La Terza Guerra Mondiale

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L'ultimo appello dell'Isis ai lupi solitari: "Avvelenate il cibo nei supermercati"
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Tgcom24



Redazione Tgcom24



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"Avvelenate il cibo nei supermercati iniettandoci il cianuro": è il nuovo "ordine" dell'Isis ai lupi solitari, contenuto nella terza parte di un "manuale" rivolto proprio a questi ultimi. Secondo quanto riferisce il Site, in questa sorta di vademecum si fa appello alla jihad in Occidente. Nelle ultime ore, i canali Isis hanno lanciato sollecitazioni per attacchi in Europa, Russia e Usa in concomitanza con Eid al Adha, la festa del sacrificio islamica.

L'appello precedente - L'ultimo appello dell'Isis - sempre rivolto ai lupi solitari - risale al 24 agosto scorso. La richiesta era quella di attaccare Italia, Belgio e Danimarca usando come arma i veicoli. In particolare, colpiva una frase scritta in italiano: "Devi combatterli (O Muwahhid)". Questa volta, invece, l'appello sul cibo da avvelenare - così come il manuale in cui è contenuto - è in lingua inglese, come riporta il Site.

Eid al Adha - Eid Al Adha è la festa del sacrificio islamica, che dura cinque giorni - quest'anno, precisamente, dal 31 agosto al 4 settembre - e segna la fine del pellegrinaggio alla Mecca, l'Hajj. In occasionde della festa, i musulmani di tutti il mondo si riuniscono per la preghiera nelle piazze. Durante l'Eid al-Adha si usa sacrificare animali vivi, adulti e sani per poi dividere la carne tra la famiglia, gli amici e i poveri. Con questo rito si celebra il sacrificio di Ismaele, il figlio di Abramo, che come narra il Corano, sarebbe dovuto essere ucciso dal padre per fare una prova di fede e invece venne graziato da Allah. Abramo al posto del figlio uccise, così, un agnello.
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L’Isis arriva in Algeria:
una minaccia anche per l’Italia


Set 3, 2017/
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Lorenzo Vita


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Un attentato suicida rivendicato dallo Stato islamico, due poliziotti rimasti uccisi e il terrore che scende su un Paese rimasto finora lontano dai riflettori del terrorismo islamico: l’Algeria. Secondo quanto riporta il giornale algerino “Echourouk”, un attentatore suicida si è fatto esplodere in un posto di blocco della polizia di Tiaret. Il bilancio di questo attentato è di due agenti di polizia caduti sotto i colpi dell’esplosione, di cui uno, probabilmente, morto per essersi lanciato contro il terrorista. Lo Stato islamico ha immediatamente rivendicato l’attacco e i mezzi di propaganda del sedicente Califfato hanno subito messo in prima pagina il nome di battaglia dell’attentatore, che fa chiamare Abu Jihad. Un algerino proveniente da un quartiere della classe operaia della stessa città di Tiaret.

L’attacco avvenuto nella città algerina è solo uno degli episodi che hanno coinvolto l’Algeria, Paese finora lasciato ai margini sia del terrorismo internazionale sia dei grandi movimenti politici e ideologici iniziati con le Primavere arabe. In realtà, lo Stato nordafricano, pur non avendo al suo interno gravi minacce del terrorismo islamico né aver subito rivolte guidate da movimenti islamisti, è un Paese estremamente rivelante nella lotta all’islamismo radicale e svolge un ruolo prima nella fragile stabilità di tutta la regione nordafricana. Il suo territorio immenso, la sua vicinanza alla Libia, il suo passato di guerra con la Francia e soprattutto le labili frontiere con gli Stati del Sahel sono tutti elementi che rendono impossibile ritenere l’Algeria esclusa dalle gravi minacce che incombono sulle due sponde del Mediterraneo.

Le autorità di Algeri sono da anni in prima linea contro il terrorismo islamico, e finora hanno retto contro l’avanzata dello jihadismo fungendo da filtro fondamentale fra lo jihadismo maghrebino e tutti i Paesi coinvolti nella guerra al terrore. Tuttavia, sono in molti fra i funzionari dell’intelligence algerina e gli analisti a temere il rischio sempre più elevato d’infiltrazione di terroristi nel Paese. Chi in fuga dai territori persi dallo Stato islamico in Libia, chi proveniente dai Paesi del Sahel e che si mischia all’interno di flussi migratori che lambiscono il territorio algerino. Perché è in realtà il fronte meridionale quello che fa più temere per la stabilità dell’Algeria. Secondo molti, la filiale dell’islamismo maghrebino sarebbe in continua evoluzione e, soprattutto, in piena fase di crescita. Quattro tra i principali gruppi terroristici del Sahel sarebbero in procinto di allearsi – o forse già uniti – in un fronte comune denominata Jamaat Ansar al Islam, e avrebbero la base in quell’Al Qaeda nel Maghreb (AQIM) che fa tremare l’intelligence di tutto il continente europeo e degli Stati nordafricani, non solo per la violenza ma anche per la capacità di mimetizzarsi nel tessuto criminale della fascia del Sahel e del Mediterraneo.

Le forze di sicurezza algerine combattono una guerra su frontiere estese e profondamente deboli, come quelle con la Libia, con il Niger, il Mali o la Mauritania. Paesi in cui lo Stato è molto debole, se non quasi del tutto inesistente, e dove i gruppi armati circolano liberamente e uniscono rivendicazioni territoriali, reti criminali, traffico di esseri umani e terrorismo islamico. L’Isis e Al Qaeda sono molto forti in queste regioni, e l’Algeria può essere un territorio sostanzialmente vergine dove inserirsi non facilmente, ma comunque non in maniera troppo difficoltosa. Di fronte hanno uno Stato che vive di esportazione d’idrocarburi, ma il crollo dei prezzi del petrolio ha minato le già poche certezze economiche del Paese. Il fatto che questo terrorista di Tiaret venga dai sobborghi poveri della città dimostra che è possibile che lo Stato islamico arrivi anche nelle periferie algerine, come sta facendo in Marocco, sfruttando la povertà e la mancanza di un futuro.



L’Italia, in questo frangente, deve essere particolarmente attenta. Negli ultimi mesi gli sbarchi di migranti dall’Algeria sono aumentati a livello esponenziale, e la Sardegna ha assistito a un boom di arrivi che si quantificano intorno al 320% e si ritiene che l’attentatore di Charleroi del 2016 sia arrivato in Europa tramite la rotta che dall’Algeria porta i migranti in Sardegna. Lasciare l’Algeria sola in questa guerra è un rischio che l’Italia non può permettersi e in questo senso, Francia in primis e poi tutta l’Unione europea devono fare qualcosa. L’errore peggiore che si possa commettere nell’analisi del terrorismo è quello di ritenere alcune aree come sicure o comunque a rischio “zero” di jihadismo, e l’Algeria, come anche il Marocco, è uno di quei Paesi dove per troppo tempo si è pensato che lo jihadismo non potesse penetrare. La morte dei due poliziotti di Tiaret deve essere un campanello d’allarme per tutto il Mediterraneo e la rivendicazione dell’Isis devono valere come campanelli d’allarme.
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“Faremo un attacco in Europa”

Lug 9, 2017/
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Lorenzo Vita


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“’Non vi preoccupate”, ci dicevano, “faremo un grande, grande attacco in Europa. L’Isis sta lavorando per questo’”. Sono queste alcune delle parole di Ibrahim, tredicenne curdo di etnia izadi, ai microfoni del canale britannico ITV News. Il suo racconto, drammatico ed estremamente crudo, con il quale ha descritto la vita nei campi di addestramento dello Stato Islamico, i suoi piani e i metodi utilizzati per l’istruzione dei giovanissimi nel terrorismo, è uno spaccato importante della guerra in Siria e in Iraq. È la dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, di quanto il lavoro del Califfato su quei Paesi sia stato profondo, terribile e soprattutto in grado di produrre i suoi orribili frutti anche con il passare del tempo. Anche in caso di sconfitta sul terreno dello Stato Islamico e di ritorno a un terrorismo di matrice criminale e meno statale, come ha sperato di fare il Califfo Al-Baghdadi dopo la proclamazione dalla moschea di Mosul.

Intervistato dalla televisione britannica, Ibrahim non si è sottratto a dare indicazioni importanti sui metodi dell’Isis e su come ha attuato i suoi piani criminali nei territori siriani e iracheni. Innanzitutto, lui come altri bambini e ragazzi, che sono migliaia, è stato rapito dallo Stato Islamico e condotto nei campi di addestramento sparsi per il Califfato. L’hanno catturato sulle montagne di Sinyar, nel nordovest dell’Iraq, all’età di tredici anni, e poi portato nei campi di addestramento e di prigionia. In molti, come l’intervistato, sono stati mandati a Raqqa e lì costretti a vivere e ad essere educati al rigido addestramento delle milizie del Califfato. In quei mesi, racconta Ibrahim, le tecniche utilizzate sono in sostanza quelle tipiche del lavaggio del cervello. Bambini resi completi automi in mano al terrorismo, senza emozioni, senza alcun sentimento, addestrati ad uccidere fino all’estremo sacrificio dell’immolarsi come kamikaze per non cadere nelle mani nemiche. I numeri sono elevatissimi, trattandosi di circa duemila bambini addestrati nelle file dello Stato Islamico. A detta del direttore dell’Ufficio per gli Iazidi del governo regionale del Kurdistan iracheno, Jeiri Bozani, soltanto tra gli yazidi, sarebbero almeno milleseicento i bambini addestrati per uccidere e compiere attacchi terroristici.



Sempre secondo il racconto di Ibrahim, i bambini e i giovani furono immediatamente separati dagli adulti. Per gli uomini, il destino fu quello dell’esecuzione pubblica. Per le donne e le bambine, il destino, non meno crudele, è stato quello di trasformarsi in schiave sessuali dei miliziani del Daesh o vendute in altri mercati. Un racconto che, purtroppo, viste le notizie che arrivano dal fronte, sembra tutt’altro che eccessivo, visto che le donne, di qualunque età, rapite, violentate o vendute dai terroristi dello Stato Islamico, sono sicuramente migliaia, in particolare quelle di etnia yazida o di altre confessioni religiose. Le Nazioni Unite hanno stimato che potrebbero essere circa settemila le bambine e le donne yazide violentate o vendute come schiave. Cinquemila sarebbero invece gli uomini assassinati.



L’intervista si concentra poi sulla vita all’interno del campo di addestramento. Il ragazzo racconta di sei mesi di addestramento quotidiano alla guerra, che implicava il saper usare perfettamente granate, lanciagranate, mitragliatrici e qualunque tipo di arma. Gli addestratori mostravano ogni giorno video di attentati, di come svolgere azioni di guerriglia, di attacchi terroristici e di come dovessero prendere esempio dai martiri. Un lavaggio del cervello vero e proprio che ha condotto molti ragazzi a morire nei campi di battaglia, ma che soprattutto ha creato una generazione di fanatici senza nulla per cui vivere se non la guerra. Ed è questo, soprattutto, il gravissimo problema di sicurezza denunciato dall’intervista di Ibrahim. Che ci sono migliaia di ragazzi addestrati al terrorismo che possono entrare in azione in qualsiasi momento e uccidere. Questi giovani sono stati totalmente privati di una loro psiche, ma addestrati a morire o a compiere attentati. Non hanno niente da perdere, non hanno famiglie, non possiedono una casa. Il sorriso di Ibrahim quando sogna di vedere di nuovo la madre, non è presente sul volto di molti, che invece sono ormai destinati a una vita fatta di odio. Per loro, la vita è racchiusa in un’arma e nell’uccidere un nemico. Proprio per questo, i servizi d’intelligence europei sono particolarmente attenti con l’arrivo di ragazzi dal fronte siriano e iracheno. Perché proprio dai giovanissimi può nascere una minaccia terroristica molto grave, che può colpire ovunque e in qualunque momento. Le parole di Ibrahim, di quel messaggio degli addestratori sul grande attacco in Europa, non sono da prendere sotto gamba: migliaia di ragazzi addestrati a uccidere sono migliaia di potenziali terroristi. Una sfida gigantesca non soltanto per le nostre intelligence, ma soprattutto per il nostro sistema d’accoglienza.
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Rifugiati e terroristi in Europa

Giu 30, 2016/
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Luca Steinmann


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“Refugees welcome”. La scritta colorata che dà il benvenuto ai rifugiati campeggia, enorme, sull’ingresso del Deutsches Historisches Museum, il museo della storia tedesca situato nel cuore di Berlino. Unter den Linden, il viale più centrale della capitale tedesca dove il museo si trova, è affollatissima da migliaia di turisti venuti a godersi la mitezza dell’estate berlinese. Dalla folla si staccano di tanto in tanto dei gruppetti di persone decisamente diverse rispetto alle altre. Hanno tutte i tratti somatici medio orientali, sono tutte vestiti in maniera semplice e nessuno di loro impugna una guida o una macchina fotografica. Queste persone si dirigono tutte verso l’ingresso del museo e si fermano sotto la scritta che dà loro il benvenuto. Da lì vengono prelevate da una guida, anche lei rigorosamente dai tratti somatici arabeggianti, che fa loro strada verso l’interno.

Si tratta di una Führung, una visita guidata organizzata dal governo per i migranti ospiti delle centinaia di strutture di accoglienza situate nelle periferie della città. Ogni fine settimana decine di gruppi di profughi vengono condotti da all’interno del museo, dove una guida fornisce loro nella rispettiva lingua i rudimenti della storia del Paese in cui si trovano: dall’impero romano a Bismarck, passando per il nazionalsocialismo e la Ddr. I profughi, infatti, sono destinati a rimanere a lungo, forse per tutta la loro vita, in Germania e il governo ritiene sia bene che capiscano dove sono fin da subito.


Un gruppo di una decina di siriani guarda incuriosito una teca di vetro, dietro la quale sono custoditi un pezzo di stoffa a righe e una stella gialla con sopra cucita la parola “Jude”, ebreo. Ai siriani va spiegato che in questo Paese i rapporti con gli ebrei e con Israele sono del tutto particolari e che non è conveniente esternarsi in maniera critica nei loro confronti, come invece molti di loro sono abituati a fare in patria a causa dei tesissimi rapporti tra la Siria e lo Stato ebraico. A spiegarlo loro è Khaled Haddad, 26 anni, anche lui siriano. Carnagione olivastra, capelli rasati a zero e occhi scurissimi, Khaled è nato e cresciuto a Damasco da una famiglia cristiana. Il suo cognome è lo stesso di un’altra persona cristiana, diventata una vera e propria celebrità in tutto il mondo arabo: la cantante Nouhad Wadie’ Haddad, in arte Fairouz.

Dopo essersi laureato in economia aziendale Khaled ha ottenuto un visto per continuare gli studi in Germania e ha così lasciato il suo Paese, la sua famiglia, la sua ragazza e suo fratello, che invece ha deciso di recarsi al fronte per combattere tra le fila del regime di Bashar al Assad. A settembre inizierà un master all’università di Berlino, nel frattempo lavora dal lunedì al venerdì in banca, mentre nel fine settimana si occupa a fare da guida ai propri connazionali. “La vita non è facile qui in Germania” racconta, “ chi arriva qui legalmente deve sudarsi ogni centesimo”. Il suo sogno è quello di tornare in Siria quando la guerra sarà finita, per ricostruire il Paese attraverso le competenze acquisite in Europa. E rendere il suo Paese bello e prospero come racconta essere stato prima dello scoppio dello ostilità.

Com’era la vita per i cristiani in Siria prima dello scoppio della guerra?
La vita era pacifica e tranquilla per tutte le comunità religiose. Il governo riusciva a garantire la convivenza tramite una legge alla quale tutti si dovevano attenere: era vietato chiedere di che religione si fosse. Per tenere insieme un Paese composto da gruppi così diversi tra loro lo Stato non ha mai cercato di annullare le rispettive differenze ma faceva sì che di fronte alle istituzioni tutti fossero uguali e godessero degli stessi diritti. Poi, all’interno delle rispettive comunità e luoghi di culto, ognuno poteva manifestare liberamente la propria fede. I cristiani come gli alawiti, gli sciiti come i sunniti. Noi cristiani potevamo andare in chiesa, festeggiare il Natale pubblicamente e rendere la nostra fede l’elemento che teneva unita la nostra comunità. L’appartenenza nazionale prevaleva su quella confessionale, l’integrazione e la convivenza tra i vari gruppi venivano incentivate e l’amicizia tra i rispettivi individui era cosa comune. Chiunque sia cresciuto in Siria nella mia generazione ha avuto amici di tutte le fedi. E’ per questo che la maggior parte dei cristiani oggi continua a sostenere Assad.

In molti accusano la Siria di Assad di non essere mai stato un sistema democratico. Com’era la vita politica prima della guerra?
La Siria era una democrazia, si tenevano regolari elezioni alle quali tutti i cittadini di tutte le fedi potevano partecipare e votare che volevano fare eleggere. Non era solo Assad a candidarsi, ma vi era un numero molto alto di partiti molto diversi tra loro, dai comunisti ai nazionalisti, che rappresentavano le opinioni delle fette di elettorato che li votava.

Eppure la famiglia Assad non si è mai schiodata dalle massime cariche di potere. E quasi nessun partito di opposizione tentò mai di destituirla tramite mezzi democratici. Pensi veramente che se le elezioni fossero state veramente libere la famiglia Assad sarebbe rimasta così a lungo al potere?
I partiti di opposizione dovevano comunque avere il consenso del regime per poter fare politiche. E tale consenso veniva concesso solo a coloro che si fosse sicuri non rappresentassero una minaccia per la stabilità nazionale e per il potere del presidente. Prima della guerra c’erano comunque molti punti di disaccordo tra Assad e le opposizioni, ma oggi molte di questo lo appoggiano per combattere con lui il terrorismo. Se quella in vigore in Siria non era una opposizione effettivamente libera allora non lo sono nemmeno le democrazie di molti Paesi europei. Da Berlino mi rendo conto come il funzionamento della democrazia in Germania è per molti aspetti molto simile a quella in Siria. Esiste formalmente la possibilità di opporsi al governo, ma di fatto ogni alternativa allo status quo viene demonizzata dai grandi partiti di maggioranza e dalla stampa a loro affine affinché essa non venga ritenuta come credibile. In questo contesto è molto difficile per chi fa opposizione raggiungere i propri obiettivi all’interno del quadro democratico. Gli unici a riuscirci sono coloro che mettono in dubbio l’intero sistema fin dalle sue radici, cosa che induce spesso alla repressione, anche violenta, da parte della autorità in nome della difesa della democrazia e della stabilità sociale. Se è legittimo bombardare la Siria in nome dell’esportazione della democrazia bisognerebbe bombardare allora anche la Germania.

Nel 2011 sono iniziate le prime rivolte popolari in Siria, che sono poi degenerate nella guerra che tutti conosciamo e che ha causato almeno 300 mila morti. Com’è stato possibile lo scoppio delle ostilità all’interno del contesto armonioso che hai descritto?
Lo scoppio della guerra è da imputare principalmente all’influenza che alcuni grandi attori internazionali hanno esercitato sulla Siria, creando una conflittualità prima inesistenti tra le diverse componenti sociali. Certamente esistevano già delle forze che si opponevano al sistema di Assad, le quali provenivano soprattutto dal mondo sunnita. Gli attori internazionali hanno agito per incrementare queste rivalità per destabilizzare il Paese e creare una frattura sociale che è diventata una guerra.

Com’è avvenuta questa pressione mediatica? Come l’avete vissuta voi che in Siria ci vivevate?
Tutto ha iniziato a cambiare quando in Siria è arrivato internet. Nelle case dei siriani sono entrati nuovi messaggi che dipingevano l’Occidente come la miglior società possibile, i cui valori rendevano gli individui più felici che mai. Veniva poi veicolato il messaggio che i problemi esistenti in Siria erano dovuti all’assenza dei questi valori, il cui arrivo era impedito da Assad. Col senno di poi possiamo dire che l’effetto della rete ha devastato la coesione sociale siriana: ha introdotto un nuovo immaginario collettivo, ha cambiato i sogni delle persone e creato nuovi bisogni nelle loro teste. Di fatto il web ha cambiato le abitudini e le prospettive dei siriani senza che questi se ne rendessero conto. Dopo che il web è arrivato alcuni hanno iniziato a pensare che la causa di tutti i mali fosse Assad. Ed è a seguito di questa nuova convinzione che sono scoppiati i primi moti di protesta contro di lui.

Poi cosa successe?
I primi moti erano composti solo da poche persone, ricevettero però una risonanza mediatica sproporzionata. I canali televisivi internazionali li descrissero come le proteste di tutto il popolo siriano contro un dittatore sanguinario che impediva l’arrivo nel suo Paese di quella democrazia che tutti i suoi cittadini volevano. I canali internazionali hanno fatto credere agli ascoltatori di tutto il mondo che i siriani non volessero altro che cacciare Assad, dando così la scusa ai grandi attori internazionali per aumentare le pressioni sul nostro presidente chiedendone le dimissioni. Chi intendi quando parli di grandi attori internazionali? Intendo coloro che interferirono nella nostra politica internazionale per destabilizzare il Paese. Gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia, l’Unione Europea, Israele, l’Arabia Saudita, il Quatar, la Turchia. Ricordo che quando scoppiarono le prime rivolte i canali televisivi turchi e sauditi, che sono visibili anche in Siria, iniziarono con una pesante campagna di bombardamento mediatico sui siriani, raccontando che il mondo era contro Assad e che sarebbe stato utile che i siriani si rivoltassero contro di lui. Alcuni lo hanno fatto, ma si trattava di una parte minima della popolazione. E’ paradossale che i turchi e i sauditi ci dicessero che opporsi ad Assad volesse dire avvicinarsi al mondo occidentale quando in realtà hanno fatto di tutto per instaurare nel nostro Paese un regime islamista. Arabia Saudita e Turchia hanno una gravissima responsabilità per quanto avvenuto nel mio Paese.

Diversi siriani hanno però risposto positivamente agli inviti degli attori internazionali…
Alcuni sì. In quel contesto vennero commessi diversi errori da parte del governo. Le truppe risposero alle proteste con la violenza, inimicandosi così ampie fette di popolazione sunnita che altrimenti lo avrebbe sostenuto. Non dobbiamo dimenticare che all’inizio molti sunniti appoggiavano il presidente. Damasco, dove il consenso per Assad è tuttora quasi totale, è una città a maggioranza sunnita. Le reazioni violente hanno ingrandito la spaccatura sociale creata dalle influenze esterne e contribuito ad aumentare il caos. Quando il governo chiese alle comunità palestinesi di sostenerlo, queste temporeggiarono. In tutta risposta l’esercito bombardò alcuni dei loro campi, tanto che molti palestinesi oggi sostengono le opposizioni islamiste.

Lo scoppio delle violenze ha comportato la perdita del controllo del territorio da parte del governo a favore di suoi nemici. In quei territori è sorto il sedicente Stato islamico.
Lo Stato islamico è espressione di alcuni dei grandi attori internazionali che ho citato, non a caso solo una piccolissima parte della sua classe dirigente è siriana. Per la maggior parte si tratta di persone venute dall’estero che all’inizio spacciavano la propria guerra come quella del popolo contro il presidente. Ciò non è vero e in Siria lo sanno tutti. Daesh non rappresenta i siriani, neanche quelli sunniti. È invece uno strumento che sta cercando di ridisegnare gli equilibri del Paese per fare gli interessi dei suoi mandanti, che sono, non a caso, anche i luoghi di provenienza di una larga fetta dei loro guerriglieri: Arabia Saudita e Qatar. A noi cristiani fu fin da subito evidente la minaccia, tanto che quando nel 2013 il mondo era sul punto di bombardare la Siria a difesa del nostro presidente intervenne la chiesa Damasco, consapevole che una sua sconfitta avrebbe significato anche la fine delle comunità cristiane in Siria. Non sarebbero mai sopravvissute alla furia di Daesh.

E’ per questo che molti cristiani si sono uniti alle truppe del regime per combattere quelle del sedicente califfo?
Sì. Ogni cristiano è stato libero di compiere la propria scelta e in molti hanno deciso di combattere per difendere il nostro governo. Mio fratello, per esempio, è oggi al fronte e combatte a fianco di altri cristiani, di wahabiti, di sciiti. La composizione dell’esercito regolare siriano rispecchia quella della società: i battaglioni sono misti e senza distinzioni religiose.

Tu invece hai deciso di riparare in Germania. Come hai maturato questa scelta?
E’ stata una decisione presa in famiglia. Un figlio combatte, l’altro va avanti con gli studi. Da Damasco sono andato a Beirut, dove sono stato ricevuto all’ambasciata tedesca. Dopo una lunga trafila di pratiche burocratiche ho ottenuto il premesso per continuare gli studi in Germania. Le pratiche burocratiche sono state lunghissime e difficili, è per questo che molti siriani preferiscono arrivare in Europa illegalmente. È più semplice e rapido (anche se più pericoloso) e una volta arrivati si sa che si riceveranno vitto, alloggio e assistenza dal governo. Per chi arriva legalmente non è così, bisogna invece lavorare sodo per pagarsi tutto autonomamente.

Com’è la vita per i siriani stabilitisi in Germania?
E’ piuttosto difficile, soprattutto perché il futuro è molto incerto. Nonostante chi sia arrivato illegalmente riceva vitto, alloggio e soldi dal governo e abbia diritto all’assistenza sanitaria l’incertezza per il futuro rende tutto più difficile. E’ evidente a tutti noi che il governo tedesco non abbia un piano per noi e che non voglia offrirci no imporci alcun modello di società. Mentre noi siriani sogniamo le nostre case ricordiamo la Siria come il luogo più bello del mondo, sembra invece che i tedeschi siano attratti da tutto ciò che viene da lontano e che invece disprezzino tutto ciò che è tedesco. Noi siriani ci troviamo ad affacciarci su una società che non vuole essere tale e non vuole proporci dei valori propri ai quali aderire. Ciò rende tutto più difficile e confusionario e contribuisce a far perdere la strada a molte persone.

Secondo il Ministro alle Politiche Europee Michael Roth la Germania non vuole offrire nessun modello di società forte, ma dei percorsi umani e lavorativi individuali all’interno di una società democratica. Tra 20 anni, dice, i nuovi arrivati saranno stati sufficientemente formati per avere successo nel mercato tedesco…
Molti siriani vorrebbero capire come sia possibile prevedere cosa succederà tra così tanto tempo e cosa offrirà il mercato tra 20 anni. Per molti queste sono solo promesse che si teme non verranno mai realizzate. Per adesso le uniche misure che sono state introdotte sono dei mini jobs in cui gli ospiti di alcuni centri di accoglienza lavorano per un compenso di 80 centesimi all’ora, cosa che è ben di sotto alle aspettative della tanto sognata Germania. Tra i profughi ci sono anche tante persone altamente qualificate, che in Siria formavano la classe media. Anche loro vivono gli stessi problemi di tutti gli altri, perché il mercato e l’attitudine al lavoro in Europa sono molto diverse che da noi. L’integrazione umana e lavorativa è una cosa molto difficile e fino ad oggi il governo tedesco ha mostrato chiaramente di non avere alcuna strategia a proposito. E per questo molti profughi potrebbero prendere una cattiva strada.


Per approfondire: La tragedia dei profughi dimenticati


La maggior parte dei profughi siriani fuggono dai bombardamenti delle truppe di Assad. Molti di loro, di conseguenza, sono portati a simpatizzare con i nemici di Assad, tra i quali c’è anche l’Isis. C’è il rischio che tra i profughi in Germania si nascondano dei terroristi?
Sì, il rischio c’è. Le autorità tedesche sono completamente impreparate a controllare questo fenomeno, non hanno sufficiente personale competente per capire da dove possa provenire il pericolo. In assenza di una strategia e di un modello di società al quale aderire c’è il rischio che molti di loro cerchino un’identità altrove, magari all’interno dei gruppi di musulmani radicali che ci sono in Germania. Ci sono già stati dei casi in cui questo ricongiungimenti sono stati appurati e tutto ciò è molto rischioso perché sono nelle condizioni di creare una rete molto ampia e potenzialmente pericolosa.



@luca_steinmann1
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Nome in codice: Decapitazione. Ecco il piano per uccidere Kim


Il "programma operativo 5015" ideato da Usa e Sudcorea Intelligence e armi per eliminare il dittatore di Pyongyang


Gian Micalessin - Lun, 04/09/2017 - 07:59

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Il suo nome in codice è «Piano Operativo 5015», ma per i pochi che hanno potuto visionarlo è semplicemente il «progetto decapitazione», un piano per far fuori in un colpo solo sia il supremo leader Kim Jong-un e i suoi generali, sia i centri di comando, i siti nucleari e le postazioni missilistiche di Pyongyang.


Messo a punto nel 2015 per rispondere a provocazioni «intollerabili», come l'esperimento nucleare di ieri, il «Piano 5015» si basa sull'uso combinato di forze speciali e armamenti ad altissima tecnologia in grado di causare distruzione radicali, ma altamente selettive e concentrate. Tra questi anche ordigni nucleari miniaturizzati capaci di penetrare in profondità nel sottosuolo e disintegrare sia i bunker sotterranei utilizzati per lo sviluppo delle armi atomiche, sia quelli in cui vivono e operano il supremo leader e i suoi più stretti collaboratori. Il piano, firmato nel 2015 dal Capo di Stato Maggiore sud coreano generale Choi Yoon-hee e dal generale Curtis Scaparotti, responsabile, al tempo, del comando militare combinato Usa-Corea Del Sud, è ovviamente super-segreto, ma certe sue parti, sufficienti a comprenderne la micidiale portata offensiva, sono state fatte trapelare da alcuni generali delle forze armate di Seul preoccupati per le imprevedibili conseguenze in caso di mancato raggiungimento degli obbiettivi designati. Tra gli scarni, ma significativi dettagli vi è proprio la caratteristica «preventiva» del piano, ovvero la possibilità di farlo scattare in assenza di un'autentica situazione di conflitto come prevedeva, invece, il precedente progetto operativo 5027.

Basato su un «ripiegamento» seguito da «riallineamento» e «reazione» il 5027 era sostanzialmente un piano di risposta ad un aggressione convenzionale. Il «Piano 5015» basato sul concetto operazionale delle «4 D» prevede l'«individuazione» (detecting), la «disgregazione» (disrupting), la «distruzione» (destroying) e la «difesa» (defending) dalle minacce simmetriche e asimmetriche di Pyongyang. L'avvio prevede l'infiltrazione di un nutrito contingente di forze speciali americane e sud coreane nel cuore del sistema militare nemico per individuarne con precisione gli obbiettivi designati. A quel punto - mandati in tilt i sistemi di comunicazione e i computer nord coreani con attacchi cibernetici e azioni di guerra elettronica entrerebbero in gioco i missili «cruise», i caccia F22 e i bombardieri B-2 incaricati di neutralizzare siti nucleari, postazioni missilistiche e centri di comando. I centri di comando sotterranei, i presunti rifugi di Kim Jong Un e i siti nucleari verrebbero colpiti con micro testate atomiche in grado di contenere nel sottosuolo la dispersione radioattiva garantendo però il totale annientamento delle strutture e degli occupanti.

La «difesa», prevista al quarto punto, servirebbe a contenere eventuali contrattacchi messi a segno dalle formazioni della Corea del Nord ancora in grado di operare dopo le prime tre fasi del piano. Proprio per questo suo carattere particolarmente aggressivo il 5015 è stato descritto da una fonte militare di Seul come un progetto per la «decapitazione preventiva» del supremo leader Kin Jongun e della sua catena di comando. Resta da vedere se le autorità di Seul avranno mai il coraggio di autorizzarne la messa in opera. Come ogni piano militare anche il 5015 si basa infatti su una perfetta intelligence, ovvero su una meticolosa e precisa individuazione degli obbiettivi. Un'intelligence carente rischia invece di renderlo assolutamente inefficace garantendo non solo la sopravvivenza di Kim Jong-un e del suo regime, ma anche l'eventualità un devastante secondo colpo capace di causare decine di migliaia di vittime americane e sudcoreane.
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Corea del Nord, Onu convoca Consiglio di sicurezza. Seul simula attacco, registrati segnali di un nuovo lancio di Kim

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La Corea del Sud registra segnali relativi alla preparazione di un lancio di un missile balistico da parte di Pyongyang. In un'esercitazione simula l'attacco al sito nucleare di Kim Jong-Un. Lunedì alle ore 16 italiane riunione d'emergenza al Palazzo di Vetro. Il capo del Pentagono Mattis: "Non vogliamo annientare la Corea, ma potremmo farlo"

di F. Q. | 4 settembre 2017

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 196


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La Corea del Sud registra segnali relativi alla preparazione di un lancio di un missile balistico da parte della Corea del Nord che domenica ha compiuto il suo sesto test nucleare. Lo riporta l’agenzia Yonhap, che riferisce anche di un’esercitazione condotta dalle forze armate di Seul per simulare un attacco contro una base nucleare di Pyongyang, con l’utilizzo di caccia F15 e di un missile balistico. Intanto è in programma alle ore 10 di lunedì, ore 16 italiane, una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Il nuovo test in programma potrebbe riguardare un missile intercontinentale (Icbm), riporta l’agenzia sudcoreana. Il ministero della Difesa di Seul ha inoltre misurato l’ultimo test nucleare della Corea del Nord, considerato il più potente, a 50 chilotoni. Nell’esercitazione di Seul invece è stato utilizzato il missile Hyunmoo-2A e missili a lungo raggio aria-terra, che secondo il comunicato dello stato maggiore interarmi “hanno tutti accuratamente raggiunto i loro obiettivi“. Gli obiettivi simulati sono stati individuati nel Mar del Giappone alla stessa distanza del sito per i test nucleari nordcoreano di Punggye-ri.

La riunione del Consiglio di Sicurezza Onu è stata voluta dall’ambasciatrice americana, Nikki Haley, insieme agli ambasciatori giapponese, francese, inglese e sud coreano. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha condannato il test nucleare sotterraneo della Corea del Nord. In una dichiarazione, il suo portavoce ha ribadito la richiesta a Kim Jong-un “di cessare tali atti e di rispettare pienamente i propri obblighi internazionali in base alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza”. “Questo atto è un’altra grave violazione degli obblighi internazionali della Corea del Nord e pregiudica gli sforzi internazionali di non proliferazione e disarmo”, ha dichiarato il portavoce Dujarric, aggiungendo che si tratta anche di un atto “profondamente destabilizzante per la sicurezza regionale”.

“Abbiamo molte opzioni militari”, ha detto il capo del Pentagono, Jim Mattis, assicurando che ci sarà una “massiccia risposta” militare a qualsiasi minaccia agli Stati Uniti, inclusa Guam. La risposta sarà “imponente, una risposta efficace e schiacciante“, afferma Mattis. “Non puntiamo al totale annientamento di un paese, la Corea del Nord, ma abbiamo molte opzioni per farlo” aggiunge.
UncleTom
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Corea del Nord, Onu convoca Consiglio di sicurezza. Seul simula attacco, registrati segnali di un nuovo lancio di Kim

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La Corea del Sud registra segnali relativi alla preparazione di un lancio di un missile balistico da parte di Pyongyang. In un'esercitazione simula l'attacco al sito nucleare di Kim Jong-Un. Lunedì alle ore 16 italiane riunione d'emergenza al Palazzo di Vetro. Il capo del Pentagono Mattis: "Non vogliamo annientare la Corea, ma potremmo farlo"

di F. Q. | 4 settembre 2017

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La Corea del Sud registra segnali relativi alla preparazione di un lancio di un missile balistico da parte della Corea del Nord che domenica ha compiuto il suo sesto test nucleare. Lo riporta l’agenzia Yonhap, che riferisce anche di un’esercitazione condotta dalle forze armate di Seul per simulare un attacco contro una base nucleare di Pyongyang, con l’utilizzo di caccia F15 e di un missile balistico. Intanto è in programma alle ore 10 di lunedì, ore 16 italiane, una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Il nuovo test in programma potrebbe riguardare un missile intercontinentale (Icbm), riporta l’agenzia sudcoreana. Il ministero della Difesa di Seul ha inoltre misurato l’ultimo test nucleare della Corea del Nord, considerato il più potente, a 50 chilotoni. Nell’esercitazione di Seul invece è stato utilizzato il missile Hyunmoo-2A e missili a lungo raggio aria-terra, che secondo il comunicato dello stato maggiore interarmi “hanno tutti accuratamente raggiunto i loro obiettivi“. Gli obiettivi simulati sono stati individuati nel Mar del Giappone alla stessa distanza del sito per i test nucleari nordcoreano di Punggye-ri.

La riunione del Consiglio di Sicurezza Onu è stata voluta dall’ambasciatrice americana, Nikki Haley, insieme agli ambasciatori giapponese, francese, inglese e sud coreano. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha condannato il test nucleare sotterraneo della Corea del Nord. In una dichiarazione, il suo portavoce ha ribadito la richiesta a Kim Jong-un “di cessare tali atti e di rispettare pienamente i propri obblighi internazionali in base alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza”. “Questo atto è un’altra grave violazione degli obblighi internazionali della Corea del Nord e pregiudica gli sforzi internazionali di non proliferazione e disarmo”, ha dichiarato il portavoce Dujarric, aggiungendo che si tratta anche di un atto “profondamente destabilizzante per la sicurezza regionale”.

“Abbiamo molte opzioni militari”, ha detto il capo del Pentagono, Jim Mattis, assicurando che ci sarà una “massiccia risposta” militare a qualsiasi minaccia agli Stati Uniti, inclusa Guam. La risposta sarà “imponente, una risposta efficace e schiacciante“, afferma Mattis. “Non puntiamo al totale annientamento di un paese, la Corea del Nord, ma abbiamo molte opzioni per farlo” aggiunge.



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serenino

13 minuti fa

Una convocazione dietro l'altra , ultimamente l'ONU , non fa altro che riunire consigli di sicurezza che lasciano tutto come trovano. Kim Jong-un il folle, continua imperterrito nel suo progetto squilibrato aumentando le provocazioni sempre di piu', il resto del pianeta vive con il fiato sospeso, e nessuno ha la determinazione, la volonta' la voglia di sedarlo . Credo con convinzione che questo Putto sia manovrato scientificamente e con abilita da un invisibile personaggio , questi si veramente pericoloso per la pace mondiale . La Corea del Nord sembra prestarsi bene a ripetere Cuba del 1962 .stesse condizioni politiche .Unica differenza e non secondaria ,allora i due presidenti russo/ Americano, erano persone equilibrate e Fidel Castro un vero politico. Oggi due disturbati presidenti e una disadattata marionetta tentano di scimmiottare quei fatti , ma senza averne equilibrio e capacita'
UncleTom
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Corea del Nord, Putin e Xi Jinping accordo per “risposta adeguata”. Ue: “Test nucleare violazione inaccettabile”

di F. Q. | 3 settembre 2017

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L'ultima sfida di Kim Jong-un rappresenta "una nuova dimensione di provocazione" hanno dichiarato il presidente francese, Emmanuel Macron, e la cancelliera tedesca, Angela Merkel: "Oltre al Consiglio di sicurezza Onu, anche l’Unione europea deve agire"
di F. Q. | 3 settembre 2017
35
• 668


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Russia, Cina, Ue e non solo. Il test nucleare condotto dalla Corea del Nord spaventa e provoca le reazioni non solo di Stati Uniti (Trump ha convocato d’urgenza il Consiglio di Sicurezza Nazionale), Giappone e Corea del Sud. L’ultima sfida di Kim Jong-un rappresenta “una nuova dimensione di provocazione” hanno concordato il presidente francese, Emmanuel Macron, e la cancelliera tedesca, Angela Merkel: “Oltre al Consiglio di sicurezza Onu, anche l’Unione europea deve agire”. La cancelliera e il presidente hanno espresso il loro appoggio a un rafforzamento delle sanzioni dell’Ue. L’Italia e la Germania “condividono la posizione della Francia sulla necessità di una reazione internazionale forte di fronte al potenziale ulteriore sviluppo del programma nucleare nordcoreano. Tale reazione deve concretizzarsi soprattutto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e all’Ue, che dovrà adottare nuove sanzioni nei confronti di Pyongyang”. La Gran Bretagna condanna come “irresponsabile” e “sconsiderato” l’ultimo test e avverte, tramite il ministro degli Esteri Boris Johnson, che “tutte le opzioni sono sul tavolo“.
Il presidente cinese Xi Jinping e quello russo Vladimir Putin – che aveva avvertito: “Siamo sull’orlo di un conflitto di vasta scala – hanno concordato sulla necessità di “affrontare appropriatamente” l’ultimo test nucleare. Secondo l’agenzia Nuova Cina i due leader, incontratisi a Xiamen per il summit Brics, hanno anche convenuto sulla necessità di “perseguire l’obiettivo della denuclearizzazione della penisola” e di mantenere comunicazioni e coordinamento molto stretti “per affrontare la nuova situazione”. Per Putin, comunque per la Corea del Nord serve una soluzione “esclusivamente politica e diplomatica” come ha detto in una conversazione telefonica con il premier giapponese Shinzo Abe.
“La Corea del Nord ha effettuato un altro test nucleare. Questa è, ancora una volta, una violazione diretta e inaccettabile degli obblighi internazionali sulle armi nucleari stabilite da diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – dice l’Alto Rappresentante della politica estera europea, Federica Mogherini – si tratta di una grave provocazione, una seria minaccia alla sicurezza regionale e internazionale e una imponente sfida al sistema mondiale di non proliferazione. Il messaggio dell’Ue è chiaro: la Corea del Nord deve abbandonare i suoi programmi nucleari, missilistici e per la produzioni di armi di distruzioni di massa in un modo totale, irreversibile e verificabile”, ha concluso Mogherini.

Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov si è detto “estremamente preoccupato” per il nuovo test che merita la “condanna più forte”. La leadership nordcoreana sta creando una “grave minaccia” per la regione, ha aggiunto Lavrov mettendo in guardia sul fatto che proseguire su questa linea porterà a “gravi conseguenze“. “In questo momento è un imperativo restare calmi e astenersi da qualsivoglia azione che porti ad un’ulteriore escalation della tensione”, si legge ancora nella dichiarazione di Lavorv sul sito del ministero degli Esteri russo. Quindi, l’invito di Lavrov alle parti al ritorno immediato al dialogo e ai negoziati come unica via possibile per una soluzione globale dei problemi della penisola coreana. Condanna con forza anche da parte di Pechino.
L’India ha deplorato definendolo “molto preoccupante”, il nuovo test “in violazione dei suoi impegni internazionali”. In un comunicato il governo indiano sostiene che “questo va contro l’obiettivo della denuclearizzazione della penisola coreana, accolto dalla stessa Repubblica democratica popolare di Corea”. Rivolgiamo un appello alla Corea del Nord, si dice ancora, “ad astenersi da simili azioni che hanno un impatto negativo sulla pace nella regione ed oltre”. L’India, conclude la dichiarazione, “conferma anche di essere preoccupata per la proliferazione delle tecnologie nucleari e missilistiche che ha avuto un impatto negativo sulla sua sicurezza nazionale”.
Anche la “Nato è preoccupata dalle azioni destabilizzanti di Pyongyang, che rappresentano una minaccia alla sicurezza regionale e internazionale. La Corea del Nord – si legge in una nota il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg – cessi immediatamente tutte le attività nucleari e balistiche esistenti, in modo completo, verificabile e irreversibile, e riprenda il dialogo con la comunità internazionale”.
Anche la Danimarca dichiara “illegale” il test di Pyongyang e convoca l’ambasciatore nordcoreano – che esercita il suo mandato a partire dalla Svezia – per fargli parte delle preoccupazioni del paese. La Corea del nord – si legge in un tweet del ministro degli Esteri danese, Anders Samuelsen – “deve smetterla con il suo comportamento destabilizzante e le violazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu“. La Danimarca è favorevole ad esercitare “il massimo della pressione per ottenere che la Corea del nord fermi il suo programma missilistico e ritorni al tavolo negoziale”.
di F. Q. | 3 settembre 2017
UncleTom
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Re: La Terza Guerra Mondiale

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COREA DEL SUD
circa 9 ore fa
Corea del Nord:esercitazioni militari a Seul in risposta al test di Pyongyang

La Corea del sud non resta a guardare e risponde con esercitazioni militari alla provocazione senza precedenti di Pyongyang che ha portato a termine il test nucleare piu’ potente di sempre: ad esplodere nel sottosuolo nord coreano, provocando un sisma di grado 6.3 Richter, è stato un ordigno da 100 kilotoni, 5 volte piu’ potente della bomba lanciata su Nagasaki dagli Stati Uniti nell’agosto del 1945.
L’obiettivo dichiarato di Kim yong Un è di armare, nel piu’ breve tempo possibile, un supermissile intercontinentale con ordigni all’idrogeno come quello testato con successo domenica. A precisarlo l’agenzia ufficiale nordcoreana KCNA.
Si tratta del sesto test nucleare condotto da Pyongyang dall’inizio della presidenza Trump. Un atto destinato a rendere ancora piu’ tesi i rapporti nella regione e all’interno della comunità internazionale, allarmatissima per gli scenari aperti dall’iniziativa del dittatore nordcoreano.

http://it.euronews.com/2017/09/04/corea ... -pyongyang
UncleTom
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Re: La Terza Guerra Mondiale

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4 set 2017 16:18
CICCIO KIM MINACCIA PURE PECHINO

- UN MISSILE NORD COREANO HA FILMATO AMPI SPAZI DI TERRITORIO CINESE

- RAPPRESAGLIA PER IL TENTATIVO (FALLITO) DI DEPORLO

- NEL 2012 LO ZIO E TUTORE DEL DITTATORE AVEVA OFFERTO LA SUA TESTA ALLA CINA PER SOSTITUIRLO CON IL FRATELLASTRO: MORTI TUTT’E DUE




Guido Olimpio e Guido Santevecchi per il Corriere della Sera


Per decenni i cinesi hanno ripetuto che il rapporto con la Nord Corea era come quello tra le labbra di una persona: «Se quelle superiori si allontanassero da quelle inferiori la bocca soffrirebbe il freddo». Ma da quando c' è Kim Jong-un al potere il freddo è arrivato.

Questa è una storia che comincia con un complotto abortito per rovesciare Kim e si conclude, per ora, con il filmato diffuso da una telecamera su un missile che ha ripreso minacciosamente anche il territorio cinese. Il «Corriere» ne ha parlato con diverse fonti, alcune anonime perché militari.

Primo atto: il 21 agosto 2012 Jang Sung-thaek, zio e tutore di Kim da pochi mesi al potere, andò a Pechino a rapporto dall' allora presidente cinese Hu Jintao. Zio Jang aveva una proposta: deporre l' inaffidabile Kim e sostituirlo con il fratellastro Kim Jong-nam. Un colpo di palazzo a Pyongyang con la benedizione dei cinesi. Il fratellastro viveva da tempo tra Macao e Pechino «tenuto di riserva» dai servizi cinesi. Hu prese tempo, erano i giorni già drammatici che precedevano il 18° Congresso del Pc che doveva incoronare Xi Jinping.

Quella conversazione fu intercettata da Zhou Yongkang, membro del Politburo di Pechino e capo dell' apparato di sicurezza. Il funzionario, che era l' uomo di collegamento con Pyongyang e aveva interessi anche commerciali nel Paese vassallo, informò Kim Jong-un. Il progetto saltò - precisa l' agenzia nipponica Nikkei -, ma pochi mesi dopo finì la carriera di Zhou, arrestato per ordine di Xi e condannato all' ergastolo per corruzione e «rivelazione di segreti statali».

Nessuno ha mai spiegato quali fossero quei segreti naturalmente, ma ora il sospetto è forte. Pochi mesi ancora e a fine 2013 si concluse anche la carriera e la vita di zio Jang: arrestato in pubblico e fucilato. Il fratellastro Kim Jong-nam è morto a febbraio, ucciso da veleno chimico spruzzatogli in faccia all' aeroporto di Kuala Lumpur. Ora, secondo alcune indiscrezioni, questo è stato il secondo tentativo.

Già nel 2012 - ossia lo stesso anno della manovra cinese - Pyongyang avrebbe invitato il fratellastro a rientrare e, davanti all' ennesimo rifiuto, avrebbe cercato di eliminarlo. Da quel momento i servizi del Nord avrebbero accresciuto la sorveglianza su Kim Jong-nam temendo che fosse sempre al centro di manovre appoggiate dall' esterno, magari con intromissioni - con piani separati - di Pechino, Tokyo, Washington. Vicenda seguita da dettagli su possibili contatti tra la vittima e la Cia.

Torniamo al 2017. La Corea del Nord ha programmato tre suoi esperimenti proprio in concomitanza con importanti appuntamenti internazionali in Cina. A marzo un missile mentre Xi riceveva il segretario di Stato americano Rex Tillerson. Il 14 maggio, mentre Xi ospitava leader e ministri, Pyongyang lanciò un missile nuovo che si innalzò per 2 mila km volando per mezz' ora. Un' altra semplice coincidenza? Ieri Xi inaugurava il vertice dei Brics (Brasile, India, Cina, Russia e Sud Africa) mentre nel poligono di Punggye-ri esplodeva una bomba nucleare. Cheng Xiaohe, professore dell' università Renmin non ha dubbi: la Nord Corea ha voluto rovinare l' atmosfera del vertice e «questo conduce la crisi a un nuovo stadio».

Ma c' è un altro fatto, forse la sfida più grande. Domenica 21 maggio Kim ha osservato la prova di un Pukguksong-2. Sul missile era stata collocata una telecamera che ha trasmesso immagini della terra. Analizzandole gli esperti si sono resi conto che l' occhio elettronico sul vettore inquadrava a lungo il territorio verso Ovest: la Cina. Si vedeva nitidamente la penisola di Liaodong, con le città di Dalian e Lushun. «Si sarebbe vista anche Pechino se quel giorno non ci fossero state fitte nuvole», dice una fonte.

Il messaggio sembra chiaro: «Kim vuole minacciare anche Xi Jinping». Dice al Corriere il professore della Renmin Shi Yinhong, che è anche consulente del governo: «Non solo quel filmato ha fatto conoscere l' ostilità nordcoreana nei confronti della Cina, ci sono molti altri esempi che non posso citare. Anche se al momento non vediamo una minaccia militare diretta, il rischio è che la Nord Corea diventi un nemico permanente della Cina». A quel punto, il piano che fu di zio Jang potrebbe tornare sul tavolo di Xi, sempre che sia mai stato tolto.




Ma alla fine possiamo stare tranquilli e dormire tra due guanciali.

Ci pensa in senatore di Farsa Italia, Antonio Razzi, come riporta lo stupidario dell’Espresso:



Stupidario



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