Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
"La pancia dell'Italia è a destra Quei divieti non hanno senso"
Lo scrittore: «La politica non educa più e la gente segue l'istinto. È assurdo però fare polemica su una bandiera»
Matteo Sacchi - Mer, 06/12/2017 - 09:11
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Antonio Pennacchi (classe 1950) è, probabilmente, lo scrittore italiano che meglio ha raccontato il complesso rapporto tra la politica di destra e quella di sinistra.
Lo ha fatto non guardando fuori di sé, piuttosto con una sua personale via introspettiva e familiare che ha portato a romanzi come Il fasciocomunista (che oggi torna in libreria in una versione nuova, completamente riscritta dall'autore) o Canale Mussolini (entrambi pubblicati per i tipi di Mondadori). La nuova versione de Il fasciocomunista arriva in libreria proprio in un momento in cui il Paese, sui simboli della destra, sembra essere sull'orlo di una crisi (di nervi) politica.
Pennacchi il «fasciocomunista» del titolo del suo libro cosa descrive un binomio inconciliabile?
«No, nel mio caso racconta una ricomposizione. Il reale è dialettico e io nella mia vita questa dialettica l'ho attraversata e ricomposta. Sono stato a destra e sono stato cacciato e poi sono stato a sinistra. Ho fatto un percorso interiore, in questo mi ha aiutato essere nato a Latina e la storia della mia famiglia...».
Il Paese però non l'ha fatto questo percorso di ricomposizione, a quanto sembra...
«Non l'ha fatto la politica. La destra vuole ricordarsi la storia a modo suo. Del fascismo ricorda solo le bonifiche, lo Stato sociale, e si dimentica le leggi razziali, la guerra senza senso. La sinistra, all'opposto, cancella il buono e ricorda solo la parte di storia che le fa comodo. La tendenza è quella di tenere solo quello che non è ideologicamente fastidioso».
Ma c'è un ritorno di una destra oltranzista? Lei vive a Latina, conosce quel mondo: le sembra ci sia un nuovo fascismo?
«Io faccio il narratore e me la cavo meglio a raccontare il passato, il mio, che a raccontare il futuro. Alla fine cosa vuole che le dica, il personale è politico. Se la politica non educa e si limita a seguire il Paese la gente cosa può fare? Reagisce di pancia, segue la pancia... E la pancia è di destra. Ma la soluzione non può essere il vietare. Coi divieti non si va lontano. Qui dicono tutti solo e soltanto no a tutti. No al fascista, togli Dux dal monumento. Ma anche dall'altra parte c'è solo il no all'immigrato».
Insomma la legge Fiano non serve...
«Sono annichilito dalla pochezza della politica attuale. Forse dopo la caduta della Prima Repubblica serve una palingenesi totale... Ma come le dicevo, me la cavo meglio con il passato che con il presente».
Però forse il presente è così perché quel percorso di ricomposizione che lei ha vissuto personalmente il Paese non l'ha attraversato. È così?
«Sì, solo pochi di quelli che hanno attraversato il periodo che ho attraversato io - la contestazione, il Sessantotto - sono arrivati a una ricomposizione. Come dicevo, c'è chi invece preferisce il muro contro muro».
È la scrittura che l'ha aiutata a rielaborare?
«No, io ho scritto molto tardi, prima ho fatto altro, trent'anni di fabbrica. Ho scritto a maturazione avvenuta. Ho scritto alla fine».
Però forse la sua generazione aveva una coscienza politica più stratificata. Qui il clima si arroventa per una bandiera che poi si scopre essere del Kaiser...
«Non sia schematico. Non tutti facevamo politica. Anche allora c'era chi semplicemente se ne andava a ballare. Certo, per chi la faceva la politica era considerata una cosa alta. Non semplicemente farsi i cazzi propri. Le bandiere, i fazzoletti al collo... Non possono essere queste le cose al centro del dibattito. Il problema è la bandiera o piuttosto che non ci sono dei veri aggregatori di idee? Che c'è un vuoto e nessuno lo riempie?».
Ma perché ha deciso di fare una riscrittura completa del Fasciocomunista?
«Ho riscritto Il fasciocomunista perché io cerco di spiegare concetti complicati nella maniera più popolare possibile. E non è detto che in questo processo ci si riesca al primo colpo. Io lavoro per i posteri, come è giusto per uno scrittore e rileggendomi non ero soddisfatto sul piano formale. A proposito volevo chiederle un favore e ringraziarla di una cosa...».
Prego dica...
«Grazie di non avermi chiesto niente di Renzi».
Ci mancherebbe, Renzi non è mica obbligatorio.
«E poi per cortesia non mi faccia parlare in romanesco come fanno sempre quando mi intervistano...».
Ps: L'intervistatore garantisce che Pennacchi per lo più non ha usato coloriture dialettali.
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 71122.html
Lo scrittore: «La politica non educa più e la gente segue l'istinto. È assurdo però fare polemica su una bandiera»
Matteo Sacchi - Mer, 06/12/2017 - 09:11
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Antonio Pennacchi (classe 1950) è, probabilmente, lo scrittore italiano che meglio ha raccontato il complesso rapporto tra la politica di destra e quella di sinistra.
Lo ha fatto non guardando fuori di sé, piuttosto con una sua personale via introspettiva e familiare che ha portato a romanzi come Il fasciocomunista (che oggi torna in libreria in una versione nuova, completamente riscritta dall'autore) o Canale Mussolini (entrambi pubblicati per i tipi di Mondadori). La nuova versione de Il fasciocomunista arriva in libreria proprio in un momento in cui il Paese, sui simboli della destra, sembra essere sull'orlo di una crisi (di nervi) politica.
Pennacchi il «fasciocomunista» del titolo del suo libro cosa descrive un binomio inconciliabile?
«No, nel mio caso racconta una ricomposizione. Il reale è dialettico e io nella mia vita questa dialettica l'ho attraversata e ricomposta. Sono stato a destra e sono stato cacciato e poi sono stato a sinistra. Ho fatto un percorso interiore, in questo mi ha aiutato essere nato a Latina e la storia della mia famiglia...».
Il Paese però non l'ha fatto questo percorso di ricomposizione, a quanto sembra...
«Non l'ha fatto la politica. La destra vuole ricordarsi la storia a modo suo. Del fascismo ricorda solo le bonifiche, lo Stato sociale, e si dimentica le leggi razziali, la guerra senza senso. La sinistra, all'opposto, cancella il buono e ricorda solo la parte di storia che le fa comodo. La tendenza è quella di tenere solo quello che non è ideologicamente fastidioso».
Ma c'è un ritorno di una destra oltranzista? Lei vive a Latina, conosce quel mondo: le sembra ci sia un nuovo fascismo?
«Io faccio il narratore e me la cavo meglio a raccontare il passato, il mio, che a raccontare il futuro. Alla fine cosa vuole che le dica, il personale è politico. Se la politica non educa e si limita a seguire il Paese la gente cosa può fare? Reagisce di pancia, segue la pancia... E la pancia è di destra. Ma la soluzione non può essere il vietare. Coi divieti non si va lontano. Qui dicono tutti solo e soltanto no a tutti. No al fascista, togli Dux dal monumento. Ma anche dall'altra parte c'è solo il no all'immigrato».
Insomma la legge Fiano non serve...
«Sono annichilito dalla pochezza della politica attuale. Forse dopo la caduta della Prima Repubblica serve una palingenesi totale... Ma come le dicevo, me la cavo meglio con il passato che con il presente».
Però forse il presente è così perché quel percorso di ricomposizione che lei ha vissuto personalmente il Paese non l'ha attraversato. È così?
«Sì, solo pochi di quelli che hanno attraversato il periodo che ho attraversato io - la contestazione, il Sessantotto - sono arrivati a una ricomposizione. Come dicevo, c'è chi invece preferisce il muro contro muro».
È la scrittura che l'ha aiutata a rielaborare?
«No, io ho scritto molto tardi, prima ho fatto altro, trent'anni di fabbrica. Ho scritto a maturazione avvenuta. Ho scritto alla fine».
Però forse la sua generazione aveva una coscienza politica più stratificata. Qui il clima si arroventa per una bandiera che poi si scopre essere del Kaiser...
«Non sia schematico. Non tutti facevamo politica. Anche allora c'era chi semplicemente se ne andava a ballare. Certo, per chi la faceva la politica era considerata una cosa alta. Non semplicemente farsi i cazzi propri. Le bandiere, i fazzoletti al collo... Non possono essere queste le cose al centro del dibattito. Il problema è la bandiera o piuttosto che non ci sono dei veri aggregatori di idee? Che c'è un vuoto e nessuno lo riempie?».
Ma perché ha deciso di fare una riscrittura completa del Fasciocomunista?
«Ho riscritto Il fasciocomunista perché io cerco di spiegare concetti complicati nella maniera più popolare possibile. E non è detto che in questo processo ci si riesca al primo colpo. Io lavoro per i posteri, come è giusto per uno scrittore e rileggendomi non ero soddisfatto sul piano formale. A proposito volevo chiederle un favore e ringraziarla di una cosa...».
Prego dica...
«Grazie di non avermi chiesto niente di Renzi».
Ci mancherebbe, Renzi non è mica obbligatorio.
«E poi per cortesia non mi faccia parlare in romanesco come fanno sempre quando mi intervistano...».
Ps: L'intervistatore garantisce che Pennacchi per lo più non ha usato coloriture dialettali.
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Re: Diario della caduta di un regime.
LIBRE news
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Foa: bavaglio web, la Fake Democracy che stanno creando
Scritto il 05/12/17 • nella Categoria: idee
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«Non è un caso, è un metodo. Con un pretesto, le “fake news”, e uno scopo finale: mettere a tacere le voci davvero libere». Marcello Foa avverte: stanno ingabbiando la libertà sul web. Negli Usa, dopo la vittoria di Trump, è partita una massiccia campagna «ispirata dagli ambienti legati al partito democratico con l’entusiastico consenso di quello repubblicano», consapevoli che la prima, grande e inaspettata sconfitta dell’establishment «non sarebbe avvenuta senza la spinta decisiva dell’informazione non mainstream». A seguire, un coro: la Germania in primis, ma anche la Gran Bretagna del post-Brexit e, ovviamente, l’Italia del post-referendum. «Sia chiaro: il problema delle “fake news” esiste, soprattutto quando a diffonderle sono società o singoli a fini di lucro», o quando le false notizie vengono usate dagli “haters”, gli odiatori, «ovviamente senza mai esporsi in prima persona». E’ un fatto: «Bisogna avere il coraggio di mettere la faccia», l’anonimato non è democrazia. Ma le proposte finora avanzate, tutte su iniziativa del Pd, tendono invece a delegare il giudizio a organismi extragiudiziali, talvolta anche extraterritoriali, con «l’intenzione di colpire arbitrariamente le parole e dunque, facilmente, anche le idee».
Ricordate il decreto Gentiloni sulla schedatura di massa degli utenti web e telefonici e la misura che autorizzava una censura di fatto? «La prima misura è da regime autoritario, senza precedenti in democrazia», mentre la seconda «delega all’Agcom la facoltà di valutare se un sito viola il diritto di autore e, un caso affermativo, di oscurarlo». In questo modo, scrive Foa sul “Giornale”, ci si appropria di funzioni che spettano normalmente alla magistratura. La proposta di legge contro le “fake news” annunciata da Renzi? Una fonte insospettabile, “Repubblica”, la teme: «Nel ddl elaborato dai senatori Zanda e Filippin – scrive Andrea Iannuzzi – si impone ai social network con oltre un milione di utenti la rimozione di contenuti che configurano reati che vanno dalla diffamazione alla pedopornografia, dallo stalking al terrorismo. La valutazione dei reati viene demandata ai gestori delle piattaforme, che di fatto sostituiscono il giudice: la libertà di espressione potrebbe essere a rischio. Previste sanzioni pesanti per chi non rispetta una serie di adempimenti burocratici».
Persino la “Repubblica”, cioè il giornale che ha amplificato le denunce di Renzi contro le “fake news”, non ha potuto esimersi dall’ammettere che così i giudici non servirebbero più, violando uno dei principi fondanti della nostra civiltà. Ammissione esplicita: la libertà di opinione è in pericolo. E non finisce qui. Marco Carrai, amico e consigliere di Renzi, in un’intervista al “Corriere della Sera” rivela: «Stiamo lavorando con uno scienziato di fama internazionale alla creazione di un “algoritmo verità”, che tramite “artificial intelligence” riesca a capire se una notizia è falsa». L’altra idea, spiega Carrai, è quella di «creare una piattaforma di “natural language processing” che analizzi le fonti giornalistiche e gli articoli correlandoli e, attraverso un grafico, segnali le anomalie». Traduzione: «Significa che un algoritmo e meccanismi di analisi semantica stabiliranno se un singolo articolo è vero o è una “fake news”. Scusate, ma io rabbrividisco», scrive Foa: «Queste sono tecniche da Grande Fratello, e non solo perché i criteri rimarranno inevitabilmente segreti (per impedire che vengano aggirati), ma soprattutto perché così si potranno discriminare le idee, i concetti, bannando quelli che un’autorità esterna (il gestore dei social!) riterrà inappropriati».
D’altronde, continua Foa, sta già avvenendo su Facebook e su Twitter, dove opinionisti anche conosciuti si sono visti cancellare gli account da un amministratore che, nel migliore dei casi, si presenta con un nome di battesimo (Marco, Jeff o Bill) e che decide che si sono “violate le regole della comunità”. «Oggi sono ancora incidenti episodici, ma domani – sotto la minaccia di sanzioni milionarie già ventilate da Renzi – i gestori sboscheranno con l’accetta. E basterà un’“esuberanza semantica”, ad esempio scrivere zingari anziché rom, o accusare un’istituzione di diffondere dati falsi o incompleti per sparire dalla faccia del web». Perché per gente come Renzi, Carrai e Gentiloni, «tutti veri splendidi progressisti», evidentemente «non può che esistere una sola Verità, quella Ufficiale, quella certificata da loro e difesa dagli implacabili gestori dei social media, novelli guardiani dell’ordine costituito». Sono cose, conclude Foa, «che possono esistere solo in una “Fake Democracy”. Quella a cui ci vogliono portare».
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Foa: bavaglio web, la Fake Democracy che stanno creando
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«Non è un caso, è un metodo. Con un pretesto, le “fake news”, e uno scopo finale: mettere a tacere le voci davvero libere». Marcello Foa avverte: stanno ingabbiando la libertà sul web. Negli Usa, dopo la vittoria di Trump, è partita una massiccia campagna «ispirata dagli ambienti legati al partito democratico con l’entusiastico consenso di quello repubblicano», consapevoli che la prima, grande e inaspettata sconfitta dell’establishment «non sarebbe avvenuta senza la spinta decisiva dell’informazione non mainstream». A seguire, un coro: la Germania in primis, ma anche la Gran Bretagna del post-Brexit e, ovviamente, l’Italia del post-referendum. «Sia chiaro: il problema delle “fake news” esiste, soprattutto quando a diffonderle sono società o singoli a fini di lucro», o quando le false notizie vengono usate dagli “haters”, gli odiatori, «ovviamente senza mai esporsi in prima persona». E’ un fatto: «Bisogna avere il coraggio di mettere la faccia», l’anonimato non è democrazia. Ma le proposte finora avanzate, tutte su iniziativa del Pd, tendono invece a delegare il giudizio a organismi extragiudiziali, talvolta anche extraterritoriali, con «l’intenzione di colpire arbitrariamente le parole e dunque, facilmente, anche le idee».
Ricordate il decreto Gentiloni sulla schedatura di massa degli utenti web e telefonici e la misura che autorizzava una censura di fatto? «La prima misura è da regime autoritario, senza precedenti in democrazia», mentre la seconda «delega all’Agcom la facoltà di valutare se un sito viola il diritto di autore e, un caso affermativo, di oscurarlo». In questo modo, scrive Foa sul “Giornale”, ci si appropria di funzioni che spettano normalmente alla magistratura. La proposta di legge contro le “fake news” annunciata da Renzi? Una fonte insospettabile, “Repubblica”, la teme: «Nel ddl elaborato dai senatori Zanda e Filippin – scrive Andrea Iannuzzi – si impone ai social network con oltre un milione di utenti la rimozione di contenuti che configurano reati che vanno dalla diffamazione alla pedopornografia, dallo stalking al terrorismo. La valutazione dei reati viene demandata ai gestori delle piattaforme, che di fatto sostituiscono il giudice: la libertà di espressione potrebbe essere a rischio. Previste sanzioni pesanti per chi non rispetta una serie di adempimenti burocratici».
Persino la “Repubblica”, cioè il giornale che ha amplificato le denunce di Renzi contro le “fake news”, non ha potuto esimersi dall’ammettere che così i giudici non servirebbero più, violando uno dei principi fondanti della nostra civiltà. Ammissione esplicita: la libertà di opinione è in pericolo. E non finisce qui. Marco Carrai, amico e consigliere di Renzi, in un’intervista al “Corriere della Sera” rivela: «Stiamo lavorando con uno scienziato di fama internazionale alla creazione di un “algoritmo verità”, che tramite “artificial intelligence” riesca a capire se una notizia è falsa». L’altra idea, spiega Carrai, è quella di «creare una piattaforma di “natural language processing” che analizzi le fonti giornalistiche e gli articoli correlandoli e, attraverso un grafico, segnali le anomalie». Traduzione: «Significa che un algoritmo e meccanismi di analisi semantica stabiliranno se un singolo articolo è vero o è una “fake news”. Scusate, ma io rabbrividisco», scrive Foa: «Queste sono tecniche da Grande Fratello, e non solo perché i criteri rimarranno inevitabilmente segreti (per impedire che vengano aggirati), ma soprattutto perché così si potranno discriminare le idee, i concetti, bannando quelli che un’autorità esterna (il gestore dei social!) riterrà inappropriati».
D’altronde, continua Foa, sta già avvenendo su Facebook e su Twitter, dove opinionisti anche conosciuti si sono visti cancellare gli account da un amministratore che, nel migliore dei casi, si presenta con un nome di battesimo (Marco, Jeff o Bill) e che decide che si sono “violate le regole della comunità”. «Oggi sono ancora incidenti episodici, ma domani – sotto la minaccia di sanzioni milionarie già ventilate da Renzi – i gestori sboscheranno con l’accetta. E basterà un’“esuberanza semantica”, ad esempio scrivere zingari anziché rom, o accusare un’istituzione di diffondere dati falsi o incompleti per sparire dalla faccia del web». Perché per gente come Renzi, Carrai e Gentiloni, «tutti veri splendidi progressisti», evidentemente «non può che esistere una sola Verità, quella Ufficiale, quella certificata da loro e difesa dagli implacabili gestori dei social media, novelli guardiani dell’ordine costituito». Sono cose, conclude Foa, «che possono esistere solo in una “Fake Democracy”. Quella a cui ci vogliono portare».
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Re: Diario della caduta di un regime.
……………………….E LE STELLE STANNO A GUARDARE……
SIAMO ENTRATI IN UNA FASE IN CUI LA DIVISIONE POLITICA NON E’ PIU’ DESTRA-SINISTRA, MA FASCISMO ED ANTIFASCISMO
Il FattoQuotidiano.it / Cronaca
Forza Nuova, blitz fascista sotto la sede di Repubblica: “È una dichiarazione di guerra”. La solidarietà del Fatto
Alcuni militanti del movimento neofascista sono entrati in azione con il volto coperto da maschere, hanno esposto una bandiera del movimento e un cartello con la scritta "Boicotta Repubblica e L'Espresso". Poi la rivendicazione su Facebook: "Infami". Solidarietà al quotidiano da parte del presidente del Consiglio e dai presidenti di Camera e Senato. Il ministro Minniti in redazione
di F. Q. | 6 dicembre 2017
521
• 1,4 mila
•
•
Più informazioni su: Fascismo, Forza Nuova, La Repubblica, Nazifascismo, Neofascismo
Un gruppo di militanti di Forza Nuova ha compiuto un blitz sotto la sede di Repubblica a Roma.
Alcuni militanti del movimento neofascista sono entrati in azione con il volto coperto da maschere, hanno esposto una bandiera e un cartello con la scritta “Boicotta Repubblica e L’Espresso“. Un paio di fumogeni sono stati lanciati all’indirizzo di dipendenti del giornale che protestavano per la provocazione. Il blitz è avvenuto poco meno di una settimana dopo quello di un gruppo di skinhead a Como nella sede di un’associazione che lavora per i migranti. Le direzioni e la redazione del Fatto Quotidiano hanno espresso la loro solidarietà ai colleghi con una nota. Sul posto è arrivato anche il ministro dell’Interno Marco Minniti. Il comitato di redazione de L’Espresso ha sottolineato il “linguaggio fascista e paramafioso”, e assicurato che il settimanale “non smetterà di informare i lettori su Forza Nuova, così come su ogni altro partito politico italiano” ed ha “espresso preoccupazione per quanto accaduto e per il crescente clima di odio nei confronti di chi prova a fare informazione sull’estremismo di destra”.
La rivendicazione da parte di Forza Nuova è stata quasi immediata. Mentre la polizia interveniva sul posto, il gruppo ha pubblicato sulla propria pagina Facebook un post nel quale si spiega che il portavoce ha letto una “dichiarazione di guerra” contro il Gruppo L’Espresso e le torce, sostengono, sono state “accese per illuminare la verità contro le menzogne dei pennivendoli di regime”. “Ci siamo presentati così perché oggi rappresentiamo ogni italiano tradito da chi con la penna favorisce Ius soli, invasione e sostituzione etnica – si legge – Il Gruppo De Benedetti, agli ordini di Soros, Renzi e Boldrini, è la voce di chi sta attuando il genocidio del popolo italiano”. Po continuano: “Roma e l’Italia si difendono con l’azione, spalla a spalla, se necessario a calci e pugni. Le chiacchiere dei politicanti o le false opposizioni (vedi destre al soldo di Berlusconi) sono nemiche del popolo quanto, se non di più, la banda Renzi. Oggi è stato solo il primo attacco contro chi diffonde il verbo immigrazionista, serve gli interessi di ong, coop e mafie varie. Da oggi inizia il boicottaggio sistematico e militante contro chi diffonde la sostituzione etnica e l’invasione. Oggi è iniziata la difesa dei patrioti contro il veleno di questi terroristi mascherati da giornalisti. Questi infami sappiano che non gli daremo tregua, li contesteremo ovunque”.
Alla redazione di Repubblica è arrivata la solidarietà del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dei presidenti di Senato e Camera Pietro Grasso e Laura Boldrini. Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha visitato il giornale ribadendo che “la libertà di stampa è alla base della democrazia”. In un Tweet il segretario del Pd Matteo Renzi ha dichiarato: “Non ci fanno paura. Quel passato non tornerà #avanti”. Poi diversi esponenti dem, di Ap e Forza Italia hanno condannato il gesto. Anche il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha commentato “l’intimidazione fascista” definendola “un atto vigliacco e inaccettabile”. Nette le parole anche dei grillini Roberto Fico e Virginia Raggi. Il parlamentare del M5s ha parlato di “episodio gravissimo” e “inaccettabili intimidazioni”. L’aula del Senato ha “stigmatizzato gli atti gravi” tramite la vicepresidente Linda Lanzillotta nel corso della discussione sul Biotestamento: “Esprimo la mia solidarietà personale e di tutta l’aula ai giornalisti – ha detto – Spero che nessuna forza politica presente in questa aula assecondi questi atti”. Per la Fnsi, il sindacato dei giornalisti, si tratta di un “intollerabile atto squadrista” che rende “ancora più urgente e necessario l’intervento dello Stato”.
La nota di solidarietà delle direzioni e la redazione de il Fatto Quotidiano e de ilfattoquotidiano.it
Le redazioni di Repubblica e de L’Espresso hanno subito oggi un’intimidazione squadristica che non può e non deve passare sotto silenzio. Le manifestazioni di intolleranza nei confronti dei giornalisti offendono la libertà di espressione e con questa il diritto di tutti a essere informati. Le direzioni e la redazione del Fatto quotidiano e de ilfattoquotidiano.it esprimono piena solidarietà ai colleghi di Repubblica e de L’Espresso e confidano nella pronta e ferma risposta della società italiana e delle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico e dei diritti costituzionali.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/1 ... o/4023575/
SIAMO ENTRATI IN UNA FASE IN CUI LA DIVISIONE POLITICA NON E’ PIU’ DESTRA-SINISTRA, MA FASCISMO ED ANTIFASCISMO
Il FattoQuotidiano.it / Cronaca
Forza Nuova, blitz fascista sotto la sede di Repubblica: “È una dichiarazione di guerra”. La solidarietà del Fatto
Alcuni militanti del movimento neofascista sono entrati in azione con il volto coperto da maschere, hanno esposto una bandiera del movimento e un cartello con la scritta "Boicotta Repubblica e L'Espresso". Poi la rivendicazione su Facebook: "Infami". Solidarietà al quotidiano da parte del presidente del Consiglio e dai presidenti di Camera e Senato. Il ministro Minniti in redazione
di F. Q. | 6 dicembre 2017
521
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Un gruppo di militanti di Forza Nuova ha compiuto un blitz sotto la sede di Repubblica a Roma.
Alcuni militanti del movimento neofascista sono entrati in azione con il volto coperto da maschere, hanno esposto una bandiera e un cartello con la scritta “Boicotta Repubblica e L’Espresso“. Un paio di fumogeni sono stati lanciati all’indirizzo di dipendenti del giornale che protestavano per la provocazione. Il blitz è avvenuto poco meno di una settimana dopo quello di un gruppo di skinhead a Como nella sede di un’associazione che lavora per i migranti. Le direzioni e la redazione del Fatto Quotidiano hanno espresso la loro solidarietà ai colleghi con una nota. Sul posto è arrivato anche il ministro dell’Interno Marco Minniti. Il comitato di redazione de L’Espresso ha sottolineato il “linguaggio fascista e paramafioso”, e assicurato che il settimanale “non smetterà di informare i lettori su Forza Nuova, così come su ogni altro partito politico italiano” ed ha “espresso preoccupazione per quanto accaduto e per il crescente clima di odio nei confronti di chi prova a fare informazione sull’estremismo di destra”.
La rivendicazione da parte di Forza Nuova è stata quasi immediata. Mentre la polizia interveniva sul posto, il gruppo ha pubblicato sulla propria pagina Facebook un post nel quale si spiega che il portavoce ha letto una “dichiarazione di guerra” contro il Gruppo L’Espresso e le torce, sostengono, sono state “accese per illuminare la verità contro le menzogne dei pennivendoli di regime”. “Ci siamo presentati così perché oggi rappresentiamo ogni italiano tradito da chi con la penna favorisce Ius soli, invasione e sostituzione etnica – si legge – Il Gruppo De Benedetti, agli ordini di Soros, Renzi e Boldrini, è la voce di chi sta attuando il genocidio del popolo italiano”. Po continuano: “Roma e l’Italia si difendono con l’azione, spalla a spalla, se necessario a calci e pugni. Le chiacchiere dei politicanti o le false opposizioni (vedi destre al soldo di Berlusconi) sono nemiche del popolo quanto, se non di più, la banda Renzi. Oggi è stato solo il primo attacco contro chi diffonde il verbo immigrazionista, serve gli interessi di ong, coop e mafie varie. Da oggi inizia il boicottaggio sistematico e militante contro chi diffonde la sostituzione etnica e l’invasione. Oggi è iniziata la difesa dei patrioti contro il veleno di questi terroristi mascherati da giornalisti. Questi infami sappiano che non gli daremo tregua, li contesteremo ovunque”.
Alla redazione di Repubblica è arrivata la solidarietà del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dei presidenti di Senato e Camera Pietro Grasso e Laura Boldrini. Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha visitato il giornale ribadendo che “la libertà di stampa è alla base della democrazia”. In un Tweet il segretario del Pd Matteo Renzi ha dichiarato: “Non ci fanno paura. Quel passato non tornerà #avanti”. Poi diversi esponenti dem, di Ap e Forza Italia hanno condannato il gesto. Anche il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha commentato “l’intimidazione fascista” definendola “un atto vigliacco e inaccettabile”. Nette le parole anche dei grillini Roberto Fico e Virginia Raggi. Il parlamentare del M5s ha parlato di “episodio gravissimo” e “inaccettabili intimidazioni”. L’aula del Senato ha “stigmatizzato gli atti gravi” tramite la vicepresidente Linda Lanzillotta nel corso della discussione sul Biotestamento: “Esprimo la mia solidarietà personale e di tutta l’aula ai giornalisti – ha detto – Spero che nessuna forza politica presente in questa aula assecondi questi atti”. Per la Fnsi, il sindacato dei giornalisti, si tratta di un “intollerabile atto squadrista” che rende “ancora più urgente e necessario l’intervento dello Stato”.
La nota di solidarietà delle direzioni e la redazione de il Fatto Quotidiano e de ilfattoquotidiano.it
Le redazioni di Repubblica e de L’Espresso hanno subito oggi un’intimidazione squadristica che non può e non deve passare sotto silenzio. Le manifestazioni di intolleranza nei confronti dei giornalisti offendono la libertà di espressione e con questa il diritto di tutti a essere informati. Le direzioni e la redazione del Fatto quotidiano e de ilfattoquotidiano.it esprimono piena solidarietà ai colleghi di Repubblica e de L’Espresso e confidano nella pronta e ferma risposta della società italiana e delle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico e dei diritti costituzionali.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Minniti: «I fascisti hanno dichiarato guerra alle idee. La risposta dello Stato sarà dura»
«Non si può essere violenti con chi pensa cose diverse da noi. Passato questo limite non si torna più indietro». Il ministro critica duramente il blitz di Forza Nuova nel corso di un lungo colloquio con Marco Damilano. E sullo Ius Soli: «È fondamentale per il futuro del paese»
di Federico Marconi
07 dicembre 2017
«"Hanno dichiarato guerra alle idee". È questa la prima cosa che ho pensato appena ho saputo dell’azione di Forza Nuova sotto la redazione dell’Espresso. E in una democrazia questo non è possibile. Il rispetto per le idee degli altri non può mai mancare. La Repubblica italiana si fonda sull’antifascismo e sulla libertà di stampa. E su questi due punti non si può transigere. Non possiamo sottovalutare queste azioni, che hanno un altissimo valore simbolico. Queste azioni devono essere perseguite dalla legge, ma nel rispetto delle regole e degli strumenti della democrazia». È forte la presa di posizione di Marco Minniti sui fatti del 6 dicembre. Il ministro dell’Interno non ha potuto evitare il tema nel corso di un lungo colloquio con il direttore dell’Espresso Marco Damilano, che si è tenuto nel corso della seconda giornata di Più libri più liberi.
Per Minniti ieri è stato oltrepassato un limite. «In democrazia, le idee degli altri possono non piacere. Ma le persone non possono essere attaccate per questo. Non si può minacciare la libertà di stampa, ne quella di espressione». Viene incalzato sulla possibilità di sciogliere questi gruppi in base alle leggi Scelba e Mancino. E il ministro risponde chiaramente: «La legge è già stata utilizzata, contro Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale per esempio. Ma prima di utilizzarla, l’importante è fare le indagini. Con queste dobbiamo costruire un percorso che permetta di dimostrare, in materia inequivocabile, che questi gruppi sono contro la democrazia. Senza possibilità di ricorso alcuno». Perché, sottolinea: «Se poi un giudice li assolve per insufficienza di prove, queste persone, questi gruppi, rischiamo di farli passare per eroi, perseguitati dalla legge».
vedi anche:
I fascisti di Forza Nuova contro l'Espresso e Repubblica: "Infami non vi daremo tregua"
Blitz di una dozzina di militanti del partito di estrema destra. Un'intimidazione arrivata dopo gli articoli della nostra testata sugli affari della galassia nera
In questo clima di incertezza politica, però, questi gruppi antidemocratici non troveranno linfa: «I corpi dello Stato che rappresento non subiscono incertezza politica». E poi citando Ciampi, che nella notte delle stragi del 1993 non riusciva a chiamare il centralino del Viminale, afferma: «L’Italia è l’unico paese al mondo ad aver sconfitto un terrorismo interno e un terrorismo mafioso, senza cedere a uno Stato d’eccezione, senza cedere a svolte antidemocratiche. Questo è un patrimonio straordinario per l’Italia di oggi».
Si parla poi delle prossime elezioni. Damilano chiede se il ritorno dei collegi uninominali, anche in territori dove la mafia è fortemente radicata, metta a rischio la tenuta democratica del Paese. «Per colpire al cuore le mafie dobbiamo recidere il rapporto che hanno con la politica» risponde Minniti «il voto è il cuore dell’espressione libera del cittadino. Se quel voto è contaminato dalla criminalità organizzata è un problema cruciale per la democrazia. La politica deve dimostrare di saper resistere alla sensazione faustiana delle mafie. Quando un politico fa un patto con le mafie, si illude di poterlo controllare. Ma non è così. Una democrazia vince se un politico non ha vincoli».
«A Roma la mafia c’è?» la domanda diretta di Damilano. «Abbiamo avuto molte indagini e processi che dicono questo. Non c’è dubbio alcuno che ci siano organizzazioni mafiose che agiscono a Roma e nel litorale romano. E l’obiettivo che ci siamo dati è liberarlo» risponde Minniti, che annuncia: «Non daremo tregua alle organizzazioni criminali di Ostia, fino a che la partita non sarà vinta».
Si tocca poi l’argomento dei migranti. «Un tema centrale, non solo nella nostra epoca, ma nella storia dell’uomo» risponde Minniti, che avverte: «Bisogna comprendere che l’unica soluzione a questo problema strutturale è controllare i flussi. Non rincorrerli. E questo significa togliere la vita dei migranti dalle mani dei trafficanti. Che sino a che continuano a fare quello che vogliono, hanno in mano le chiavi delle democrazie europee. Noi stiamo lavorando per governare i flussi migratori. Quest’anno abbiamo 56mila arrivi in meno. Noi però dobbiamo distruggere l’illegalità per costruire canali legali, tenere così insieme legalità e sicurezza».
Damilano però gli ricorda che la principale critica che viene mossa al ministro è di aver dato un ruolo di primo piano proprio ai trafficanti. Minniti si scalda, non rispondendo però del tutto: «Noi abbiamo costruito un patto positivo con la Libia. Onu e Unhcr possono agire in Libia grazie a quel patto. Unhcr ci ha ringraziato. Grazie a noi l’Oim può agire in tutti i campi di accoglienza libici».
L’ultima battuta è per lo Ius Soli. «Chi ha detto che lo Ius Soli non arriverà all’approvazione. Il calendario dice che è in calendario in Senato» afferma Minniti, prima di ricordare che è una sua battaglia: «Per me lo Ius Soli non è una legge sull’immigrazione, ma una legge sull’integrazione. E un paese che vuole pensare al proprio futuro, deve avere ottime politiche di integrazione. Così da sconfiggere anche i terrorismi islamici».
© Riproduzione riservata
07 dicembre 2017
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
«Non si può essere violenti con chi pensa cose diverse da noi. Passato questo limite non si torna più indietro». Il ministro critica duramente il blitz di Forza Nuova nel corso di un lungo colloquio con Marco Damilano. E sullo Ius Soli: «È fondamentale per il futuro del paese»
di Federico Marconi
07 dicembre 2017
«"Hanno dichiarato guerra alle idee". È questa la prima cosa che ho pensato appena ho saputo dell’azione di Forza Nuova sotto la redazione dell’Espresso. E in una democrazia questo non è possibile. Il rispetto per le idee degli altri non può mai mancare. La Repubblica italiana si fonda sull’antifascismo e sulla libertà di stampa. E su questi due punti non si può transigere. Non possiamo sottovalutare queste azioni, che hanno un altissimo valore simbolico. Queste azioni devono essere perseguite dalla legge, ma nel rispetto delle regole e degli strumenti della democrazia». È forte la presa di posizione di Marco Minniti sui fatti del 6 dicembre. Il ministro dell’Interno non ha potuto evitare il tema nel corso di un lungo colloquio con il direttore dell’Espresso Marco Damilano, che si è tenuto nel corso della seconda giornata di Più libri più liberi.
Per Minniti ieri è stato oltrepassato un limite. «In democrazia, le idee degli altri possono non piacere. Ma le persone non possono essere attaccate per questo. Non si può minacciare la libertà di stampa, ne quella di espressione». Viene incalzato sulla possibilità di sciogliere questi gruppi in base alle leggi Scelba e Mancino. E il ministro risponde chiaramente: «La legge è già stata utilizzata, contro Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale per esempio. Ma prima di utilizzarla, l’importante è fare le indagini. Con queste dobbiamo costruire un percorso che permetta di dimostrare, in materia inequivocabile, che questi gruppi sono contro la democrazia. Senza possibilità di ricorso alcuno». Perché, sottolinea: «Se poi un giudice li assolve per insufficienza di prove, queste persone, questi gruppi, rischiamo di farli passare per eroi, perseguitati dalla legge».
vedi anche:
I fascisti di Forza Nuova contro l'Espresso e Repubblica: "Infami non vi daremo tregua"
Blitz di una dozzina di militanti del partito di estrema destra. Un'intimidazione arrivata dopo gli articoli della nostra testata sugli affari della galassia nera
In questo clima di incertezza politica, però, questi gruppi antidemocratici non troveranno linfa: «I corpi dello Stato che rappresento non subiscono incertezza politica». E poi citando Ciampi, che nella notte delle stragi del 1993 non riusciva a chiamare il centralino del Viminale, afferma: «L’Italia è l’unico paese al mondo ad aver sconfitto un terrorismo interno e un terrorismo mafioso, senza cedere a uno Stato d’eccezione, senza cedere a svolte antidemocratiche. Questo è un patrimonio straordinario per l’Italia di oggi».
Si parla poi delle prossime elezioni. Damilano chiede se il ritorno dei collegi uninominali, anche in territori dove la mafia è fortemente radicata, metta a rischio la tenuta democratica del Paese. «Per colpire al cuore le mafie dobbiamo recidere il rapporto che hanno con la politica» risponde Minniti «il voto è il cuore dell’espressione libera del cittadino. Se quel voto è contaminato dalla criminalità organizzata è un problema cruciale per la democrazia. La politica deve dimostrare di saper resistere alla sensazione faustiana delle mafie. Quando un politico fa un patto con le mafie, si illude di poterlo controllare. Ma non è così. Una democrazia vince se un politico non ha vincoli».
«A Roma la mafia c’è?» la domanda diretta di Damilano. «Abbiamo avuto molte indagini e processi che dicono questo. Non c’è dubbio alcuno che ci siano organizzazioni mafiose che agiscono a Roma e nel litorale romano. E l’obiettivo che ci siamo dati è liberarlo» risponde Minniti, che annuncia: «Non daremo tregua alle organizzazioni criminali di Ostia, fino a che la partita non sarà vinta».
Si tocca poi l’argomento dei migranti. «Un tema centrale, non solo nella nostra epoca, ma nella storia dell’uomo» risponde Minniti, che avverte: «Bisogna comprendere che l’unica soluzione a questo problema strutturale è controllare i flussi. Non rincorrerli. E questo significa togliere la vita dei migranti dalle mani dei trafficanti. Che sino a che continuano a fare quello che vogliono, hanno in mano le chiavi delle democrazie europee. Noi stiamo lavorando per governare i flussi migratori. Quest’anno abbiamo 56mila arrivi in meno. Noi però dobbiamo distruggere l’illegalità per costruire canali legali, tenere così insieme legalità e sicurezza».
Damilano però gli ricorda che la principale critica che viene mossa al ministro è di aver dato un ruolo di primo piano proprio ai trafficanti. Minniti si scalda, non rispondendo però del tutto: «Noi abbiamo costruito un patto positivo con la Libia. Onu e Unhcr possono agire in Libia grazie a quel patto. Unhcr ci ha ringraziato. Grazie a noi l’Oim può agire in tutti i campi di accoglienza libici».
L’ultima battuta è per lo Ius Soli. «Chi ha detto che lo Ius Soli non arriverà all’approvazione. Il calendario dice che è in calendario in Senato» afferma Minniti, prima di ricordare che è una sua battaglia: «Per me lo Ius Soli non è una legge sull’immigrazione, ma una legge sull’integrazione. E un paese che vuole pensare al proprio futuro, deve avere ottime politiche di integrazione. Così da sconfiggere anche i terrorismi islamici».
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Re: Diario della caduta di un regime.
..........CHI STA DA UNA PARTE, E CHI DALL'ALTRA
5 ore fa
251
Ravenna, il Pd ci ripensa
Vuole togliere al Duce
la cittadinanza onoraria
Claudio Cartaldo
DAL SITO DEGLI STRUMPTRUPPEN.IT, (ORA)
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Re: Diario della caduta di un regime.
CHI DIMENTICA IL PASSATO E' COSTRETTO A RIVIVERLO
PRIMO LEVI
EDITORIALE
Attacco di Forza Nuova, libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più
Ci vogliono mettere sotto assedio per le nostre idee e per le nostre inchieste. Per questo non è possibile nessuna timidezza: bisogna schierarsi
DI MARCO DAMILANO
06 dicembre 2017
29
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Abbiamo il senso delle proporzioni e in prima battuta volevamo evitare di ricorrere alla terminologia anni Settanta, tipo “vile attacco fascista contro la stampa democratica”. Perché noi giornalisti dell'Espresso e di Repubblica siamo contemporanei, viviamo e raccontiamo questa mondo, condividiamo le speranze e le inquietudini dei nostri lettori, lanciamo domande più che offrire risposte preconfezionate. E invece Forza Nuova, CasaPound e i loro camerati vivono in un'altra epoca, fatta di chiusure, confini, muri, difesa della sacra razza e del sacro suolo, intolleranza verso le critiche, le inchieste.
Neppure una riga di pubblicità per chi sbandiera lugubri simbologie del passato, avevamo pensato in un primo momento. Ma poi scorrono quelle immagini di uomini con il volto coperto che urlano in un luogo di lavoro, nel cortile di ingresso di una redazione. Quel post su facebook di Forza Nuova, partito che fu rappresentato in Parlamento europeo, il cui leader Roberto Fiore provò a candidarsi nel 2006 con quel Berlusconi che oggi definiscono «falsa opposizione», quelle parole che esaltano apertamente la violenza («Roma e l'Italia si difendono con l'azione, spalla a spalla, a calci e pugni...»). E allora no, non si può accettare di banalizzare anche questo episodio, come accade con le parole in libertà degli squadristi da tastiera. Quando lo squadrismo supera il virtuale e non si vergogna di toccare materia incandescente, tipo intimidire l'uscita di un giornale, è un livello che si alza, un confine che viene abbattuto.
Ci vogliono mettere sotto assedio, come hanno impunemente scritto, perché siamo giornalisti. Ci attaccano per le nostre idee, sullo ius soli, e per le nostre inchieste, quella firmata da Giovanni Tizian, Stefano Vergine e Andrea Palladino sui finanziamenti e sulle origini delle fortune economiche dell'estrema destra . Provano a intercettare un clima di intolleranza e di odio più ampio nei confronti di chi fa il nostro lavoro, il mestiere di informare. In un paese in cui la stampa e i giornalisti sono stati sotto il tiro, e spesso vittime, di terroristi rossi e neri, logge occulte, mafia e camorra. Ce lo siamo dimenticati, in questa Italia immersa nel presente, senza memoria. Eppure i nemici della libertà intuiscono istintivamente dove devono colpire, sanno che ogni attacco alla stampa è un anticorpo che viene meno, una parte di convivenza civile che viene eliminata, un pezzo di democrazia ferita. Per questo non è possibile nessuna timidezza, nessuna esitazione, bisogna schierarsi. Libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più.
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• FORZA NUOVA
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PRIMO LEVI
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Attacco di Forza Nuova, libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più
Ci vogliono mettere sotto assedio per le nostre idee e per le nostre inchieste. Per questo non è possibile nessuna timidezza: bisogna schierarsi
DI MARCO DAMILANO
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Abbiamo il senso delle proporzioni e in prima battuta volevamo evitare di ricorrere alla terminologia anni Settanta, tipo “vile attacco fascista contro la stampa democratica”. Perché noi giornalisti dell'Espresso e di Repubblica siamo contemporanei, viviamo e raccontiamo questa mondo, condividiamo le speranze e le inquietudini dei nostri lettori, lanciamo domande più che offrire risposte preconfezionate. E invece Forza Nuova, CasaPound e i loro camerati vivono in un'altra epoca, fatta di chiusure, confini, muri, difesa della sacra razza e del sacro suolo, intolleranza verso le critiche, le inchieste.
Neppure una riga di pubblicità per chi sbandiera lugubri simbologie del passato, avevamo pensato in un primo momento. Ma poi scorrono quelle immagini di uomini con il volto coperto che urlano in un luogo di lavoro, nel cortile di ingresso di una redazione. Quel post su facebook di Forza Nuova, partito che fu rappresentato in Parlamento europeo, il cui leader Roberto Fiore provò a candidarsi nel 2006 con quel Berlusconi che oggi definiscono «falsa opposizione», quelle parole che esaltano apertamente la violenza («Roma e l'Italia si difendono con l'azione, spalla a spalla, a calci e pugni...»). E allora no, non si può accettare di banalizzare anche questo episodio, come accade con le parole in libertà degli squadristi da tastiera. Quando lo squadrismo supera il virtuale e non si vergogna di toccare materia incandescente, tipo intimidire l'uscita di un giornale, è un livello che si alza, un confine che viene abbattuto.
Ci vogliono mettere sotto assedio, come hanno impunemente scritto, perché siamo giornalisti. Ci attaccano per le nostre idee, sullo ius soli, e per le nostre inchieste, quella firmata da Giovanni Tizian, Stefano Vergine e Andrea Palladino sui finanziamenti e sulle origini delle fortune economiche dell'estrema destra . Provano a intercettare un clima di intolleranza e di odio più ampio nei confronti di chi fa il nostro lavoro, il mestiere di informare. In un paese in cui la stampa e i giornalisti sono stati sotto il tiro, e spesso vittime, di terroristi rossi e neri, logge occulte, mafia e camorra. Ce lo siamo dimenticati, in questa Italia immersa nel presente, senza memoria. Eppure i nemici della libertà intuiscono istintivamente dove devono colpire, sanno che ogni attacco alla stampa è un anticorpo che viene meno, una parte di convivenza civile che viene eliminata, un pezzo di democrazia ferita. Per questo non è possibile nessuna timidezza, nessuna esitazione, bisogna schierarsi. Libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più.
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Re: Diario della caduta di un regime.
UN SALTO NEL PASSATO PER CAPIRE MEGLIO L’OGGI
SENZA VASELINA
QUESTO E’ IL CONCETTO CHE HANNO LE TIGRI NEI CONFRONTI DELLE PECORE
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Il compasso, la mitra e la corona: i veri burattinai del Duce
Scritto il 09/12/17 • nella Categoria: Recensioni Condividi
Il compasso, il fascio e la mitra.
Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour.
Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.
La pubblicistica più recente sta mettendo a fuoco il ruolo della massoneria nella storia italiana, sempre liquidata in poche righe nei libri scolastici (alla voce “carboneria”) tra le pagine del Risorgimento.
L’ideale illuministico – libertà, uguaglianza e fraternità, in antitesi al sistema di privilegi dell’Ancien Régime incarnato dalla teocrazia vaticana – era tra le componenti ideologiche dei massoni libertari che, al netto delle contingenze geopolitiche (il ruolo strategico dello Stivale nel Mediterraneo, crocevia degli interessi anglo-francesi) alimentarono in modo decisivo la spinta unitaria, fino alla Breccia di Porta Pia.
Ma poi, come sempre, le cose non andarono come i più idealisti avevano sperato, secondo Carpeoro anche e soprattutto per la perdita prematura di una mente come quella di Cavour.
L’Italia nacque zoppa, dopo la feroce repressione del Sud affidata ai generali sabaudi Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini.
Un altro generale di sua maestà, il pluridecorato Fiorenzo Bava Beccaris, prese a cannonate la folla milanese affamata dalle tasse.
Due anni dopo, nel 1900, l’anarchico Gaetano Bresci fece giustizia a suo modo, assassinando il sovrano, Umberto I di Savoia.
L’Italia dei notabili liberali stava per esplodere, sotto la spinta del proletariato rurale e industriale: sulle barricate innanzitutto i socialisti, guidati da un leader come Filippo Turati, massone anche lui, e poi dal giovane giornalista Benito Mussolini, tumultuoso direttore dell’“Avanti”.
A scommettere sul fascismo, racconta la storiografia, furono gli agrari, i latifondisti del Sud e il grande capitale industriale del Nord.
Obiettivo: arrestare l’onda rossa del socialismo, “comprando” un leader di cui il popolo socialista si fidava.
E faceva male, sottolinea Carpeoro, rivelando che Mussolini era da tempo a libro paga degli inglesi, come loro agente regolarmente stipendiato.
Per gradi, è emerso il ruolo della massoneria all’ombra del primo fascismo, quello ancora “sociale” e anticlericale di Piazza San Sepolcro: era imbottito di massoni il vertice fascista, anche in lizza tra loro – da una parte il Grande Oriente, ancora anticlericale, e dall’altra la Gran Loggia, più vicina al tradizionalismo cattolico.
Un errore ottico, quello di molti massoni, costretti a pentirsi amaramente di aver sostenuto il Duce, fino a puntare ben presto a sostituirlo con un altro massone, Italo Balbo, poi caduto a Tobruk alla guida del suo velivolo colpito “per errore” dalla contraerea italiana.
Non ha portato fortuna, a Mussolini, il divorzio dalla massoneria, giunta infine a schierarsi con la Resistenza, fino a trasformare in atroce rituale (pena del contrappasso) il macabro scempio di Piazzale Loreto, con “l’imperatore” rovesciato e simbolicamente capovolto come l’Appeso dei tarocchi.
Già decenni prima, si domanda Carpeoro, cosa sarebbe successo se Mussolini non fosse riuscito ad allontanare i massoni dal partito socialista?
Se quel braccio di ferro l’avesse vinto il massone progressista Matteotti, contrario all’interventismo, l’Italia sarebbe entrata lo stesso nella tragedia della Prima Guerra Mondiale, da cui poi nacquero le tensioni sociali all’origine del fascismo?
E cosa sarebbe accaduto se il Duce non avesse scaricato una seconda volta la massoneria, mettendo le logge addirittura fuorilegge per ingraziarsi il Vaticano con cui avrebbe firmato i Patti Lateranensi, mettendo fine al limbo giuridico in cui l’ex Stato Pontificio era rimasto confinato, dal 1861?
Per contro, lo stesso potere vaticano non esitò a emarginare il nascente impegno politico dei cattolici, il neonato partito di Sturzo, pur di non ostacolare il nuovo Duce del fascismo, brutale con gli oppositori ma improvvisamente munifico con le gerarchie dell’Oltretevere.
Così il regime transitò dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo concordatario, ma – ancora una volta – rimasero fuori dai riflettori i fili più segreti, destinati a collegare in modo insospettabile l’élite di potere, attraverso personaggi come il massone monarchico Badoglio e figure ancora più invisibili come quella dell’inafferrabile Filippo Naldi, primo finanziatore dell’ex socialista Mussolini con i soldi dei gruppi Eridania, Edison e Ansaldo, spaventati dalle crescenti rivendicazioni operaie.
Proprio a Naldi, sopravvissuto a tutte le tempeste e intervistato nel dopoguerra da Sergio Zavoli, Carpeoro dedica svariate pagine del suo saggio: «Naldi era il Licio Gelli dell’epoca, capace di passare indenne da un tavolo all’altro, nel frattempo accumulando fortune economiche».
Massone, Naldi, in contatto con gli alleati, con la Corona e con il Vaticano.
Uno dei registi della liquidazione di Mussolini, il leader che proprio lui aveva aiutato ad emergere, e che – il 25 luglio del ‘43 – aveva tentato (fuori tempo massimo) di uscire dalla tragedia della guerra e dall’alleanza con Hitler, facendosi mettere in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo.
Il piano: far nascere, a Salò, un’entità “sociale”, di nome e di fatto, non più monarchica né così generosa con il clero.
Un progetto sabotato da manovre diplomatiche sotterranee: a informare i nazisti furono emissari vaticani, imbeccati da Naldi.
Di fronte alla rivelazione di retroscena inediti, c’è chi storce prontamente il naso: la storia, si sostiene, più che da singoli dettagli (magari occulti) è determinata da condizioni molteplici, che coinvolgono milioni di persone, idee, eventi e progetti.
Già, ma una cosa non esclude l’altra: sapere ad esempio che era massone l’eroe socialista Giacomo Matteotti, primo vero martire dell’antifascismo, può regalare più profondità di sguardo, evitando di cadere nei più classici stereotipi che dividono il mondo in buoni e cattivi.
Carpeoro – all’anagrafe Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – è un intellettuale di formazione anarco-socialista: idealmente anarchico e vicino al socialismo “utopistico” pre-marxista nel quale risuonano le speranze dei primissimi manifesti rosacrociani, che già all’inizio del ‘600 sognavano un mondo senza più sfruttati, senza più proprietà privata né confini tra le nazioni.
Di quell’habitat culturale – esoterico, meta-storico – Carpeoro si è occupato a lungo, come esperto simbologo, fino a sviluppare un progetto editoriale come “Summa Symbolica”, di cui è uscito il primo volume.
Anche quest’ultimo lavoro sui retroscena “velati” del Ventennio, cioè la strana alleanza provvisoria tra massoneria e Vaticano all’ombra del Duce, in fondo conferma la tesi di fondo che Carpeoro sostiene: il potere, quale che sia, adotta sempre modalità magico-illusionistiche nel creare leader e uomini del destino, condannati a poi a essere puntualmente rottamati dal momento in cui diventano inutili, e magari ingombranti come Mussolini.
Inglesi e americani, massoni e cardinali?
Certamente, ma il vero potere resta uno schema astratto, pronto a cambiare maschera all’occorrenza, evitando anche di esporre troppo i suoi esponenti più prossimi e più decisivi: come il Re, vero dominus della parabola mussoliniana.
(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il compasso, il fascio e la mitra”, Uno Editori, 141 pagine, euro 12,90).
SENZA VASELINA
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Il compasso, la mitra e la corona: i veri burattinai del Duce
Scritto il 09/12/17 • nella Categoria: Recensioni Condividi
Il compasso, il fascio e la mitra.
Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour.
Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.
La pubblicistica più recente sta mettendo a fuoco il ruolo della massoneria nella storia italiana, sempre liquidata in poche righe nei libri scolastici (alla voce “carboneria”) tra le pagine del Risorgimento.
L’ideale illuministico – libertà, uguaglianza e fraternità, in antitesi al sistema di privilegi dell’Ancien Régime incarnato dalla teocrazia vaticana – era tra le componenti ideologiche dei massoni libertari che, al netto delle contingenze geopolitiche (il ruolo strategico dello Stivale nel Mediterraneo, crocevia degli interessi anglo-francesi) alimentarono in modo decisivo la spinta unitaria, fino alla Breccia di Porta Pia.
Ma poi, come sempre, le cose non andarono come i più idealisti avevano sperato, secondo Carpeoro anche e soprattutto per la perdita prematura di una mente come quella di Cavour.
L’Italia nacque zoppa, dopo la feroce repressione del Sud affidata ai generali sabaudi Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini.
Un altro generale di sua maestà, il pluridecorato Fiorenzo Bava Beccaris, prese a cannonate la folla milanese affamata dalle tasse.
Due anni dopo, nel 1900, l’anarchico Gaetano Bresci fece giustizia a suo modo, assassinando il sovrano, Umberto I di Savoia.
L’Italia dei notabili liberali stava per esplodere, sotto la spinta del proletariato rurale e industriale: sulle barricate innanzitutto i socialisti, guidati da un leader come Filippo Turati, massone anche lui, e poi dal giovane giornalista Benito Mussolini, tumultuoso direttore dell’“Avanti”.
A scommettere sul fascismo, racconta la storiografia, furono gli agrari, i latifondisti del Sud e il grande capitale industriale del Nord.
Obiettivo: arrestare l’onda rossa del socialismo, “comprando” un leader di cui il popolo socialista si fidava.
E faceva male, sottolinea Carpeoro, rivelando che Mussolini era da tempo a libro paga degli inglesi, come loro agente regolarmente stipendiato.
Per gradi, è emerso il ruolo della massoneria all’ombra del primo fascismo, quello ancora “sociale” e anticlericale di Piazza San Sepolcro: era imbottito di massoni il vertice fascista, anche in lizza tra loro – da una parte il Grande Oriente, ancora anticlericale, e dall’altra la Gran Loggia, più vicina al tradizionalismo cattolico.
Un errore ottico, quello di molti massoni, costretti a pentirsi amaramente di aver sostenuto il Duce, fino a puntare ben presto a sostituirlo con un altro massone, Italo Balbo, poi caduto a Tobruk alla guida del suo velivolo colpito “per errore” dalla contraerea italiana.
Non ha portato fortuna, a Mussolini, il divorzio dalla massoneria, giunta infine a schierarsi con la Resistenza, fino a trasformare in atroce rituale (pena del contrappasso) il macabro scempio di Piazzale Loreto, con “l’imperatore” rovesciato e simbolicamente capovolto come l’Appeso dei tarocchi.
Già decenni prima, si domanda Carpeoro, cosa sarebbe successo se Mussolini non fosse riuscito ad allontanare i massoni dal partito socialista?
Se quel braccio di ferro l’avesse vinto il massone progressista Matteotti, contrario all’interventismo, l’Italia sarebbe entrata lo stesso nella tragedia della Prima Guerra Mondiale, da cui poi nacquero le tensioni sociali all’origine del fascismo?
E cosa sarebbe accaduto se il Duce non avesse scaricato una seconda volta la massoneria, mettendo le logge addirittura fuorilegge per ingraziarsi il Vaticano con cui avrebbe firmato i Patti Lateranensi, mettendo fine al limbo giuridico in cui l’ex Stato Pontificio era rimasto confinato, dal 1861?
Per contro, lo stesso potere vaticano non esitò a emarginare il nascente impegno politico dei cattolici, il neonato partito di Sturzo, pur di non ostacolare il nuovo Duce del fascismo, brutale con gli oppositori ma improvvisamente munifico con le gerarchie dell’Oltretevere.
Così il regime transitò dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo concordatario, ma – ancora una volta – rimasero fuori dai riflettori i fili più segreti, destinati a collegare in modo insospettabile l’élite di potere, attraverso personaggi come il massone monarchico Badoglio e figure ancora più invisibili come quella dell’inafferrabile Filippo Naldi, primo finanziatore dell’ex socialista Mussolini con i soldi dei gruppi Eridania, Edison e Ansaldo, spaventati dalle crescenti rivendicazioni operaie.
Proprio a Naldi, sopravvissuto a tutte le tempeste e intervistato nel dopoguerra da Sergio Zavoli, Carpeoro dedica svariate pagine del suo saggio: «Naldi era il Licio Gelli dell’epoca, capace di passare indenne da un tavolo all’altro, nel frattempo accumulando fortune economiche».
Massone, Naldi, in contatto con gli alleati, con la Corona e con il Vaticano.
Uno dei registi della liquidazione di Mussolini, il leader che proprio lui aveva aiutato ad emergere, e che – il 25 luglio del ‘43 – aveva tentato (fuori tempo massimo) di uscire dalla tragedia della guerra e dall’alleanza con Hitler, facendosi mettere in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo.
Il piano: far nascere, a Salò, un’entità “sociale”, di nome e di fatto, non più monarchica né così generosa con il clero.
Un progetto sabotato da manovre diplomatiche sotterranee: a informare i nazisti furono emissari vaticani, imbeccati da Naldi.
Di fronte alla rivelazione di retroscena inediti, c’è chi storce prontamente il naso: la storia, si sostiene, più che da singoli dettagli (magari occulti) è determinata da condizioni molteplici, che coinvolgono milioni di persone, idee, eventi e progetti.
Già, ma una cosa non esclude l’altra: sapere ad esempio che era massone l’eroe socialista Giacomo Matteotti, primo vero martire dell’antifascismo, può regalare più profondità di sguardo, evitando di cadere nei più classici stereotipi che dividono il mondo in buoni e cattivi.
Carpeoro – all’anagrafe Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – è un intellettuale di formazione anarco-socialista: idealmente anarchico e vicino al socialismo “utopistico” pre-marxista nel quale risuonano le speranze dei primissimi manifesti rosacrociani, che già all’inizio del ‘600 sognavano un mondo senza più sfruttati, senza più proprietà privata né confini tra le nazioni.
Di quell’habitat culturale – esoterico, meta-storico – Carpeoro si è occupato a lungo, come esperto simbologo, fino a sviluppare un progetto editoriale come “Summa Symbolica”, di cui è uscito il primo volume.
Anche quest’ultimo lavoro sui retroscena “velati” del Ventennio, cioè la strana alleanza provvisoria tra massoneria e Vaticano all’ombra del Duce, in fondo conferma la tesi di fondo che Carpeoro sostiene: il potere, quale che sia, adotta sempre modalità magico-illusionistiche nel creare leader e uomini del destino, condannati a poi a essere puntualmente rottamati dal momento in cui diventano inutili, e magari ingombranti come Mussolini.
Inglesi e americani, massoni e cardinali?
Certamente, ma il vero potere resta uno schema astratto, pronto a cambiare maschera all’occorrenza, evitando anche di esporre troppo i suoi esponenti più prossimi e più decisivi: come il Re, vero dominus della parabola mussoliniana.
(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il compasso, il fascio e la mitra”, Uno Editori, 141 pagine, euro 12,90).
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Re: Diario della caduta di un regime.
L'OVRA E' DALLE SETTE DI QUESTA MATTINA CHE STA IMDEDENDO LA PUBBLICAZIONE DI QUESTO ARTICOLO.
MA NON SOLO, HA CANCELLATO QUANDO SONO RIUSCITO A PUBBLICARE
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Giannuli: l’Italia è morta, in campo solo mediocri e cialtroni
Scritto il 11/12/17 • nella Categoria: idee Condividi
Cosa sta succedendo sul palcoscenico della politica italiana? Niente. Per carità, non manca il trambusto e anzi ce n’è troppo: frenetici cambi di casacca, nuovi-vecchi partiti che si riciclano, promesse elettorali a spam, colpi di scena e frettolosi abbandoni della barca che affonda, ma nulla che abbia un senso o qualche valore politico. Come in teatro, nell’intervallo fra uno spettacolo e l’altro, quando il palcoscenico è invaso da inservienti velocissimi che spazzano, lavano, rimettono a posto i mobili, cambiamo i fondali, ma non c’è nessuna rappresentazione. I cambi di giacca e le sigle dei riciclati: un semplice cambio di costume con i soliti scadenti attori. I programmi elettorali? Sparate elettorali senza senso, di cui nessuno si ricorderà un minuto dopo i risultati. I colpi di scena? Semplici spot elettorali. Forse la cosa più significativa (se non altro la più divertente) è la gara a chi salta fuori prima dalla barca renziana che ormai affonda inesorabilmente: Lapo Elkann definisce Renzi non un Macron ma un micron, persino il maggior azionista del Pd, De Benedetti, dice che voterà scheda bianca perché Renzi non gli piace. Forse l’unica cosa che ha qualche senso (ma siamo solo agli inizi) è quello che sta succedendo in Commissione scandali bancari.
Quello che colpisce più di tutto è l’assoluta estraneità di tutto questo ai problemi del paese a cominciare dal suo veloce declino di immagine a livello internazionale (esclusione dai mondiali, partita persa per l’Ema e per l’infelice candidatura di Padoan, l’esclusione di fatto dal direttorio europeo, l’assenza sulla scena internazionale della nostra diplomazia). C’è chi propone un ministero per gli anziani, magari una cosa solo di facciata, ma si dimentica la situazione catastrofica dei giovani. Lo dico appartenendo alla categoria di quelli cui dovrebbero pensare il costituendo ministero berlusconiano: per noi il problema è avere una vecchiaia dignitosa e possibilmente serena, ma quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto, mentre i giovani hanno davanti tutta una vita per la quale si prospettano scenari da brivido. Per non parlare delle tante cose ormai solite: occupazione, sanità, istruzione, messa in sicurezza antisismica, ricostruzione, degrado delle città eccetera, di cui non vale neppure più la pena parlarne. Il problema dei problemi è che questo paese non ha più una classe dirigente, al cui posto ha una compagnia di scadentissimi guitti.
Avremmo bisogno di sostituire immediatamente questa corte di cialtroni con una vera classe dirigente (e non solo in politica, ma anche nelle banche, nell’università, nei giornali, delle aziende), ma il guaio è che una classe dirigente non si improvvisa in qualche mese o anno. Quando per 25 anni hai trascurato di formare il personale politico di una nazione (e tutto il resto) poi non si può pretendere di tirare fuori il coniglio dal cilindro. In primo luogo è definitivamente battuta l’idea di estrarre una classe dirigente politica dalla mitica società civile: tutta la Seconda Repubblica è vissuta di questo mito, attingendo generosamente dai ranghi dell’imprenditoria, della magistratura, dell’università, della medicina, della finanza, e questo è il brillante risultato. E questo è accaduto per due buone ragioni: prima di tutto perché la politica è uno specialismo a sé, che può e deve attingere competenze dalla società civile, ma che non può essere sostituito da altre competenze, insomma un buon chirurgo molto probabilmente non sarà affatto un buon ministro della sanità, come i tanti avvocati che si sono succeduti al ministero di grazia e giustizia si sono dimostrati pessimi ministri.
In secondo luogo perché, mettiamocelo in testa, il pesce puzza dalla testa, ma in breve va a male tutto: se la politica è corrotta e incompetente, in breve anche tutti gli altri ruoli dirigenti lo saranno (ammesso che non lo siano già da prima), e quindi è una illusione quella di sostituire la classe politica attingendo alla mitica società civile. E questo valga per dissipare quell’altra imbecillità per la quale “basta essere onesti” per dirigere lo Stato (qui, tanto per dissipare ogni dubbio, sto parlando dei miei amici 5 Stelle che, dopo tanta retorica sul cittadino comune, poi parlano di “tecnici” per un governo a 5 Stelle): no, non basta essere onesti, occorre anche capirci qualcosa dei quello che si amministra. Occorre mettere mano ad un’opera di ricostruzione culturale del paese, formare una classe dirigente vera e, nel frattempo, cercare di limitare i danni scegliendo il meno peggio.
(Aldo Giannuli, “La politica italiana? Ras, rien à signaler”, dal blog di Giannuli del 29 novembre 2017).
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Giannuli: l’Italia è morta, in campo solo mediocri e cialtroni
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Cosa sta succedendo sul palcoscenico della politica italiana? Niente. Per carità, non manca il trambusto e anzi ce n’è troppo: frenetici cambi di casacca, nuovi-vecchi partiti che si riciclano, promesse elettorali a spam, colpi di scena e frettolosi abbandoni della barca che affonda, ma nulla che abbia un senso o qualche valore politico. Come in teatro, nell’intervallo fra uno spettacolo e l’altro, quando il palcoscenico è invaso da inservienti velocissimi che spazzano, lavano, rimettono a posto i mobili, cambiamo i fondali, ma non c’è nessuna rappresentazione. I cambi di giacca e le sigle dei riciclati: un semplice cambio di costume con i soliti scadenti attori. I programmi elettorali? Sparate elettorali senza senso, di cui nessuno si ricorderà un minuto dopo i risultati. I colpi di scena? Semplici spot elettorali. Forse la cosa più significativa (se non altro la più divertente) è la gara a chi salta fuori prima dalla barca renziana che ormai affonda inesorabilmente: Lapo Elkann definisce Renzi non un Macron ma un micron, persino il maggior azionista del Pd, De Benedetti, dice che voterà scheda bianca perché Renzi non gli piace. Forse l’unica cosa che ha qualche senso (ma siamo solo agli inizi) è quello che sta succedendo in Commissione scandali bancari.
Quello che colpisce più di tutto è l’assoluta estraneità di tutto questo ai problemi del paese a cominciare dal suo veloce declino di immagine a livello internazionale (esclusione dai mondiali, partita persa per l’Ema e per l’infelice candidatura di Padoan, l’esclusione di fatto dal direttorio europeo, l’assenza sulla scena internazionale della nostra diplomazia). C’è chi propone un ministero per gli anziani, magari una cosa solo di facciata, ma si dimentica la situazione catastrofica dei giovani. Lo dico appartenendo alla categoria di quelli cui dovrebbero pensare il costituendo ministero berlusconiano: per noi il problema è avere una vecchiaia dignitosa e possibilmente serena, ma quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto, mentre i giovani hanno davanti tutta una vita per la quale si prospettano scenari da brivido. Per non parlare delle tante cose ormai solite: occupazione, sanità, istruzione, messa in sicurezza antisismica, ricostruzione, degrado delle città eccetera, di cui non vale neppure più la pena parlarne. Il problema dei problemi è che questo paese non ha più una classe dirigente, al cui posto ha una compagnia di scadentissimi guitti.
Avremmo bisogno di sostituire immediatamente questa corte di cialtroni con una vera classe dirigente (e non solo in politica, ma anche nelle banche, nell’università, nei giornali, delle aziende), ma il guaio è che una classe dirigente non si improvvisa in qualche mese o anno. Quando per 25 anni hai trascurato di formare il personale politico di una nazione (e tutto il resto) poi non si può pretendere di tirare fuori il coniglio dal cilindro. In primo luogo è definitivamente battuta l’idea di estrarre una classe dirigente politica dalla mitica società civile: tutta la Seconda Repubblica è vissuta di questo mito, attingendo generosamente dai ranghi dell’imprenditoria, della magistratura, dell’università, della medicina, della finanza, e questo è il brillante risultato. E questo è accaduto per due buone ragioni: prima di tutto perché la politica è uno specialismo a sé, che può e deve attingere competenze dalla società civile, ma che non può essere sostituito da altre competenze, insomma un buon chirurgo molto probabilmente non sarà affatto un buon ministro della sanità, come i tanti avvocati che si sono succeduti al ministero di grazia e giustizia si sono dimostrati pessimi ministri.
In secondo luogo perché, mettiamocelo in testa, il pesce puzza dalla testa, ma in breve va a male tutto: se la politica è corrotta e incompetente, in breve anche tutti gli altri ruoli dirigenti lo saranno (ammesso che non lo siano già da prima), e quindi è una illusione quella di sostituire la classe politica attingendo alla mitica società civile. E questo valga per dissipare quell’altra imbecillità per la quale “basta essere onesti” per dirigere lo Stato (qui, tanto per dissipare ogni dubbio, sto parlando dei miei amici 5 Stelle che, dopo tanta retorica sul cittadino comune, poi parlano di “tecnici” per un governo a 5 Stelle): no, non basta essere onesti, occorre anche capirci qualcosa dei quello che si amministra. Occorre mettere mano ad un’opera di ricostruzione culturale del paese, formare una classe dirigente vera e, nel frattempo, cercare di limitare i danni scegliendo il meno peggio.
(Aldo Giannuli, “La politica italiana? Ras, rien à signaler”, dal blog di Giannuli del 29 novembre 2017).
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Re: Diario della caduta di un regime.
Ha ragione Giannuli, l'Italia è morta
Taglio vitalizi? È ufficiale, non se ne fa nulla
Bloccato l’emendamento. M5s: “Pd bugiardo”
Dichiarata inammissibile la richiesta di far passare la legge insieme alla manovra. E il ddl giace al Senato
Per l’approvazione ora serve un miracolo, che nessuno (o quasi) vuole. I 5 stelle contro Richetti e Renzi
Palazzi & Potere
Non c’è speranza che i parlamentari si taglino i vitalizi prima della fine della legislatura. Salvo miracoli dell’ultimo minuto, la Camera ha segnato la morte del provvedimento: è stato infatti dichiarato inammissibile l’emendamento alla manovra finanziaria in discussione a Montecitorio. Silenzio di tutto l’arco parlamentare, protestano i 5 stelle che annunciano faranno ricorso: “Renzi, Richetti e compagnia bella sono bugiardi”. Ma anche le proteste ormai, sembrano avere poche chance di riuscita di F. Q.
Taglio vitalizi? È ufficiale, non se ne fa nulla
Bloccato l’emendamento. M5s: “Pd bugiardo”
Dichiarata inammissibile la richiesta di far passare la legge insieme alla manovra. E il ddl giace al Senato
Per l’approvazione ora serve un miracolo, che nessuno (o quasi) vuole. I 5 stelle contro Richetti e Renzi
Palazzi & Potere
Non c’è speranza che i parlamentari si taglino i vitalizi prima della fine della legislatura. Salvo miracoli dell’ultimo minuto, la Camera ha segnato la morte del provvedimento: è stato infatti dichiarato inammissibile l’emendamento alla manovra finanziaria in discussione a Montecitorio. Silenzio di tutto l’arco parlamentare, protestano i 5 stelle che annunciano faranno ricorso: “Renzi, Richetti e compagnia bella sono bugiardi”. Ma anche le proteste ormai, sembrano avere poche chance di riuscita di F. Q.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Ormai il fallimento del Liberismo Socialista è davanti gli occhi di tutti.
Finita l'illusione berlusconiana che doveva farci diventare tutti ricchi, ora è arrivata la rabbia populista che: se sei uno sfigato vaiè colpa dell'immigrato!
Intanto la forbice delle disuguaglianze aumenta e il Marchese del Grillo gongola!
da www.ilfattoquotidiano.it
Povertà, “Italia primo Paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione. Sono 10,5 milioni”
La classifica Eurostat vede l'Italia davanti a Romania e Francia. Sono considerate indigenti le persone che non si possono permettere almeno cinque cose necessarie per una vita dignitosa, come un pasto proteico ogni due giorni, abiti decorosi, due paia di scarpe, una settimana di vacanze all'anno, una connessione a internet. I poveri assoluti nella Penisola sono triplicati in 10 anni
di F. Q. | 13 dicembre 2017
L’Italia è il Paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini.
Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe – La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”. Sono considerate tali le persone che non si possono permettere almeno cinque cose ritenute necessarie, come un pasto proteico ogni due giorni, vestiti nuovi per sostituire quelli inutilizzabili, un’auto, due paia di scarpe, una settimana di vacanze all’anno, una connessione a internet, un‘uscita al mese con gli amici.
Se invece dei numeri assoluti si guardano le percentuali, la classifica cambia. I Paesi europei con le maggiori quote di cittadini deprivati sono Romania, con il 49,7%, Bulgaria (48%), Grecia (36%), Ungheria (32%) e Lituania (29%). I Paesi nordici sono quelli che stanno meglio. La percentuale di indigenti sulla popolazione è solo del 3% in Svezia, del 4% in Finlandia e del 5% in Lussemburgo e del 6% in Danimarca. In tutta la Ue la deprivazione colpisce di più le persone con livelli di istruzione bassi. Il 25% dei cittadini con bassi livelli di istruzione ne soffre, mentre il tasso è solo del 14% tra chi ha un’istruzione secondaria e del 5% per i laureati.
Povertà triplicata in dieci anni – La povertà in Italia è aumentata esponenzialmente dopo la crisi finanziaria: tra 2007 e 2008 i poveri assoluti sono saliti di 400mila unità, a 2,1 milioni, e i poveri relativi sono aumentati altrettanto, a 6,5 milioni. Di lì al 2012 l’incremento è stato lento e costante: i poveri assoluti sono diventati 2,3 milioni nel 2009, 2,47 milioni nel 2010, 2,65 nel 2011, addirittura 3,5 nel 2012 (la crisi ha iniziato a falcidiare i posti di lavoro), 4,4 nel 2013. L’incidenza della povertà assoluta sulla popolazione italiana è passata di conseguenza dal 2,9% del 2006 al 7,9% del 2016. Il nuovo Reddito di inclusione, un assegno variabile tra 187 e 485 euro che può essere richiesto ai Comuni dai nuclei in difficoltà, è un passo avanti ma non basta: i fondi stanziati dal governo bastano per circa 1,8 milioni di persone, un terzo di chi ne avrebbe bisogno.
Nel frattempo, sempre stando ai dati Istat, ben 18 milioni di italiani si sono ritrovati “a rischio povertà o esclusione”. Si tratta del 30% della popolazione, in salita rispetto al 2015 mentre a livello Ue la percentuale è diminuita dal 23,8 al 23,5%. E’ l’effetto, secondo l’istituto di statistica, di un aumento della disuguaglianza: il quinto più ricco della popolazione ha visto crescere i propri redditi molto più di quelli della parte più povera. Il rischio povertà in Italia è “molto superiore”, ha segnalato l’Istat, “a quelli registrati in Francia (18,2%), Germania (19,7%) e Gran Bretagna (22,2%) e di poco più alto rispetto a quello della Spagna (27,9%)”.
Finita l'illusione berlusconiana che doveva farci diventare tutti ricchi, ora è arrivata la rabbia populista che: se sei uno sfigato vaiè colpa dell'immigrato!
Intanto la forbice delle disuguaglianze aumenta e il Marchese del Grillo gongola!
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Povertà, “Italia primo Paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione. Sono 10,5 milioni”
La classifica Eurostat vede l'Italia davanti a Romania e Francia. Sono considerate indigenti le persone che non si possono permettere almeno cinque cose necessarie per una vita dignitosa, come un pasto proteico ogni due giorni, abiti decorosi, due paia di scarpe, una settimana di vacanze all'anno, una connessione a internet. I poveri assoluti nella Penisola sono triplicati in 10 anni
di F. Q. | 13 dicembre 2017
L’Italia è il Paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini.
Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe – La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”. Sono considerate tali le persone che non si possono permettere almeno cinque cose ritenute necessarie, come un pasto proteico ogni due giorni, vestiti nuovi per sostituire quelli inutilizzabili, un’auto, due paia di scarpe, una settimana di vacanze all’anno, una connessione a internet, un‘uscita al mese con gli amici.
Se invece dei numeri assoluti si guardano le percentuali, la classifica cambia. I Paesi europei con le maggiori quote di cittadini deprivati sono Romania, con il 49,7%, Bulgaria (48%), Grecia (36%), Ungheria (32%) e Lituania (29%). I Paesi nordici sono quelli che stanno meglio. La percentuale di indigenti sulla popolazione è solo del 3% in Svezia, del 4% in Finlandia e del 5% in Lussemburgo e del 6% in Danimarca. In tutta la Ue la deprivazione colpisce di più le persone con livelli di istruzione bassi. Il 25% dei cittadini con bassi livelli di istruzione ne soffre, mentre il tasso è solo del 14% tra chi ha un’istruzione secondaria e del 5% per i laureati.
Povertà triplicata in dieci anni – La povertà in Italia è aumentata esponenzialmente dopo la crisi finanziaria: tra 2007 e 2008 i poveri assoluti sono saliti di 400mila unità, a 2,1 milioni, e i poveri relativi sono aumentati altrettanto, a 6,5 milioni. Di lì al 2012 l’incremento è stato lento e costante: i poveri assoluti sono diventati 2,3 milioni nel 2009, 2,47 milioni nel 2010, 2,65 nel 2011, addirittura 3,5 nel 2012 (la crisi ha iniziato a falcidiare i posti di lavoro), 4,4 nel 2013. L’incidenza della povertà assoluta sulla popolazione italiana è passata di conseguenza dal 2,9% del 2006 al 7,9% del 2016. Il nuovo Reddito di inclusione, un assegno variabile tra 187 e 485 euro che può essere richiesto ai Comuni dai nuclei in difficoltà, è un passo avanti ma non basta: i fondi stanziati dal governo bastano per circa 1,8 milioni di persone, un terzo di chi ne avrebbe bisogno.
Nel frattempo, sempre stando ai dati Istat, ben 18 milioni di italiani si sono ritrovati “a rischio povertà o esclusione”. Si tratta del 30% della popolazione, in salita rispetto al 2015 mentre a livello Ue la percentuale è diminuita dal 23,8 al 23,5%. E’ l’effetto, secondo l’istituto di statistica, di un aumento della disuguaglianza: il quinto più ricco della popolazione ha visto crescere i propri redditi molto più di quelli della parte più povera. Il rischio povertà in Italia è “molto superiore”, ha segnalato l’Istat, “a quelli registrati in Francia (18,2%), Germania (19,7%) e Gran Bretagna (22,2%) e di poco più alto rispetto a quello della Spagna (27,9%)”.
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«Non si discute per aver ragione, ma per capire» (Peanuts)
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