che non si sente sicura a prendere il treno o un caffè».

Tra i sostenitori c’è Lealtà Azione che si rifà a Leon Degrelle e a Corneliu Codreanu, non esattamente campioni di moderatismo e liberalismo, per l’associazione di estrema destra il sindaco sconfitto di centrosinistra Roberto Scanagatti aveva chiesto il divieto di manifestare per commemorare la Repubblica di Salò il 25 aprile. «Non ci voleva dare gli spazi e ora andiamo direttamente in Comune», esulta su Facebook Stefano Di Miglio, presidente di Lealtà Azione. La lista Fasci italiani del Lavoro, che a Sermide nel mantovano ha preso il 10 per cento e ha portato Fiamma Negrini in consiglio comunale, non è un caso isolato.

A Lucca la lista di CasaPound ha conquistato il 7,8 per cento, più del Movimento 5 Stelle, con Fabio Barsanti, capo ultras della Lucchese. A Todi, nella rossa Umbria, CasaPound ha eletto un consigliere comunale e si è apparentata con il centrodestra che ha strappato il comune al Pd, senza troppi problemi degli altri partner della coalizione (quelli che Berlusconi vorrebbe moderati, liberali, europei eccetera).

Manifestazioni di CasaPound si sono viste a La Spezia e a L’Aquila, comuni strappati alla sinistra, il neo-sindaco del capoluogo abruzzese è anche un ex militante, anche se, garantisce il leader di CasaPound Simone Di Stefano, sono solo convergenze locali, a livello nazionale le distanze restano enormi, ci mancherebbe. Ma intanto con questi risultati diventa concreta la possibilità che liste di estrema destra si candidino in Parlamento per superare lo soglia del tre per cento alla Camera, con l’attuale legge elettorale. Sarebbe la nascita, in Italia, di qualcosa di simile ad Alba Dorata in Grecia. E, dopo tanto parlare di nuovo in politica, in Parlamento tornerebbero i saluti romani.

Solo estremisti, certo. Ma temi, battaglie, parole d’ordine, fanno scuola anche nel cuore del centrodestra vincente. Immigrazione. Frontiere chiuse. No allo ius soli, che il centrosinistra ha portato in aula alla vigilia del voto, dopo anni di paralisi. Il sindaco eletto di Sesto San Giovanni Roberto Di Stefano, Forza Italia, ha strappato alla sinistra la sua Stalingrado dopo settant’anni sventolando la bandiera del no alla moschea. A Budrio, alle porte di Bologna, la sinistra è passata all’opposizione, nella cittadina sconvolta dal delitto di Igor il russo, ancora latitante. E Salvini ha percorso in lungo e in largo i paesini liguri, emiliani, toscani. «Buongiorno da Marliana, qui suonano le campane e girano le palle!», ha salutato il leader della Lega in diretta Facebook dalla cittadina di 3200 abitanti in provincia di Pistoia dove erano arrivati 48 profughi. La sinistra litiga sulla rete e organizza gli apericena, la destra assalta il territorio più remoto e le sue paure.

CONTINUA
La Lega non fa sparire del tutto ma mette in dissolvenza il no all’euro, in Francia non ha portato grandi consensi a Marine Le Pen e sembra un tema spuntato, mentre immigrazione, Islam, sicurezza sono vita quotidiana. E a differenza del Front national in Francia o del partito per la Libertà di Geert Wilders in Olanda, gli sconfitti delle elezioni 2017, la Lega amministra da decenni comuni e le regioni più ricche e europee d’Italia. Per l’autunno i presidenti di Lombardia e Veneto Roberto Maroni e Luca Zaia preparano un referendum consultivo per ottenere maggiore autonomia per l’ente da loro governato. Un voto più simbolico che altro, eppure si trasformerà in un nuovo successo per la Lega, con Berlusconi costretto a inseguire.

Immigrazione e sicurezza sono il campo elettromagnetico che attrae l’elettorato che vota centrodestra. Compreso quello che, nel primo turno delle elezioni amministrative, ha votato per il Movimento 5 Stelle. Le ricerche dell’Istituto Cattaneo dimostrano che per M5S si è chiusa la prima fase “movimentista”, quella dei meetup, tendenzialmente di nuova sinistra, ambiente e consumi, e la seconda “identitaria”, quando bisognava trasformare il movimento in un soggetto strutturato. In questa fase “tattica” gli elettori si mescolano più facilmente con il centrodestra per due motivi: perché anti-renziani, e dunque votano tutto quello che si oppone al Pd, e per una vicinanza ad alcuni temi della destra. Per citare le ultime settimane: la polemica contro le Ong che fanno salvataggio in mare per i migranti, la svolta securitaria a Roma di Virginia Raggi contro i rom e l’accoglienza dei profughi, l’astensione al Senato sullo ius soli (che vale voto contrario), l’inserimento tra nel pantheon del leader del Msi e capo gabinetto della Repubblica di Salò Giorgio Almirante da parte di Luigi Di Maio, e sì che nel 2014 Beppe Grillo e Gian Roberto Casaleggio si erano contesi con Renzi l’eredità di Enrico Berlinguer.

Una sovrapposizione di elettorati che preoccupa Renzi. Il segretario del Pd era il campione della nuova politica post-ideologica, tutta modernità e comunicazione, doveva essere il primo leader che alla guida di un partito di sinistra riusciva a penetrare nell’elettorato moderato, berlusconiano, di destra. E invece l’operazione sfondamento appare fallita: ai ballottaggi il centrosinistra si blocca, non prende i voti del fronte avversario o degli esclusi dal secondo turno, anzi, perde per strada i suoi elettori. Renzi non è amato a sinistra, e si sapeva, ma non recupera a destra. Si è ripetuto alle amministrative il fenomeno del 4 dicembre, quando sul no al referendum costituzionale si sono saldati il centrodestra al completo, da Forza Italia alla Lega a Fratelli d’Italia, il Movimento 5 Stelle e un pezzo di sinistra, compresa quella di Pier Luigi Bersani che allora era ancora dentro il Pd. «Il Pd mostra una crescente difficoltà a vincere nel turno elettorale decisivo», scrive il Cattaneo. Una conclusione che avvicina Renzi a certi campioni di calcio del passato, a volerlo nobilitare un Michel Platini: estroso e carismatico, ma perdeva tutte le finali. E ora appare isolato nel suo partito, attaccato dal fondatore Romano Prodi e da tutti gli ex segretari, da Walter Veltroni a Dario Franceschini.

Si è rialzato il muro della Destra, e adesso a sgretolarlo non sarà Renzi, per paradosso l’unico a poterlo fare è l’uomo che lo ha costruito nel 1994, Silvio Berlusconi. L’uomo di Arcore è dilaniato tra un doppio destino che gli sembra ugualmente infelice. Diventare il padre nobile del listone di centrodestra, la fusione o la federazione Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia, che finirebbe presto egemonizzato da Salvini e da Giorgia Meloni, come ha capito il presidente della Liguria Giovanni Toti, vincitore a Genova e a La Spezia, pronto a mollare Berlusconi per la nuova alleanza.
[[(article) Quando per la destra 
verrà l’ora del Big Bang]]
Oppure prepararsi a fare da stampella a una leadership traballante come quella di Renzi. Tutto dipenderà dalla legge elettorale, ma non è detto che basti. Anche perché, per sfuggire al triste dilemma dei due Mattei, Berlusconi sta coltivando i due schemi contemporaneamente. Un piano A e un piano B, saranno le circostanze a stabilire quale sia quello prioritario. E sta preparando, di conseguenza, una doppia leadership futura.

Il piano A prevede di andare da soli alle elezioni con Forza Italia, con il volto rassicurante, popolare, merkeliano e europeo, il capofila in quel caso sarà il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, già portavoce di Berlusconi a Palazzo Chigi nel 1994, forzista della primissima ora ma inserito stabilmente nell’establishment del Ppe europeo, in ottimi rapporti con i democristiani tedeschi che spingono su Berlusconi perché scelga lui.

Se la Merkel, come sembra, dovesse vincere le elezioni di settembre in Germania, Tajani potrebbe fare nel 2018 come il suo predecessore Martin Schulz, lasciare la presidenza dell’europarlamento per correre alle elezioni nazionali come candidato premier di Forza Italia. In rottura con Salvini e Meloni e possibile alleato di Renzi dopo il voto.

Anche nel piano B, il listone unico Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia, Berlusconi non ha nessuna intenzione di affidare la guida a un leghista. Ed è già stato testato in questa campagna amministrativa, senza dichiararlo, l’appeal elettorale di un altro forzista della prima ora, ma di segno opposto rispetto a Tajani, il giornalista televisivo Paolo Del Debbio. Conteso dai candidati nelle città come un talismano, un portafortuna. Sul palco a Genova, facendo finta di zoppicare, «colpa delle buche», nella sua Lucca con Salvini e Toti, in apertura e chiusura di campagna, a Como con Maria Stella Gelmini, a Sesto San Giovanni, a Monza dove il filosofo si è lasciato andare: «Sono comuni di merda quelli che obbligano i cittadini a rivolgersi alla televisione per risolvere i loro problemi!». Acclamato ovunque come si addice a un leader in rampa di lancio.

Tajani e Del Debbio sono due volti di un identico berlusconismo. Ritorna la Destra ed è sfaccettata, come sempre è stata la destra italiana, multiforme, ideologicamente inconsistente, e c’era il fascismo di destra e il fascismo di sinistra, e c’era il liberale conservatore e il rautiano sociale, e c’era la destra confindustriale che si opponeva alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e quella militare tentata dal golpe e quella clericale legata al Vaticano. Eppure la destra è solidissima nel suo radicamento, nella difesa spietata dei suoi interessi, nel suo blocco sociale di riferimento, quello che manca alla sinistra in tutte le sue sfumature, dalla leggerezza di Renzi al rancore di D’Alema, è questa la mucca nel corridoio di cui vagheggia Bersani. Questa Destra così disunita e così minacciosa ha ancora bisogno di Berlusconi per mettersi insieme. E solo lui la può far saltare: conclusione amara dopo anni di rottamazioni annunciate, partiti della Nazione che perdono nei paesi, leadership innovative più nella presunzione che nella realtà. Per parafrasare Heidegger, solo un Berlusconi ci può salvare. Altrimenti, rivincono loro.

© Riproduzione riservata04 luglio 2017
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REPUBBLICA ITALIANA : ULTIMO ATTO






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Morte lenta, fine dell’Italia. Dopo i partiti arriverà Draghi?
Scritto il 17/7/17 • nella Categoria: idee
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Si sono svolte le elezioni in un centinaio di comuni italiani: l’esito delle urne ha spinto i commentatori a parlare di un “risveglio” del centrodestra, ma l’unico dato significativo è l’esplosione dell’astensionismo che, in costante crescita da anni, ha raggiunto il 54% del corpo elettorale. Parallelamente, la legge elettorale proporzionale è in attesa di riapprodare in Parlamento, archiviando così gli esperimenti maggioritari degli ultimi 20 anni. I due elementi si inseriscono nel più ampio disfacimento del parlamentarismo. L’Italia, guidata da una classe dirigente esautorata, piegata dalla depressione economica, sottoposta ad una molteplicità di crisi concomitanti, si dirige rapida verso l’anno zero: è tempo di chiedersi quali istituzioni rimpiazzeranno le attuali. Parlamento? Non sento più il polso. C’è scarsa o nulla volontà di analizzare la condizione in cui versa l’Italia, anche perché discuterne apertamente non farebbe altro che alimentare le spinte anti-sistema e rendere ancora più palese la Caporetto sociale-economica verso cui ci ha portato l’attuale classe dirigente.
Eppure, il nostro paese sta attraversando la peggiore crisi dall’Unità: la vituperata epoca giolittiana fu un periodo roseo a confronto, la Grande Depressione inflisse meno danni al tessuto produttivo, il secondo dopoguerra fu meno traumatico grazie alla conservazione dell’apparato industriale pubblico e dei quadri dirigenziali formati durante il Ventennio fascista. Mai capitò che il nostro paese perdesse in tempo di pace il 10% del Pil, il 25% della base industriale e subisse il crollo demografico che stiamo sperimentando oggi. Per non parlare della crisi bancaria che sta corrodendo il nostro sistema finanziario (circa 200 miliardi di euro), della perdita delle poche grandi imprese operanti nei settori strategici (dalle auto alle telecomunicazioni, dal cemento all’alimentare, dal lusso alla banche) e della crisi migratoria che riversa su un paese già esausto ondate di 150.000-200.000 diseredati all’anno. L’Italia sta pagando a carissimo prezzo la sua “doppia perifericità” geopolitica: periferica rispetto al nocciolo dell’Unione Europea e collocata ai limiti meridionali della Nato, il nostro paese incassa i pesantissimi costi della prima e della seconda.
Di fronte a questo foschissimo scenario, la politica ha perso ormai da anni qualsiasi iniziativa. Artefice e complice delle scelte che hanno portato l’Italia verso il baratro, la nostra classe dirigente si adopera da anni per allungare il più possibile lo status quo, conscia che uno stravolgimento degli assetti attuali comporterebbe anche la sua scomparsa. Nell’ordine abbiamo prima assistito alla meteora del “tecnico” Mario Monti (2011-2013), che ha somministrato all’Italia massicce (e letali) dosi di austerità e svalutazione interna; poi alla meteora di Matteo Renzi (2014-2016), “l’ultima speranza dell’élite italiana”, che avrebbe dovuto proseguire le “riforme strutturali” con un piglio dinamico e giovanile; nel frattempo si è consumato il boom ed il successivo sgonfiamento (2013-2017) del Movimento 5 Stelle, studiato per catalizzare e neutralizzare la montante protesta sociale, assolvendo così la funzione di “stampella del potere” dell’establishment.
L’impotenza della nostra politica è perfettamente fotografata dal sistema elettorale. La Seconda Repubblica, sinonimo di moneta unica ed Unione Europea, nasce col maggioritario, il cui scopo è quello di garantire a formazioni politiche minoritarie nel paese (che siano di sinistra o di destra) di attuare quelle riforme utili ad “agganciarci” all’Europa ed a farci “restare” in Europa. Il culmine di questo processo si ha, non a caso, nella fase terminale dell’eurocrisi: è la riforma costituzionale di Matteo Renzi, riforma con cui un partito che riscuotesse il 25% dei consensi avrebbe ottenuto la maggioranza della Camera. Fallito il tentativo, stiamo assistendo ad un impetuoso reflusso in senso opposto: abbandonati i sistemi iper-maggioritari, si lavora per reintrodurre il vecchio proporzionale della Prima Repubblica. Per la politica italiana è l’implicita ammissione della sconfitta, quasi una resa incondizionata: i partiti neanche più pensano ad un’alternanza studiano soltanto come sopravvivere, compattandosi in Parlamento come i superstiti di una battaglia persa.
Di fronte a questo osceno spettacolo offerto dalla politica, la reazione degli italiani, piegati da disoccupazione e povertà record (7 milioni di disoccupati ed inattivi1 e 4,5 milioni in povertà assoluta2) è essenzialmente una: repulsione. In un paese come l’Italia, dove la partecipazione alle elezioni è storicamente alta, l’astensione dilaga a ritmi sostenuti: 42% di astenuti alle europee del 2014, 48% alle regionali del 2015, 50% al secondo turno delle comunali del 2016, 54% al secondo turno delle recenti comunali. Constato l’immobilismo o la complicità della politica rispetto alle molteplici crisi che affliggono il paese, preso atto del bluff del Movimento 5 Stelle (si vedano le disastrose amministrazioni Raggi ed Appendino, ma soprattutto i voltafaccia sul tema Unione Europea), non rimane altro che rifugiarsi nel non voto. Tra i cittadini e gli organi rappresentativi si scava, anno dopo anno, un fossato profondo quanto l’astensionismo. Se la maggioranza degli elettori disertano le elezioni, significa che il 50% più uno ha espresso la propria fiducia verso le istituzioni “democratiche”.
I media, in occasione delle ultime amministrative, hanno parlato di ritorno “alle vecchie coalizioni” ed hanno letto nell’affermazione del centrodestra il segnale di un imminente svolta a livello nazionale: il pendolo dell’alternanza, dopo cinque anni a sinistra, starebbe spostandosi a destra. In realtà l’unico dato utile è quello relativo all’affluenza, sintomo che l’interno meccanismo “democratico” è guasto. Proiettando i dati delle ultime comunali sulle prossime politiche e togliendo il “filtro” del doppio turno, si ottiene una buona rappresentazione del futuro Parlamento: un’istituzione delegittimata dall’astensionismo record, spappolata in un inconcludente tripartitismo, costretta, come nella Spagna di Rajoy, ad instabili governi di minoranza. Né il duo Renzi-Berlusconi avrebbe infatti i numeri per governare, né il M5S accetterebbe ormai di sorreggere una coalizioni di sinistra. L’unico obiettivo della prossima legislatura sarà, quasi certamente, il varo di una qualche legge elettorale che consenta a Mario Draghi di assumere la Presidenza del Consiglio allo scadere del mandato di governatore della Bce, nell’ottobre 2019.
Nel frattempo, però, il quadro macroeconomico si sarà deteriorato col rialzo generalizzato dei tassi delle banche centrali mondiali: l’apparente quiete che regna oggi sui mercati finanziari sarà sostituita da uno tsunami che coglierà la nave-Italia senza timoniere, già provata da un decennio di crisi sociale ed economica, portando ai limiti la capacità di tenuta del nostro paese. In questo scenario, la democrazia parlamentare italiana non ha alcuna possibilità di sopravvivere: come nella Francia di De Gaulle o nella Russia di Putin, sarà inevitabile una concentrazione verticale del potere, per impedire che le forze centrifughe prendano il sopravvento e gettino il paese nel caos. Il parlamentarismo italiano, già agonizzante oggi, è destinato ad essere spazzato via dalla tempesta che si profila all’orizzonte. Un dibattito costruttivo non dovrebbe quindi focalizzarsi sulla tenuta o meno delle nostre istituzioni parlamentari, perché il loro tramonto è pressoché inevitabile, ma sulle forme con cui rimpiazzarle e sulle forze politiche che colmeranno il vuoto lasciato dagli attuali partiti prossimi alla scomparsa. L’anno zero per l’Italia (e l’intero Occidente) si avvicina rapidamente: l’incertezza sarà altissima ed i pericoli altrettanto grandi, ma le forze vive del paese avranno almeno l’occasione di riplasmare lo Stato a loro immagine e somiglianza.
(Federico Dezzani, “L’Italia e l’irreversibile crisi del parlamentarismo”, dal blog di Dezzani del 29 giugno 2017).
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REPUBBLICA ITALIANA : ULTIMO ATTO

DALLA GUERRA DI LIBERAZIONE ALLA GUERRA DI DISINTEGRAZIONE





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Politica
‘Governiamo da soli’, la vocazione per il potere assoluto di Pd e 5stelle
di Critica liberale | 18 luglio 2017


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Siamo appena sulla soglia. Se non sorge subito un vivace dibattito pubblico, siamo fritti per davvero questa volta.
Fioccano dichiarazioni, dati, rivendicazioni sul “governiamo da soli”, e tutti tacciono. Come se il “governare da soli” non costituisse una pretesa totalitaria. Soprattutto in Italia dove non esistono dei contrappesi consistenti. Come se il voto del 4 dicembre non avesse avuto il significato di rigetto di ogni pretesa autoritaria che è riconoscibile proprio nella sfacciata volontà di governare senza alcun laccio: ovvero potere assoluto, disprezzo delle minoranze e del pluralismo, svalorizzazione della mediazione politica. Abbiamo dei De Gaulle piccini piccini, che forse non hanno mai sentito neppure parlare del generale francese. A Bersaglio mobile Matteo Renzi lo ha detto chiaro e tondo (che poi sia una sua fantasia notturna dopo cospicue libagioni, è un’altra faccenda): vogliamo raggiungere il 40% «per governare da soli». Poi in Direzione del suo partito ha ribadito: «Non ho nostalgia dei tavoloni con dodici sigle di alleanze che si chiamavano l’Unione e pensavano a parlarsi male addosso. Con quel meccanismo l’Italia si è bloccata».
Non siamo sperticati ammiratori dell’Unione, tuttavia riteniamo che quell’eccesso non può assolutamente legittimare l’eccesso opposto. E certamente i “dodici partiti al governo” hanno fatto meno danni del Trio Toscano, chiuso in una stanza solo con la sua totale incompetenza e velleità. Renzi-Boschi-Lotti, se avessero avuto l’intelligenza di discutere e di farsi condizionare da qualcun altro, forse non avrebbero commesso tante bestialità. Certo, avrebbero incontrato maggiori ostacoli nella loro corsa demagogica verso il “nuovo” e il “futuro”, assolutamente identici al passato remoto. E il nostro paese non avrebbe perduto tanto tempo dietro i loro capricci.
Ma perché non c’è alcun opinion leader che contrapponga alle dichiarazioni di queste velleità totalitarie il valore del pluralismo? Perché non si grida che parole di questo tipo sono di particolare spudoratezza se pronunciate da capi che hanno il favore al massimo di un 12-13 per cento dei cittadini italiani? Perché la cultura italiana è narcotizzata e ha dimenticato persino le più elementari regolette liberali? Perché la stampa tace, acconsentendo?
Secondo caso. In questi giorni Nando Pagnoncelli sul Corriere ha pubblicato i risultati di un sondaggio sul M5s da cui si apprende che «tra i pentastellati… il 69% eviterebbe alleanze rimanendo all’opposizione, in subordine il 15% preferirebbe governare con i sovranisti. Il 9% con il Pd e il 4% con tutto il Centrodestra». Sottolineiamo che, di quel 31% che accetterebbe di “allearsi” pur di andare al governo, il 3% non si esprime e il 19% (larghissima maggioranza) tifa per i fascisti, gli improvvisati nazionalisti e i razzisti, semmai pure per i berlusconiani. Nessuna sorpresa perché, da tempo, di una accentuata opzione destrorsa del M5s abbiamo avuto conferme precise con dichiarazioni e scelte politiche nonché con quel ripetere che “non esistono più destra e sinistra”, mantra tipico di chi è davvero di destra. Si è arrivati persino al clerico-grillismo pur di acchiappare voti dappertutto). Pure gli espulsi o i fuoriusciti dal M5s preferibilmente si rifugiano su poltrone più o meno di destra. Ovviamente questa opzione del M5s è più che legittima. Affari loro, se inseguono Salvini. Se frazionano i voti dell’estrema destra va persino bene.
Invece è preoccupante per la democrazia del nostro paese quel 69% dei loro che non si vergogna di dichiarare d’avere come obiettivo il “governare da soli”. Certo, non è una novità. Anche all’inizio di questa dannata legislatura hanno preferito regalarci il Grande Inciucio di Napolitano e poi l’èra Renzi pur di non fare la scelta responsabile di condividere il potere e condizionare un governo. Anche adesso la loro opzione opportunistica di appoggiare la soluzione che basti il 40% per assicurarsi la maggioranza assoluta, cosa prevista dall’Italicum rottamato, non può piacere ai veri democratici, se ancora ci sono.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/07 ... e/3737114/
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REPUBBLICA ITALIANA : ULTIMO ATTO

DALLA GUERRA DI LIBERAZIONE ALLA GUERRA DI DISINTEGRAZIONE


I CAMERATI STRUMPTRUPPEN SI PREPARANO AL RITORNO DEI FASTI DEL TEMPO CHE FU.
UN TEMPO PORTAVANO LA CAMICIA NERA COME SIMBOLO. OGGI LA PORTANO VERDE, MA LI TROVI ANCHE IN CAMICIA BIANCA.

SENTONO L’ODORE DELLA RESTAURAZIONE.

ALLA FINE HA VINTO LICIO GELLI .



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Spiaggia fascista, Salvini
"Come dare loro torto?"

Ivan Francese
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Colletta per il restauro:
'Tomba di Claretta salva'

Elena Barlozzari
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Re: Diario della caduta di un regime.

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REPUBBLICA ITALIANA: ULTIMO ATTO


Se non fosse tragica, ....questa situazione risulterebbe comica.



Il Profeta dei Camerati STRUMPTRUPPEN, che frena l'esodo.



Berlusconi frena: ‘Stop esodo o il governo cade’




Evidente che non è pronto a risolvere i problemi sul tavolo.

Spera che li risolvano altri.

"Torneremo a primavera del 2018", ha dichiarato questa settimana.


Sperando in un plebiscito su Salvini.

I problemi sono però urgenti ora.








Gentiloni perde pezzi. Costa lascia per Forza Italia
E Berlusconi frena: ‘Stop esodo o il governo cade’


L’esponente di area popolare è ministro degli affari regionali. Alfano risponde: “Dimissioni tardive”
Ex Cavaliere costretto a fermare l’ondata di rientri al Senato per evitare voto anticipato
(di F. d’Esposito)


Politica
Enrico Costa, ministro per gli Affari Regionali, lascia il governo dopo le polemiche sullo Ius Soli e il processo penale. Il deputato di Area Popolare ha presentato le dimissioni a Paolo Gentiloni con una lettera in cui spiega che è arrivato “il momento di un programma politico di ampio respiro” Una ‘botta’ all’esecutivo. E anche ad Alfano: da tempo l’ormai ex ministro è dato in rientro da Berlusconi. Lo stesso ex Cavaliere, peraltro, è costretto ad arginare “l’esodo da bollino rosso” dei senatori centristi che, vista l’imminente fine della legislatura, cercano il rientro in FI. Troppi e troppo velocemente, per l’ex cavaliere, che non vuole accelerare la caduta del governo di F. Q.
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Re: Diario della caduta di un regime.

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REPUBBLICA ITALIANA: ULTIMO ATTO

Mentre il mondo intellettuale antifascista, negli ultimi 10 giorni avverte il pericolo di restaurazione in atto, nel mondo fascista si cerca a tutti i costi di rendere accettabile l'idea del fascismo del terzo millennio.
Questa volta è La Verità di Belpietro, a dare il suo contributo all'imminente restaurazione.



19 lug 2017 18:06
“POVERO MUSS”

– DAVANTI AL CADAVERE DEL DUCE, CURZIO MALAPARTE NE RACCONTÒ L'INTERA PARABOLA DAGLI ANNI IN CUI "ERANO TUTTI SUOI COMPLICI" ALLA MATTANZA DI PIAZZALE LORETO COMPIUTA DA UNA “SUDICIA FOLLA CHE LO SPORCAVA DI SPUTI E FECI IN UN ODORE TERRIBILE”

– "NON MI IMPORTAVA CHE AVESSE SBAGLIATO, ERA UN VINTO, TUTTI LO AVEVANO RINNEGATO..."



Estratto dal libro “Muss” di Curzio Malaparte pubblicato da la Verità
Per gentile concessione della casa editrice Passigli, pubblichiamo un testo di Curzio Malaparte sulla morte di Benito Mussolini.

I brani sono tratti da un capitolo inedito e incompiuto che avrebbe dovuto far parte del libro Mamma Marcia e che viene ripubblicato nella nuova edizione di Muss. Ritratto di un dittatore. Il volume arriva in libreria proprio nel pieno del cancan mediatico sulla memoria del fascismo
Giaceva supino sul marmo, le mani distese lungo i fianchi, gli occhi aperti. Lo avevano già spaccato, esplorato, vuotato, ricucito. Era come un sacco vuoto, un otre vuoto. Una forma di pelle vuota. Non aveva più né il cuore, né il fegato, né i polmoni, né gli intestini, più nulla. La testa era stata svuotata del cervello con cura meticolosa, come si vuota il guscio di un' aragosta. Il suo viso era di un pallore quasi bianco. E qualcosa di nero era negli occhi aperti. Mi avvicinai, lo guardai negli occhi. Tremavo così forte, che dovetti appoggiarmi alla tavola di marmo.
Non avevo mai visto, prima di quel giorno, prima di quel momento, uno sguardo morto.
Non dico gli occhi, ma lo sguardo. Non gli occhi, ma quel che v' era dentro. Avevo sempre creduto prima di allora che lo sguardo fosse qualcosa di impalpabile, una luce, uno splendore, un riflesso. Un moto dello spirito. In quel momento scoprii che lo sguardo è qualcosa di materiale, un po' di materia viva. Era uno sguardo morto, un po' di materia morta, rimasta in fondo agli occhi.
Era il suo sguardo intenso, profondo, il suo sguardo di quando era vivo, ma fermo, freddo, coagulato in fondo alle orecchie, fermo e fissato per sempre. Mi guardava come quando era vivo, ma senza batter le ciglia, senza muovere gli occhi.
Era il suo sguardo che riguardava, non i suoi occhi. Avrei forse potuto togliere, con un cucchiaio, quello sguardo dal fondo delle orbite, riporlo in un po' di carta, portarmelo via.

Non era rimasto, in tutto quel corpo vuoto, che quel suo sguardo morto, quel suo sguardo straordinariamente intenso, profondo, fermo.
Mi guardava come mi aveva guardato tante volte, da vivo.
Con quella sua eterna domanda in fondo agli occhi, quella sua continua meraviglia, quella sua sottile paura. Quel suo disagio. Quella sua timidezza, talvolta dolce, femminea, talvolta dura, volgare. Era quello il suo sguardo. Lo sguardo più straordinario, più meraviglioso, che l' Italia avesse avuto per tanti anni, per tutti gli anni in cui egli aveva guardato in faccia gli italiani.
Nessuno, né gli infermieri, né i periti settori che lo avevano tagliato, frugato, svuotato, ricucito, né i custodi dell' obitorio, né i medici militari americani che erano andati all' obitorio a prendere il suo cervello, a riporlo nella teca ad aria condizionata, per spedirlo in America, nessuno aveva osato chiudergli gli occhi, toccargli le palpebre, avvicinare la mano a quello sguardo, a quel po' di materia morta che splendeva così meravigliosamente in fondo alle sue occhiaie. Era uno sguardo che faceva ancora paura. Non perché fosse cattivo, o severo, ma per la sua straordinaria fermezza, per quella sua fredda, dolcissima serenità. Per quella sua pazienza.
Nessuno aveva mai guardato gli italiani come li aveva guardati lui, da vivo.
Nessuno aveva mai saputo guardarli in faccia così serenamente, pazientemente.
Con un tale affettuoso rammarico. Era lo sguardo di un italiano che conosceva gli italiani.
Che sapeva che cosa sono gli italiani. Che conosceva il segreto del popolo italiano, di ogni italiano. Che conosceva il proprio segreto. Che sapeva fin dal principio, fin da quel giorno dell' ottobre del 1922 in cui il suo orologio si era fermato, quale sarebbe stata la sua fine.
Egli aveva avuto sempre, anche nei giorni più felici, il sospetto della sua fine. Sapeva da che parte gli sarebbe venuto il colpo.
Quale mano gli avrebbe frugato nelle tasche. Quale tipo d' uomo lo avrebbe ammazzato. Da quale casa, da quale famiglia, da quale strada, da quale città, da quale folla, sarebbe uscito l' uomo che gli avrebbe sparato. Aveva sempre saputo che sarebbe finito in quel modo. Non per mano di un avversario aperto, leale, ostinato, ma di un piccolo uomo, di un essere insignificante, di un ragioniere ladro, di un povero imbecille, di un povero vigliacco.
Un giorno mi aveva domandato qual era lo scrittore italiano che aveva mostrato di conoscere meglio il popolo italiano.
«Dino Compagni», gli avevo risposto. Mi aveva domandato perché. Gli dissi per quel sospetto che Dino Compagni aveva dei suoi concittadini, e per quel suo rammarico che Corso Donati fosse stato ammazzato non da un italiano, ma da un «soldato straniero», da un catalano, sgariglio, con «lancia catelanesca nella gola», e per quella sua sentenza «cosa fatta capo ha».
Mussolini mi rispose che era una sentenza bellissima. E poi aggiunse che avrebbe preferito di morire per mano italiana che per mano straniera, benché fosse sicuro che non sarebbe stato un Bruto colui che lo avrebbe ammazzato, ma un uomo da niente. Aveva sempre sospettato quale sarebbe stata la sua fine, e più sospettava nei giorni del suo trionfo.
Non s' era mai fidato di alcuno.
E non perché non si fidasse degli italiani, ma perché sapeva che lo avrebbero ammazzato a tradimento, in modo che nessuno avesse potuto soccorrerlo, né difenderlo. Mi curvai a guardarlo negli occhi.
tutto vuoto Non c' era più nulla in quel suo corpo vuoto, in quella sua testa svuotata del cervello. Più nulla, tranne quel suo sguardo fermo, sereno, paziente. Io gli dissi a voce bassa «povero Muss» e pensai a mia madre. [...] Mi guardava come mi aveva guardato tante volte da vivo.
Ed io mi pentii, mi vergognai di non aver più cercato di vederlo, di parlargli, da quando mi aveva messo in prigione. Era dal 1932 che non lo vedevo da vicino, che non gli parlavo. E arrossivo di quel mio stupido orgoglio che mi aveva sempre trattenuto dal chiedergli di vederlo, di parlargli, dopo che ero uscito di prigione. Da tredici anni non lo avevo più visto, non gli avevo più parlato. «Povero Muss» gli dissi, con la voce stessa di mia madre. [...]
Mi guardava sereno, paziente, affettuoso. Che m' importava se aveva sbagliato, se aveva commesso errori crudeli e stupidi, se aveva portato l' Italia alla rovina? Non m' importava più nemmeno che avesse fatto piangere mia madre. Quel che m' importava, era che fosse un vinto, che tutti lo avessero rinnegato, che lo avessero ammazzato come un cane, e appeso per i piedi, e coperto di sputi e di orina, in mezzo agli urli feroci di un' immensa folla che fino a pochi giorni prima lo aveva applaudito, gli aveva buttato fiori dalle finestre.
Lo avevo visto appeso alla tettoia del distributore di benzina, in piazzale Loreto, in mezzo a quella sudicia folla, a quella folla di vigliacchi che lo insultava e lo sporcava di sputi, con i pompieri che ogni tanto, col getto delle pompe, lo lavavano degli sputi e del sangue e delle immondizie che la folla gli gettava addosso, nell' aria afosa piena di un terribile odore di sporcizia e di morte. Non m' importava nulla che avesse sbagliato, che avesse coperto l' Italia di rovine, che avesse trascinato il popolo italiano nella più atroce miseria. Mi dispiaceva per tutti gli italiani, ma non per quella sudicia folla. E se anche quella folla di vigliacchi fosse stata composta di milioni e milioni d' italiani, non mi sarebbe importato nulla. Mi avrebbe fatto quasi piacere pensare che quella sudicia folla aveva quel che s' era meritato.
Era una folla non di vittime innocenti, ma di complici. Non m' importava nulla che quella sudicia folla avesse le case in rovina, le famiglia disperse, e fosse affamata, poiché una simile folla se l' era meritato. Tutti erano stati suoi complici.
Fino all' ultimo. Anche quelli che lo avevano combattuto erano stati suoi complici fino al momento della disgrazia. Non m' importava nulla che fosse stata la fame, la paura, l' angoscia, a mutar quella folla d' uomini in iene vili e feroci. Qualunque fosse la ragione che aveva mutato quella folla in una sudicia turba che l' aveva spinta a sporcare di sputi e di feci il suo cadavere, non m' importava nulla. Ero in piedi sulla jeep, stretto tra quella folla bestiale. Cumming mi stringeva il braccio, era pallido come un morto, e mi stringeva il braccio.
Io mi misi a vomitare.
Era l' unica cosa che potessi fare. Mi misi a vomitare nella jeep, e Cumming mi stringeva il braccio, era pallido come un morto e mi stringeva il braccio.
«Povero Muss» dissi a voce bassa, appoggiandomi con le due mani alla fredda tavola di marmo. V' era nella sala dell' obitorio un silenzio strano, freddo, liscio e freddo. Un silenzio fatto della pelle fredda e liscia di un cadavere. A un tratto udii un suono di voci lontane, uno strepito di passi nel corridoio, una porta che sbatteva chi sa dove. Non c' era nulla di vivo in quella stanza, nulla, neppure una mossa, neppure il ronzio di una mosca. [...] Nulla di vivo, di tiepido.
Soltanto allora mi accorsi che il cadavere era nudo. Mi sentii arrossire. Non osavo guardare le sue nudità. Era un pudore strano. [...] Mi pareva di mancar di rispetto a quel morto, di fargli ingiuria. Sollevai lentamente una mano. Mussolini mi guardava fisso, con quel suo sguardo sereno, paziente, senza rancore, uno sguardo un po' triste, di quella stessa tristezza che è negli occhi degli uomini e degli animali morti, degli uomini, e dei cani, dei cavalli morti. Sollevai lentamente la mano, l' accostai al suo viso.
Sapevo che avrei spento per sempre quel suo sguardo meraviglioso, che avrei accecato per sempre quegli occhi così sereni, così nobili. Sapevo che il mio era un atto di pietà, non di paura. Non avevo paura del suo sguardo. Ma avrei dato la mia vita per non dover compiere quel gesto definitivo, per non doverlo accecare, per non dover accecare ognuno di noi, ogni italiano. Lentamente gli avvicinai la mano al viso, gli cercai le palpebre, feci forza con la punta delle due dita. Pareva che resistesse. Mi guardava fisso, con quel suo sguardo sereno. Feci forza, quasi gli strappai le palpebre umide di sotto l' arco dell' orbita, lentamente gli chiusi gli occhi, spensi per sempre quel suo sguardo sereno e buono. E di colpo, il buio invase la stanza.
Che m' importava se negli anni del suo governo l' Italia era diventata una buffonata, un paravento cinese sul quale erano state dipinte scene di battaglia e di trionfo, corone cesaree e trofei di vittoria, Ercoli gonfi di muscoli sotto cieli tumultuanti di nuvole alla Tiepolo, un paravento per nascondere un bidè? L' Italia, più o meno, era sempre stata così: un mucchio di retorica, una folla di eroi osannanti, di oratori graeculi eloquenti un labirinto d' intrighi e di corruzione. Sempre. [...] L' Italia è sempre stata così. Una minoranza di gente seria, scontenta, delusa, di fronte a un popolo in miseria, nell' ignoranza, curvo sotto una banda d' ignobili profittatori, di cortigiani, di traditori, di vigliacchi, di sbirri e di preti, di bravi e di spie.
Coloro che si indignavano delle miserie e ipocrisie e soprusi e violenze e corruzioni del tempo di Mussolini dimenticavano che quelle miserie ci son sempre state, in Italia. E se ne indignavano solo perché eran commesse in nome di Mussolini, ma al tempo stesso andavano rammemorando i tempi di Giolitti o di Orlando o di Nitti, o di Zanardelli, come tempi di onestà e di giustizia, dimenticando che fra quelli e i tempi di Mussolini la differenza era soltanto nel nome e nei pretesti.
Ma quel che più dava fastidio ai laudatori dei tempi passati, dei tempi della «cara piccola onesta proba giusta Italia», era l' affetto del popolo per Mussolini, affetto di cui non aveva mai goduto nessuno degli uomini politici di quella cara piccola onesta proba giusta libera Italia. Forse il popolo italiano era in errore, forse mentiva.
http://www.dagospia.com/rubrica-2/media ... 152607.htm
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