Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
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Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
In questo marasma politico durato decenni e decenni che non ha visto alcun discorso politico serio che mettesse mano una volta per tutte i disguidi fra Regione e Regione, come posso non accettare l'invito di chi mi chiede il mio voto?
Voto SI per l'autonomia poiché non vedo a tutt'oggi segni di cambiamenti quei cambiamenti che da settant'anni promettono.
Non avendo altre vite non son più disposto ad accettare tutto questo andazzo e visto che sono costretto a navigare a vista che altro potrei fare?
un salutone
Voto SI per l'autonomia poiché non vedo a tutt'oggi segni di cambiamenti quei cambiamenti che da settant'anni promettono.
Non avendo altre vite non son più disposto ad accettare tutto questo andazzo e visto che sono costretto a navigare a vista che altro potrei fare?
un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
Caro pancho,
anche in Lombardia si voterà prossimamente per l’autonomia, ma io, diversamente, non andrò votare.
E se negli ultimi giorni risultasse che la Lega Nord avesse qualche probabilità di vincere, allora andrò a votare e voterò NO.
Riporto di seguito le motivazioni per cui mi oppongo affinché la Lega Nord possa prendere in mano il governo di questa Regione in forma autonoma.
Inchiesta
Pedemontana, l'autostrada più cara d'Italia è il simbolo dei fallimenti della Lega
L'infrastruttura è un capriccio politico costato 5 miliardi ai contribuenti e ora ne è stato chiesto il fallimento. Nel tratto già aperto il traffico è metà del previsto. Mentre i finanziatori privati sono svaniti nel nulla
DI GIANFRANCESCO TURANO
28 luglio 2017
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Le infrastrutture sono un sottogenere della commedia all’italiana. Si ride con l’amaro in bocca da nord a sud. Non si è ancora conclusa la saga ventennale della Salerno-Reggio Calabria che la scena si sposta verso le brume padane con un micidiale trittico di fallimenti: Brebemi, Teem e Pedemontana lombarda, l’autostrada pubblica più cara della storia d’Italia al costo, per ora, di 57,8 milioni di euro al chilometro in un territorio molto urbanizzato ma non particolarmente complesso sotto il profilo ingegneristico.
Per la Pedemontana la parola fallimento va intesa in ogni senso, incluso quello giuridico. La Procura di Milano ha chiesto all’azionista di maggioranza, la Regione, di staccare la spina su un’iniziativa che doveva vedere i privati in prima fila e che è arrivata a un conto da 5 miliardi di euro, tutti a carico del contribuente. Da lunedì 24 luglio, i pedemontani presenteranno le loro controdeduzioni e, s’intende, respingeranno ogni addebito a differenza del contribuente citato sopra che sarà tosato nel più puro stile Roma ladrona dalle addizionali del governatore leghista Roberto Maroni.
Dietro il processo c’è molto di più di una questione contabile. Da Varese alla bergamasca, da Como alla bassa Brianza, la Pedemontana attraversa il cuore e la pancia della Padania. Il varesino Maroni, avviato verso il referendum sull’autonomia del 22 ottobre, ha detto di volersi ricandidare in febbraio per potere inaugurare il tracciato completo nel 2021. Non è colpa sua se i soldi sono finiti, i finanziatori privati sono svaniti nel nulla e l’autostrada non ha aperto per Expo 2015. Non è colpa sua se la gente preferisce ingorgare le vecchie strade pur di non pagare.
In realtà, anche se le previsioni di traffico fossero state corrette, un investitore privato non si sarebbe mai infilato in un tunnel di costi infiniti. Per la Pedemontana si sono fatte le cose in grande. Non solo gallerie, ma anche trincee per fare scorrere il traffico al di sotto del livello della campagna in modo ecocompatibile, 22 mila espropri a prezzi di mercato e tante opere compensative a beneficio dei sindaci nei luoghi di interferenza del tracciato con i centri urbani.
Fin qui c’è poco da ridere, si dirà. Giusto. Allora incominciamo con lo spettacolo. La Pedemontana lombarda è la prima autostrada italiana che applica il sistema free-flow. Niente caselli. Basta il telepass, il conto targa o l’app. Sulle tangenziali di Varese e di Como non si sarebbe dovuto pagare pedaggio. Non è stato possibile mantenere l’impegno se non nell’anno semigiubilare dell’Expo. Con le elezioni in arrivo a febbraio dell’anno prossimo, Maroni si è impegnato a ripristinare i passaggi gratuiti sulle due tangenziali, non si capisce in base a quale piano di sostenibilità finanziaria.
La cosa certa, per il momento, è che chiunque prenda i 30 chilometri della Pedemontana paga la tariffa più alta del territorio nazionale: 21 centesimi di euro al chilometro per le automobili. La costosissima e desertificata Brebemi ne costa 18, la Teem (tangenziale esterna est Milano) ne chiede 19. Sulla Milano-Roma si paga un terzo (7 centesimi al chilometro).
Questo ha comportato un livello di traffico giornaliero pari a metà del previsto (31 mila veicoli invece di 62 mila). Circa il 25 per cento non paga. Le targhe svizzere guidano la lista degli evasori (2 milioni di veicoli complessivi). Ma niente paura. La Pedemontana ha concluso un accordo con il Touring club del Canton Ticino e, a beneficio di chi scansa la dogana di Ponte Chiasso e preferisce il valico di Gaggiolo, ha piazzato una serie di cartelli per suscitare negli elvetici il desiderio di mettersi in regola. Altrimenti? Altrimenti ci arrabbiamo, avrebbe detto il compianto Bud Spencer. La Pedemontana ha annunciato un’azione di recupero pedaggi con la spedizione di 2 milioni di lettere ai furbetti che hanno tradotto l’espressione free-flow con “scorro gratis”. Un quarto circa delle lettere è stato già inviato. Il che non significa che sia arrivato.
Lo scorso inverno poco dopo le ferie natalizie negli acquitrini intorno ad Albairate e a Rosate, paesi della cintura ovest milanese ancora verdi e ricchi di boschi, sono stati trovati 40 chilogrammi di solleciti che la Pedemontana aveva affidato alla società di spedizioni palermitana Smmart post. A 10 grammi a lettera fanno 4000 buste. La Pedemontana ha immediatamente rescisso il contratto con Smmart post e ha annunciato un’azione di risarcimento. Resta il fatto che il recupero crediti appare problematico. La concessionaria ha chiuso il 2016 con 24 milioni di incassi dal free-flow contro 16,4 milioni di costi di gestione, metà dei quali vengono dal costo dei 117 dipendenti (5 per chilometro aperto al traffico), più 10 milioni di oneri finanziari dovuti ai prestiti dei soci di minoranza Intesa e Ubi, per un risultato di bilancio negativo per 7,8 milioni (-22,6 milioni nel 2015).
Se Maroni manterrà la promessa di rendere gratuite le due tangenziali di Varese e Como, dove passano 17 mila veicoli al giorno, rimarranno solo i 14 mila dell’A36, che porta da Lomazzo a Cassano Magnago, il paese di Umberto Bossi. Questi dati sono la pietra tombale per ogni ipotesi di ingresso da parte di quei capitali privati che, nello schema di project financing iniziale, dovevano farsi carico dei due terzi dell’opera.
La Caporetto di Beniamino Gavio sulla Brebemi è un dissuasore potente ma va detto che nella Pedemontana non ci ha mai creduto nessun imprenditore, salvo le banche garantite dai 450 milioni di euro di fondo di garanzia regionale. L’aumento di capitale da 267 milioni di euro deciso nel 2013, all’inizio della legislatura di Maroni, è stato sottoscritto soltanto dalla Regione (32 milioni). Per i rimanenti 235 milioni di euro si è passati da una proroga all’altra, per un totale di sei.
L’ultimo closing ha come limite il 31 gennaio 2018, a ridosso delle regionali dove Maroni potrebbe affrontare il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Al di là degli usi elettorali della nuova autostrada, un tempo concepita proprio per unire l’aeroporto varesotto di Malpensa con quello bergamasco di Orio, la Pedemontana è una coproduzione dell’intero schieramento politico. Fra le poche eccezioni figurano i grillini e Giuliano Pisapia, che, da sindaco di Milano, nel 2014 ebbe il suo momento di rivolta in stile fantozziano («la Pedemontana lombarda è una cagata pazzesca») prima di essere crocifisso in sala mensa dai leghisti, dai formigoniani al crepuscolo e dal segretario regionale democrat, il varesino Alessandro Alfieri, che oggi si concede qualche pacata forma di antagonismo («la Pedemontana è il simbolo del fallimento di Maroni»).
Anche Antonio Di Pietro si è lasciato andare a qualche critica. Il fondatore dell’Idv è presente nella sceneggiatura del cinepanettone pedemontano con un doppio ruolo. Venti anni fa era ministro delle Infrastrutture, entusiasta alla presentazione del progetto a fianco del plenipotenziario formigoniano Raffaele Cattaneo. Più di recente è stato presidente di Pedemontana benché per un solo anno, dal 2016 al 2017 dopo l’ex Poste Massimo Sarmi. Dallo scorso giugno l’ex pm di Mani Pulite ha ceduto il volante definendo l’opera “faraonica” ma ormai inevitabile. Il suo posto è stato preso da un altro presidente che alla Procura di Milano si muove come a casa sua. È Federico Maurizio D’Andrea, ex ufficiale della Guardia di Finanza a fianco di Saverio Borrelli e Gherardo Colombo, riconvertitosi in manager (Telecom, Olivetti, Sogei, organo di vigilanza del Sole 24 ore) e proprietario di una piccola quota nella Banca Galileo, istituto di credito a diffusione locale finanziato da imprenditori mantovani e bergamaschi.
Di Pietro e D’Andrea sono uniti nel contestare la linea dei magistrati Paolo Filippini, Giovanni Polizzi e Roberto Pellicano (da luglio capo a Cremona), gli stessi che hanno in mano l’inchiesta Infront. Secondo il management della Pedemontana, la continuità aziendale della società concessionaria non si è mai interrotta. Bisogna solo trovare i 3 miliardi circa che servono a completare l’opera. L’eutanasia suggerita dalla Procura sarebbe ad alto rischio. Nelle valutazioni di Di Pietro, uno stop costerebbe 1 miliardo di euro in contenziosi. È un po’ quello che si sente dire periodicamente del ponte sullo Stretto.
Come per il ponte fra Sicilia e continente, anche la catastrofe pedemontana è bipartisan. A destra c’è stato un tempo in cui ci si disputava il merito di avere portato a casa l’opera fra la coppia forzista-ciellina Formigoni-Cattaneo e il binomio leghista formato dall’ex viceministro alle Infrastrutture, il lecchese Roberto Castelli, e dallo stesso Maroni.
Ma hanno tifato per l’infrastruttura Antonio Bargone, sottosegretario dalemiano nel 1999 con Nerio Nesi ministro, il bersaniano Filippo Penati e il suo successore berlusconiano Guido Podestà, quando la Provincia di Milano controllava la società prima di cedere alla Regione la Milano-Serravalle. Né bisogna scordare il ruolo giocato dal ministero delle Infrastrutture con Pietro Lunardi e Altero Matteoli. Il ministro in carica, Graziano Delrio, all’inizio di luglio ha perso la pazienza. «Lo Stato non può essere un bancomat», ha detto davanti ai sindaci della provincia di Monza e Brianza. «Se l’opera è stata pensata con dimensioni di traffico sbagliate, noi o i cittadini non possiamo metterci i soldi. Ne abbiamo già stanziati tanti: 1,2 miliardi più 800 milioni di defiscalizzazione. Cerchiamo di andare avanti con quello che c’è».
«È la Lombardia a essere stanca di fare da bancomat allo Stato» ha replicato l’assessore regionale ai trasporti Alessandro Sorte, lo stesso che voleva collegare l’aeroporto di Orio al Serio e il centro di Bergamo con una funivia. La verità è che la Pedemontana è una delle puntate dell’epopea del general contractor e riproduce, in piccolo ma non troppo, lo schema dell’alta velocità ferroviaria con un tocco di federalismo lumbard in più.
Per Delrio, nemico dichiarato del sistema del general contractor, è una nemesi gestire un’opera che non condivide nello schema e che ha all’origine il pasticcio chiamato Cal, l’ente concedente formato 50/50 da Anas e dalla Ilspa durante il regno di Antonio Rognoni, arrestato per gli appalti dell’Expo a marzo del 2014 e condannato in primo grado due anni dopo.
Nemico di arbitrati e transazioni, Delrio deve accettare che l’impresa appaltatrice del lotto 2, austriaca Strabag, abbia ottenuto una revisione prezzi da 61 milioni di euro grazie a un accordo bonario fra gli avvocati Paolo Clarizia, Luigi Strano e Domenico Aiello, il legale di fiducia di Maroni. Proprio il professionista calabrese è tornato alle cronache per la parcella da 188 mila euro ottenuta nel processo della Regione contro l’ex governatore Formigoni e per la lombosciatalgia che ha causato una serie di rinvii al processo milanese contro Maroni per le nomine negli organismi dell’Expo. Da questo verdetto dipende il futuro politico del governatore. Il futuro della Pedemontana, invece, sembra già segnato. Un’incompiuta in più.
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• Pedemontana
• autostrade
• infrastrutture
• Roberto Maroni
• Lombardia
• Lega
© Riproduzione riservata 28 luglio 2017
http://espresso.repubblica.it/inchieste ... =HEF_RULLO
anche in Lombardia si voterà prossimamente per l’autonomia, ma io, diversamente, non andrò votare.
E se negli ultimi giorni risultasse che la Lega Nord avesse qualche probabilità di vincere, allora andrò a votare e voterò NO.
Riporto di seguito le motivazioni per cui mi oppongo affinché la Lega Nord possa prendere in mano il governo di questa Regione in forma autonoma.
Inchiesta
Pedemontana, l'autostrada più cara d'Italia è il simbolo dei fallimenti della Lega
L'infrastruttura è un capriccio politico costato 5 miliardi ai contribuenti e ora ne è stato chiesto il fallimento. Nel tratto già aperto il traffico è metà del previsto. Mentre i finanziatori privati sono svaniti nel nulla
DI GIANFRANCESCO TURANO
28 luglio 2017
Le infrastrutture sono un sottogenere della commedia all’italiana. Si ride con l’amaro in bocca da nord a sud. Non si è ancora conclusa la saga ventennale della Salerno-Reggio Calabria che la scena si sposta verso le brume padane con un micidiale trittico di fallimenti: Brebemi, Teem e Pedemontana lombarda, l’autostrada pubblica più cara della storia d’Italia al costo, per ora, di 57,8 milioni di euro al chilometro in un territorio molto urbanizzato ma non particolarmente complesso sotto il profilo ingegneristico.
Per la Pedemontana la parola fallimento va intesa in ogni senso, incluso quello giuridico. La Procura di Milano ha chiesto all’azionista di maggioranza, la Regione, di staccare la spina su un’iniziativa che doveva vedere i privati in prima fila e che è arrivata a un conto da 5 miliardi di euro, tutti a carico del contribuente. Da lunedì 24 luglio, i pedemontani presenteranno le loro controdeduzioni e, s’intende, respingeranno ogni addebito a differenza del contribuente citato sopra che sarà tosato nel più puro stile Roma ladrona dalle addizionali del governatore leghista Roberto Maroni.
Dietro il processo c’è molto di più di una questione contabile. Da Varese alla bergamasca, da Como alla bassa Brianza, la Pedemontana attraversa il cuore e la pancia della Padania. Il varesino Maroni, avviato verso il referendum sull’autonomia del 22 ottobre, ha detto di volersi ricandidare in febbraio per potere inaugurare il tracciato completo nel 2021. Non è colpa sua se i soldi sono finiti, i finanziatori privati sono svaniti nel nulla e l’autostrada non ha aperto per Expo 2015. Non è colpa sua se la gente preferisce ingorgare le vecchie strade pur di non pagare.
In realtà, anche se le previsioni di traffico fossero state corrette, un investitore privato non si sarebbe mai infilato in un tunnel di costi infiniti. Per la Pedemontana si sono fatte le cose in grande. Non solo gallerie, ma anche trincee per fare scorrere il traffico al di sotto del livello della campagna in modo ecocompatibile, 22 mila espropri a prezzi di mercato e tante opere compensative a beneficio dei sindaci nei luoghi di interferenza del tracciato con i centri urbani.
Fin qui c’è poco da ridere, si dirà. Giusto. Allora incominciamo con lo spettacolo. La Pedemontana lombarda è la prima autostrada italiana che applica il sistema free-flow. Niente caselli. Basta il telepass, il conto targa o l’app. Sulle tangenziali di Varese e di Como non si sarebbe dovuto pagare pedaggio. Non è stato possibile mantenere l’impegno se non nell’anno semigiubilare dell’Expo. Con le elezioni in arrivo a febbraio dell’anno prossimo, Maroni si è impegnato a ripristinare i passaggi gratuiti sulle due tangenziali, non si capisce in base a quale piano di sostenibilità finanziaria.
La cosa certa, per il momento, è che chiunque prenda i 30 chilometri della Pedemontana paga la tariffa più alta del territorio nazionale: 21 centesimi di euro al chilometro per le automobili. La costosissima e desertificata Brebemi ne costa 18, la Teem (tangenziale esterna est Milano) ne chiede 19. Sulla Milano-Roma si paga un terzo (7 centesimi al chilometro).
Questo ha comportato un livello di traffico giornaliero pari a metà del previsto (31 mila veicoli invece di 62 mila). Circa il 25 per cento non paga. Le targhe svizzere guidano la lista degli evasori (2 milioni di veicoli complessivi). Ma niente paura. La Pedemontana ha concluso un accordo con il Touring club del Canton Ticino e, a beneficio di chi scansa la dogana di Ponte Chiasso e preferisce il valico di Gaggiolo, ha piazzato una serie di cartelli per suscitare negli elvetici il desiderio di mettersi in regola. Altrimenti? Altrimenti ci arrabbiamo, avrebbe detto il compianto Bud Spencer. La Pedemontana ha annunciato un’azione di recupero pedaggi con la spedizione di 2 milioni di lettere ai furbetti che hanno tradotto l’espressione free-flow con “scorro gratis”. Un quarto circa delle lettere è stato già inviato. Il che non significa che sia arrivato.
Lo scorso inverno poco dopo le ferie natalizie negli acquitrini intorno ad Albairate e a Rosate, paesi della cintura ovest milanese ancora verdi e ricchi di boschi, sono stati trovati 40 chilogrammi di solleciti che la Pedemontana aveva affidato alla società di spedizioni palermitana Smmart post. A 10 grammi a lettera fanno 4000 buste. La Pedemontana ha immediatamente rescisso il contratto con Smmart post e ha annunciato un’azione di risarcimento. Resta il fatto che il recupero crediti appare problematico. La concessionaria ha chiuso il 2016 con 24 milioni di incassi dal free-flow contro 16,4 milioni di costi di gestione, metà dei quali vengono dal costo dei 117 dipendenti (5 per chilometro aperto al traffico), più 10 milioni di oneri finanziari dovuti ai prestiti dei soci di minoranza Intesa e Ubi, per un risultato di bilancio negativo per 7,8 milioni (-22,6 milioni nel 2015).
Se Maroni manterrà la promessa di rendere gratuite le due tangenziali di Varese e Como, dove passano 17 mila veicoli al giorno, rimarranno solo i 14 mila dell’A36, che porta da Lomazzo a Cassano Magnago, il paese di Umberto Bossi. Questi dati sono la pietra tombale per ogni ipotesi di ingresso da parte di quei capitali privati che, nello schema di project financing iniziale, dovevano farsi carico dei due terzi dell’opera.
La Caporetto di Beniamino Gavio sulla Brebemi è un dissuasore potente ma va detto che nella Pedemontana non ci ha mai creduto nessun imprenditore, salvo le banche garantite dai 450 milioni di euro di fondo di garanzia regionale. L’aumento di capitale da 267 milioni di euro deciso nel 2013, all’inizio della legislatura di Maroni, è stato sottoscritto soltanto dalla Regione (32 milioni). Per i rimanenti 235 milioni di euro si è passati da una proroga all’altra, per un totale di sei.
L’ultimo closing ha come limite il 31 gennaio 2018, a ridosso delle regionali dove Maroni potrebbe affrontare il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Al di là degli usi elettorali della nuova autostrada, un tempo concepita proprio per unire l’aeroporto varesotto di Malpensa con quello bergamasco di Orio, la Pedemontana è una coproduzione dell’intero schieramento politico. Fra le poche eccezioni figurano i grillini e Giuliano Pisapia, che, da sindaco di Milano, nel 2014 ebbe il suo momento di rivolta in stile fantozziano («la Pedemontana lombarda è una cagata pazzesca») prima di essere crocifisso in sala mensa dai leghisti, dai formigoniani al crepuscolo e dal segretario regionale democrat, il varesino Alessandro Alfieri, che oggi si concede qualche pacata forma di antagonismo («la Pedemontana è il simbolo del fallimento di Maroni»).
Anche Antonio Di Pietro si è lasciato andare a qualche critica. Il fondatore dell’Idv è presente nella sceneggiatura del cinepanettone pedemontano con un doppio ruolo. Venti anni fa era ministro delle Infrastrutture, entusiasta alla presentazione del progetto a fianco del plenipotenziario formigoniano Raffaele Cattaneo. Più di recente è stato presidente di Pedemontana benché per un solo anno, dal 2016 al 2017 dopo l’ex Poste Massimo Sarmi. Dallo scorso giugno l’ex pm di Mani Pulite ha ceduto il volante definendo l’opera “faraonica” ma ormai inevitabile. Il suo posto è stato preso da un altro presidente che alla Procura di Milano si muove come a casa sua. È Federico Maurizio D’Andrea, ex ufficiale della Guardia di Finanza a fianco di Saverio Borrelli e Gherardo Colombo, riconvertitosi in manager (Telecom, Olivetti, Sogei, organo di vigilanza del Sole 24 ore) e proprietario di una piccola quota nella Banca Galileo, istituto di credito a diffusione locale finanziato da imprenditori mantovani e bergamaschi.
Di Pietro e D’Andrea sono uniti nel contestare la linea dei magistrati Paolo Filippini, Giovanni Polizzi e Roberto Pellicano (da luglio capo a Cremona), gli stessi che hanno in mano l’inchiesta Infront. Secondo il management della Pedemontana, la continuità aziendale della società concessionaria non si è mai interrotta. Bisogna solo trovare i 3 miliardi circa che servono a completare l’opera. L’eutanasia suggerita dalla Procura sarebbe ad alto rischio. Nelle valutazioni di Di Pietro, uno stop costerebbe 1 miliardo di euro in contenziosi. È un po’ quello che si sente dire periodicamente del ponte sullo Stretto.
Come per il ponte fra Sicilia e continente, anche la catastrofe pedemontana è bipartisan. A destra c’è stato un tempo in cui ci si disputava il merito di avere portato a casa l’opera fra la coppia forzista-ciellina Formigoni-Cattaneo e il binomio leghista formato dall’ex viceministro alle Infrastrutture, il lecchese Roberto Castelli, e dallo stesso Maroni.
Ma hanno tifato per l’infrastruttura Antonio Bargone, sottosegretario dalemiano nel 1999 con Nerio Nesi ministro, il bersaniano Filippo Penati e il suo successore berlusconiano Guido Podestà, quando la Provincia di Milano controllava la società prima di cedere alla Regione la Milano-Serravalle. Né bisogna scordare il ruolo giocato dal ministero delle Infrastrutture con Pietro Lunardi e Altero Matteoli. Il ministro in carica, Graziano Delrio, all’inizio di luglio ha perso la pazienza. «Lo Stato non può essere un bancomat», ha detto davanti ai sindaci della provincia di Monza e Brianza. «Se l’opera è stata pensata con dimensioni di traffico sbagliate, noi o i cittadini non possiamo metterci i soldi. Ne abbiamo già stanziati tanti: 1,2 miliardi più 800 milioni di defiscalizzazione. Cerchiamo di andare avanti con quello che c’è».
«È la Lombardia a essere stanca di fare da bancomat allo Stato» ha replicato l’assessore regionale ai trasporti Alessandro Sorte, lo stesso che voleva collegare l’aeroporto di Orio al Serio e il centro di Bergamo con una funivia. La verità è che la Pedemontana è una delle puntate dell’epopea del general contractor e riproduce, in piccolo ma non troppo, lo schema dell’alta velocità ferroviaria con un tocco di federalismo lumbard in più.
Per Delrio, nemico dichiarato del sistema del general contractor, è una nemesi gestire un’opera che non condivide nello schema e che ha all’origine il pasticcio chiamato Cal, l’ente concedente formato 50/50 da Anas e dalla Ilspa durante il regno di Antonio Rognoni, arrestato per gli appalti dell’Expo a marzo del 2014 e condannato in primo grado due anni dopo.
Nemico di arbitrati e transazioni, Delrio deve accettare che l’impresa appaltatrice del lotto 2, austriaca Strabag, abbia ottenuto una revisione prezzi da 61 milioni di euro grazie a un accordo bonario fra gli avvocati Paolo Clarizia, Luigi Strano e Domenico Aiello, il legale di fiducia di Maroni. Proprio il professionista calabrese è tornato alle cronache per la parcella da 188 mila euro ottenuta nel processo della Regione contro l’ex governatore Formigoni e per la lombosciatalgia che ha causato una serie di rinvii al processo milanese contro Maroni per le nomine negli organismi dell’Expo. Da questo verdetto dipende il futuro politico del governatore. Il futuro della Pedemontana, invece, sembra già segnato. Un’incompiuta in più.
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Re: Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
UncleTom ha scritto:Caro pancho,
anche in Lombardia si voterà prossimamente per l’autonomia, ma io, diversamente, non andrò votare.
E se negli ultimi giorni risultasse che la Lega Nord avesse qualche probabilità di vincere, allora andrò a votare e voterò NO.
Riporto di seguito le motivazioni per cui mi oppongo affinché la Lega Nord possa prendere in mano il governo di questa Regione in forma autonoma.
Inchiesta
Pedemontana, l'autostrada più cara d'Italia è il simbolo dei fallimenti della Lega
L'infrastruttura è un capriccio politico costato 5 miliardi ai contribuenti e ora ne è stato chiesto il fallimento. Nel tratto già aperto il traffico è metà del previsto. Mentre i finanziatori privati sono svaniti nel nulla
DI GIANFRANCESCO TURANO
28 luglio 2017
Le infrastrutture sono un sottogenere della commedia all’italiana. Si ride con l’amaro in bocca da nord a sud. Non si è ancora conclusa la saga ventennale della Salerno-Reggio Calabria che la scena si sposta verso le brume padane con un micidiale trittico di fallimenti: Brebemi, Teem e Pedemontana lombarda, l’autostrada pubblica più cara della storia d’Italia al costo, per ora, di 57,8 milioni di euro al chilometro in un territorio molto urbanizzato ma non particolarmente complesso sotto il profilo ingegneristico.
Per la Pedemontana la parola fallimento va intesa in ogni senso, incluso quello giuridico. La Procura di Milano ha chiesto all’azionista di maggioranza, la Regione, di staccare la spina su un’iniziativa che doveva vedere i privati in prima fila e che è arrivata a un conto da 5 miliardi di euro, tutti a carico del contribuente. Da lunedì 24 luglio, i pedemontani presenteranno le loro controdeduzioni e, s’intende, respingeranno ogni addebito a differenza del contribuente citato sopra che sarà tosato nel più puro stile Roma ladrona dalle addizionali del governatore leghista Roberto Maroni.
Dietro il processo c’è molto di più di una questione contabile. Da Varese alla bergamasca, da Como alla bassa Brianza, la Pedemontana attraversa il cuore e la pancia della Padania. Il varesino Maroni, avviato verso il referendum sull’autonomia del 22 ottobre, ha detto di volersi ricandidare in febbraio per potere inaugurare il tracciato completo nel 2021. Non è colpa sua se i soldi sono finiti, i finanziatori privati sono svaniti nel nulla e l’autostrada non ha aperto per Expo 2015. Non è colpa sua se la gente preferisce ingorgare le vecchie strade pur di non pagare.
In realtà, anche se le previsioni di traffico fossero state corrette, un investitore privato non si sarebbe mai infilato in un tunnel di costi infiniti. Per la Pedemontana si sono fatte le cose in grande. Non solo gallerie, ma anche trincee per fare scorrere il traffico al di sotto del livello della campagna in modo ecocompatibile, 22 mila espropri a prezzi di mercato e tante opere compensative a beneficio dei sindaci nei luoghi di interferenza del tracciato con i centri urbani.
Fin qui c’è poco da ridere, si dirà. Giusto. Allora incominciamo con lo spettacolo. La Pedemontana lombarda è la prima autostrada italiana che applica il sistema free-flow. Niente caselli. Basta il telepass, il conto targa o l’app. Sulle tangenziali di Varese e di Como non si sarebbe dovuto pagare pedaggio. Non è stato possibile mantenere l’impegno se non nell’anno semigiubilare dell’Expo. Con le elezioni in arrivo a febbraio dell’anno prossimo, Maroni si è impegnato a ripristinare i passaggi gratuiti sulle due tangenziali, non si capisce in base a quale piano di sostenibilità finanziaria.
La cosa certa, per il momento, è che chiunque prenda i 30 chilometri della Pedemontana paga la tariffa più alta del territorio nazionale: 21 centesimi di euro al chilometro per le automobili. La costosissima e desertificata Brebemi ne costa 18, la Teem (tangenziale esterna est Milano) ne chiede 19. Sulla Milano-Roma si paga un terzo (7 centesimi al chilometro).
Questo ha comportato un livello di traffico giornaliero pari a metà del previsto (31 mila veicoli invece di 62 mila). Circa il 25 per cento non paga. Le targhe svizzere guidano la lista degli evasori (2 milioni di veicoli complessivi). Ma niente paura. La Pedemontana ha concluso un accordo con il Touring club del Canton Ticino e, a beneficio di chi scansa la dogana di Ponte Chiasso e preferisce il valico di Gaggiolo, ha piazzato una serie di cartelli per suscitare negli elvetici il desiderio di mettersi in regola. Altrimenti? Altrimenti ci arrabbiamo, avrebbe detto il compianto Bud Spencer. La Pedemontana ha annunciato un’azione di recupero pedaggi con la spedizione di 2 milioni di lettere ai furbetti che hanno tradotto l’espressione free-flow con “scorro gratis”. Un quarto circa delle lettere è stato già inviato. Il che non significa che sia arrivato.
Lo scorso inverno poco dopo le ferie natalizie negli acquitrini intorno ad Albairate e a Rosate, paesi della cintura ovest milanese ancora verdi e ricchi di boschi, sono stati trovati 40 chilogrammi di solleciti che la Pedemontana aveva affidato alla società di spedizioni palermitana Smmart post. A 10 grammi a lettera fanno 4000 buste. La Pedemontana ha immediatamente rescisso il contratto con Smmart post e ha annunciato un’azione di risarcimento. Resta il fatto che il recupero crediti appare problematico. La concessionaria ha chiuso il 2016 con 24 milioni di incassi dal free-flow contro 16,4 milioni di costi di gestione, metà dei quali vengono dal costo dei 117 dipendenti (5 per chilometro aperto al traffico), più 10 milioni di oneri finanziari dovuti ai prestiti dei soci di minoranza Intesa e Ubi, per un risultato di bilancio negativo per 7,8 milioni (-22,6 milioni nel 2015).
Se Maroni manterrà la promessa di rendere gratuite le due tangenziali di Varese e Como, dove passano 17 mila veicoli al giorno, rimarranno solo i 14 mila dell’A36, che porta da Lomazzo a Cassano Magnago, il paese di Umberto Bossi. Questi dati sono la pietra tombale per ogni ipotesi di ingresso da parte di quei capitali privati che, nello schema di project financing iniziale, dovevano farsi carico dei due terzi dell’opera.
La Caporetto di Beniamino Gavio sulla Brebemi è un dissuasore potente ma va detto che nella Pedemontana non ci ha mai creduto nessun imprenditore, salvo le banche garantite dai 450 milioni di euro di fondo di garanzia regionale. L’aumento di capitale da 267 milioni di euro deciso nel 2013, all’inizio della legislatura di Maroni, è stato sottoscritto soltanto dalla Regione (32 milioni). Per i rimanenti 235 milioni di euro si è passati da una proroga all’altra, per un totale di sei.
L’ultimo closing ha come limite il 31 gennaio 2018, a ridosso delle regionali dove Maroni potrebbe affrontare il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Al di là degli usi elettorali della nuova autostrada, un tempo concepita proprio per unire l’aeroporto varesotto di Malpensa con quello bergamasco di Orio, la Pedemontana è una coproduzione dell’intero schieramento politico. Fra le poche eccezioni figurano i grillini e Giuliano Pisapia, che, da sindaco di Milano, nel 2014 ebbe il suo momento di rivolta in stile fantozziano («la Pedemontana lombarda è una cagata pazzesca») prima di essere crocifisso in sala mensa dai leghisti, dai formigoniani al crepuscolo e dal segretario regionale democrat, il varesino Alessandro Alfieri, che oggi si concede qualche pacata forma di antagonismo («la Pedemontana è il simbolo del fallimento di Maroni»).
Anche Antonio Di Pietro si è lasciato andare a qualche critica. Il fondatore dell’Idv è presente nella sceneggiatura del cinepanettone pedemontano con un doppio ruolo. Venti anni fa era ministro delle Infrastrutture, entusiasta alla presentazione del progetto a fianco del plenipotenziario formigoniano Raffaele Cattaneo. Più di recente è stato presidente di Pedemontana benché per un solo anno, dal 2016 al 2017 dopo l’ex Poste Massimo Sarmi. Dallo scorso giugno l’ex pm di Mani Pulite ha ceduto il volante definendo l’opera “faraonica” ma ormai inevitabile. Il suo posto è stato preso da un altro presidente che alla Procura di Milano si muove come a casa sua. È Federico Maurizio D’Andrea, ex ufficiale della Guardia di Finanza a fianco di Saverio Borrelli e Gherardo Colombo, riconvertitosi in manager (Telecom, Olivetti, Sogei, organo di vigilanza del Sole 24 ore) e proprietario di una piccola quota nella Banca Galileo, istituto di credito a diffusione locale finanziato da imprenditori mantovani e bergamaschi.
Di Pietro e D’Andrea sono uniti nel contestare la linea dei magistrati Paolo Filippini, Giovanni Polizzi e Roberto Pellicano (da luglio capo a Cremona), gli stessi che hanno in mano l’inchiesta Infront. Secondo il management della Pedemontana, la continuità aziendale della società concessionaria non si è mai interrotta. Bisogna solo trovare i 3 miliardi circa che servono a completare l’opera. L’eutanasia suggerita dalla Procura sarebbe ad alto rischio. Nelle valutazioni di Di Pietro, uno stop costerebbe 1 miliardo di euro in contenziosi. È un po’ quello che si sente dire periodicamente del ponte sullo Stretto.
Come per il ponte fra Sicilia e continente, anche la catastrofe pedemontana è bipartisan. A destra c’è stato un tempo in cui ci si disputava il merito di avere portato a casa l’opera fra la coppia forzista-ciellina Formigoni-Cattaneo e il binomio leghista formato dall’ex viceministro alle Infrastrutture, il lecchese Roberto Castelli, e dallo stesso Maroni.
Ma hanno tifato per l’infrastruttura Antonio Bargone, sottosegretario dalemiano nel 1999 con Nerio Nesi ministro, il bersaniano Filippo Penati e il suo successore berlusconiano Guido Podestà, quando la Provincia di Milano controllava la società prima di cedere alla Regione la Milano-Serravalle. Né bisogna scordare il ruolo giocato dal ministero delle Infrastrutture con Pietro Lunardi e Altero Matteoli. Il ministro in carica, Graziano Delrio, all’inizio di luglio ha perso la pazienza. «Lo Stato non può essere un bancomat», ha detto davanti ai sindaci della provincia di Monza e Brianza. «Se l’opera è stata pensata con dimensioni di traffico sbagliate, noi o i cittadini non possiamo metterci i soldi. Ne abbiamo già stanziati tanti: 1,2 miliardi più 800 milioni di defiscalizzazione. Cerchiamo di andare avanti con quello che c’è».
«È la Lombardia a essere stanca di fare da bancomat allo Stato» ha replicato l’assessore regionale ai trasporti Alessandro Sorte, lo stesso che voleva collegare l’aeroporto di Orio al Serio e il centro di Bergamo con una funivia. La verità è che la Pedemontana è una delle puntate dell’epopea del general contractor e riproduce, in piccolo ma non troppo, lo schema dell’alta velocità ferroviaria con un tocco di federalismo lumbard in più.
Per Delrio, nemico dichiarato del sistema del general contractor, è una nemesi gestire un’opera che non condivide nello schema e che ha all’origine il pasticcio chiamato Cal, l’ente concedente formato 50/50 da Anas e dalla Ilspa durante il regno di Antonio Rognoni, arrestato per gli appalti dell’Expo a marzo del 2014 e condannato in primo grado due anni dopo.
Nemico di arbitrati e transazioni, Delrio deve accettare che l’impresa appaltatrice del lotto 2, austriaca Strabag, abbia ottenuto una revisione prezzi da 61 milioni di euro grazie a un accordo bonario fra gli avvocati Paolo Clarizia, Luigi Strano e Domenico Aiello, il legale di fiducia di Maroni. Proprio il professionista calabrese è tornato alle cronache per la parcella da 188 mila euro ottenuta nel processo della Regione contro l’ex governatore Formigoni e per la lombosciatalgia che ha causato una serie di rinvii al processo milanese contro Maroni per le nomine negli organismi dell’Expo. Da questo verdetto dipende il futuro politico del governatore. Il futuro della Pedemontana, invece, sembra già segnato. Un’incompiuta in più.
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Inchiesta
Tutti i guai di Roberto Maroni, il leghista che voleva fare il premier
Il governatore sogna in grande, ma a frenarlo arrivano le inchieste. A iniziare da quella sull’agenzia lombarda a cui ha affidato la riscossione delle tasse e che ora è indagata per truffa, peculato e falso in bilancio
DI PAOLO BIONDANI E VITTORIO MALAGUTTI
26 luglio 2017
Roberto Maroni Le ultime parole famose portano la data del 12 settembre 2016. «Oggi la Regione Lombardia ha licenziato Equitalia», scrisse su Twitter il governatore Roberto Maroni. Con tanto di hashtag compiaciuto: "manteniamo le promesse". A dieci mesi da quel solenne annuncio le tasse made in Padania sono già un flop, con la procura di Milano che indaga sulla Duomo Gpa, una delle due aziende private a cui la Regione a guida leghista ha affidato la riscossione delle imposte.
Diego Federico Cassani, maggiore azionista e amministratore unico della società, è infatti indagato per peculato, truffa aggravata e falso in bilancio. Almeno otto milioni sono spariti dai conti. Accusa grave, a maggior ragione per chi maneggia soldi pubblici riscuotendo le tasse.
Il boomerang della società di riscossione finita sotto inchiesta è un grosso guaio per il governatore lombardo e per le sue ambizioni (giusto mercoledì scorso il Foglio lo incoronava futuro leader del centrodestra unito), a pochi giorni da un altro affondo della magistratura: questa volta nel mirino c’è la Pedemontana: l’autostrada che taglia la Brianza collegando la provincia di Varese e quella di Bergamo, simbolo della grandeur d’asfalto in salsa leghista, si è trasformata in un gigantesco buco nero di perdite e debiti.
I guai delle tasse e quelli d’asfalto capitano proprio nel mezzo della campagna per il referendum consultivo sull’autonomia lombarda. Per Maroni, leghista di governo, variante post-democristiana del sovranismo alla Matteo Salvini, le settimane che portano all’appuntamento del 22 ottobre prossimo dovevano trasformarsi in una passerella verso il trionfo. Questo successo, a sua volta, avrebbe aperto nel migliore dei modi la volata verso le amministrative del prossimo anno, con il governatore leghista pronto a ricandidarsi. Una corsa che sembrava scontata, con l’opposizione costretta a rincorrere a grande distanza. Tanto che in vista del voto di ottobre, la gran parte del Pd, con in testa i sindaci di Milano, Giuseppe Sala, e di Bergamo, Giorgio Gori, si era spostata sulle posizioni del governatore per non lasciare solo a lui tutto l’incasso della scontata vittoria referendaria.
In questa cornice trionfale, l’inchiesta su Duomo Gpa, finora rimasta sottotraccia, con pochi trafiletti sui giornali confinati nella cronaca locale, è quella che potrebbe finire per creare i guai maggiori per Maroni, quanto meno sul piano dell’immagine. Nel 2013 infatti, l’ex ministro dell’Interno dei governi Berlusconi aveva sbancato la lotteria delle elezioni regionali, mitragliando slogan sul fisco. Parole forti. Tipo: «Ai lombardi il 75 per cento delle tasse pagate in Lombardia». Strada facendo, il governatore è dovuto venire a patti con la realtà. A quattro anni di distanza, le promesse restano promesse e buona parte dei tributi padani prendono ancora il volo verso Roma. Equitalia però restava un ottimo bersaglio, un simbolo del fisco rapace da abbattere al più presto.
Detto, fatto. La Regione ha bandito una gara, vinta da Duomo Gpa, associata per l’occasione alla Publiservizi, una ditta di Caserta, con il ruolo, quest’ultima, di capocordata con la quota di maggioranza. Non si può dire che ci fosse una gran concorrenza. L’unica altra offerta è arrivata da Poste Tributi, società pubblica che è finita in liquidazione nel 2016.
Duomo Gpa, però, aveva già i conti in grave crisi: ricavi in calo, debiti oltre il livello di guardia. E adesso dalla magistratura è arrivata un’altra mazzata. Non per niente, il ministero dell’Economia ha già sospeso la Duomo dal registro delle imprese abilitate alla riscossione. La Regione Lombardia, invece, per ora non ha preso provvedimenti. L’istruttoria nasce da una lettera anonima spedita il 25 marzo 2016 alla Guardia di Finanza, ancor prima, quindi, che l’azienda di Cassani vincesse la gara bandita dalla giunta Maroni. Dalle carte sequestrate dalla Guardia di Finanza emerge che il nuovo concessionario lombardo ha accumulato debiti per quasi 20 milioni. Una somma enorme, se si considera che i mezzi propri della società non raggiungono i 7 milioni.
La società fatica a far fronte ai propri impegni. Negli ultimi due anni, i dipendenti, un centinaio in tutto, sono rimasti per mesi senza stipendio, mentre decine di enti pubblici reclamavano le loro entrate. La Duomo Gpa, infatti, incassa i tributi per oltre 800 comuni in Lombardia e Piemonte, fino alle Marche e alla Toscana. Dalle carte dell’inchiesta risulta che già nel 2016 la società era assediata dai decreti ingiuntivi e dalle proteste dei municipi. Nel gennaio 2017 due impiegati, intercettati dalla Guardia di Finanza, si sfogano al telefono accusando la famiglia Cassani di aver «intascato otto milioni di euro»: «Stiamo parlando di debiti nei confronti dell’erario e dei comuni», per cui «se arriva un pm ti porta a San Vittore».
Non solo. La moglie di Cassani, intercettata, spiega a un ragioniere che «la contabilità va ricreata ex novo». Una funzionaria protesta che «per coprire i debiti fanno cose allucinanti, bonifici finti, un sacco di contabili finte». Ad ascoltare simili confidenze, preoccupato, è Ezio Buraschi, che non è indagato, già socio della Duomo: «Fanno il gioco delle tre carte», è il suo commento, «ma così qualcuno va in prigione».
Secondo la Guardia di Finanza almeno 8 milioni sono spariti. Gli ammanchi, ha ricostruito il pm Mauro Clerici, dipendono da «una confusione tra conti pubblici e privati», che è l’effetto di una legge singolare, modificata solo in tempi recenti. Un sistema durato anni, così congegnato: le tasse, che appartengono ai comuni, vengono pagate dai cittadini (coi bollettini postali) su conti di proprietà degli esattori che sono quindi liberi di travasarli altrove. La Duomo, in particolare, ha dirottato le tasse di mezza Italia su un proprio deposito di Milano, chiamato «conto padre», usato per pagare dipendenti e fornitori, versare bonus e benefit ai dirigenti, distribuire utili e premi agli azionisti.
Tra il 2015 e il 2016 la società sigla con i comuni alcuni «piani di rientro» a rate, ma di fatto usa le entrate di un municipio, accusano i magistrati, per tappare i buchi con un altro. La nuova legge, che intesta i conti delle tasse direttamente ai comuni, interrompe una volta per tutte questa girandola. E a quel punto parte la presunta truffa: la Duomo prepara «finti bonifici» on line, li stampa e li trasmette ai comuni come se fossero veri, ma subito dopo li annulla. I contabili descrivono anche un’altra presunta «tecnica fraudolenta collaudata da anni», che loro stessi chiamano «il sistema Cassani».
Il punto di partenza è che esistono due tipi di contratti di riscossione: con i piccoli comuni la società paga solo un canone fisso, per cui può trattenere tutte le tasse che superino quel minimo garantito; con gli enti più grandi, invece, riceve una percentuale (chiamata aggio) e quindi dovrebbe rimborsare una cifra variabile in base agli incassi. Invece, secondo l’accusa, i soldi dei grandi comuni venivano spostati, con un apposito programma informatico, sui conti dei piccoli. In quel modo la Duomo pagava solo i canoni fissi e incamerava una bella fetta di tasse dei grandi enti: «in media il 10 per cento», secondo i contabili già interrogati.
Il 30 giugno scorso i magistrati hanno ordinato il primo sequestro di otto milioni. Oltre alla società, il decreto ha colpito i tre proprietari, cioè Cassani con la moglie e la sorella, che negli ultimi dieci anni tra stipendi e benefit hanno ricevuto dall’azienda almeno 5 milioni e mezzo. Tra le uscite contestate compaiono tre auto da 70 mila euro ciascuna regalate a parenti, rimborsi benzina per una Jaguar e oltre due milioni di fatture sospette, liquidate a un’altra ditta di famiglia. Nel decreto i magistrati precisano che l’inchiesta continua e potrebbe scoperchiare altri ammanchi: nella sede perquisita mancavano le carte di «più di cento conti bancari».
Interpellato dall’Espresso, l’avvocato Giovanni Maria Soldi, che difende Cassani e i suoi familiari, smentisce qualsiasi truffa o ruberia: «Esiste un debito importante nei confronti dei comuni, ma escludo che ci siano state frodi o appropriazioni indebite». Adesso, in attesa delle prossime mosse della magistratura, c’è il rischio che la Lombardia sia costretta a reclutare un nuovo concessionario per riscuotere le tasse. Dal licenziamento di Equitalia è passato meno di un anno. Chissà se Maroni avrà ancora voglia di parlarne su Twitter.
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Re: Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
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Politica
Nel centrodestra è partita la corsa alla leadership
Salvini si dà un tono istituzionale. per superare Forza Italia. Ma Berlusconi punta a dividere il Carroccio
di Marco Damilano
24 luglio 2017
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Dove ci sono i prefetti non c’è democrazia, diceva Luigi Einaudi, via i prefetti dall’Italia. La Lega non starà con nessun partito che voglia mantenere i prefetti», ha giurato Matteo Salvini in un albergone di Piacenza dove aveva convocato una platea di esperti per mettere in campo le idee per il futuro. E chissà se anche il proposito di eliminare i rappresentanti dello Stato centrale nelle province sia un attacco non dichiarato a Roberto Maroni, che da ministro dell’Interno di prefetti ne ha nominati a colpi di decine, come un papa i cardinali: solo per citare le sue ultime infornate, diciassette il 17 dicembre 2009, quindici il 20 maggio 2010, venti il 3 agosto 2011. Il segnale, l’indizio di una guerra interna alla Lega che sta per cominciare, con la posta in gioco più alta, la corsa alla premiership del centrodestra, quando arriverà il voto.
Andiamo a governare, è il tormentone di stagione scelto da Salvini, in ritardo di un’estate rispetto a quello con cui un anno fa conquistò il pubblico giovanile il milanese Fabio Rovazzi, nato nel 1994, otto giorni prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi, l’anno che Maroni entrò al Viminale per la prima volta da ministro, quando Salvini era già stato eletto consigliere comunale a Palazzo Marino da sette mesi. Il ritorno del centrodestra italiano in area governo dopo il drammatico 2011 è più Morandi che Rovazzi, più un remake che una novità. Lega e Forza Italia hanno già governato più volte il Paese e governano insieme città e regioni importanti, a partire dalla Lombardia.
Nonostante questo, appaiono come il fatto nuovo dell’estate 2017: arrivati alla volata finale, con le elezioni vicine, il Pd di Renzi e il Movimento 5 Stelle sembrano ripetitivi e spompati. Mentre il centrodestra potenzialmente unito sale nei sondaggi e si candida al primato elettorale. La novità, semmai, è che non è più scontato chi sia il leader dello schieramento. Silvio Berlusconi è come un capo spirituale, ma è difficile che possa candidarsi o che, anche in caso di annullamento degli effetti della legge Severino ad opera della corte di Strasburgo, abbia davvero la voglia di tornare a Palazzo Chigi, a 81 e più anni, in caso di vittoria. Per questo Salvini si muove. Nel “Game of Thrones” che porta a Palazzo Chigi il leader della Lega potrebbe riuscire laddove hanno fallito gli omologhi europei, dall’olandese Geert Wilders a Marine Le Pen. Con il mix di vecchio e nuovo che Salvini interpreta.
Il nuovo è, semplicemente, quello che accade. Tutto sembra giocare a favore della Lega. Gli sbarchi dei migranti, oltre 93mila il 17 luglio, più sedici per cento rispetto al 2016. Le rivolte delle popolazioni chiamate ad accogliere i profughi, con i sindaci in testa ai cortei anche nelle regioni del Sud che finora avevano taciuto, e l’Anci, l’associazione dei comuni italiani, costretta ad ammettere che il piano accoglienza del governo è fallito. La legge sullo Ius soli che si impantana al Senato dove la Lega era pronta a mettere su le barricate e viene rinviata perché, constata il premier Paolo Gentiloni, non ci sono le condizioni per votarla. Le navi delle Ong chiamate ad allontanarsi dalle acque libiche, con il Viminale deciso a imporre la linea dura. L’Europa che lascia sola l’Italia sull’immigrazione. Quando queste cose le diceva Salvini nei talk show veniva deriso dagli interlocutori del Pd. Oggi tutti sembrano inseguirlo, perfino Renzi sui migranti ha usato le stesse parole dell’altro Matteo nel suo libro («aiutiamoli a casa loro») e vuole tenere fuori dai trattati europei il Fiscal compact contro cui la Lega votò in Parlamento nel 2012, da sola.
Tutti parlano come Salvini, l’agenda della politica torna in mano alla Lega, le profezie più funeste del capo leghista si avverano all’improvviso, facendo dimenticare la condanna della famiglia Bossi e dell’ex tesoriere Francesco Belsito in tribunale per l’uso disinvolto dei fondi della Lega e il gossip di “Chi” sulle distrazioni in vacanza della fidanzata di Salvini Elisa Isoardi. «Non mi fermo, e dalla Calabria sono ora in direzione porto di Civitavecchia, dove sarò a fianco dei cittadini contro l’Invasione!», annuncia il leader nel vuoto del pomeriggio del 17 luglio. Qualche ora dopo, infatti, sarà davanti al porto della città laziale amministrata da M5S, circondato dalla folla che si ribella contro il piano che vorrebbe fare di Civitavecchia un hotspot per i profughi.
Salvini, come faceva il Senatur a suo tempo, gira in lungo e in largo l’Italia, occupa gli spazi lasciati incustoditi dagli altri, si precipita dovunque ci sia da respingere uno sbarco o da rimandare a casa un pullman di migranti. E coltiva il mutamento di immagine: dalla felpa alla giacca blu, dalle urla di comizio ai convegni, dal no all’euro a un messaggio annacquato ma più insidioso per l’alleato berlusconiano.
A Piacenza, al convegno programmatico, c’erano esperti, docenti, economisti. Via l’anti-euro come Claudio Borghi, il Salvini ripulito parla di flat-tax, è la proposta con cui intende unire il centrodestra alle prossime elezioni, la bandiera alternativa al reddito di cittadinanza del M5S e allo sfondamento dei parametri europei sventolato da Renzi. E invita al suo convegno l’ex candidato sindaco di Milano Stefano Parisi: un anno fa si presentava come il nuovo delfino di Berlusconi in polemica con la Lega, oggi è stato scaricato dall’uomo di Arcore e si candida come braccio moderato di Salvini.
Il vecchio è l’altro ingrediente del successo salviniano, quello che manca a tutti gli altri populismi europei, M5S compreso. A differenza di quanto successo al Front National in Francia, inchiodato al suo passato fascista, la Lega può rivendicare un passato (e un presente) da forza di governo, locale e nazionale. Vanta sindaci, due presidenti come Maroni e Luca Zaia nelle regioni più ricche e europee d’Italia, ha nominato ministri, boiardi di Stato, banchieri. La sua ascesa nei sondaggi non fa l’effetto panico e salto nel buio che scatenano i 5 Stelle ogni volta che si parla di loro, perché nelle cancellerie europee conoscono già la Lega, sanno distinguere tra le urla in piazza o nei salotti tv e il pragmatismo quotidiano dei suoi rappresentanti. E poi Salvini, a differenza di Beppe Grillo, Davide Casaleggio e Luigi Di Maio, non disdegna la politica delle alleanze, non ha mai detto di voler fare tutto da solo. Chiede voti per contare, soprattutto nel centrodestra. Dove il rafforzamento della coalizione potrebbe avere l’effetto paradossale di indebolirlo.
Nel sistema proporzionale in campagna elettorale ognuno andrà per sé. E l’obiettivo della nuova Lega, con un nuovo simbolo uguale in tutte le regioni d’Italia, come annuncia Salvini a Roberto Di Caro (vedi l’articolo qui a fianco) sarà fare uno storico sorpasso su Forza Italia, per la prima volta dal 1994. Per poi convincere tutta la coalizione a indicare al presidente Sergio Mattarella il suo nome per Palazzo Chigi. Ma è difficile che l’operazione riesca, soprattutto se la coalizione dovesse allargarsi verso i moderati e i centristi, come punta a fare Berlusconi. Mai con Alfano, ha ripetuto fino alla noia Salvini, ma il ministro degli Esteri si sta rapidamente spostando verso Forza Italia, come in una canzone degli U2 molto evocati in questa estate 2017: a sort of homecoming, un ritorno a casa.
Alfano ha dato la prova d’amore distanziandosi dal governo e affossando la legge sullo Ius soli, per Salvini è un ravvedimento tardivo ma per Berlusconi invece è il segnale che i centristi sono pronti al balzo all’indietro, verso il punto da cui la legislatura era cominciata. Rinforzi arrivano anche dal gruppuscolo di Denis Verdini, ormai senza prospettiva se non quella di bussare alle porte di Arcore, e Formigoni, Albertini, Fitto. Tutti messi insieme i figliol-prodighi fanno una massa critica che può bloccare l’ascesa di Salvini e di Giorgia Meloni che nel frattempo all’ombra dell’immagine pop sta portando in Fratelli d’Italia fuoriusciti di Casa Pound, post-fascisti e fascisti dichiarati, quel che si muove all’estrema destra.
Il candidato premier cui pensa Berlusconi in caso di vittoria resta il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani. Felpato, prudente, istituzionale: il Paolo Gentiloni del centrodestra, suo compagno di liceo al Tasso di Roma. Ma l’ex Cavaliere non dimentica che nel ventennio precedente uno dei suoi giochi preferiti è stato quello chiamato: spacca la Lega. E al centro del gioco c’è sempre stata una pedina chiamata Maroni. Nel 1994 il Cavaliere puntò sul suo giovane ministro dell’Interno per bloccare Bossi che voleva far cadere il governo e dividere il Carroccio. Impresa fallita, perché tra mille tormenti alla fine Maroni rimase fedele al suo leader e Berlusconi fu costretto a lasciare Palazzo Chigi. Nel 2011, al contrario, Maroni, di nuovo ministro dell’Interno nel governo Berlusconi, guidò la corrente interna ai padani che voleva rovesciare l’asse tra Bossi e Silvio. Alla fine fu l’inchiesta giudiziaria sui soldi della Lega a spazzare via la leadership del Senatur e Maroni organizzò la mitologica notte delle scope a Bergamo, con i leghisti armati di ramazza per fare pulizia nel partito. Una ferita sanguinosa: ancora oggi Bossi è convinto di essere stato vittima di un complotto ordito dagli uomini dell’ex ministro dell’Interno. «Maroni ha il culo largo per stare in più poltrone», ringhiò il capo storico, ormai escluso da tutto.
Oggi la storia si ripete. Maroni non ha mai rotto i rapporti con Berlusconi, governa la regione Lombardia dal 2013 con una maggioranza che non ha mai mollato gli alfaniani, si prepara al referendum consultivo per chiedere ai lombardi maggiore potere al tavolo delle trattative con il governo centrale, come farà lo stesso giorno Luca Zaia in Veneto. La variante inaspettata potrebbe essere che al vertice del governo nazionale potrebbe esserci lui, Maroni. Un premier leghista che non è Salvini. In ottimi rapporti con il capo di Forza Italia e amico personale di Alfano, dai tempi in cui entrambi i delfini provavano a dare la spallata ai loro numeri uno Berlusconi e Bossi. A Bobo l’impresa è riuscita, a Angelino no. Ma ora va messa in piedi la stangata per Salvini. La beffa massima per il leader leghista: condizionare la politica italiana, vincere le elezioni e consegnare la vittoria a un altro, oltretutto del suo partito. Il Gioco dei Regni è appena iniziato.
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Politica
Nel centrodestra è partita la corsa alla leadership
Salvini si dà un tono istituzionale. per superare Forza Italia. Ma Berlusconi punta a dividere il Carroccio
di Marco Damilano
24 luglio 2017
Dove ci sono i prefetti non c’è democrazia, diceva Luigi Einaudi, via i prefetti dall’Italia. La Lega non starà con nessun partito che voglia mantenere i prefetti», ha giurato Matteo Salvini in un albergone di Piacenza dove aveva convocato una platea di esperti per mettere in campo le idee per il futuro. E chissà se anche il proposito di eliminare i rappresentanti dello Stato centrale nelle province sia un attacco non dichiarato a Roberto Maroni, che da ministro dell’Interno di prefetti ne ha nominati a colpi di decine, come un papa i cardinali: solo per citare le sue ultime infornate, diciassette il 17 dicembre 2009, quindici il 20 maggio 2010, venti il 3 agosto 2011. Il segnale, l’indizio di una guerra interna alla Lega che sta per cominciare, con la posta in gioco più alta, la corsa alla premiership del centrodestra, quando arriverà il voto.
Andiamo a governare, è il tormentone di stagione scelto da Salvini, in ritardo di un’estate rispetto a quello con cui un anno fa conquistò il pubblico giovanile il milanese Fabio Rovazzi, nato nel 1994, otto giorni prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi, l’anno che Maroni entrò al Viminale per la prima volta da ministro, quando Salvini era già stato eletto consigliere comunale a Palazzo Marino da sette mesi. Il ritorno del centrodestra italiano in area governo dopo il drammatico 2011 è più Morandi che Rovazzi, più un remake che una novità. Lega e Forza Italia hanno già governato più volte il Paese e governano insieme città e regioni importanti, a partire dalla Lombardia.
Nonostante questo, appaiono come il fatto nuovo dell’estate 2017: arrivati alla volata finale, con le elezioni vicine, il Pd di Renzi e il Movimento 5 Stelle sembrano ripetitivi e spompati. Mentre il centrodestra potenzialmente unito sale nei sondaggi e si candida al primato elettorale. La novità, semmai, è che non è più scontato chi sia il leader dello schieramento. Silvio Berlusconi è come un capo spirituale, ma è difficile che possa candidarsi o che, anche in caso di annullamento degli effetti della legge Severino ad opera della corte di Strasburgo, abbia davvero la voglia di tornare a Palazzo Chigi, a 81 e più anni, in caso di vittoria. Per questo Salvini si muove. Nel “Game of Thrones” che porta a Palazzo Chigi il leader della Lega potrebbe riuscire laddove hanno fallito gli omologhi europei, dall’olandese Geert Wilders a Marine Le Pen. Con il mix di vecchio e nuovo che Salvini interpreta.
Il nuovo è, semplicemente, quello che accade. Tutto sembra giocare a favore della Lega. Gli sbarchi dei migranti, oltre 93mila il 17 luglio, più sedici per cento rispetto al 2016. Le rivolte delle popolazioni chiamate ad accogliere i profughi, con i sindaci in testa ai cortei anche nelle regioni del Sud che finora avevano taciuto, e l’Anci, l’associazione dei comuni italiani, costretta ad ammettere che il piano accoglienza del governo è fallito. La legge sullo Ius soli che si impantana al Senato dove la Lega era pronta a mettere su le barricate e viene rinviata perché, constata il premier Paolo Gentiloni, non ci sono le condizioni per votarla. Le navi delle Ong chiamate ad allontanarsi dalle acque libiche, con il Viminale deciso a imporre la linea dura. L’Europa che lascia sola l’Italia sull’immigrazione. Quando queste cose le diceva Salvini nei talk show veniva deriso dagli interlocutori del Pd. Oggi tutti sembrano inseguirlo, perfino Renzi sui migranti ha usato le stesse parole dell’altro Matteo nel suo libro («aiutiamoli a casa loro») e vuole tenere fuori dai trattati europei il Fiscal compact contro cui la Lega votò in Parlamento nel 2012, da sola.
Tutti parlano come Salvini, l’agenda della politica torna in mano alla Lega, le profezie più funeste del capo leghista si avverano all’improvviso, facendo dimenticare la condanna della famiglia Bossi e dell’ex tesoriere Francesco Belsito in tribunale per l’uso disinvolto dei fondi della Lega e il gossip di “Chi” sulle distrazioni in vacanza della fidanzata di Salvini Elisa Isoardi. «Non mi fermo, e dalla Calabria sono ora in direzione porto di Civitavecchia, dove sarò a fianco dei cittadini contro l’Invasione!», annuncia il leader nel vuoto del pomeriggio del 17 luglio. Qualche ora dopo, infatti, sarà davanti al porto della città laziale amministrata da M5S, circondato dalla folla che si ribella contro il piano che vorrebbe fare di Civitavecchia un hotspot per i profughi.
Salvini, come faceva il Senatur a suo tempo, gira in lungo e in largo l’Italia, occupa gli spazi lasciati incustoditi dagli altri, si precipita dovunque ci sia da respingere uno sbarco o da rimandare a casa un pullman di migranti. E coltiva il mutamento di immagine: dalla felpa alla giacca blu, dalle urla di comizio ai convegni, dal no all’euro a un messaggio annacquato ma più insidioso per l’alleato berlusconiano.
A Piacenza, al convegno programmatico, c’erano esperti, docenti, economisti. Via l’anti-euro come Claudio Borghi, il Salvini ripulito parla di flat-tax, è la proposta con cui intende unire il centrodestra alle prossime elezioni, la bandiera alternativa al reddito di cittadinanza del M5S e allo sfondamento dei parametri europei sventolato da Renzi. E invita al suo convegno l’ex candidato sindaco di Milano Stefano Parisi: un anno fa si presentava come il nuovo delfino di Berlusconi in polemica con la Lega, oggi è stato scaricato dall’uomo di Arcore e si candida come braccio moderato di Salvini.
Il vecchio è l’altro ingrediente del successo salviniano, quello che manca a tutti gli altri populismi europei, M5S compreso. A differenza di quanto successo al Front National in Francia, inchiodato al suo passato fascista, la Lega può rivendicare un passato (e un presente) da forza di governo, locale e nazionale. Vanta sindaci, due presidenti come Maroni e Luca Zaia nelle regioni più ricche e europee d’Italia, ha nominato ministri, boiardi di Stato, banchieri. La sua ascesa nei sondaggi non fa l’effetto panico e salto nel buio che scatenano i 5 Stelle ogni volta che si parla di loro, perché nelle cancellerie europee conoscono già la Lega, sanno distinguere tra le urla in piazza o nei salotti tv e il pragmatismo quotidiano dei suoi rappresentanti. E poi Salvini, a differenza di Beppe Grillo, Davide Casaleggio e Luigi Di Maio, non disdegna la politica delle alleanze, non ha mai detto di voler fare tutto da solo. Chiede voti per contare, soprattutto nel centrodestra. Dove il rafforzamento della coalizione potrebbe avere l’effetto paradossale di indebolirlo.
Nel sistema proporzionale in campagna elettorale ognuno andrà per sé. E l’obiettivo della nuova Lega, con un nuovo simbolo uguale in tutte le regioni d’Italia, come annuncia Salvini a Roberto Di Caro (vedi l’articolo qui a fianco) sarà fare uno storico sorpasso su Forza Italia, per la prima volta dal 1994. Per poi convincere tutta la coalizione a indicare al presidente Sergio Mattarella il suo nome per Palazzo Chigi. Ma è difficile che l’operazione riesca, soprattutto se la coalizione dovesse allargarsi verso i moderati e i centristi, come punta a fare Berlusconi. Mai con Alfano, ha ripetuto fino alla noia Salvini, ma il ministro degli Esteri si sta rapidamente spostando verso Forza Italia, come in una canzone degli U2 molto evocati in questa estate 2017: a sort of homecoming, un ritorno a casa.
Alfano ha dato la prova d’amore distanziandosi dal governo e affossando la legge sullo Ius soli, per Salvini è un ravvedimento tardivo ma per Berlusconi invece è il segnale che i centristi sono pronti al balzo all’indietro, verso il punto da cui la legislatura era cominciata. Rinforzi arrivano anche dal gruppuscolo di Denis Verdini, ormai senza prospettiva se non quella di bussare alle porte di Arcore, e Formigoni, Albertini, Fitto. Tutti messi insieme i figliol-prodighi fanno una massa critica che può bloccare l’ascesa di Salvini e di Giorgia Meloni che nel frattempo all’ombra dell’immagine pop sta portando in Fratelli d’Italia fuoriusciti di Casa Pound, post-fascisti e fascisti dichiarati, quel che si muove all’estrema destra.
Il candidato premier cui pensa Berlusconi in caso di vittoria resta il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani. Felpato, prudente, istituzionale: il Paolo Gentiloni del centrodestra, suo compagno di liceo al Tasso di Roma. Ma l’ex Cavaliere non dimentica che nel ventennio precedente uno dei suoi giochi preferiti è stato quello chiamato: spacca la Lega. E al centro del gioco c’è sempre stata una pedina chiamata Maroni. Nel 1994 il Cavaliere puntò sul suo giovane ministro dell’Interno per bloccare Bossi che voleva far cadere il governo e dividere il Carroccio. Impresa fallita, perché tra mille tormenti alla fine Maroni rimase fedele al suo leader e Berlusconi fu costretto a lasciare Palazzo Chigi. Nel 2011, al contrario, Maroni, di nuovo ministro dell’Interno nel governo Berlusconi, guidò la corrente interna ai padani che voleva rovesciare l’asse tra Bossi e Silvio. Alla fine fu l’inchiesta giudiziaria sui soldi della Lega a spazzare via la leadership del Senatur e Maroni organizzò la mitologica notte delle scope a Bergamo, con i leghisti armati di ramazza per fare pulizia nel partito. Una ferita sanguinosa: ancora oggi Bossi è convinto di essere stato vittima di un complotto ordito dagli uomini dell’ex ministro dell’Interno. «Maroni ha il culo largo per stare in più poltrone», ringhiò il capo storico, ormai escluso da tutto.
Oggi la storia si ripete. Maroni non ha mai rotto i rapporti con Berlusconi, governa la regione Lombardia dal 2013 con una maggioranza che non ha mai mollato gli alfaniani, si prepara al referendum consultivo per chiedere ai lombardi maggiore potere al tavolo delle trattative con il governo centrale, come farà lo stesso giorno Luca Zaia in Veneto. La variante inaspettata potrebbe essere che al vertice del governo nazionale potrebbe esserci lui, Maroni. Un premier leghista che non è Salvini. In ottimi rapporti con il capo di Forza Italia e amico personale di Alfano, dai tempi in cui entrambi i delfini provavano a dare la spallata ai loro numeri uno Berlusconi e Bossi. A Bobo l’impresa è riuscita, a Angelino no. Ma ora va messa in piedi la stangata per Salvini. La beffa massima per il leader leghista: condizionare la politica italiana, vincere le elezioni e consegnare la vittoria a un altro, oltretutto del suo partito. Il Gioco dei Regni è appena iniziato.
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Re: Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
contimua
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Lombardia, concorso annullato da 8 anni ma i dirigenti restano tutti al loro posto: in dieci anni ci sono costati 30 milioni
di Thomas Mackinson | 27 luglio 2017
Lobby
Alcuni hanno fatto anche carriera, come il nipote di Formigoni e il biografo di Don Giussani. In 31 furono assunti a tempo indeterminato grazie a un concorso del 2006 annullato definitivamente tre anni dopo. Sono lì ancora oggi, nonostante l'ex governatore e la sua giunta siano stati condannati. La beffa del candidato che si oppose alla morsa dei ciellini: "La Procura non archivi, c'è in ballo un danno permanente che non si prescrive"
di Thomas Mackinson | 27 luglio 2017
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Più informazioni su: Assunzioni, CL, Comunione e Liberazione, Concorsi Truccati, Regione Lombardia, Roberto Formigoni
Sono lì ancora oggi e alcuni hanno fatto pure carriera, dal nipote di Formigoni al biografo di Don Giussani. Sono i 31 protagonisti di un vero e proprio “assalto alla dirigenza” assunti con incarico da dirigente a tempo indeterminato nel 2007 grazie a un concorso mai pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e per questo annullato tre anni dopo in via definitiva. E tuttavia conservano ancora oggi grandi scrivanie e lauti compensi cui non avevano diritto. La loro permanenza in servizio ad oggi è costata 30 milioni di euro ed uno dei pochi frutti tangibili dell’impalpabile interessenza tra potere ciellino e politica in Lombardia, dove la stessa Regione è stata trasformata per anni in ufficio privato di collocamento a beneficio di professionisti in quota parenti o in orbita a Comunione e Liberazione, l’anomalia di sistema a cavallo tra lobby e fede che nel formigonismo ha dispiegato tutto il suo potere, sbaragliando le residue resistenze e permeando ogni ambito pubblico, fin dentro la “macchina” della Regione.
Il conto è aperto dal 2006, l’anno del famoso concorso per 31 dirigenti bandito da Regione Lombardia e annullato da Tar (2008) e Consiglio di Stato (2009) perché mai pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ma solo su bollettino regionale. Un’anomalia ricordata solo poche settimane fa nella sentenza della Corte dei Conti che ha condannato Formigoni e la sua giunta per un incarico d’avvocato conferito illegittimamente, avendone 17 a disposizione. La sentenza menziona quei dirigenti ancora tutti lì perché nei loro confronti l’ente non ha mai esercitato la clausola di interruzione consensuale del rapporto che pure avevano firmato insieme al contratto in attesa degli esiti dei ricorsi. Del resto la resistenza dell’ente nei vari gradi di giudizio fa il paio col peccato originale che li motivò: l’omessa pubblicazione sulla Gazzetta, raccontano le cronache del tempo, era funzionale ad assicurare alcuni posti-chiave del sistema di Regione Lombardia a candidati in quota CL, così da rafforzare la presa sull’apparato burocratico e sulla “macchina” che muove ogni anno qualcosa come 25 miliardi di euro (17-18 in sanità) che veicola direttamente o tramite società in house (Finlombarda, Infrastrutture lombare, Arca, Asam etc). Dunque, che fine hanno fatto?
Regione Lombardia che ancora oggi li stipendia non ha particolari remore a trasmettere l’elenco dei 31 vincitori, con l’indicazione dell’incarico ricoperto e del compenso che gli viene versato (scarica il file). Del resto la giunta Maroni non c’entra con quella frittata che è stata – anche in termini di immagine – un parziale danno. “I contratti non sono stati interrotti”, conferma al fattoquotidiano.it una nota “anche perché la sentenza della Corte non interviene su questo aspetto e la valenza giuridica dei contratti di lavoro “operativi” ormai da tempo era molto radicata. In caso di rescissione dei contratti (ammesso di superare ricorsi al giudice del lavoro) la Giunta si sarebbe trovata senza il 25% dei dirigenti necessari a ricoprire gli incarichi”. Anche perché, aggiungiamo noi, chi invece la frittata la fece riuscì poi a rigirarla con una leggina regionale ad hoc che modificava gli obblighi di pubblicazione in modo retroattivo. L’espediente è servito solo in parte a sollevare la giunta Formigoni dagli addebiti (per fatti ormai largamente prescritti) ma ha assicurato il posto in Paradiso a parenti e amici di CL che sono anche cresciuti in termini di carriera.
Così è successo a uno dei pezzi grossi. Michele Camisasca, nipote dell’attuale vescovo di Reggio Emilia e Guastalla, Massimo Camisasca, biografo del fondatore di Cl, don Giussani ha vinto il concorso ed è stato messo alla direzione del personale con 185mila euro di stipendio trovandosi poi in un peculiare conflitto di interessi nei panni dell’assunto con quel concorso – subito ipotecato dai ricorsi – e di direttore del personale che avrebbe potuto esercitare la clausola di rescissione dei rapporti in essere fatta sottoscrivere a tutti i dirigenti (lui compreso) in caso di annullamento, ma tant’è: non ha mandato a casa se stesso né gli altri, e oggi è il direttore generale di Arpa Lombardia, altra società pubblica finita nel mirino della Corte dei Conti che a febbraio ha chiesto un milione di euro agli ex vertici per “incarichi da dirigente a chi non aveva i requisiti”. Con un compenso da 172.192 euro.
Promozioni anche per Marco Carabelli, già vice del Segretario generale Nicola Maria Sanese che il 18 giugno 2007 firmò materialmente l’immissione in servizio dei candidati in graduatoria e per questo condannato, insieme a Formigoni, a rifondere parte dei 46mila euro di costo del concorso annullato. Carabelli nel frattempo è stato posto in “assegnazione temporanea” ad Areaexpo, la società a capitale pubblico partecipata tra gli altri da Mef (39%) e Regione Lombardia (21,05%) per acquisire le aree Expo e oggi per trasformarle in parco scientifico. Ne è diventato il direttore generale, con compenso pari a 180mila euro (più 50 di variabile).
Nell’elenco c’è poi Giacomo Boscagli, figlio dell’ex assessore regionale Giulio Boscagli, cognato di Formigoni. Si occupava di contabilità della giunta. Due anni dopo è già direttore finanze della Fiera Milano International Spa, dal maggio del 2010 è paracadutato come direttore all’Istituto dei tumori con compiti di controllo di gestione. Un altro ciellino, Franco Milani, anche lui entra in Regione nel luglio 2007 e viene messo alla Direzione generale Sanità dove si occupava di accreditamento e controlli. Settore quanto mai delicato dal quale esce, quattro anni dopo, per occuparsi di politiche del personale. Con uno stipendio, dice la tabella della Regione, di 90.754 euro.
Amaro il commento di quel dirigente “senza sponsor” che a suon di denunce nel maggio 2006 scoperchiò il pentolone che porterà ad acclarare l’illegittimità del concorso e a condanne che ”non fanno giustizia”. “Li volete mantenere, manteneteli” dice oggi al fattoquotidiano.it l’ingegnere Giuseppe Di Domenico, risultato poi vincitore di un secondo concorso ma per un solo posto da dirigente di fascia C (la più bassa) e non per la giunta come avrebbe voluto “perché i 31 posti erano occupati da quei professionisti assunti senza titolo che però restano ancora lì, a percepire alti compensi cui non hanno diritto”. Mentre lui che ha lottato e speso un sacco di soldi in questi anni (oltre 40mila euro, dice) per ripristinare la legalità nelle assunzioni pubbliche è confinato in un’agenzia regionale senza grandi prospettive di carriera. “Le loro, illegittime e tuttavia folgoranti, sono avvenute a detrimento di altri e gli consentono anche di guadagnare mediamente 20mila euro l’anno più di me”. Non è solo una questione personale. “Ancora spero che la Procura, che dal 2012 ha aperto un fascicolo penale sul quale pende una richiesta di archiviazione cui mi sono opposto, non si fermi al danno erariale e ai reati ormai prescritti ma accerti quello permanente e collettivo derivante dal non aver garantito la selezione delle migliori competenze nei servizi della pubblica amministrazione. Qui il reato è continuativo, si consuma anche in questo momento”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/07 ... i/3754709/
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Lombardia, concorso annullato da 8 anni ma i dirigenti restano tutti al loro posto: in dieci anni ci sono costati 30 milioni
di Thomas Mackinson | 27 luglio 2017
Lobby
Alcuni hanno fatto anche carriera, come il nipote di Formigoni e il biografo di Don Giussani. In 31 furono assunti a tempo indeterminato grazie a un concorso del 2006 annullato definitivamente tre anni dopo. Sono lì ancora oggi, nonostante l'ex governatore e la sua giunta siano stati condannati. La beffa del candidato che si oppose alla morsa dei ciellini: "La Procura non archivi, c'è in ballo un danno permanente che non si prescrive"
di Thomas Mackinson | 27 luglio 2017
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Sono lì ancora oggi e alcuni hanno fatto pure carriera, dal nipote di Formigoni al biografo di Don Giussani. Sono i 31 protagonisti di un vero e proprio “assalto alla dirigenza” assunti con incarico da dirigente a tempo indeterminato nel 2007 grazie a un concorso mai pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e per questo annullato tre anni dopo in via definitiva. E tuttavia conservano ancora oggi grandi scrivanie e lauti compensi cui non avevano diritto. La loro permanenza in servizio ad oggi è costata 30 milioni di euro ed uno dei pochi frutti tangibili dell’impalpabile interessenza tra potere ciellino e politica in Lombardia, dove la stessa Regione è stata trasformata per anni in ufficio privato di collocamento a beneficio di professionisti in quota parenti o in orbita a Comunione e Liberazione, l’anomalia di sistema a cavallo tra lobby e fede che nel formigonismo ha dispiegato tutto il suo potere, sbaragliando le residue resistenze e permeando ogni ambito pubblico, fin dentro la “macchina” della Regione.
Il conto è aperto dal 2006, l’anno del famoso concorso per 31 dirigenti bandito da Regione Lombardia e annullato da Tar (2008) e Consiglio di Stato (2009) perché mai pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ma solo su bollettino regionale. Un’anomalia ricordata solo poche settimane fa nella sentenza della Corte dei Conti che ha condannato Formigoni e la sua giunta per un incarico d’avvocato conferito illegittimamente, avendone 17 a disposizione. La sentenza menziona quei dirigenti ancora tutti lì perché nei loro confronti l’ente non ha mai esercitato la clausola di interruzione consensuale del rapporto che pure avevano firmato insieme al contratto in attesa degli esiti dei ricorsi. Del resto la resistenza dell’ente nei vari gradi di giudizio fa il paio col peccato originale che li motivò: l’omessa pubblicazione sulla Gazzetta, raccontano le cronache del tempo, era funzionale ad assicurare alcuni posti-chiave del sistema di Regione Lombardia a candidati in quota CL, così da rafforzare la presa sull’apparato burocratico e sulla “macchina” che muove ogni anno qualcosa come 25 miliardi di euro (17-18 in sanità) che veicola direttamente o tramite società in house (Finlombarda, Infrastrutture lombare, Arca, Asam etc). Dunque, che fine hanno fatto?
Regione Lombardia che ancora oggi li stipendia non ha particolari remore a trasmettere l’elenco dei 31 vincitori, con l’indicazione dell’incarico ricoperto e del compenso che gli viene versato (scarica il file). Del resto la giunta Maroni non c’entra con quella frittata che è stata – anche in termini di immagine – un parziale danno. “I contratti non sono stati interrotti”, conferma al fattoquotidiano.it una nota “anche perché la sentenza della Corte non interviene su questo aspetto e la valenza giuridica dei contratti di lavoro “operativi” ormai da tempo era molto radicata. In caso di rescissione dei contratti (ammesso di superare ricorsi al giudice del lavoro) la Giunta si sarebbe trovata senza il 25% dei dirigenti necessari a ricoprire gli incarichi”. Anche perché, aggiungiamo noi, chi invece la frittata la fece riuscì poi a rigirarla con una leggina regionale ad hoc che modificava gli obblighi di pubblicazione in modo retroattivo. L’espediente è servito solo in parte a sollevare la giunta Formigoni dagli addebiti (per fatti ormai largamente prescritti) ma ha assicurato il posto in Paradiso a parenti e amici di CL che sono anche cresciuti in termini di carriera.
Così è successo a uno dei pezzi grossi. Michele Camisasca, nipote dell’attuale vescovo di Reggio Emilia e Guastalla, Massimo Camisasca, biografo del fondatore di Cl, don Giussani ha vinto il concorso ed è stato messo alla direzione del personale con 185mila euro di stipendio trovandosi poi in un peculiare conflitto di interessi nei panni dell’assunto con quel concorso – subito ipotecato dai ricorsi – e di direttore del personale che avrebbe potuto esercitare la clausola di rescissione dei rapporti in essere fatta sottoscrivere a tutti i dirigenti (lui compreso) in caso di annullamento, ma tant’è: non ha mandato a casa se stesso né gli altri, e oggi è il direttore generale di Arpa Lombardia, altra società pubblica finita nel mirino della Corte dei Conti che a febbraio ha chiesto un milione di euro agli ex vertici per “incarichi da dirigente a chi non aveva i requisiti”. Con un compenso da 172.192 euro.
Promozioni anche per Marco Carabelli, già vice del Segretario generale Nicola Maria Sanese che il 18 giugno 2007 firmò materialmente l’immissione in servizio dei candidati in graduatoria e per questo condannato, insieme a Formigoni, a rifondere parte dei 46mila euro di costo del concorso annullato. Carabelli nel frattempo è stato posto in “assegnazione temporanea” ad Areaexpo, la società a capitale pubblico partecipata tra gli altri da Mef (39%) e Regione Lombardia (21,05%) per acquisire le aree Expo e oggi per trasformarle in parco scientifico. Ne è diventato il direttore generale, con compenso pari a 180mila euro (più 50 di variabile).
Nell’elenco c’è poi Giacomo Boscagli, figlio dell’ex assessore regionale Giulio Boscagli, cognato di Formigoni. Si occupava di contabilità della giunta. Due anni dopo è già direttore finanze della Fiera Milano International Spa, dal maggio del 2010 è paracadutato come direttore all’Istituto dei tumori con compiti di controllo di gestione. Un altro ciellino, Franco Milani, anche lui entra in Regione nel luglio 2007 e viene messo alla Direzione generale Sanità dove si occupava di accreditamento e controlli. Settore quanto mai delicato dal quale esce, quattro anni dopo, per occuparsi di politiche del personale. Con uno stipendio, dice la tabella della Regione, di 90.754 euro.
Amaro il commento di quel dirigente “senza sponsor” che a suon di denunce nel maggio 2006 scoperchiò il pentolone che porterà ad acclarare l’illegittimità del concorso e a condanne che ”non fanno giustizia”. “Li volete mantenere, manteneteli” dice oggi al fattoquotidiano.it l’ingegnere Giuseppe Di Domenico, risultato poi vincitore di un secondo concorso ma per un solo posto da dirigente di fascia C (la più bassa) e non per la giunta come avrebbe voluto “perché i 31 posti erano occupati da quei professionisti assunti senza titolo che però restano ancora lì, a percepire alti compensi cui non hanno diritto”. Mentre lui che ha lottato e speso un sacco di soldi in questi anni (oltre 40mila euro, dice) per ripristinare la legalità nelle assunzioni pubbliche è confinato in un’agenzia regionale senza grandi prospettive di carriera. “Le loro, illegittime e tuttavia folgoranti, sono avvenute a detrimento di altri e gli consentono anche di guadagnare mediamente 20mila euro l’anno più di me”. Non è solo una questione personale. “Ancora spero che la Procura, che dal 2012 ha aperto un fascicolo penale sul quale pende una richiesta di archiviazione cui mi sono opposto, non si fermi al danno erariale e ai reati ormai prescritti ma accerti quello permanente e collettivo derivante dal non aver garantito la selezione delle migliori competenze nei servizi della pubblica amministrazione. Qui il reato è continuativo, si consuma anche in questo momento”.
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Re: Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
continua
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Referendum Lombardia, Maroni compra 24mila tablet per il voto elettronico. Spesi 23 milioni di euro
COSTI DELLA POLITICA
Il 22 ottobre saranno allestiti in tutta la regione 8mila seggi. Il presidente difende la scelta: "È un investimento, non una spesa, perché i tablet rimarranno in dotazione alle scuole come strumento didattico"
di F. Q. | 26 luglio 2017
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1,2 mila
Più informazioni su: Referendum, Regione Lombardia, Roberto Maroni
Roberto Maroni ha acquistato oltre 24.000 tablet che saranno utilizzati per votare al referendum consultivo sull’Autonomia della Lombardia del prossimo 22 ottobre negli 8mila seggi allestiti in tutta la regione. Spesa complessiva? 23 milioni di euro (21 più Iva). A renderlo noto è stato lo stesso presidente della Regione al termine della presentazione del piano territoriale della Franciacorta, a Palazzo Lombardia: “Abbiamo già firmato l’accordo anche con il ministero – ha detto Maroni – le prefetture metteranno a disposizione i seggi elettorali e le forze di sicurezza ai seggi. A noi competono altre cose, come la tessera elettorale. È un investimento, non una spesa, perché i tablet poi rimangono in dotazione alle scuole come strumento didattico”.
“Un accordo che mi soddisfa e apre la strada a questa forte innovazione – ha continuato Maroni – Ho deciso, nel decreto che ha indetto il referendum, di fare il voto elettronico nel 100% dei seggi: quindi non ci sarà carta, né matite copiative, che spero metteremo in archivio per sempre. I seggi apriranno alle 7 del mattino, alle 23 si chiudono e alle 23.05 avremo i risultati di quante persone sono andate a votare, quanti hanno votato Sì, quanti hanno votato No e quante sono schede bianche”.
In Italia, il voto elettronico è una novità assoluta, che sarà sperimentata per la prima volta in occasione di questo referendum. Lo schermo riprodurrà il quesito e tre caselle con ‘Sì’, ‘No’ e ‘Bianca’: toccando una delle tre caselle, comparirà la croce – con la possibilità di cambiare idea e toccare un’altra casella – poi la scritta ‘Vota’, premendo la quale sarà come aver depositato la scheda nell’urna. È previsto un sistema di sicurezza che garantisce l’anonimato: non viene registrato il minuto in cui una persona vota, in modo che non si sappia come ha votato chi lo ha fatto in un determinato momento.
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Referendum Lombardia, Maroni compra 24mila tablet per il voto elettronico. Spesi 23 milioni di euro
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Il 22 ottobre saranno allestiti in tutta la regione 8mila seggi. Il presidente difende la scelta: "È un investimento, non una spesa, perché i tablet rimarranno in dotazione alle scuole come strumento didattico"
di F. Q. | 26 luglio 2017
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Roberto Maroni ha acquistato oltre 24.000 tablet che saranno utilizzati per votare al referendum consultivo sull’Autonomia della Lombardia del prossimo 22 ottobre negli 8mila seggi allestiti in tutta la regione. Spesa complessiva? 23 milioni di euro (21 più Iva). A renderlo noto è stato lo stesso presidente della Regione al termine della presentazione del piano territoriale della Franciacorta, a Palazzo Lombardia: “Abbiamo già firmato l’accordo anche con il ministero – ha detto Maroni – le prefetture metteranno a disposizione i seggi elettorali e le forze di sicurezza ai seggi. A noi competono altre cose, come la tessera elettorale. È un investimento, non una spesa, perché i tablet poi rimangono in dotazione alle scuole come strumento didattico”.
“Un accordo che mi soddisfa e apre la strada a questa forte innovazione – ha continuato Maroni – Ho deciso, nel decreto che ha indetto il referendum, di fare il voto elettronico nel 100% dei seggi: quindi non ci sarà carta, né matite copiative, che spero metteremo in archivio per sempre. I seggi apriranno alle 7 del mattino, alle 23 si chiudono e alle 23.05 avremo i risultati di quante persone sono andate a votare, quanti hanno votato Sì, quanti hanno votato No e quante sono schede bianche”.
In Italia, il voto elettronico è una novità assoluta, che sarà sperimentata per la prima volta in occasione di questo referendum. Lo schermo riprodurrà il quesito e tre caselle con ‘Sì’, ‘No’ e ‘Bianca’: toccando una delle tre caselle, comparirà la croce – con la possibilità di cambiare idea e toccare un’altra casella – poi la scritta ‘Vota’, premendo la quale sarà come aver depositato la scheda nell’urna. È previsto un sistema di sicurezza che garantisce l’anonimato: non viene registrato il minuto in cui una persona vota, in modo che non si sappia come ha votato chi lo ha fatto in un determinato momento.
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Re: Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
continua
Inchiesta
Grandi opere: corruzione in corso. Così gli appalti diventano il regno delle tangenti
Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare
di Paolo Biondani e Giovanni Tizian
29 novembre 2016
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Corruzione, affari miliardari, omertà e ricatti. Che diventano un sistema. Il noir del calcestruzzo è servito. La trama si ripete in decine di cantieri delle grandi opere. Gli appalti più ricchi d’Italia. Quelli che codici e protocolli per la legalità avrebbero dovuto rendere impermeabili alle mazzette e ai favoritismi privati. Invece proprio i lavori dichiarati strategici, dalle nuove autostrade all’alta velocità ferroviaria, finanziati con fiumi di denaro pubblico, sembrano un suk del malaffare. Proprio come negli anni neri di Tangentopoli.
Vent’anni fa, le inchieste milanesi di Mani Pulite fecero esplodere, con centinaia di arresti e oltre mille condanne definitive, il vecchio sistema della corruzione diretta: soldi ai politici (o ai manager pubblici nominati dai partiti) in cambio di appalti d’oro per le aziende privilegiate. Oggi le nuove indagini, da Firenze a Genova, da Roma a Reggio Calabria, mostrano che la grande corruzione continua, con un’evoluzione della tecnica. Il nuovo sistema disegnato dagli atti d’accusa scorre su tre livelli. Ora come allora i colossi italiani delle costruzioni, rappresentati da manager di altissimo livello, stringono accordi illeciti con i tecnici che gestiscono gli appalti. In cambio, devono pagare consulenze a certi studi professionali o cedere subappalti ad altre imprese private, che giocano di sponda: i titolari sono prestanome o complici che si dividono i soldi con i corrotti. Una Tangentopoli modernizzata, più difficile da smascherare. Anche perché i pochi che conoscono i segreti del sistema hanno un fortissimo potere di ricatto.
Ettore Pagani è uno dei 35 arrestati, il 27 ottobre scorso, nelle indagini collegate di Roma e Genova sulle grandi opere. Come manager del gruppo Salini-Impregilo, è diventato vicepresidente del Cociv, il consorzio privato (composto da Salini-Impregilo Condotte e Civ) che gestisce gli appalti pubblici della Tav Milano-Genova. Ed è uno dei protagonisti dell’intercettazione più eloquente: l’azienda di «zio Pietro», cioè Salini, vuole soldi dalla società pubblica Italferr, che Pagani chiama «zio Paperone». E a fare da tramite è il tecnico che dovrebbe vigilare sull’appalto, Giampiero De Michelis, (anche lui agli arresti) che assicura di essersi mobilitato, testualmente, «con tutta la banda Bassotti».
Con la coppia controllore-controllato è finito in carcere anche Michele Longo, top manager per l’Italia di Salini-Impregilo e presidente del Cociv. Le cimici piazzate nei loro uffici hanno svelato la spartizione di decine di appalti, compresa la Salerno-Reggio Calabria. Pagani, lamentandosi dell’avidità dei tecnici, parla di un sistema che dura da anni: «Siamo stati noi ad aver abituato questa gente ad operare in un certo modo», spiega il dirigente della Salini, che aggiunge: «In passato lo abbiamo fatto su Cavet. E poi sulla Salerno-Reggio... E da altre parti ancora». Cavet è il consorzio dell’alta velocità in Emilia e Toscana.
Salini-Impregilo è il più grande gruppo italiano di costruzioni, con 6 miliardi di fatturato, e guida anche la cordata Eurolink (insieme a Condotte) per il Ponte sullo stretto di Messina, rilanciato dal premier Matteo Renzi a fine settembre, alla festa per i 110 anni di vita dell’azienda romana. Che nel maggio scorso ha designato come presidente di Eurolink proprio Longo, il manager ora sotto accusa sia a Roma che a Genova.
Il “mostro” e l’amico calabrese
Il primo beneficiario del nuovo sistema corruttivo, secondo l’accusa, è Giampiero De Michelis, ingegnere, che da anni colleziona ruoli di “direzione lavori”, cioè controllore pubblico (in teoria) degli appalti. In realtà De Michelis chiude gli occhi sui ritardi, non denuncia l’uso di materiali scadenti e pericolosi (come il «cemento che sembra colla») e certifica furbi «stati di avanzamento lavori» per sbloccare i soldi statali per la nuova Tav (valico dei Giovi) e per l’autostrada Salerno-Reggio. In cambio i manager della Salini gli promettono, e in parte versano, milioni «sotto forme di commesse in favore di società a lui riconducibili». Diventato così «una pedina in grado di fare il gioco del consorzio privato», come lo definiscono i pm, l’ingegner De Michelis si sente sempre più forte.
E nel 2015 si mette in proprio: dirotta i subappalti-tangente a un suo prestanome conosciuto nei cantieri della Salerno-Reggio. Un imprenditore calabrese, Domenico Gallo, sospettato di frequentazioni mafiose. Quei subappalti a rischio preoccupano un manager della Salini, che accampa ostacoli legali: «Ho già un elenco di società che hanno partecipato alla gara precedente...». Ma De Michelis tiene duro: «L’incarico può essere anche ad personam». «Sì, lo so, lo so», acconsente il manager, che con gli altri capi-azienda si lamenta dell’ingegnere: «Abbiamo creato un mostro». Alla fine è proprio la voce di “Mimmo” Gallo a descrivere l’impasto che governa le grandi opere: «Tra chi fa il lavoro, la stazione appaltante e i subappaltatori deve crearsi l’amalgama. Se ognuno tira e l’altro storce non si va più avanti». «Amalgama» è diventato il nome dell’inchiesta della procura di Roma e del nucleo investigativo dell'Arma della Capitale: le tangenti tra controllori e controllati sono il cemento della spartizione di soldi pubblici.
Il figlio dell’uomo di Stato
Quando è finito in cella, De Michelis era ancora uno dei tecnici della Sintel Engeneering, una società privata che ha diretto decine di opere pubbliche. Fa capo a Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea, l’ex ragioniere generale dello Stato, poi diventato presidente di Infrastrutture Spa, la società pubblica per il rilancio delle grandi opere, ora assorbita dalla Cassa depositi e prestiti. Intanto Monorchio senior è passato al privato: è presidente del consiglio sindacale della Salini spa. Il figlio Giandomenico invece è agli arresti. Monorchio junior aveva capito la logica del sistema: «La gente deve sapere stare al mondo... se ormai le cose sono divise, sono divise per tutti», si lascia scappare in un’intercettazione. Che sembra riassumere la regola base di un codice parallelo, non scritto, dei lavori pubblici: l’equa spartizione.
La coppia Monorchio-De Michelis puntava pure alla nuova stazione di Firenze per l’alta velocità, affidata al consorzio Nodavia, di cui fa parte la società Condotte. Volevano inserire un amico loro come direttore lavori: «un uomo nostro», che risponde al nome di Giovanni Fiordaliso, tecnico dell’Anas. Per l’azienda statale delle strade, peraltro, Fiordaliso ha fatto il direttore lavori in un tratto della Salerno-Reggio Calabria finito sotto sequestro per «gravi difetti strutturali».
Ma quando è nato il sistema? La Sintel era regina degli appalti già da molti anni. Come confermano i colloqui registrati dai carabinieri di Firenze nel 2014, con l’indagine che ha scalzato due protagonisti: Stefano Perotti, super consulente pubblico-privato, ed Ettore Incalza, responsabile delle grandi opere e braccio destro dell’allora ministro ciellino Maurizio Lupi, costretto alle dimissioni per i regali ricevuti. Rilette oggi, quelle intercettazioni mostrano che le società di Monorchio junior e di Perotti avevano ottenuto insieme, dal Cociv, la direzione lavori per il Terzo valico. «Senti, ma la novità di ’sto caXXo di contratto?», chiedeva il primo.
Dopo l’arresto di Perrotti, la Sintel è rimasta da sola a dirigere la Milano-Genova. Una grande opera che deve molto a Monorchio senior: nel 2005 fu l’ex ragioniere a imprimere il bollo definitivo su quella tratta della Tav, finanziata dallo Stato (Cipe) con 4,7 miliardi, poi lievitati a più di 6. Un altro esempio di convergenza sono le telefonate tra Ettore Incalza e Giandomenico Monorchio, preoccupato che si perdano i finanziamenti pubblici alla statale 106, arteria strategica per la Calabria. Incalza lo rassicura, in un dialogo che i carabinieri definiscono «molto cordiale», e lo saluta così: «Ciao bello!».
Lunardi e la legge obiettivo
Pietro Lunardi è l’imprenditore ed ex ministro del governo Berlusconi a cui è intitolata la legge del 2002 sulle grandi opere. Una contro-riforma che ha sottratto le infrastrutture strategiche alle regole europee: niente gare, niente concorrenza. A gestire i soldi pubblici è un consorzio privato, il “general contractor”.
La norma affida alle stesse aziende perfino la nomina del direttore dei lavori: i magistrati osservano che «in nessun paese del mondo è il controllato a scegliersi il controllore». Oggi tra gli indagati a Roma c’è anche Giuseppe Lunardi, il figlio dell’ex ministro, che guida il gruppo di famiglia, Rocksoil. Per ottenere un incarico dalla Cociv, anche Lunardi junior, secondo l’accusa, avrebbe dovuto promettere consulenze e subappalti alla coppia De Michelis-Gallo.
La mangiatoia di Venezia
L’odore di sistema diventa ancora più forte analizzando la composizione dei consorzi. In cordata con Salini-Impregilo, per molti degli appalti ora incriminati, compaiono due grandi società romane: Fincosit e Condotte. Entrambe fanno parte anche del club dei privilegiati del Mose: le dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dall’acqua alta. L’opera è già costata allo Stato più di quattro miliardi, dopo vent’anni non è ancora finita e il preventivo di spesa finale è salito a 5,6. Nel 2014 i magistrati di Venezia hanno arrestato decine di imprenditori e politici per una corruzione colossale.
Il sistema Mose si è rivelato il modello (peggiorativo) delle legge obiettivo. A Venezia, infatti, non si è mai fatta nessuna gara, neppure per scegliere il general contractor; per cui tutti i soldi pubblici sono finiti direttamente al consorzio privato. Che per oltre un decennio ha avuto un solo problema: corrompere i politici, tra cui spicca l’ex governatore veneto ed ex ministro forzista Giancarlo Galan (condannato). Anche i manager di Mazzi-Fincosit e Condotte sono stati arrestati e condannati a Venezia. Stessi protagonisti, altro sistema. O forse solo un altro pezzo di un super sistema.
Milano tra Expo e Mose
L’uomo forte del consorzio per il Mose, prima degli arresti di Venezia, era Piergiorgio Baita, manager e azionista della Mantovani spa. Incarcerato già nel 2013, Baita confessa un decennio di reati veneti, patteggia la sua condanna e rientra nelle grandi opere a Milano, con la piastra dell’Expo: un appalto da 272 milioni, vinto con un ribasso record del 40 per cento, cancellato però dalle prevedibili varianti per finire in tempo i lavori. Questa indagine milanese è stata riaperta. E il segreto sulle intercettazioni ambientali più scottanti è caduto. In una di queste Baita spiega il sistema ad Angelo Paris, l’ex responsabile tecnico di Expo. Lo stesso Paris poi arrestato insieme a tre big della Tangentopoli storica: l’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, il compagno Primo Greganti e l’ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio.
Tutti condannati per le mazzette su alcuni appalti dell’Esposizione e della Città della Salute (un ospedale da 323 milioni). Il colloquio tra Mr. Mose e Mr. Expo è stato registrato dalla Guardia di Finanza il 24 aprile 2014. Baita esordisce vantando uno stretto rapporto con Antonio Rognoni, il super ingegnere delle grandi opere lombarde nell’era Formigoni, e rassicura Paris, che aspira a prenderne il posto. Rognoni è stato ammanettato pochi giorni prima, per l’inchiesta sulla corruzione dei consulenti legali che preparano le gare d’appalto. Anche Paris sta per essere arrestato, ma non lo sa, e chiede a Baita a cosa puntino i magistrati.
«Non credo che si siano accontentati di questo», gli risponde il signore del Mose, che aggiunge: «C’è un’altra indagine molto importante in corso... Sulla Pedemontana Lombarda, sulla gara del secondo lotto... Che ha vinto Strabag». Paris: «Qual è il problema? Perché ha vinto Strabag?». Baita, a voce bassa: «Perché Impregilo, che aveva vinto il primo lotto, non ha rispettato alcuni impegni... rispetto a delle persone che erano garanti di Podestà e Formigoni». Paris: «Rispetto a delle persone... cosa vuol dire?». Baita: «Che loro si erano impegnati a dare del lavoro e probabilmente altre utilità... a degli intermediari di varia natura». Paris: «Non è stato fatto. E quindi sono stati puniti». Baita: «Esatto».
L’autostrada dimezzata
La Procura di Milano indaga da allora proprio sulla Pedemontana lombarda, sopra Milano. Una grande opera cara alla Lega, che però è ferma a meno di metà tracciato. Per cui quella superstrada da 4,2 miliardi resta semivuota, come la gemella Brebemi. Il primo tratto l’ha vinto Impregilo (con Astaldi, Gavio e Pizzarotti), dopo una gara rocambolesca. Il responsabile dell’appalto, Giuliano Lorenzi, fa finire il tracciato a 800 metri dallo svincolo, in aperta campagna. Per cui il pezzo mancante viene «riassegnato ex post» proprio a Impregilo. Creando così un contenzioso legale da tre miliardi con gli esclusi. Oggi l’ingegner Lorenzi è tra gli arrestati con l’accusa di aver truccato gli appalti ferroviari in Liguria.
Con il secondo lotto, vinto a sorpresa nel 2011 dal colosso austriaco Strabag, la procedura è ancora più bizzarra: al mattino il Tar conferma l’appalto; nel pomeriggio l’allora presidente di Pedemontana, Bruno Soresina, corre a firmare il mega-contratto, che il giorno dopo viene bocciato dal Consiglio di Stato. Però ormai i giudici, in base alla legge obiettivo, non possono più annullarlo, ma solo imporre un risarcimento di 22 milioni alla società pubblica Pedemontana.
Oggi questo secondo lotto è ancora fermo. E la Pedemontana rischia il fallimento. Il governatore Roberto Maroni l’ha affidata all’ex pm Antonio Di Pietro, che lancia l’allarme: i soldi sono finiti, la società ha un anno di sopravvivenza. Dalle carte di Firenze, arrivate anche a Milano, risulta che come direttore dei lavori per la Pedemontana è stato scelto un ingegnere dello studio Spm, quello di Perotti. Mentre il progetto «free flow» porta la firma di Corinne Perotti, la figlia dell’architetto arrestato nel 2015.
I big agli atti
Nelle nuove inchieste di Roma e Genova compaiono anche i proprietari dei colossi delle costruzioni. Duccio Astaldi è indagato per turbativa d’asta: un appalto da 68 milioni che secondo l’accusa fu truccato per favorire la società Condotte, di cui è capo azienda, alleata con la cooperativa emiliana Ccc. Astaldi in luglio progettava di quotare in Borsa il suo gruppo, che con 1,3 miliardi è terzo per fatturato in Italia, due gradini sotto Salini-Impregilo.
Le due società romane sono alleate in molti appalti e i titolari frequentano lo stesso circolo canottieri Aniene. Anche Pietro Salini è citato nelle intercettazioni. Due anni fa parlava con Incalza di «problemi per l’autostrada in Libia» e di «finanziamenti per il valico dei Giovi dell’alta velocità». Oggi i tecnici della «banda Bassotti» lo chiamano «zio Pietro». E i carabinieri, intercettando il manager Longo, sentono Pietro Salini che gli chiede, con tono perentorio, di «non far vincere appalti alla Salc», che è «la società di suo cugino».
Ricatto al sistema
A indebolire «l’amalgama» è solo l’ambizione di De Michelis di gestire da sé le tangenti. A quel punto Giandomenico Monorchio vorrebbe cacciarlo, ma l’ingegnere contrattacca: minaccia di rivelare a Firenze i segreti del sistema. E per queste «manovre ricattatorie» ora è accusato anche di tentata estorsione. L’inchiesta però documenta che De Michelis ha incontrato davvero, più volte, un maresciallo della Guardia di Finanza. In un passaggio i carabinieri scrivono: «De Michelis afferma che anche un soggetto appellato “il professore” sarebbe coinvolto negli illeciti. Dal prosieguo della conversazione si comprende che intende riferirsi ad Andrea Monorchio, padre di Giandomenico». Secondo De Michelis, “il professore” avrebbe sollecitato lo sblocco dei finanziamenti per il terzo lotto della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada dove ha trovato lavoro la società del figlio.
De Michelis, intercettato, assicura anche di aver denunciato i retroscena del mega-appalto per il tunnel del Brennero: un’opera da 8 miliardi, che coinvolgerebbe «anche un sottosegretario». E sulla Tav, minaccia Salini in persona: «Io devo fare arrivare un messaggio a Pietro, perché le cose stanno diventando molto, molto pericolose». A fine agosto, due mesi prima dell’arresto, il tecnico si sente sicuro che lo scandalo sarà enorme: «Ci stanno gli ordini di servizio, le fotografie, c’è pure che la rendicontazione è sbagliata: hanno dovuto far cambiare la legge apposta». Un’altra sua frase, che allude a tre società-chiave (del gruppo Gavio, di Perotti e di Monorchio), è già trascritta nella richiesta d’arresto firmata a Roma dal pm Giuseppe Cascini: «Io c’ho una lettera in cui la Sina, la Spm e la Sintel si spartiscono i lavori...». Parola di Mostro delle grandi opere.
Leggi
La precisazione di Cefla e Manutencoop e la risposta de L'Espresso
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• Salerno Reggio Calabria
• Expo 2015
© Riproduzione riservata 29 novembre 2016
http://espresso.repubblica.it/inchieste ... i-1.288717
Inchiesta
Grandi opere: corruzione in corso. Così gli appalti diventano il regno delle tangenti
Il traffico di mazzette è cambiato, come il modo di versarle. Dalle valigette ai politici si è passati a consulenze, prestanomi e affidamento lavori. Un nuovo sistema basato su triangolazioni e più difficile da smantellare
di Paolo Biondani e Giovanni Tizian
29 novembre 2016
Corruzione, affari miliardari, omertà e ricatti. Che diventano un sistema. Il noir del calcestruzzo è servito. La trama si ripete in decine di cantieri delle grandi opere. Gli appalti più ricchi d’Italia. Quelli che codici e protocolli per la legalità avrebbero dovuto rendere impermeabili alle mazzette e ai favoritismi privati. Invece proprio i lavori dichiarati strategici, dalle nuove autostrade all’alta velocità ferroviaria, finanziati con fiumi di denaro pubblico, sembrano un suk del malaffare. Proprio come negli anni neri di Tangentopoli.
Vent’anni fa, le inchieste milanesi di Mani Pulite fecero esplodere, con centinaia di arresti e oltre mille condanne definitive, il vecchio sistema della corruzione diretta: soldi ai politici (o ai manager pubblici nominati dai partiti) in cambio di appalti d’oro per le aziende privilegiate. Oggi le nuove indagini, da Firenze a Genova, da Roma a Reggio Calabria, mostrano che la grande corruzione continua, con un’evoluzione della tecnica. Il nuovo sistema disegnato dagli atti d’accusa scorre su tre livelli. Ora come allora i colossi italiani delle costruzioni, rappresentati da manager di altissimo livello, stringono accordi illeciti con i tecnici che gestiscono gli appalti. In cambio, devono pagare consulenze a certi studi professionali o cedere subappalti ad altre imprese private, che giocano di sponda: i titolari sono prestanome o complici che si dividono i soldi con i corrotti. Una Tangentopoli modernizzata, più difficile da smascherare. Anche perché i pochi che conoscono i segreti del sistema hanno un fortissimo potere di ricatto.
Ettore Pagani è uno dei 35 arrestati, il 27 ottobre scorso, nelle indagini collegate di Roma e Genova sulle grandi opere. Come manager del gruppo Salini-Impregilo, è diventato vicepresidente del Cociv, il consorzio privato (composto da Salini-Impregilo Condotte e Civ) che gestisce gli appalti pubblici della Tav Milano-Genova. Ed è uno dei protagonisti dell’intercettazione più eloquente: l’azienda di «zio Pietro», cioè Salini, vuole soldi dalla società pubblica Italferr, che Pagani chiama «zio Paperone». E a fare da tramite è il tecnico che dovrebbe vigilare sull’appalto, Giampiero De Michelis, (anche lui agli arresti) che assicura di essersi mobilitato, testualmente, «con tutta la banda Bassotti».
Con la coppia controllore-controllato è finito in carcere anche Michele Longo, top manager per l’Italia di Salini-Impregilo e presidente del Cociv. Le cimici piazzate nei loro uffici hanno svelato la spartizione di decine di appalti, compresa la Salerno-Reggio Calabria. Pagani, lamentandosi dell’avidità dei tecnici, parla di un sistema che dura da anni: «Siamo stati noi ad aver abituato questa gente ad operare in un certo modo», spiega il dirigente della Salini, che aggiunge: «In passato lo abbiamo fatto su Cavet. E poi sulla Salerno-Reggio... E da altre parti ancora». Cavet è il consorzio dell’alta velocità in Emilia e Toscana.
Salini-Impregilo è il più grande gruppo italiano di costruzioni, con 6 miliardi di fatturato, e guida anche la cordata Eurolink (insieme a Condotte) per il Ponte sullo stretto di Messina, rilanciato dal premier Matteo Renzi a fine settembre, alla festa per i 110 anni di vita dell’azienda romana. Che nel maggio scorso ha designato come presidente di Eurolink proprio Longo, il manager ora sotto accusa sia a Roma che a Genova.
Il “mostro” e l’amico calabrese
Il primo beneficiario del nuovo sistema corruttivo, secondo l’accusa, è Giampiero De Michelis, ingegnere, che da anni colleziona ruoli di “direzione lavori”, cioè controllore pubblico (in teoria) degli appalti. In realtà De Michelis chiude gli occhi sui ritardi, non denuncia l’uso di materiali scadenti e pericolosi (come il «cemento che sembra colla») e certifica furbi «stati di avanzamento lavori» per sbloccare i soldi statali per la nuova Tav (valico dei Giovi) e per l’autostrada Salerno-Reggio. In cambio i manager della Salini gli promettono, e in parte versano, milioni «sotto forme di commesse in favore di società a lui riconducibili». Diventato così «una pedina in grado di fare il gioco del consorzio privato», come lo definiscono i pm, l’ingegner De Michelis si sente sempre più forte.
E nel 2015 si mette in proprio: dirotta i subappalti-tangente a un suo prestanome conosciuto nei cantieri della Salerno-Reggio. Un imprenditore calabrese, Domenico Gallo, sospettato di frequentazioni mafiose. Quei subappalti a rischio preoccupano un manager della Salini, che accampa ostacoli legali: «Ho già un elenco di società che hanno partecipato alla gara precedente...». Ma De Michelis tiene duro: «L’incarico può essere anche ad personam». «Sì, lo so, lo so», acconsente il manager, che con gli altri capi-azienda si lamenta dell’ingegnere: «Abbiamo creato un mostro». Alla fine è proprio la voce di “Mimmo” Gallo a descrivere l’impasto che governa le grandi opere: «Tra chi fa il lavoro, la stazione appaltante e i subappaltatori deve crearsi l’amalgama. Se ognuno tira e l’altro storce non si va più avanti». «Amalgama» è diventato il nome dell’inchiesta della procura di Roma e del nucleo investigativo dell'Arma della Capitale: le tangenti tra controllori e controllati sono il cemento della spartizione di soldi pubblici.
Il figlio dell’uomo di Stato
Quando è finito in cella, De Michelis era ancora uno dei tecnici della Sintel Engeneering, una società privata che ha diretto decine di opere pubbliche. Fa capo a Giandomenico Monorchio, figlio di Andrea, l’ex ragioniere generale dello Stato, poi diventato presidente di Infrastrutture Spa, la società pubblica per il rilancio delle grandi opere, ora assorbita dalla Cassa depositi e prestiti. Intanto Monorchio senior è passato al privato: è presidente del consiglio sindacale della Salini spa. Il figlio Giandomenico invece è agli arresti. Monorchio junior aveva capito la logica del sistema: «La gente deve sapere stare al mondo... se ormai le cose sono divise, sono divise per tutti», si lascia scappare in un’intercettazione. Che sembra riassumere la regola base di un codice parallelo, non scritto, dei lavori pubblici: l’equa spartizione.
La coppia Monorchio-De Michelis puntava pure alla nuova stazione di Firenze per l’alta velocità, affidata al consorzio Nodavia, di cui fa parte la società Condotte. Volevano inserire un amico loro come direttore lavori: «un uomo nostro», che risponde al nome di Giovanni Fiordaliso, tecnico dell’Anas. Per l’azienda statale delle strade, peraltro, Fiordaliso ha fatto il direttore lavori in un tratto della Salerno-Reggio Calabria finito sotto sequestro per «gravi difetti strutturali».
Ma quando è nato il sistema? La Sintel era regina degli appalti già da molti anni. Come confermano i colloqui registrati dai carabinieri di Firenze nel 2014, con l’indagine che ha scalzato due protagonisti: Stefano Perotti, super consulente pubblico-privato, ed Ettore Incalza, responsabile delle grandi opere e braccio destro dell’allora ministro ciellino Maurizio Lupi, costretto alle dimissioni per i regali ricevuti. Rilette oggi, quelle intercettazioni mostrano che le società di Monorchio junior e di Perotti avevano ottenuto insieme, dal Cociv, la direzione lavori per il Terzo valico. «Senti, ma la novità di ’sto caXXo di contratto?», chiedeva il primo.
Dopo l’arresto di Perrotti, la Sintel è rimasta da sola a dirigere la Milano-Genova. Una grande opera che deve molto a Monorchio senior: nel 2005 fu l’ex ragioniere a imprimere il bollo definitivo su quella tratta della Tav, finanziata dallo Stato (Cipe) con 4,7 miliardi, poi lievitati a più di 6. Un altro esempio di convergenza sono le telefonate tra Ettore Incalza e Giandomenico Monorchio, preoccupato che si perdano i finanziamenti pubblici alla statale 106, arteria strategica per la Calabria. Incalza lo rassicura, in un dialogo che i carabinieri definiscono «molto cordiale», e lo saluta così: «Ciao bello!».
Lunardi e la legge obiettivo
Pietro Lunardi è l’imprenditore ed ex ministro del governo Berlusconi a cui è intitolata la legge del 2002 sulle grandi opere. Una contro-riforma che ha sottratto le infrastrutture strategiche alle regole europee: niente gare, niente concorrenza. A gestire i soldi pubblici è un consorzio privato, il “general contractor”.
La norma affida alle stesse aziende perfino la nomina del direttore dei lavori: i magistrati osservano che «in nessun paese del mondo è il controllato a scegliersi il controllore». Oggi tra gli indagati a Roma c’è anche Giuseppe Lunardi, il figlio dell’ex ministro, che guida il gruppo di famiglia, Rocksoil. Per ottenere un incarico dalla Cociv, anche Lunardi junior, secondo l’accusa, avrebbe dovuto promettere consulenze e subappalti alla coppia De Michelis-Gallo.
La mangiatoia di Venezia
L’odore di sistema diventa ancora più forte analizzando la composizione dei consorzi. In cordata con Salini-Impregilo, per molti degli appalti ora incriminati, compaiono due grandi società romane: Fincosit e Condotte. Entrambe fanno parte anche del club dei privilegiati del Mose: le dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dall’acqua alta. L’opera è già costata allo Stato più di quattro miliardi, dopo vent’anni non è ancora finita e il preventivo di spesa finale è salito a 5,6. Nel 2014 i magistrati di Venezia hanno arrestato decine di imprenditori e politici per una corruzione colossale.
Il sistema Mose si è rivelato il modello (peggiorativo) delle legge obiettivo. A Venezia, infatti, non si è mai fatta nessuna gara, neppure per scegliere il general contractor; per cui tutti i soldi pubblici sono finiti direttamente al consorzio privato. Che per oltre un decennio ha avuto un solo problema: corrompere i politici, tra cui spicca l’ex governatore veneto ed ex ministro forzista Giancarlo Galan (condannato). Anche i manager di Mazzi-Fincosit e Condotte sono stati arrestati e condannati a Venezia. Stessi protagonisti, altro sistema. O forse solo un altro pezzo di un super sistema.
Milano tra Expo e Mose
L’uomo forte del consorzio per il Mose, prima degli arresti di Venezia, era Piergiorgio Baita, manager e azionista della Mantovani spa. Incarcerato già nel 2013, Baita confessa un decennio di reati veneti, patteggia la sua condanna e rientra nelle grandi opere a Milano, con la piastra dell’Expo: un appalto da 272 milioni, vinto con un ribasso record del 40 per cento, cancellato però dalle prevedibili varianti per finire in tempo i lavori. Questa indagine milanese è stata riaperta. E il segreto sulle intercettazioni ambientali più scottanti è caduto. In una di queste Baita spiega il sistema ad Angelo Paris, l’ex responsabile tecnico di Expo. Lo stesso Paris poi arrestato insieme a tre big della Tangentopoli storica: l’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, il compagno Primo Greganti e l’ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio.
Tutti condannati per le mazzette su alcuni appalti dell’Esposizione e della Città della Salute (un ospedale da 323 milioni). Il colloquio tra Mr. Mose e Mr. Expo è stato registrato dalla Guardia di Finanza il 24 aprile 2014. Baita esordisce vantando uno stretto rapporto con Antonio Rognoni, il super ingegnere delle grandi opere lombarde nell’era Formigoni, e rassicura Paris, che aspira a prenderne il posto. Rognoni è stato ammanettato pochi giorni prima, per l’inchiesta sulla corruzione dei consulenti legali che preparano le gare d’appalto. Anche Paris sta per essere arrestato, ma non lo sa, e chiede a Baita a cosa puntino i magistrati.
«Non credo che si siano accontentati di questo», gli risponde il signore del Mose, che aggiunge: «C’è un’altra indagine molto importante in corso... Sulla Pedemontana Lombarda, sulla gara del secondo lotto... Che ha vinto Strabag». Paris: «Qual è il problema? Perché ha vinto Strabag?». Baita, a voce bassa: «Perché Impregilo, che aveva vinto il primo lotto, non ha rispettato alcuni impegni... rispetto a delle persone che erano garanti di Podestà e Formigoni». Paris: «Rispetto a delle persone... cosa vuol dire?». Baita: «Che loro si erano impegnati a dare del lavoro e probabilmente altre utilità... a degli intermediari di varia natura». Paris: «Non è stato fatto. E quindi sono stati puniti». Baita: «Esatto».
L’autostrada dimezzata
La Procura di Milano indaga da allora proprio sulla Pedemontana lombarda, sopra Milano. Una grande opera cara alla Lega, che però è ferma a meno di metà tracciato. Per cui quella superstrada da 4,2 miliardi resta semivuota, come la gemella Brebemi. Il primo tratto l’ha vinto Impregilo (con Astaldi, Gavio e Pizzarotti), dopo una gara rocambolesca. Il responsabile dell’appalto, Giuliano Lorenzi, fa finire il tracciato a 800 metri dallo svincolo, in aperta campagna. Per cui il pezzo mancante viene «riassegnato ex post» proprio a Impregilo. Creando così un contenzioso legale da tre miliardi con gli esclusi. Oggi l’ingegner Lorenzi è tra gli arrestati con l’accusa di aver truccato gli appalti ferroviari in Liguria.
Con il secondo lotto, vinto a sorpresa nel 2011 dal colosso austriaco Strabag, la procedura è ancora più bizzarra: al mattino il Tar conferma l’appalto; nel pomeriggio l’allora presidente di Pedemontana, Bruno Soresina, corre a firmare il mega-contratto, che il giorno dopo viene bocciato dal Consiglio di Stato. Però ormai i giudici, in base alla legge obiettivo, non possono più annullarlo, ma solo imporre un risarcimento di 22 milioni alla società pubblica Pedemontana.
Oggi questo secondo lotto è ancora fermo. E la Pedemontana rischia il fallimento. Il governatore Roberto Maroni l’ha affidata all’ex pm Antonio Di Pietro, che lancia l’allarme: i soldi sono finiti, la società ha un anno di sopravvivenza. Dalle carte di Firenze, arrivate anche a Milano, risulta che come direttore dei lavori per la Pedemontana è stato scelto un ingegnere dello studio Spm, quello di Perotti. Mentre il progetto «free flow» porta la firma di Corinne Perotti, la figlia dell’architetto arrestato nel 2015.
I big agli atti
Nelle nuove inchieste di Roma e Genova compaiono anche i proprietari dei colossi delle costruzioni. Duccio Astaldi è indagato per turbativa d’asta: un appalto da 68 milioni che secondo l’accusa fu truccato per favorire la società Condotte, di cui è capo azienda, alleata con la cooperativa emiliana Ccc. Astaldi in luglio progettava di quotare in Borsa il suo gruppo, che con 1,3 miliardi è terzo per fatturato in Italia, due gradini sotto Salini-Impregilo.
Le due società romane sono alleate in molti appalti e i titolari frequentano lo stesso circolo canottieri Aniene. Anche Pietro Salini è citato nelle intercettazioni. Due anni fa parlava con Incalza di «problemi per l’autostrada in Libia» e di «finanziamenti per il valico dei Giovi dell’alta velocità». Oggi i tecnici della «banda Bassotti» lo chiamano «zio Pietro». E i carabinieri, intercettando il manager Longo, sentono Pietro Salini che gli chiede, con tono perentorio, di «non far vincere appalti alla Salc», che è «la società di suo cugino».
Ricatto al sistema
A indebolire «l’amalgama» è solo l’ambizione di De Michelis di gestire da sé le tangenti. A quel punto Giandomenico Monorchio vorrebbe cacciarlo, ma l’ingegnere contrattacca: minaccia di rivelare a Firenze i segreti del sistema. E per queste «manovre ricattatorie» ora è accusato anche di tentata estorsione. L’inchiesta però documenta che De Michelis ha incontrato davvero, più volte, un maresciallo della Guardia di Finanza. In un passaggio i carabinieri scrivono: «De Michelis afferma che anche un soggetto appellato “il professore” sarebbe coinvolto negli illeciti. Dal prosieguo della conversazione si comprende che intende riferirsi ad Andrea Monorchio, padre di Giandomenico». Secondo De Michelis, “il professore” avrebbe sollecitato lo sblocco dei finanziamenti per il terzo lotto della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada dove ha trovato lavoro la società del figlio.
De Michelis, intercettato, assicura anche di aver denunciato i retroscena del mega-appalto per il tunnel del Brennero: un’opera da 8 miliardi, che coinvolgerebbe «anche un sottosegretario». E sulla Tav, minaccia Salini in persona: «Io devo fare arrivare un messaggio a Pietro, perché le cose stanno diventando molto, molto pericolose». A fine agosto, due mesi prima dell’arresto, il tecnico si sente sicuro che lo scandalo sarà enorme: «Ci stanno gli ordini di servizio, le fotografie, c’è pure che la rendicontazione è sbagliata: hanno dovuto far cambiare la legge apposta». Un’altra sua frase, che allude a tre società-chiave (del gruppo Gavio, di Perotti e di Monorchio), è già trascritta nella richiesta d’arresto firmata a Roma dal pm Giuseppe Cascini: «Io c’ho una lettera in cui la Sina, la Spm e la Sintel si spartiscono i lavori...». Parola di Mostro delle grandi opere.
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La precisazione di Cefla e Manutencoop e la risposta de L'Espresso
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Re: Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
OVRA IN AZIONE - ACETTATELO COSI'
A parte il fatto che il filmato mette, in evidenza la cultura Burina della Lega e del suo capo.
Ma soprattutto, i Lombardo-Veneti ANTIFASCISTI non devono dimenticare Salvini a Pontida:
Salvini: “Mano libera a forze dell’ordine e via le leggi contro propaganda fascista”.
(PS. Ma ce ne sono ancora antifascisti nel Lombardo-Veneto???????????????????????)
CHI DIMENTICA E’ PERDUTO
IlFattoQuotidiano.it / Politica
Referendum per l’autonomia, gli spot trash in dialetto della Lega: da Lucia Mondella allo sketch sul cavalcavia crollato
di F. Q. | 19 settembre 2017
VIDEO:
02:21
02:21
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09 ... e=category
di F. Q. | 19 settembre 2017
86
• 329
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Più informazioni su: Lega Nord, Lombardia
Una quindicina di spot video, di venti secondi ciascuno, tutti in dialetto locale lombardo. E tutti senza loghi e simboli di partito. Li ha presentati la Lega nord Lombarda in una conferenza stampa nella sede di via Bellerio, a cui ha partecipato anche il presidente della Regione, Roberto Maroni. Fanno parte della campagna di comunicazione per promuovere il Sì al referendum consultivo per l’autonomia della Lombardia, in programma il 22 ottobre, in contemporanea con quello del Veneto. Gli spot, già visibili sulle pagine Facebook, saranno trasmessi anche sulle tv locali. I protagonisti sono per lo più lombardi: ci sono Lucia Mondella che va al seggio con la barca e l’operaio bergamasco che non riesce a ritirarsi dal lavoro. Unica eccezione “un siciliano”, interpretato (in maniera stereotipata) da un attore con camicia sbottonata e catenella d’oro al collo, che chiede di andare a votare per l’autonomia “perché il pane e il lavoro me li ha dati la Lombardia”. Tra gli spot anche uno ambientato sul cavalcavia crollato ad Annone il 28 dicembre del 2016, dove morì una persona (e altre cinque rimasero ferite). “Una scelta di cattivo gusto scherzare su una tragedia” hanno commentato alcuni sui social network.
di F. Q. | 19 settembre 2017
A parte il fatto che il filmato mette, in evidenza la cultura Burina della Lega e del suo capo.
Ma soprattutto, i Lombardo-Veneti ANTIFASCISTI non devono dimenticare Salvini a Pontida:
Salvini: “Mano libera a forze dell’ordine e via le leggi contro propaganda fascista”.
(PS. Ma ce ne sono ancora antifascisti nel Lombardo-Veneto???????????????????????)
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Referendum per l’autonomia, gli spot trash in dialetto della Lega: da Lucia Mondella allo sketch sul cavalcavia crollato
di F. Q. | 19 settembre 2017
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Una quindicina di spot video, di venti secondi ciascuno, tutti in dialetto locale lombardo. E tutti senza loghi e simboli di partito. Li ha presentati la Lega nord Lombarda in una conferenza stampa nella sede di via Bellerio, a cui ha partecipato anche il presidente della Regione, Roberto Maroni. Fanno parte della campagna di comunicazione per promuovere il Sì al referendum consultivo per l’autonomia della Lombardia, in programma il 22 ottobre, in contemporanea con quello del Veneto. Gli spot, già visibili sulle pagine Facebook, saranno trasmessi anche sulle tv locali. I protagonisti sono per lo più lombardi: ci sono Lucia Mondella che va al seggio con la barca e l’operaio bergamasco che non riesce a ritirarsi dal lavoro. Unica eccezione “un siciliano”, interpretato (in maniera stereotipata) da un attore con camicia sbottonata e catenella d’oro al collo, che chiede di andare a votare per l’autonomia “perché il pane e il lavoro me li ha dati la Lombardia”. Tra gli spot anche uno ambientato sul cavalcavia crollato ad Annone il 28 dicembre del 2016, dove morì una persona (e altre cinque rimasero ferite). “Una scelta di cattivo gusto scherzare su una tragedia” hanno commentato alcuni sui social network.
di F. Q. | 19 settembre 2017
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Re: Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
In Lombardia e comunque in molte regioni del nord il dialetto, specie fra i giovani, non si parla quasi. Al limite lo slang e le frasi fatte. Quindi non si sa la Lega che dice quando vuol promuoverlo.
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Re: Referendum consultvo per l'autonomia in Veneto
Il voto elettronico è il miglior modo per "truccare" le elezioni ...UncleTom ha scritto:continua
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Referendum Lombardia, Maroni compra 24mila tablet per il voto elettronico. Spesi 23 milioni di euro
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«Non si discute per aver ragione, ma per capire» (Peanuts)
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