Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
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Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
http://www.corriere.it/politica/17_lugl ... cfa7.shtml
Vogliamo riaprire la discussione partendo dall'inizio su questo caso e su tutto quello che ne derivo' compresa quest'ultima espulsione del consigliere PD.
Magari anche a camia tesa e senza quei preconcetti che la sinistra si porta avanti da decenni?
Mi fermo qua per lasciare a voi il compito e/o onore di continuare.
un salutone
PS:
Se anche su questo 3D la discussione non portasse a nessun confronto tanto vale che mi prenda una pausa
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
pancho ha scritto:
http://www.corriere.it/politica/17_lugl ... cfa7.shtml
Vogliamo riaprire la discussione partendo dall'inizio su questo caso e su tutto quello che ne derivo' compresa quest'ultima espulsione del consigliere PD.
Magari anche a camia tesa e senza quei preconcetti che la sinistra si porta avanti da decenni?
Mi fermo qua per lasciare a voi il compito e/o onore di continuare.
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PS:
Se anche su questo 3D la discussione non portasse a nessun confronto tanto vale che mi prenda una pausa
1) CASO GIULIANI
Dopo 16 anni possiamo valutare il caso a bocce ferme, a freddo, valutandolo dal punto di vista operativo.
Da Wikipedia, per chi non ricordasse il fatto:
Dall'interno del veicolo un carabiniere - identificato come Mario Placanica secondo le sue stesse dichiarazioni - dopo aver estratto e puntato la pistola verso i manifestanti intimandogli di andarsene, spara due colpi. Un colpo raggiunge allo zigomo sinistro Carlo Giuliani che morirà nei minuti successivi.
Prima osservazione
Il carabiniere Mario Placanica non aveva ricevuto le istruzioni base elementari per essere impiegato per quel tipo di servizio.
Placanica doveva sparare i due colpi in aria, come avvertimento.
Seconda osservazione
Placanica è stato colto dalla paura e ha sparato.
Anche in questo caso c'è un difetto di valutazione dei suoi superiori.
Se tutti gli addetti dell'ordine pubblico agissero in quel modo, non si dovrebbe più chiamare ordine pubblico ma macelleria umana.
Terza osservazione, sempre da Wikipedia:
La posizione dei due Defender e il loro ruolo operativo in quella situazione sono stati messi fortemente in discussione dallo stesso capitano Cappello, che durante il processo spiega come sia improponibile in linea generale farsi scortare da mezzi non blindati in operazioni di ordine pubblico. In particolare Cappello specifica di non aver avuto percezione della presenza dei mezzi in quella posizione, e dichiara di non aver dato nessuna disposizione sui due Defender specificando che dal suo punto di vista sarebbe stato un suicidio disporli a seguito del contingente.[15]
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Re: Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
non voglio inserire foto solo per un fatto di morale ed etica ma si possono vedere tutte sul web inserendo il cognome e cliccando foto. Poi ne parliamo a gamba tesa se questo può servire a dire quello che pensiamo con la ns testolina. Magari sbagliando e dopo sempre pronti a chiedere venia.
un salutone
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Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
PS:
Se anche su questo 3D la discussione non portasse a nessun confronto tanto vale che mi prenda una pausa
pancho
Caro pancho,
prima che tu decida di prenderti una pausa, intendo metterti al corrente dell'aria che tira da queste parti.
Da una decina di giorni sto conducendo un'inchiesta personale su cosa prevedono amici e conoscenti circa il futuro i questo Paese.
Tanto per dare un'idea ho ristretto il campo d'indagine dai sessantenni in su.
Questo perchè hanno maggiore esperienza di vita vissuta.
Con mia grande sorpresa ho scoperto che esiste la consapevolezza e la paura che ci stiano portando ad una seconda fase del fascismo.
Mentre tempo addietro davamo per scontata che quell'esperienza fosse chiusa per sempre.
Pensavo che fosse solo una mia convinzione da quanto leggo su quotidiani e settimanali.
Non è così.
Almeno il 90 % delle persone interpellate percepisce che il grado di lassismo generale su tutte le problematiche del momento ci porteranno ad accettare la presenza dell'uomo forte che risolve tutti i problemi, o che dice di essere intenzionato a risolverli.
Questo Paese poi, per farsi incantare come merli boccaloni doc, dall'incantatore di serpenti di turno, è particolare.
E allora addio alla sinistra delle uguaglianze e dei diritti faticosamente conquistati anche a costo della vita, più di settant'anni fa.
Il picconatore Pinocchio Mussoloni, anche se non è riuscito a diventare Duce il 4 dicembre scorso, è riuscito a spaccare in mille pezzi la sinistra lasciando campo libero alla destra peggiore di tornare a vincere e poter governare senza un minimo di opposizione.
Tutto come aveva previsto il piduista Licio Gelli dopo tre tentativi di colpo di Stato andati a male, nel tentativo di portare indietro le lancette dell'orologio ai tempi del fascismo.
Noi che facciamo????
Spalanchiamo le porte per fare entrare il Cavallo di Troia di turno?????
Sei sempre intenzionato a prenderti un periodo di pausa adesso?????
Se anche su questo 3D la discussione non portasse a nessun confronto tanto vale che mi prenda una pausa
pancho
Caro pancho,
prima che tu decida di prenderti una pausa, intendo metterti al corrente dell'aria che tira da queste parti.
Da una decina di giorni sto conducendo un'inchiesta personale su cosa prevedono amici e conoscenti circa il futuro i questo Paese.
Tanto per dare un'idea ho ristretto il campo d'indagine dai sessantenni in su.
Questo perchè hanno maggiore esperienza di vita vissuta.
Con mia grande sorpresa ho scoperto che esiste la consapevolezza e la paura che ci stiano portando ad una seconda fase del fascismo.
Mentre tempo addietro davamo per scontata che quell'esperienza fosse chiusa per sempre.
Pensavo che fosse solo una mia convinzione da quanto leggo su quotidiani e settimanali.
Non è così.
Almeno il 90 % delle persone interpellate percepisce che il grado di lassismo generale su tutte le problematiche del momento ci porteranno ad accettare la presenza dell'uomo forte che risolve tutti i problemi, o che dice di essere intenzionato a risolverli.
Questo Paese poi, per farsi incantare come merli boccaloni doc, dall'incantatore di serpenti di turno, è particolare.
E allora addio alla sinistra delle uguaglianze e dei diritti faticosamente conquistati anche a costo della vita, più di settant'anni fa.
Il picconatore Pinocchio Mussoloni, anche se non è riuscito a diventare Duce il 4 dicembre scorso, è riuscito a spaccare in mille pezzi la sinistra lasciando campo libero alla destra peggiore di tornare a vincere e poter governare senza un minimo di opposizione.
Tutto come aveva previsto il piduista Licio Gelli dopo tre tentativi di colpo di Stato andati a male, nel tentativo di portare indietro le lancette dell'orologio ai tempi del fascismo.
Noi che facciamo????
Spalanchiamo le porte per fare entrare il Cavallo di Troia di turno?????
Sei sempre intenzionato a prenderti un periodo di pausa adesso?????
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Re: Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
L’ordine di Palazzo Chigi è: Negare, Negare, Negare, altrimenti la nave affonda.
Regeni, “Obama diede a Renzi prove esplosive”
Palazzo Chigi: “Mai ricevuti elementi di fatto”
Il New York Times scrive che l’intelligence Usa fornì all’Italia informazioni schiaccianti sulle responsabilità
di funzionari della sicurezza egiziana. Fonti del governo Gentiloni: “Non fu trasmesso nulla di clamoroso”
Mondo
“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è stata riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dalla decisione del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che non furono mai trasmessi “elementi di fatto” sul ruolo dei servizi egiziani
di F. Q.
Regeni, “Obama diede a Renzi prove esplosive”
Palazzo Chigi: “Mai ricevuti elementi di fatto”
Il New York Times scrive che l’intelligence Usa fornì all’Italia informazioni schiaccianti sulle responsabilità
di funzionari della sicurezza egiziana. Fonti del governo Gentiloni: “Non fu trasmesso nulla di clamoroso”
Mondo
“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è stata riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dalla decisione del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che non furono mai trasmessi “elementi di fatto” sul ruolo dei servizi egiziani
di F. Q.
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Re: Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
IlFattoQuotidiano.it / Mondo
Regeni, Nyt: “Da governo Usa a quello di Renzi prove sul ruolo dei servizi egiziani”. P.Chigi: “Nessun elemento di fatto”
di F. Q. | 16 agosto 2017
Mondo
Secondo il quotidiano statunitense "informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto sul fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso il ricercatore italiano" furono girate dallo staff di Obama all'esecutivo di Roma. La guerra dei servizi, il ruolo dell'Eni e i timori dell'allora ambasciatore italiano. Fonti dell'esecutivo Gentiloni: "Nessuna prova esplosiva". La madre: "Sempre più a lutto"
di F. Q. | 16 agosto 2017
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Più informazioni su: Barack Obama, Egitto, Eni, Giulio Regeni, Matteo Renzi, Usa
“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dall’annuncio del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che, nei contatti tra amministrazione Usa e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’assassinio del ricercatore, non furono mai trasmessi “elementi di fatto”, come ricorda lo stesso giornalista del New York Times, né “tantomeno prove esplosive”.
Il corpo di Regeni fu ritrovato il 3 febbraio del 2016. Secondo la ricostruzione del New York Times, gli Stati Uniti acquisirono delle “informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto: prove del fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso” il ricercatore italiano e, “su raccomandazione del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono queste conclusioni al governo Renzi”. In un lungo articolo il giornalista Declan Walsh cita come fonti tre ex funzionari dell’amministrazione Obama. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana” e “non c’era dubbio”, ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero per intero le informazioni di intelligence, né dissero all’Italia quale agenzia di sicurezza ritenevano fosse dietro alla morte di Regeni, spiega ancora il giornale. “Non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, ucciderlo”, ha detto al giornalista del Nyt un altro ex funzionario Usa.
“Quello che gli americani sapevano per certo l’hanno detto agli italiani, cioè che la leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze intorno alla morte di Regeni”, scrive il giornale statunitense, citando poi altri virgolettati: “Non avevamo dubbi che questo fosse noto molto in alto”, dice uno dei funzionari dell’amministrazione Obama, aggiungendo che “non so se fossero responsabili. Ma sapevano. Loro sapevano”. Secondo l’articolo, alcuni funzionari di Obama erano convinti che qualcuno “di alto grado” del governo egiziano potesse avere ordinato l’uccisione di Regeni “per mandare un messaggio ad altri stranieri e governi stranieri, cioè di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”.
Fra i retroscena ricostruiti dal New York Times Magazine, inoltre, uno parla di screzi interni allo Stato italiano. “Secondo un funzionario del ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano giunti alla conclusione che l’Eni“, che nell’agosto 2015 “aveva annunciato la scoperta del giacimento di gas di Zohr 120 miglia a nord della costa egiziana”, “si era unita alle forze del servizio di intelligence dell’Italia nel tentativo di trovare una rapida risoluzione del caso”, si legge. Del resto, ricorda l’articolo, “nel 2014 Renzi definì Eni “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, estera e di intelligence”.
Ma “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo italiano. Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”. Al punto che un funzionario italiano citato avrebbe detto: “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani“. Per il giornale americano, inoltre, “i diplomatici sospettavano che le spie italiane, nel tentativo di chiudere il caso, avessero mediato per l’intervista fatta dal quotidiano La Repubblica ad Al Sisi il 16 marzo 2016, sei settimane dopo la morte di Regeni (il direttore Mario Calabresi, autore dell’intervista, afferma che la richiesta è partita dal giornale)”. In quella intervista il presidente egiziano aveva promesso “la verità” sulla morte. Otto giorni dopo furono uccisi cinque egiziani con precedenti penali e la polizia locale sostenne di aver trovato prove che li legavano all’omicidio Regeni. Compreso il passaporto del ricercatore, rinvenuto in un appartamento di uno dei membri della gang. Presto però la narrazione ufficiale fu smentita e lo scorso autunno il procuratore capo egiziano fece sapere che due ufficiali di polizia erano stati accusati di omicidio per aver sparato a sangue freddo ai cinque.
L’inchiesta dà conto anche dei timori dell’allora ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, che dopo la morte di Regeni “iniziò a preoccuparsi della sicurezza dell’ambasciata” e “smise di usare email e telefono per argomenti sensibili, ripiegando, per inviare messaggi a Roma, su una vecchia macchina per la crittografia. I rappresentati italiani temevano che gli egiziani che lavoravano in ambasciata passassero informazioni alle forze di sicurezza egiziane. Notarono che le luci erano sempre spente in un appartamento davanti all’ambasciata, un buon posto dove piazzare un microfono direzionale. Massari, traumatizzato dalla memoria delle ferite sul corpo di Regeni, era diventato un recluso e evitava incontri con gli altri diplomatici”. Nell’aprile 2016 l’ambasciatore fu richiamato a Roma.
“Fiumicello, 15 agosto 2017, sempre più lutto!”, ha scritto su Facebook la sera di Ferragosto la madre di Giulio Regeni, Paola Deffendi. Il post è accompagnato dalle foto di una bandiera italiana a lutto, che Deffendi ha anche impostato l’immagine come foto del profilo.
di F. Q. | 16 agosto 2017
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/08 ... o/3796055/
Regeni, Nyt: “Da governo Usa a quello di Renzi prove sul ruolo dei servizi egiziani”. P.Chigi: “Nessun elemento di fatto”
di F. Q. | 16 agosto 2017
Mondo
Secondo il quotidiano statunitense "informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto sul fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso il ricercatore italiano" furono girate dallo staff di Obama all'esecutivo di Roma. La guerra dei servizi, il ruolo dell'Eni e i timori dell'allora ambasciatore italiano. Fonti dell'esecutivo Gentiloni: "Nessuna prova esplosiva". La madre: "Sempre più a lutto"
di F. Q. | 16 agosto 2017
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Più informazioni su: Barack Obama, Egitto, Eni, Giulio Regeni, Matteo Renzi, Usa
“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dall’annuncio del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che, nei contatti tra amministrazione Usa e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’assassinio del ricercatore, non furono mai trasmessi “elementi di fatto”, come ricorda lo stesso giornalista del New York Times, né “tantomeno prove esplosive”.
Il corpo di Regeni fu ritrovato il 3 febbraio del 2016. Secondo la ricostruzione del New York Times, gli Stati Uniti acquisirono delle “informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto: prove del fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso” il ricercatore italiano e, “su raccomandazione del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono queste conclusioni al governo Renzi”. In un lungo articolo il giornalista Declan Walsh cita come fonti tre ex funzionari dell’amministrazione Obama. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana” e “non c’era dubbio”, ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero per intero le informazioni di intelligence, né dissero all’Italia quale agenzia di sicurezza ritenevano fosse dietro alla morte di Regeni, spiega ancora il giornale. “Non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, ucciderlo”, ha detto al giornalista del Nyt un altro ex funzionario Usa.
“Quello che gli americani sapevano per certo l’hanno detto agli italiani, cioè che la leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze intorno alla morte di Regeni”, scrive il giornale statunitense, citando poi altri virgolettati: “Non avevamo dubbi che questo fosse noto molto in alto”, dice uno dei funzionari dell’amministrazione Obama, aggiungendo che “non so se fossero responsabili. Ma sapevano. Loro sapevano”. Secondo l’articolo, alcuni funzionari di Obama erano convinti che qualcuno “di alto grado” del governo egiziano potesse avere ordinato l’uccisione di Regeni “per mandare un messaggio ad altri stranieri e governi stranieri, cioè di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”.
Fra i retroscena ricostruiti dal New York Times Magazine, inoltre, uno parla di screzi interni allo Stato italiano. “Secondo un funzionario del ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano giunti alla conclusione che l’Eni“, che nell’agosto 2015 “aveva annunciato la scoperta del giacimento di gas di Zohr 120 miglia a nord della costa egiziana”, “si era unita alle forze del servizio di intelligence dell’Italia nel tentativo di trovare una rapida risoluzione del caso”, si legge. Del resto, ricorda l’articolo, “nel 2014 Renzi definì Eni “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, estera e di intelligence”.
Ma “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo italiano. Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”. Al punto che un funzionario italiano citato avrebbe detto: “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani“. Per il giornale americano, inoltre, “i diplomatici sospettavano che le spie italiane, nel tentativo di chiudere il caso, avessero mediato per l’intervista fatta dal quotidiano La Repubblica ad Al Sisi il 16 marzo 2016, sei settimane dopo la morte di Regeni (il direttore Mario Calabresi, autore dell’intervista, afferma che la richiesta è partita dal giornale)”. In quella intervista il presidente egiziano aveva promesso “la verità” sulla morte. Otto giorni dopo furono uccisi cinque egiziani con precedenti penali e la polizia locale sostenne di aver trovato prove che li legavano all’omicidio Regeni. Compreso il passaporto del ricercatore, rinvenuto in un appartamento di uno dei membri della gang. Presto però la narrazione ufficiale fu smentita e lo scorso autunno il procuratore capo egiziano fece sapere che due ufficiali di polizia erano stati accusati di omicidio per aver sparato a sangue freddo ai cinque.
L’inchiesta dà conto anche dei timori dell’allora ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, che dopo la morte di Regeni “iniziò a preoccuparsi della sicurezza dell’ambasciata” e “smise di usare email e telefono per argomenti sensibili, ripiegando, per inviare messaggi a Roma, su una vecchia macchina per la crittografia. I rappresentati italiani temevano che gli egiziani che lavoravano in ambasciata passassero informazioni alle forze di sicurezza egiziane. Notarono che le luci erano sempre spente in un appartamento davanti all’ambasciata, un buon posto dove piazzare un microfono direzionale. Massari, traumatizzato dalla memoria delle ferite sul corpo di Regeni, era diventato un recluso e evitava incontri con gli altri diplomatici”. Nell’aprile 2016 l’ambasciatore fu richiamato a Roma.
“Fiumicello, 15 agosto 2017, sempre più lutto!”, ha scritto su Facebook la sera di Ferragosto la madre di Giulio Regeni, Paola Deffendi. Il post è accompagnato dalle foto di una bandiera italiana a lutto, che Deffendi ha anche impostato l’immagine come foto del profilo.
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Re: Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
Gentiloni ci fa una doppia brutta figura. Primo perché all’epoca era il ministro degli Esteri del governo Renzi, secondo, oggi da premier italiano
le novità
Milano, 15 agosto 2017 - 20:51
Regeni, il New York Times: «Obama avvertì Renzi sulle responsabilità degli apparati egiziani». Palazzo Chigi: «Mai ricevuto le prove»
Lo scrive il New York Times in un articolo citando fonti dell’ex amministrazione Obama: «Prove che dimostravano» la responsabilità di «elementi della sicurezza egiziana»
di Davide Casati
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Sin dalle prime settimane seguenti alla morte di Giulio Regeni, l’amministrazione americana era entrata in possesso di «prove esplosive» sulle responsabilità degli apparati dello Stato egiziano nel rapimento, nella tortura e nell’uccisione del giovane italiano, e ha comunicato al governo italiano, con certezza assoluta, che i vertici del Cairo erano a conoscenza delle circostanze relative alla morte del ricercatore. A scriverlo è il New York Times in un lungo articolo dedicato proprio al caso del giovane italiano massacrato in Egitto nel 2016.
La rivelazione arriva il giorno successivo alla decisione del governo italiano di inviare di nuovo un ambasciatore al Cairo. La scelta ha causato una dura reazione da parte della famiglia Regeni, che l’ha definita una mossa che «calpesta la nostra dignità».
Il governo italiano, dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times, ha spiegato, tramite «fonti» citate dalle agenzie di stampa, di non aver mai ricevuto dagli Usa «elementi di fatto, né tantomeno “prove esplosive”», come peraltro correttamente indicato dall’articolo. «La collaborazione con la Procura di Roma — continuano le stesse fonti — in tutti questi mesi è stata piena e completa»: anche questo un dettaglio presente nell’inchiesta del Times.
Che cosa scrive esattamente il «New York Times»
Nella lunga e dettagliatissima inchiesta, firmata dal corrispondente dal Cairo Declan Walsh e pubblicata il 15 agosto, il New York Times ricostruisce con precisione — risalendo anche a messaggi privati — la vita di Giulio Regeni, il suo lavoro, i contatti in Egitto, le sue passioni. Fornisce anche un quadro delle tre agenzie di sicurezza e di intelligence egiziane — la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service, «l’equivalente egiziano della Cia» — che, se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come «in competizione tra loro». Il paragrafo che ha attirato maggiori attenzioni da parte del governo italiano è quello relativo alle informazioni raccolte dagli Stati Uniti e passate al governo italiano. «Nelle settimane successive alla morte di Regeni», si legge, «gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana». «“Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane”, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. “Non c’erano dubbi”», scrive il Times. Che continua: «Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di “bruciare” la propria fonte, gli americani non condivisero i materiali di intelligence, né dissero quale delle agenzie di sicurezza e intelligence ritenevano fosse dietro la morte di Regeni. “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”».
I nodi e i dubbi aperti
Il paragrafo del Times tocca alcuni punti molto importanti:
— l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
— nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
— i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
— anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).
La rabbia del dipartimento di Stato Usa
L’articolo del New York Times rivela che il caso Regeni — e le prove raccolte dagli Stati Uniti — furono alla base di una burrascosa conversazione avuta dall’allora segretario di Stato americano, John Kerry, con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Kerry — che pure «aveva la fama di trattare l’Egitto con i guanti bianchi» — approcciò duramente Shoukry, anche se non riuscì a determinare se questi stesse erigendo un muro di gomma o «semplicemente non fosse a conoscenza della verità». L’atteggiamento dell’amministrazione americana è cambiato radicalmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha già provveduto a ricevere Al Sisi.
I depistaggi e il ruolo di Massari
L’inchiesta del New York Times rivela anche che i magistrati italiani inviati al Cairo vennero «depistati ad ogni pie’ sospinto», e spiega come l’allora ambasciatore italiano Massari — angosciato dopo aver visto con i propri occhi il cadavere martoriato di Giulio: «la bocca spalancata, i capelli zuppi di sangue, l’orecchio destro mozzato, le ossa di spalle, piedi e polsi sbriciolate, un dente mancante e molti altri spezzati, le bruciature di sigaretta sulla pelle, le ferite profonde alla schiena», frutto di una tortura durata quattro giorni — iniziò a temere per la sicurezza dell’ambasciata. «Presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate», si legge, «ricorrendo ad una soluzione vecchio stile, per comunicare con Roma: una macchina che scriveva messaggi criptati su carta». Anche perché «si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane, e che in un appartamento posto accanto all’ambasciata, le cui luci erano costantemente spente», fosse stato piazzato quanto necessario per spiare le mosse dei rappresentanti italiani.
Il ruolo dell’Eni e le tensioni nel governo italiano
L’articolo del New York Times parla poi apertamente di fratture all’interno delle autorità italiane, alle prese anche con «altre priorità». «Le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la minaccia di Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo». Non solo: Eni — che poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto aveva annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas, Zohr, proprio al largo delle coste egiziane — entrò in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, ad di Eni, «parlò almeno tre volte con il presidente egiziano al Sisi» del caso Regeni. «Quella che veniva percepita come una collaborazione tra Eni e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensioni all’interno del governo italiano», scrive il Times. «Membri del ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni«. «Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani», spiega una delle fonti al quotidiano.
Le tesi sulla morte
L’articolo non offre risposte alla domanda che gli dà il titolo («Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?»). Registra però quattro teorie (insieme a molti dubbi). La prima: a causare la morte di Regeni ci sarebbe stata l’azione di apparati deviati dei Servizi egiziani, che avrebbero agito senza l’approvazione di Sisi. Secondo questa teoria, il presidente egiziano avrebbe saputo della morte di Regeni, ma non sarebbe responsabile di aver dato il suo via libera. Se così fosse, però — si chiede l’articolo — perché far ritrovare il corpo di Regeni, e non farlo svanire nel nulla? La seconda teoria, ventilata da Hossam Zaki, ex viceministro degli Esteri egiziano, è l’azione di «elementi esterni» nel tentativo di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia: «Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto», ha detto al Times. La terza teoria è che Regeni sia finito nel fuoco incrociato delle diverse agenzie di sicurezza e intelligence egiziane. La quarta teoria, «la più allarmante», è che la morte di Regeni fosse «un messaggio chiaro: il segnale che, sotto al Sisi, anche un occidentale poteva essere sottoposto» a torture brutali. «Alti rappresentanti del governo egiziano potrebbero aver ordinato la morte di Giulio» per «mandare un messaggio ai governi stranieri: piantatela di giocare con la sicurezza egiziana». Il che spiegherebbe un dettaglio rivelato al Times da una fonte a Roma: «Quando fu recuperato, il cadavere di Giulio era stato puntellato a un muro. “Volevano che venisse ritrovato?”».
15 agosto 2017 (modifica il 16 agosto 2017 | 08:00)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/17_agos ... 2341.shtml
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Milano, 15 agosto 2017 - 20:51
Regeni, il New York Times: «Obama avvertì Renzi sulle responsabilità degli apparati egiziani». Palazzo Chigi: «Mai ricevuto le prove»
Lo scrive il New York Times in un articolo citando fonti dell’ex amministrazione Obama: «Prove che dimostravano» la responsabilità di «elementi della sicurezza egiziana»
di Davide Casati
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Sin dalle prime settimane seguenti alla morte di Giulio Regeni, l’amministrazione americana era entrata in possesso di «prove esplosive» sulle responsabilità degli apparati dello Stato egiziano nel rapimento, nella tortura e nell’uccisione del giovane italiano, e ha comunicato al governo italiano, con certezza assoluta, che i vertici del Cairo erano a conoscenza delle circostanze relative alla morte del ricercatore. A scriverlo è il New York Times in un lungo articolo dedicato proprio al caso del giovane italiano massacrato in Egitto nel 2016.
La rivelazione arriva il giorno successivo alla decisione del governo italiano di inviare di nuovo un ambasciatore al Cairo. La scelta ha causato una dura reazione da parte della famiglia Regeni, che l’ha definita una mossa che «calpesta la nostra dignità».
Il governo italiano, dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times, ha spiegato, tramite «fonti» citate dalle agenzie di stampa, di non aver mai ricevuto dagli Usa «elementi di fatto, né tantomeno “prove esplosive”», come peraltro correttamente indicato dall’articolo. «La collaborazione con la Procura di Roma — continuano le stesse fonti — in tutti questi mesi è stata piena e completa»: anche questo un dettaglio presente nell’inchiesta del Times.
Che cosa scrive esattamente il «New York Times»
Nella lunga e dettagliatissima inchiesta, firmata dal corrispondente dal Cairo Declan Walsh e pubblicata il 15 agosto, il New York Times ricostruisce con precisione — risalendo anche a messaggi privati — la vita di Giulio Regeni, il suo lavoro, i contatti in Egitto, le sue passioni. Fornisce anche un quadro delle tre agenzie di sicurezza e di intelligence egiziane — la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service, «l’equivalente egiziano della Cia» — che, se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come «in competizione tra loro». Il paragrafo che ha attirato maggiori attenzioni da parte del governo italiano è quello relativo alle informazioni raccolte dagli Stati Uniti e passate al governo italiano. «Nelle settimane successive alla morte di Regeni», si legge, «gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana». «“Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane”, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. “Non c’erano dubbi”», scrive il Times. Che continua: «Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di “bruciare” la propria fonte, gli americani non condivisero i materiali di intelligence, né dissero quale delle agenzie di sicurezza e intelligence ritenevano fosse dietro la morte di Regeni. “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”».
I nodi e i dubbi aperti
Il paragrafo del Times tocca alcuni punti molto importanti:
— l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
— nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
— i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
— anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).
La rabbia del dipartimento di Stato Usa
L’articolo del New York Times rivela che il caso Regeni — e le prove raccolte dagli Stati Uniti — furono alla base di una burrascosa conversazione avuta dall’allora segretario di Stato americano, John Kerry, con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Kerry — che pure «aveva la fama di trattare l’Egitto con i guanti bianchi» — approcciò duramente Shoukry, anche se non riuscì a determinare se questi stesse erigendo un muro di gomma o «semplicemente non fosse a conoscenza della verità». L’atteggiamento dell’amministrazione americana è cambiato radicalmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha già provveduto a ricevere Al Sisi.
I depistaggi e il ruolo di Massari
L’inchiesta del New York Times rivela anche che i magistrati italiani inviati al Cairo vennero «depistati ad ogni pie’ sospinto», e spiega come l’allora ambasciatore italiano Massari — angosciato dopo aver visto con i propri occhi il cadavere martoriato di Giulio: «la bocca spalancata, i capelli zuppi di sangue, l’orecchio destro mozzato, le ossa di spalle, piedi e polsi sbriciolate, un dente mancante e molti altri spezzati, le bruciature di sigaretta sulla pelle, le ferite profonde alla schiena», frutto di una tortura durata quattro giorni — iniziò a temere per la sicurezza dell’ambasciata. «Presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate», si legge, «ricorrendo ad una soluzione vecchio stile, per comunicare con Roma: una macchina che scriveva messaggi criptati su carta». Anche perché «si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane, e che in un appartamento posto accanto all’ambasciata, le cui luci erano costantemente spente», fosse stato piazzato quanto necessario per spiare le mosse dei rappresentanti italiani.
Il ruolo dell’Eni e le tensioni nel governo italiano
L’articolo del New York Times parla poi apertamente di fratture all’interno delle autorità italiane, alle prese anche con «altre priorità». «Le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la minaccia di Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo». Non solo: Eni — che poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto aveva annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas, Zohr, proprio al largo delle coste egiziane — entrò in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, ad di Eni, «parlò almeno tre volte con il presidente egiziano al Sisi» del caso Regeni. «Quella che veniva percepita come una collaborazione tra Eni e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensioni all’interno del governo italiano», scrive il Times. «Membri del ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni«. «Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani», spiega una delle fonti al quotidiano.
Le tesi sulla morte
L’articolo non offre risposte alla domanda che gli dà il titolo («Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?»). Registra però quattro teorie (insieme a molti dubbi). La prima: a causare la morte di Regeni ci sarebbe stata l’azione di apparati deviati dei Servizi egiziani, che avrebbero agito senza l’approvazione di Sisi. Secondo questa teoria, il presidente egiziano avrebbe saputo della morte di Regeni, ma non sarebbe responsabile di aver dato il suo via libera. Se così fosse, però — si chiede l’articolo — perché far ritrovare il corpo di Regeni, e non farlo svanire nel nulla? La seconda teoria, ventilata da Hossam Zaki, ex viceministro degli Esteri egiziano, è l’azione di «elementi esterni» nel tentativo di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia: «Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto», ha detto al Times. La terza teoria è che Regeni sia finito nel fuoco incrociato delle diverse agenzie di sicurezza e intelligence egiziane. La quarta teoria, «la più allarmante», è che la morte di Regeni fosse «un messaggio chiaro: il segnale che, sotto al Sisi, anche un occidentale poteva essere sottoposto» a torture brutali. «Alti rappresentanti del governo egiziano potrebbero aver ordinato la morte di Giulio» per «mandare un messaggio ai governi stranieri: piantatela di giocare con la sicurezza egiziana». Il che spiegherebbe un dettaglio rivelato al Times da una fonte a Roma: «Quando fu recuperato, il cadavere di Giulio era stato puntellato a un muro. “Volevano che venisse ritrovato?”».
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Re: Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
Editoriale
Caso Regeni, la verità e il teatro: l'editoriale di Tommaso Cerno
Abbiamo riaperto i rapporti diplomatici con l'Egitto, nonostante abbiano provato a rifilarci una fandonia irricevibile sulla morte di Giulio. E per questo viene da chiedersi: quanto sarà mai credibile ogni altra verità che ci verrà proposta? Sull'Espresso in edicola da domenica 20 agosto un lungo dossier sulle ragioni del nostro riavvicinamento ad al-Sisi
di Tommaso Cerno
18 agosto 2017
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Siamo l’Italia, il Paese che negli ultimi cinquant’anni non ha chiarito nessuno dei propri misteri di Stato. Abbiamo seminato dubbi e congetture, riempito libri di depistaggi, da Moro a Pasolini, insomma siamo i campioni del bluff.
Ora abbiamo ristabilito piene relazioni diplomatiche con l’Egitto, che cercò di fregarci - noi che siamo gli originali - raccontandoci una fandonia sulla morte di Giulio Regeni così strampalata da essere irricevibile perfino per il Paese degli omissis nei processi di Stato. Chi si stupisce è un idealista o è un fesso, perché la Farnesina sempre ha voluto che l’ambasciatore tornasse al Cairo.
E, pur senza poterlo dire, nel mondo di mezzo fra democrazia e regime, la scelta di chiudere la sede diplomatica non era mai andata giù. Facciamo una scommessa: dietro questa operazione c’è qualche garanzia egiziana sul caso Regeni. Ma la domanda è questa: noi, con il nostro passato, e loro con il comportamento tenuto fin qui, possiamo credere d’ora in avanti che qualsiasi cosa emerga, come ne emergono ogni giorno, sia la verità? In teoria, ci dicono da palazzo Chigi, sì.
Giulio Regeni crocefisso sulla copertina: un'immagine forte per poter raccontare come è cambiata la politica del governo nei confronti dell'Egitto e la riapertura del dialogo diplomatico con Al-Sisi con il ritorno dell'ambasciatore italiano al Cairo. Una decisione legata alla necessità di trovare un accordo per arginare il flusso dei migranti e che riporta in primo piano la distanza tra battaglie ideali, come quella per la ricerca della verità sull'assassinio del ricercatore Regeni, e la realpolitik degli interessi di Stato. Poi: gli scenari della politica del 2018 raccontati da Marco Damilano; l'inchiesta sulla salute dell'Arma dei Carabinieri di Emiliano Fittipaldi; il dossier sui malati che ancora oggi vengono curati con l'elettroshock; il test semiserio su "quale sinistra sei?" da giocare sotto l'ombrellone. Il direttore Tommaso Cerno racconta cosa c'è sul nuovo numero dell'Espresso in edicola da domenica 20 agosto
E siamo sicuri che tutti sperano di chiudere la vicenda. Ma non basta più nemmeno un nome, non basta una chiusura ufficiale. Non ci si fida più, come quando la Commissione Warren impose la verità di Stato sull’assassinio di Jfk, purché l’America potesse ripartire. Sull’omicidio di Stato di Giulio Regeni si attende una ricostruzione certo meno farsesca di quella che ci fu ammannita un anno e mezzo fa, che rasentava il ridicolo proprio perché raccontata a un Paese come il nostro, esperto internazionale di bugie ufficiali, quando ci dissero che cinque criminali comuni vennero ammazzati dalla polizia.
La stessa che poi sistemò nel covo i documenti di Giulio per mettere in scena quel macabro depistaggio. Ci arrabbiammo perfino noi. Ma con questi nuovi precedenti, che autorevolezza avrà ormai “La verità per Giulio Regeni”?
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
Caso Regeni, la verità e il teatro: l'editoriale di Tommaso Cerno
Abbiamo riaperto i rapporti diplomatici con l'Egitto, nonostante abbiano provato a rifilarci una fandonia irricevibile sulla morte di Giulio. E per questo viene da chiedersi: quanto sarà mai credibile ogni altra verità che ci verrà proposta? Sull'Espresso in edicola da domenica 20 agosto un lungo dossier sulle ragioni del nostro riavvicinamento ad al-Sisi
di Tommaso Cerno
18 agosto 2017
Siamo l’Italia, il Paese che negli ultimi cinquant’anni non ha chiarito nessuno dei propri misteri di Stato. Abbiamo seminato dubbi e congetture, riempito libri di depistaggi, da Moro a Pasolini, insomma siamo i campioni del bluff.
Ora abbiamo ristabilito piene relazioni diplomatiche con l’Egitto, che cercò di fregarci - noi che siamo gli originali - raccontandoci una fandonia sulla morte di Giulio Regeni così strampalata da essere irricevibile perfino per il Paese degli omissis nei processi di Stato. Chi si stupisce è un idealista o è un fesso, perché la Farnesina sempre ha voluto che l’ambasciatore tornasse al Cairo.
E, pur senza poterlo dire, nel mondo di mezzo fra democrazia e regime, la scelta di chiudere la sede diplomatica non era mai andata giù. Facciamo una scommessa: dietro questa operazione c’è qualche garanzia egiziana sul caso Regeni. Ma la domanda è questa: noi, con il nostro passato, e loro con il comportamento tenuto fin qui, possiamo credere d’ora in avanti che qualsiasi cosa emerga, come ne emergono ogni giorno, sia la verità? In teoria, ci dicono da palazzo Chigi, sì.
Giulio Regeni crocefisso sulla copertina: un'immagine forte per poter raccontare come è cambiata la politica del governo nei confronti dell'Egitto e la riapertura del dialogo diplomatico con Al-Sisi con il ritorno dell'ambasciatore italiano al Cairo. Una decisione legata alla necessità di trovare un accordo per arginare il flusso dei migranti e che riporta in primo piano la distanza tra battaglie ideali, come quella per la ricerca della verità sull'assassinio del ricercatore Regeni, e la realpolitik degli interessi di Stato. Poi: gli scenari della politica del 2018 raccontati da Marco Damilano; l'inchiesta sulla salute dell'Arma dei Carabinieri di Emiliano Fittipaldi; il dossier sui malati che ancora oggi vengono curati con l'elettroshock; il test semiserio su "quale sinistra sei?" da giocare sotto l'ombrellone. Il direttore Tommaso Cerno racconta cosa c'è sul nuovo numero dell'Espresso in edicola da domenica 20 agosto
E siamo sicuri che tutti sperano di chiudere la vicenda. Ma non basta più nemmeno un nome, non basta una chiusura ufficiale. Non ci si fida più, come quando la Commissione Warren impose la verità di Stato sull’assassinio di Jfk, purché l’America potesse ripartire. Sull’omicidio di Stato di Giulio Regeni si attende una ricostruzione certo meno farsesca di quella che ci fu ammannita un anno e mezzo fa, che rasentava il ridicolo proprio perché raccontata a un Paese come il nostro, esperto internazionale di bugie ufficiali, quando ci dissero che cinque criminali comuni vennero ammazzati dalla polizia.
La stessa che poi sistemò nel covo i documenti di Giulio per mettere in scena quel macabro depistaggio. Ci arrabbiammo perfino noi. Ma con questi nuovi precedenti, che autorevolezza avrà ormai “La verità per Giulio Regeni”?
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Re: Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
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Giulio Regeni non c’entra, il governo dica chiaramente perché rimanda l’ambasciatore in Egitto
di Riccardo Noury | 16 agosto 2017
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Riccardo Noury
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Uno dei fatti temporalmente coincidenti con la decisione (per me intempestiva e immorale), presa nell’afa pre-ferragostana dal governo Gentiloni, di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo è ampiamente noto e se ne parla altrove sul portale del Fatto Quotidiano. Mi riferisco all’inchiesta del New York Times sull’uccisione di Giulio Regeni.
La seconda coincidenza temporale è meno conosciuta. Ha a che fare con la Libia, con la violazione dei diritti umani in quel paese e col ritorno dell’ambasciatore.
Il 15 agosto la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto per crimini di guerra nei confronti di Mahmoud el-Wefelli, comandante della brigata Al-Saiqa, le Forze speciali affiliate all’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar. Quello che dobbiamo blandire. Dopo Serraj e le tribù della frontiera sud, è la “terza Libia” che ancora ci sfugge.
Cercare di trovare un accordo, attraverso il suo sponsor egiziano, col generale della Cirenaica – sì, quello che giorni fa minacciò di bombardare le navi italiane – per poter portare avanti senza intoppi né ritardi la collaborazione con la Libia al fine d’impedire le partenze di migranti e richiedenti asilo verso l’Italia: questo è uno dei principali moventi della decisione annunciata dal ministro degli Esteri, Angelino Alfano, il 14 agosto.
Una decisione pensata da mesi, programmata per settembre (così si era impegnato col presidente egiziano al-Sisi il senatore Nicola La Torre) e che però è stata anticipata prendendo a pretesto il periodico comunicato di reciproca soddisfazione delle procure di Roma e del Cairo, relativo a qualche altra carta arrivata dall’Egitto e ora da tradurre dall’arabo.
Trasparentemente, il governo Gentiloni dovrebbe dire che l’ambasciata del Cairo torna a ranghi completi per ragioni d’interesse nazionale (la Libia, il petrolio, il terrorismo, il turismo ecc). E aggiungere, sempre per trasparenza, che la difesa dei diritti umani non rientra in quell’interesse nazionale, neanche quando si tratta di quelli di un cittadino italiano ucciso in modo barbaro (e figuriamoci quando si tratta dei tanti egiziani che fanno la stessa fine ogni anno).
In maniera altrettanto trasparente, il governo italiano dovrebbe dire che tra l’amicizia con Abdel Fattah al-Sisi e Khalifa Haftar e la verità per Giulio Regeni, ha deciso cosa è più importante e da che parte stare.
Tutto come prima, allora. Il governo del Cairo sentitamente ringrazia. Non pochi anche in Italia.
di Riccardo Noury | 16 agosto 2017
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/08 ... o/3796767/
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La seconda coincidenza temporale è meno conosciuta. Ha a che fare con la Libia, con la violazione dei diritti umani in quel paese e col ritorno dell’ambasciatore.
Il 15 agosto la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto per crimini di guerra nei confronti di Mahmoud el-Wefelli, comandante della brigata Al-Saiqa, le Forze speciali affiliate all’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar. Quello che dobbiamo blandire. Dopo Serraj e le tribù della frontiera sud, è la “terza Libia” che ancora ci sfugge.
Cercare di trovare un accordo, attraverso il suo sponsor egiziano, col generale della Cirenaica – sì, quello che giorni fa minacciò di bombardare le navi italiane – per poter portare avanti senza intoppi né ritardi la collaborazione con la Libia al fine d’impedire le partenze di migranti e richiedenti asilo verso l’Italia: questo è uno dei principali moventi della decisione annunciata dal ministro degli Esteri, Angelino Alfano, il 14 agosto.
Una decisione pensata da mesi, programmata per settembre (così si era impegnato col presidente egiziano al-Sisi il senatore Nicola La Torre) e che però è stata anticipata prendendo a pretesto il periodico comunicato di reciproca soddisfazione delle procure di Roma e del Cairo, relativo a qualche altra carta arrivata dall’Egitto e ora da tradurre dall’arabo.
Trasparentemente, il governo Gentiloni dovrebbe dire che l’ambasciata del Cairo torna a ranghi completi per ragioni d’interesse nazionale (la Libia, il petrolio, il terrorismo, il turismo ecc). E aggiungere, sempre per trasparenza, che la difesa dei diritti umani non rientra in quell’interesse nazionale, neanche quando si tratta di quelli di un cittadino italiano ucciso in modo barbaro (e figuriamoci quando si tratta dei tanti egiziani che fanno la stessa fine ogni anno).
In maniera altrettanto trasparente, il governo italiano dovrebbe dire che tra l’amicizia con Abdel Fattah al-Sisi e Khalifa Haftar e la verità per Giulio Regeni, ha deciso cosa è più importante e da che parte stare.
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Re: Il PD, la Sinistra e il caso Giuliani
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Politica
La verità sul caso Regeni sacrificata sull’altare libico. E l’opinione pubblica si infiamma a comando
di Pierfranco Pellizzetti | 16 agosto 2017
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Ancora non mi rendo ben conto (forse la calura africana dei giorni scorsi?) la ragione per cui mi sono cacciato nell’impresa di ragionare su un piccolo politicante di lungo corso, ma sempre in terza classe, quale Marco Minniti. Un tipo che sino a oggi era noto quale accompagnatore in calzoleria del suo capo agli albori della Seconda Repubblica – Massimo d’Alema – intenzionato a farsi un paio di scarpe su misura; poi per la frequentazione in penombre delle barbe finte dei servizi segreti nostrani. Oggi il tipetto si gode il canonico quarto d’ora di celebrità andando “a musetto duro” contro quei torvi macellai delle ong e negoziando con i gentlemen libici una joint venture (non del tutto disinteressata e neppure a costo zero per l’Italia) allo scopo di ingabbiare dall’altro lato del Mediterraneo un po’ di negracci in fregola di cercare salvezza oltremare. Operazione i cui chiari effetti umanitari si riscontrano nell’accantonamento del disturbante affaire Regeni e, previo ripristino delle rappresentanze d’ambasciata, nella ricucitura con il premier egiziano, il ben noto gandhiano non-violento generale Al-Sisi.
Mal me ne incolse, vista l’onda anomala di melma sotto forma di commenti da cui sono stato sommerso. E se non vi sono annegato è solo per l’inveterato masochismo di non volermi allineare al luogo comune dilagante. E sì. Perché buona parte dei commenti ripetevano, in varie tonalità insultanti, lo stesso concetto: “Prenditeli in casa tua, questi immigrati!”. Non di rado specificando trattarsi di esponenti della media borghesia africana, spinta dal fancazzismo a farsi mantenere qui da noi.
Al di là del momentaneo orrore per questi spurghi di odio, trovo una continuità, almeno da alcuni decenni, in queste insorgenze mentali di massa; che ogni volta individuano il mostro contro cui indirizzare ondate di risentimento. Guarda caso, ripetendo pappagallescamente lessici e metafore dei loro aizzatori: se oggi la canea attizzata dal trio Salvini-Di Maio-Minniti (con Matteo Renzi all’inseguimento) ripete l’identico rosario di invettive contro gli immigrati traghettati dai taxi del mare e ospitati al Grand Hotel, gli adepti della setta grillesca scimmiottavano il Guru con un florilegio di “onestà” contro cui andranno a sbattere i “rosiconi”.
Trattasi dell’operazione mentale definita “pavlovizzazione”, un tempo praticata sui cani (che iniziavano a salivare al suono della campana cui erano condizionati) e che ormai si esercita sulle persone. Come è successo, dalle nostre parti? Varrebbe la pena di approfondirlo, visto che è fenomeno di lunga durata. Potremmo farlo incominciare al tempo delle bombe e della strategia della tensione, quando per la strage nella milanese Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 venne subito indicata senza tentennamenti la pista anarchica che portava fino a Pietro Valpreda, la cui posizione era aggravata dall’essere “un ballerino”. Poi rivelatosi del tutto estraneo alla vicenda terroristica; mentre si provvedeva a cancellare le impronte di altre mani, al servizio degli equilibri minacciati del potere.
La trasformazione dell’opinione pubblica in un gregge facilmente capace di imbizzarrirsi si è acuita nella Seconda Repubblica: abbiamo assistito alla parabola discendente di Mani Pulite e dei suoi magistrati, prima acclamati come paladini della giustizia e poi trasformati in killer della legalità; se avanzavi sospetti sull’essenza dipietrista di Italia dei Valori (già incubatore fanatizzante di biografie grilline, ma anche shopping center per campagne acquisto berlusconiano di parlamentari con il cartellino del prezzo) venivi crocefisso in effige dagli adepti; quando giunse la stagione dei mercatisti liberisti – da Mario Monti a Michele Boldrin – e timidamente si diceva che le loro ricette pro-establishment (dal salvataggio delle banche come priorità, al buono-scuola per favorire quelle religiose private) avrebbero fatto dilagare la disuguaglianza, i loro supporters, economisti immaginari, ti zittivano sbattendoti in faccia i palmares scientifici dei loro eroi (per una breve stagione). Poi è arrivata l’Europa e l’Euro, un tempo àncora di salvezza italica, trasformati nevroticamente nella summa di ogni peccato. Però ora, stante che criticare Bruxelles presenta qualche pericolo per chi aspira a Palazzo Chigi, il mirino si sposta sui dannati della terra e su chi vorrebbe salvarli da morte certa.
Chiamasi “distrazione di massa”. Quanto questo dipende da un sistema mediatico degenerato, al servizio permanente del “pensiero pensabile”? Quanto dipende da un potere che sentendosi minacciato produce diversivi a ripetizione?
Comunque: italiani brava gente? Ma per favore…
di Pierfranco Pellizzetti | 16 agosto 2017
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La verità sul caso Regeni sacrificata sull’altare libico. E l’opinione pubblica si infiamma a comando
di Pierfranco Pellizzetti | 16 agosto 2017
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Saggista
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Ancora non mi rendo ben conto (forse la calura africana dei giorni scorsi?) la ragione per cui mi sono cacciato nell’impresa di ragionare su un piccolo politicante di lungo corso, ma sempre in terza classe, quale Marco Minniti. Un tipo che sino a oggi era noto quale accompagnatore in calzoleria del suo capo agli albori della Seconda Repubblica – Massimo d’Alema – intenzionato a farsi un paio di scarpe su misura; poi per la frequentazione in penombre delle barbe finte dei servizi segreti nostrani. Oggi il tipetto si gode il canonico quarto d’ora di celebrità andando “a musetto duro” contro quei torvi macellai delle ong e negoziando con i gentlemen libici una joint venture (non del tutto disinteressata e neppure a costo zero per l’Italia) allo scopo di ingabbiare dall’altro lato del Mediterraneo un po’ di negracci in fregola di cercare salvezza oltremare. Operazione i cui chiari effetti umanitari si riscontrano nell’accantonamento del disturbante affaire Regeni e, previo ripristino delle rappresentanze d’ambasciata, nella ricucitura con il premier egiziano, il ben noto gandhiano non-violento generale Al-Sisi.
Mal me ne incolse, vista l’onda anomala di melma sotto forma di commenti da cui sono stato sommerso. E se non vi sono annegato è solo per l’inveterato masochismo di non volermi allineare al luogo comune dilagante. E sì. Perché buona parte dei commenti ripetevano, in varie tonalità insultanti, lo stesso concetto: “Prenditeli in casa tua, questi immigrati!”. Non di rado specificando trattarsi di esponenti della media borghesia africana, spinta dal fancazzismo a farsi mantenere qui da noi.
Al di là del momentaneo orrore per questi spurghi di odio, trovo una continuità, almeno da alcuni decenni, in queste insorgenze mentali di massa; che ogni volta individuano il mostro contro cui indirizzare ondate di risentimento. Guarda caso, ripetendo pappagallescamente lessici e metafore dei loro aizzatori: se oggi la canea attizzata dal trio Salvini-Di Maio-Minniti (con Matteo Renzi all’inseguimento) ripete l’identico rosario di invettive contro gli immigrati traghettati dai taxi del mare e ospitati al Grand Hotel, gli adepti della setta grillesca scimmiottavano il Guru con un florilegio di “onestà” contro cui andranno a sbattere i “rosiconi”.
Trattasi dell’operazione mentale definita “pavlovizzazione”, un tempo praticata sui cani (che iniziavano a salivare al suono della campana cui erano condizionati) e che ormai si esercita sulle persone. Come è successo, dalle nostre parti? Varrebbe la pena di approfondirlo, visto che è fenomeno di lunga durata. Potremmo farlo incominciare al tempo delle bombe e della strategia della tensione, quando per la strage nella milanese Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 venne subito indicata senza tentennamenti la pista anarchica che portava fino a Pietro Valpreda, la cui posizione era aggravata dall’essere “un ballerino”. Poi rivelatosi del tutto estraneo alla vicenda terroristica; mentre si provvedeva a cancellare le impronte di altre mani, al servizio degli equilibri minacciati del potere.
La trasformazione dell’opinione pubblica in un gregge facilmente capace di imbizzarrirsi si è acuita nella Seconda Repubblica: abbiamo assistito alla parabola discendente di Mani Pulite e dei suoi magistrati, prima acclamati come paladini della giustizia e poi trasformati in killer della legalità; se avanzavi sospetti sull’essenza dipietrista di Italia dei Valori (già incubatore fanatizzante di biografie grilline, ma anche shopping center per campagne acquisto berlusconiano di parlamentari con il cartellino del prezzo) venivi crocefisso in effige dagli adepti; quando giunse la stagione dei mercatisti liberisti – da Mario Monti a Michele Boldrin – e timidamente si diceva che le loro ricette pro-establishment (dal salvataggio delle banche come priorità, al buono-scuola per favorire quelle religiose private) avrebbero fatto dilagare la disuguaglianza, i loro supporters, economisti immaginari, ti zittivano sbattendoti in faccia i palmares scientifici dei loro eroi (per una breve stagione). Poi è arrivata l’Europa e l’Euro, un tempo àncora di salvezza italica, trasformati nevroticamente nella summa di ogni peccato. Però ora, stante che criticare Bruxelles presenta qualche pericolo per chi aspira a Palazzo Chigi, il mirino si sposta sui dannati della terra e su chi vorrebbe salvarli da morte certa.
Chiamasi “distrazione di massa”. Quanto questo dipende da un sistema mediatico degenerato, al servizio permanente del “pensiero pensabile”? Quanto dipende da un potere che sentendosi minacciato produce diversivi a ripetizione?
Comunque: italiani brava gente? Ma per favore…
di Pierfranco Pellizzetti | 16 agosto 2017
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/08 ... o/3796666/
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