Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
25 gen 2018 15:12
‘IL CSM IN MANO A GRUPPI DI POTERE’. COME PUÒ FINIRE UNO SCONTRO IN TRIBUNALE TRA MAGISTRATI? MALISSIMO!
- IL GIUDICE ARTURO SOPRANO HA QUERELATO IL PUBBLICO MINISTERO BRUNO TINTI, CHE SUL ‘FATTO’ AVEVA ATTACCATO LA SUA NOMINA ALLA CORTE D’APPELLO DI TORINO, QUANDO IL CSM LO PREFERÌ A DAVIGO, RICOPRENDO DI IMPROPERI L’ORGANO DEI MAGISTRATI
Giuseppe Salvaggiulo per la Stampa
Quella che andrà in scena questa mattina davanti al tribunale di Roma non sarà una normale udienza di un normale processo per diffamazione. Perché l' oggetto del procedimento 58411/15 è l' annosa questione della politicizzazione della magistratura.
Perché sia l' imputato che la parte offesa sono due alti magistrati (uno in carriera, l' altro in pensione). E perché oggi entrambi saranno interrogati in udienza pubblica.
I protagonisti del duello rusticano sono Bruno Tinti, già procuratore di Ivrea e procuratore aggiunto di Torino (sua l' inchiesta Telekom Serbia) poi autore di libri di successo come «Toghe rotte», e Arturo Soprano, 40 anni di carriera dalla pretura di Gavirate al Palazzo di giustizia di Milano.
I fatti risalgono a tre anni fa, quando il Csm deve nominare il presidente della Corte d' appello di Torino. Soprano, allora presidente di sezione di Corte d' appello a Milano, si candida. A contendergli il posto è Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, allora giudice di Cassazione. Il Csm sceglie Soprano a larghissima maggioranza. Tinti scrive sul «Fatto» un articolo che contesta la decisione.
Soprano non ci sta. Si rivolge all' avvocato Jacopo Pensa e sporge un' articolata querela, oltre 60 pagine allegati compresi. Lamenta che l' articolo di Tinti, «da me mai conosciuto e mai incontrato», sia «altamente diffamatorio, gettando ampio discredito su di me, sia come persona sia come magistrato nonché sferrando un duro attacco al mio onore e al mio decoro professionale (...) con il chiaro scopo di screditarmi e svalutarmi». Trattasi, sostiene Soprano, di «un attacco gratuito alla sfera morale della mia persona» a colpi di «accostamenti allusivi e denigrazioni intollerabili».
Raro imbattersi in parole così pesanti tra colleghi magistrati. Dunque, che cosa aveva scritto Tinti? Paragonava la promozione di Soprano ad altre contestate nomine del Csm. Quella di Antonino Meli, «giudice senza infamia e senza lode», al posto di Giovanni Falcone (1988) e quella di Alfonso Marra, «altro magistrato di ordinaria caratura» poi dimissionario per lo scandalo P3, al posto di Renato Rodolf (2010).
Tinti elogiava il curriculum e le qualità di Davigo al cospetto della «vita professionale che più ordinaria non si può» di Soprano: «Pretore per un sacco di anni (...) e alla fine presidente di sezione (ce ne sono una ventina)», con un solo processo importante gestito, in realtà nemmeno così importante («processi come questo andavano un tanto al mazzo, ce n' erano centinaia»). Eppure, sosteneva Tinti, il Csm ha preferito Soprano a Davigo: «motivazioni risibili» e «sconcertanti considerazioni» professionali celano, a prezzo di «vergogna o improntitudine», una «verità politica»: Davigo aveva contro tutte le correnti delle toghe.
Non solo quella di Soprano, la centrista Unicost, ma anche quella di sinistra Area (che da sempre contesta) e quella di destra Magistratura Indipendente, cui lo stesso Davigo apparteneva prima di promuovere una polemica scissione. Quanto ai membri laici del Csm, «sono due politici: volete che abbiano simpatia per un pm di Mani Pulite?».
Legittimo esercizio del diritto di critica? No, secondo Soprano che rivendica le sue performance di produttività, lamenta di essere stato «descritto come un magistrato senza valore né meriti, di assoluta mediocrità e inettitudine» e ritiene «gratuita offesa» l' accostamento a Meli e Marra, uno «senza infamia e senza lode» l' altro coinvolto nell' inchiesta P3: «Dunque io sarei nominabile solo a seguito di una decisione delittuosa, con atto vergognoso e sfrontato. Peggiore aggressione, peggiore attacco, peggiore lesione della mia reputazione e del mio onore di uomo e magistrato non è immaginabile».
Argomenti che oggi Soprano ripeterà in tribunale. Poi toccherà a Tinti difendersi.
Con una memoria altrettanto corposa, firmata dal suo difensore Gian Maria Nicastro, e poi nell' interrogatorio in cui sosterrà che Soprano non deve offendersi per essere stato definito «magistrato ordinario» e non «eccezionale» come Davigo, perché il suo obiettivo polemico era «la degenerazione correntizia del Csm», in mano «a gruppi di potere» che attuano «una gestione clientelare dei propri adepti» spartendosi gli incarichi.
Tesi che da anni sostiene in articoli, libri e dibattiti, citando documenti, mail e interventi di altri magistrati e perfino un discorso di Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica, proprio davanti al Csm.
Consiglio Superiore della Magistratura Consiglio Superiore della Magistratura
Mai una questione interna alla politica e alla magistratura era diventata scontro processuale, in modo plateale.
‘IL CSM IN MANO A GRUPPI DI POTERE’. COME PUÒ FINIRE UNO SCONTRO IN TRIBUNALE TRA MAGISTRATI? MALISSIMO!
- IL GIUDICE ARTURO SOPRANO HA QUERELATO IL PUBBLICO MINISTERO BRUNO TINTI, CHE SUL ‘FATTO’ AVEVA ATTACCATO LA SUA NOMINA ALLA CORTE D’APPELLO DI TORINO, QUANDO IL CSM LO PREFERÌ A DAVIGO, RICOPRENDO DI IMPROPERI L’ORGANO DEI MAGISTRATI
Giuseppe Salvaggiulo per la Stampa
Quella che andrà in scena questa mattina davanti al tribunale di Roma non sarà una normale udienza di un normale processo per diffamazione. Perché l' oggetto del procedimento 58411/15 è l' annosa questione della politicizzazione della magistratura.
Perché sia l' imputato che la parte offesa sono due alti magistrati (uno in carriera, l' altro in pensione). E perché oggi entrambi saranno interrogati in udienza pubblica.
I protagonisti del duello rusticano sono Bruno Tinti, già procuratore di Ivrea e procuratore aggiunto di Torino (sua l' inchiesta Telekom Serbia) poi autore di libri di successo come «Toghe rotte», e Arturo Soprano, 40 anni di carriera dalla pretura di Gavirate al Palazzo di giustizia di Milano.
I fatti risalgono a tre anni fa, quando il Csm deve nominare il presidente della Corte d' appello di Torino. Soprano, allora presidente di sezione di Corte d' appello a Milano, si candida. A contendergli il posto è Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, allora giudice di Cassazione. Il Csm sceglie Soprano a larghissima maggioranza. Tinti scrive sul «Fatto» un articolo che contesta la decisione.
Soprano non ci sta. Si rivolge all' avvocato Jacopo Pensa e sporge un' articolata querela, oltre 60 pagine allegati compresi. Lamenta che l' articolo di Tinti, «da me mai conosciuto e mai incontrato», sia «altamente diffamatorio, gettando ampio discredito su di me, sia come persona sia come magistrato nonché sferrando un duro attacco al mio onore e al mio decoro professionale (...) con il chiaro scopo di screditarmi e svalutarmi». Trattasi, sostiene Soprano, di «un attacco gratuito alla sfera morale della mia persona» a colpi di «accostamenti allusivi e denigrazioni intollerabili».
Raro imbattersi in parole così pesanti tra colleghi magistrati. Dunque, che cosa aveva scritto Tinti? Paragonava la promozione di Soprano ad altre contestate nomine del Csm. Quella di Antonino Meli, «giudice senza infamia e senza lode», al posto di Giovanni Falcone (1988) e quella di Alfonso Marra, «altro magistrato di ordinaria caratura» poi dimissionario per lo scandalo P3, al posto di Renato Rodolf (2010).
Tinti elogiava il curriculum e le qualità di Davigo al cospetto della «vita professionale che più ordinaria non si può» di Soprano: «Pretore per un sacco di anni (...) e alla fine presidente di sezione (ce ne sono una ventina)», con un solo processo importante gestito, in realtà nemmeno così importante («processi come questo andavano un tanto al mazzo, ce n' erano centinaia»). Eppure, sosteneva Tinti, il Csm ha preferito Soprano a Davigo: «motivazioni risibili» e «sconcertanti considerazioni» professionali celano, a prezzo di «vergogna o improntitudine», una «verità politica»: Davigo aveva contro tutte le correnti delle toghe.
Non solo quella di Soprano, la centrista Unicost, ma anche quella di sinistra Area (che da sempre contesta) e quella di destra Magistratura Indipendente, cui lo stesso Davigo apparteneva prima di promuovere una polemica scissione. Quanto ai membri laici del Csm, «sono due politici: volete che abbiano simpatia per un pm di Mani Pulite?».
Legittimo esercizio del diritto di critica? No, secondo Soprano che rivendica le sue performance di produttività, lamenta di essere stato «descritto come un magistrato senza valore né meriti, di assoluta mediocrità e inettitudine» e ritiene «gratuita offesa» l' accostamento a Meli e Marra, uno «senza infamia e senza lode» l' altro coinvolto nell' inchiesta P3: «Dunque io sarei nominabile solo a seguito di una decisione delittuosa, con atto vergognoso e sfrontato. Peggiore aggressione, peggiore attacco, peggiore lesione della mia reputazione e del mio onore di uomo e magistrato non è immaginabile».
Argomenti che oggi Soprano ripeterà in tribunale. Poi toccherà a Tinti difendersi.
Con una memoria altrettanto corposa, firmata dal suo difensore Gian Maria Nicastro, e poi nell' interrogatorio in cui sosterrà che Soprano non deve offendersi per essere stato definito «magistrato ordinario» e non «eccezionale» come Davigo, perché il suo obiettivo polemico era «la degenerazione correntizia del Csm», in mano «a gruppi di potere» che attuano «una gestione clientelare dei propri adepti» spartendosi gli incarichi.
Tesi che da anni sostiene in articoli, libri e dibattiti, citando documenti, mail e interventi di altri magistrati e perfino un discorso di Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica, proprio davanti al Csm.
Consiglio Superiore della Magistratura Consiglio Superiore della Magistratura
Mai una questione interna alla politica e alla magistratura era diventata scontro processuale, in modo plateale.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Economia | Di F. Q.
Conti pubblici, Die Welt
“L’Italia è messa anche
peggio della Grecia. Poca
speranza dalle elezioni”
MA AI VENDITORI DEL CACAO MERAVIGLIAO CHE PRETENDONO DAGLI ITALICI DI ESSERE SCELTI PER LA POLTRONA, QUANTO RIPORTATO DA " DIE WELT", NON INTERESSA MINIMAMENTE
Conti pubblici, Die Welt
“L’Italia è messa anche
peggio della Grecia. Poca
speranza dalle elezioni”
MA AI VENDITORI DEL CACAO MERAVIGLIAO CHE PRETENDONO DAGLI ITALICI DI ESSERE SCELTI PER LA POLTRONA, QUANTO RIPORTATO DA " DIE WELT", NON INTERESSA MINIMAMENTE
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Re: Diario della caduta di un regime.
UncleTom ha scritto:Economia | Di F. Q.
Conti pubblici, Die Welt
“L’Italia è messa anche
peggio della Grecia. Poca
speranza dalle elezioni”
MA AI VENDITORI DEL CACAO MERAVIGLIAO CHE PRETENDONO DAGLI ITALICI DI ESSERE SCELTI PER LA POLTRONA, QUANTO RIPORTATO DA " DIE WELT", NON INTERESSA MINIMAMENTE
IlFattoQuotidiano.it / Economia & Lobby / Lobby
Conti pubblici, Die Welt: “L’Italia è messa anche peggio della Grecia. Poca speranza dai programmi elettorali”
Secondo il quotidiano tedesco "solo riforme radicali, come in Grecia, potrebbero cambiare qualcosa", tuttavia nessuno dei contendenti alle elezioni le ha previste
di F. Q. | 25 gennaio 2018
154
1,9 mila
Più informazioni su: Grecia, Italia
“L’Italia è l’assoluto fanalino di coda dell’eurozona, messo anche peggio della Grecia“. Lo sostiene il quotidiano tedesco Die Welt in un articolo intitolato “Se i greci lasciano indietro gli italiani” pubblicato il 25 gennaio. Secondo il quale il timore degli economisti delle banche d’affari è che alle prossime elezioni, indipendentemente da chi vinca, “non c’è da aspettarsi riforme di base”, dice Timo Schwietering, analista della banca Metzler. “Solo riforme radicali, come in Grecia, potrebbero cambiare qualcosa”, dice il quotidiano di Berlino. “Ma cose del genere non sono nel programma elettorale di nessuno dei contendenti alle elezioni”.
“L’Italia è l’unico paese dell’Eurozona il cui livello di vita, dall’entrata in vigore dell’unione monetaria, è diminuito”, prosegue Schwietering. “Prima aveva un modello economico facile”, dice Daniel Hartmann, capo economista della banca Bantleon, che si occupa del risparmio gestito. Secondo il quale “quando la congiuntura si bloccava, si svalutava la lira, che ridava benzina alle esportazioni e rianimava la congiuntura”. Dall’entrata in vigore dell’unione monetaria questo modello non ha più funzionato e il Paese dovrebbe abbassare i costi o aumentare la produttività, è quindi la conclusione che sottolinea come “il passaggio al nuovo campo all’Italia non è ancora riuscito”. Mentre sarebbe necessaria soprattutto una riforma dell’amministrazione: “Le prestazioni sono scarse e per giunta care”. Un permesso di costruzione costa tre volte la Germania, un procedimento giuridico in Italia è di 3 anni, in Germania di uno e mezzo…
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di F. Q. | 25 gennaio 2018
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Quote latte, l’Ue condanna l’Italia: “Ha pagato 1,3 miliardi di multe invece di riscuoterli dai produttori”
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Re: Diario della caduta di un regime.
........AFFOSSA ITALIA............ULTIMO ATTO...........IL COLPO FINALE
Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano:
ALLEANZE Il presidente di Mediaset e le previsioni sul voto
Confalonieri: "Il futuro è
Gentiloni con Renzi e B."
"Fidel"aspetta le urne
senza ansie: il Biscione
deve chiudere il conte-
zioso con Vivendie pensa
a un'altra breve parentesi
di Gentiloni(che gli piace)
e auspica un nuovo patto
del Nazareno
.............TECCE PAG.7
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Re: Diario della caduta di un regime.
Chi ci crede. Anche loro alcuni dicono che abbiano un debito molto più alto.UncleTom ha scritto:Economia | Di F. Q.
Conti pubblici, Die Welt
“L’Italia è messa anche
peggio della Grecia. Poca
speranza dalle elezioni”
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Re: Diario della caduta di un regime.
UncleTom ha scritto:........AFFOSSA ITALIA............ULTIMO ATTO...........IL COLPO FINALE
Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano:
ALLEANZE Il presidente di Mediaset e le previsioni sul voto
Confalonieri: "Il futuro è
Gentiloni con Renzi e B."
"Fidel"aspetta le urne
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deve chiudere il conte-
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.............SEMBRA CHE TUTTI LA PENSINO ALLO STESSO MODO
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Di Maio: votare Pd o Berlusconi è uguale, finiranno insieme
Scritto il 26/1/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Non sono d’accordo su niente, tranne che sulle poltrone: per questo si preparano a “sgovernare” insieme ancora una volta, come ai tempi di Mario Monti, dopo aver raccontato solo frottole ai loro elettori. Pd e Forza Italia «si propongono sotto mentite spoglie», solo per tentare di fare il pieno di seggi facendo credere di essere l’un contro l’altro armati. «In questa storia c’è una alleanza alla luce del sole, che però è finta, e una alleanza all’oscuro di tutti, che però è vera», scrive Luigi Di Maio sul “Blog delle Stelle”. «La finta alleanza è quella del centrodestra. Salvini e Berlusconi non hanno nulla in comune nel programma. Berlusconi dice di voler rispettare tutti i vincoli europei a partire da quello del 3%. Salvini invece dice di volerlo sforare e ha candidato il professore no-euro Bagnai. Berlusconi dice di non voler abolire la Fornero e possiamo credergli perché lui, assieme alla Meloni, l’ha votata. Salvini dice di volerla abolire». E l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito, perché «non sono d’accordo su nulla». La loro, sostiene il candidato grillino, «non è un’alleanza programmatica, ma poltronistica», cioè tattica, per interpretare a loro vantaggio l’ennesima legge elettorale inguardabile, il Rosatellum, appositamente “fabbricata” per impedire che qualcuno vinca davvero, creando così le condizioni per “l’inciucio” che nessuno ammette.
Con questa legge elettorale, scrive Di Maio, «l’unica possibilità che hanno questi partiti di raccattare qualche poltrona in più di quella che gli darebbe la vera percentuale che hanno (ben al di sotto del 20%) è puntare ai collegi uninominali dove si ottiene un parlamentare prendendo anche un solo voto in più rispetto agli altri, soprattutto in Lombardia, in Veneto e da qualche parte al Sud». Visto che, sondaggi alla mano, in molte zone d’Italia il Movimento 5 Stelle da solo è al di sopra delle coalizioni di centrodestra e centrosinistra, «se tutti i partiti si presentassero da soli, nessuno avrebbe possibilità di vincere neppure un collegio uninominale: li prenderebbe tutti il Movimento 5 Stelle». Per questo, «si mettono insieme con decine di partiti dallo zerovirgola, pur non avendo nulla in comune, per fregarsi la poltrona e poi, passata la festa (il voto), gabbato lo santo (l’elettore). Sia Berlusconi sia Salvini hanno tutto l’interesse a portare avanti questo metodo – aggiunge Di Maio – perché in questo momento si stanno spartendo i collegi uninominali che potrebbero vincere con questo metodo fraudolento: uno a te, uno a me. Poi, quando andranno in Parlamento, ognuno di loro si farà i fatti propri come hanno sempre fatto: nessun governo sarà possibile perché non sono d’accordo su nulla e ci rimetterà solo l’elettore».
La vera alleanza, insiste Di Maio, è quella di Forza Italia con il Pd. Se ci fate caso, scrive il leader grillino, ogni giorno Berlusconi tesse le lodi di Gentiloni e ogni giorno Gentiloni fa altrettanto con lui. «Non chiamerei Berlusconi un populista», ha detto Gentiloni. Ma allora perché non si alleano fin da subito? Semplice: «Farlo ora non conviene a nessuno. Se il Pd si alleasse con Forza Italia arriverebbe in un attimo al 2%. Se Forza Italia si presentasse al voto con il Pd dovrebbe rinunciare a tutti i collegi uninominali che riuscirebbe a conquistare con la finta alleanza con la Lega. Sarebbe quindi un danno per entrambi: meno soldi e meno poltrone per tutti». Quello che propongono ufficialmente «è falso, è una vera e propria truffa». Gentiloni e Berlusconi? «Sperano di fare “bingo” in questo modo». L’obiettivo «quasi impossibile» del Pd renziano «sarà quello di non sprofondare sotto il 20%», mentre Forza Italia cercherà voti «fregando gli elettori», cioè vendendosi come alternativa a Renzi. E quale sarebbe il programma di Pd e Forza italia uniti? «Quello degli ultimi 20 anni», che li hanno visti governare «alternati o assieme», come nel governo Monti, «la più grande sciagura che ci potesse capitare». L’eventuale Gentiloni-bis sostenuto dal Cavaliere «sarà un nuovo governo Monti, per di più senza una maggioranza stabile». Morale: «Votare centrodestra o centrosinistra è esattamente la stessa cosa».
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Re: Diario della caduta di un regime.
........AFFOSSA ITALIA............ULTIMO ATTO...........IL COLPO FINALE
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Il fiuto di nonno Berlusconi: una farsa che prepara l’inciucio
Scritto il 26/1/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
In una serie di esternazioni che hanno inaugurato la campagna elettorale del centrodestra, Silvio Berlusconi ha esibito il suo fiuto di animale politico. In primo luogo, da qualche settimana batte il tasto sul fatto che le prossime elezioni si configurano come uno scontro frontale fra centrodestra e M5S, ignorando il Pd, e più in generale la sinistra, liquidati come relitti del passato. È una visione che rispecchia l’insegnamento delle elezioni americane, che hanno visto il trionfo di Trump – un populista di destra – contro un Partito Democratico che si è suicidato sbarrando con ogni mezzo la strada all’unico candidato – il populista di sinistra Bernie Sanders – che avrebbe potuto battere Trump. Berlusconi snobba il Pd perché ha capito che la sinistra tradizionale, una volta convertitasi da alternativa a “ruota di scorta” delle politiche liberiste, ha perso appeal nei confronti delle classi popolari, mentre fatica a competere con la destra per la conquista delle classi medio-alte. Teme invece il M5S, non solo perché vola nei sondaggi, ma anche e soprattutto perché, ad onta dei passi indietro compiuti sui punti più radicali del programma originario, e della progressiva “normalizzazione” della sua immagine da forza antisistema a forza di governo, appare tuttora in grado di attrarre il voto di protesta di milioni di elettori incazzati nei confronti delle élite che ne ignorano bisogni e interessi.
Nel corso dell’ospitata nella trasmissione di Barbara D’Urso, l’intramontabile Silvio ha spiegato – con la consueta franchezza – qual è la posta in gioco. Ha detto cioè che scende in campo contro i grillini, come aveva fatto contro i comunisti negli anni Novanta, perché oggi il pericolo è ancora maggiore. E dal suo punto di vista ha ragione: non perché i grillini siano sovversivi, ma perché la massa inferocita che ribolle negli strati più bassi della società (e che spera di trovare espressione votando M5S) è fatta di persone «che portano invidia e odio verso chi è ricco», di incompetenti che non capiscono la complessità dei problemi su cui sono chiamati a esprimersi (la democrazia sembra essere oggi più indigesta che mai, anche se è stata ridotta ai minimi termini da decenni di guerra di classe dall’alto) e che esprimono leader «ai quali si dovrebbe domandare cosa hanno fatto prima di fare politica e se sono laureati». Infine enuncia un programma che, nel migliore stile trumpista, mette insieme veri regali ai ricchi (la “flat tax”) e finti regali (che, vedi Trump, verranno immediatamente smentiti dopo l’eventuale vittoria) ai poveri (aumenti delle pensioni minime, reddito di dignità, ecc.). Insomma: qui, come ormai quasi ovunque in Occidente, si scontrano due populismi nati sulle rovine delle forze politiche tradizionali, di sinistra come di destra.
Due populismi che negli Stati Uniti, come ha scritto Nancy Fraser seguendo la lezione di Gramsci in un lungo articolo su “American Affairs”, incarnano gli interessi di due blocchi sociali contrapposti che lottano per l’egemonia. Con la differenza che, nel caso italiano, non si confrontano un Donald Trump e un Bernie Sanders ma, da un lato una vecchia volpe (anche lui un tycoon reazionario al pari di Trump, ma che la lunga esperienza ha reso meno rozzo nell’uso di espressioni razziste e sessuofobe, mentre ne ha affinato la verve comunicativa), dall’altro lato un progetto abortito di populismo progressivo che (diversamente da “Podemos” e Mélenchon) non ha la minima chance di aggregare un blocco sociale capace di andare oltre qualche effimero successo elettorale. Ma l’astuzia berlusconiana si rivela anche nel suo enfatizzare il “pericolo” grillino per preparare il terreno – nel più che probabile caso che nessuno ottenga la maggioranza assoluta – a una “grosse koalition” in salsa italiana (sarà per caso che Renzi sostiene a sua volta che la vera sfida è fra Pd e M5S?). Una soluzione che gli consentirebbe di svincolarsi della imbarazzante alleanza con Salvini, il quale è la vera controfigura italiana di Trump, almeno per quanto riguarda la scorrettezza politica e le velleità antiglobaliste e antieuropeiste. Perché il populismo di Berlusconi è soprattutto una tecnica elettorale, ma il nostro non coltiva alcuna intenzione di sfidare i diktat dell’Europa a trazione tedesca.
(Carlo Formenti, “Il fiuto politico dell’intramontabile Silvio”, da “Micromega” del 15 gennaio 2018).
NEL PD ORAMAI TUTTO DEMOCRISTIANO(BERLUSCONI TRE GG. FA LODAVA PINOCCHIO MUSSOLONI PER AVER ALLONTANATO I "COMUNISTI") LA MAGGIORANZA RENZIANA E' COMPOSTA DA EX BERLUSCONIANI DELUSI
L'INCIUCIO DIVENTA COMPRENSIBILE
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Il fiuto di nonno Berlusconi: una farsa che prepara l’inciucio
Scritto il 26/1/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
In una serie di esternazioni che hanno inaugurato la campagna elettorale del centrodestra, Silvio Berlusconi ha esibito il suo fiuto di animale politico. In primo luogo, da qualche settimana batte il tasto sul fatto che le prossime elezioni si configurano come uno scontro frontale fra centrodestra e M5S, ignorando il Pd, e più in generale la sinistra, liquidati come relitti del passato. È una visione che rispecchia l’insegnamento delle elezioni americane, che hanno visto il trionfo di Trump – un populista di destra – contro un Partito Democratico che si è suicidato sbarrando con ogni mezzo la strada all’unico candidato – il populista di sinistra Bernie Sanders – che avrebbe potuto battere Trump. Berlusconi snobba il Pd perché ha capito che la sinistra tradizionale, una volta convertitasi da alternativa a “ruota di scorta” delle politiche liberiste, ha perso appeal nei confronti delle classi popolari, mentre fatica a competere con la destra per la conquista delle classi medio-alte. Teme invece il M5S, non solo perché vola nei sondaggi, ma anche e soprattutto perché, ad onta dei passi indietro compiuti sui punti più radicali del programma originario, e della progressiva “normalizzazione” della sua immagine da forza antisistema a forza di governo, appare tuttora in grado di attrarre il voto di protesta di milioni di elettori incazzati nei confronti delle élite che ne ignorano bisogni e interessi.
Nel corso dell’ospitata nella trasmissione di Barbara D’Urso, l’intramontabile Silvio ha spiegato – con la consueta franchezza – qual è la posta in gioco. Ha detto cioè che scende in campo contro i grillini, come aveva fatto contro i comunisti negli anni Novanta, perché oggi il pericolo è ancora maggiore. E dal suo punto di vista ha ragione: non perché i grillini siano sovversivi, ma perché la massa inferocita che ribolle negli strati più bassi della società (e che spera di trovare espressione votando M5S) è fatta di persone «che portano invidia e odio verso chi è ricco», di incompetenti che non capiscono la complessità dei problemi su cui sono chiamati a esprimersi (la democrazia sembra essere oggi più indigesta che mai, anche se è stata ridotta ai minimi termini da decenni di guerra di classe dall’alto) e che esprimono leader «ai quali si dovrebbe domandare cosa hanno fatto prima di fare politica e se sono laureati». Infine enuncia un programma che, nel migliore stile trumpista, mette insieme veri regali ai ricchi (la “flat tax”) e finti regali (che, vedi Trump, verranno immediatamente smentiti dopo l’eventuale vittoria) ai poveri (aumenti delle pensioni minime, reddito di dignità, ecc.). Insomma: qui, come ormai quasi ovunque in Occidente, si scontrano due populismi nati sulle rovine delle forze politiche tradizionali, di sinistra come di destra.
Due populismi che negli Stati Uniti, come ha scritto Nancy Fraser seguendo la lezione di Gramsci in un lungo articolo su “American Affairs”, incarnano gli interessi di due blocchi sociali contrapposti che lottano per l’egemonia. Con la differenza che, nel caso italiano, non si confrontano un Donald Trump e un Bernie Sanders ma, da un lato una vecchia volpe (anche lui un tycoon reazionario al pari di Trump, ma che la lunga esperienza ha reso meno rozzo nell’uso di espressioni razziste e sessuofobe, mentre ne ha affinato la verve comunicativa), dall’altro lato un progetto abortito di populismo progressivo che (diversamente da “Podemos” e Mélenchon) non ha la minima chance di aggregare un blocco sociale capace di andare oltre qualche effimero successo elettorale. Ma l’astuzia berlusconiana si rivela anche nel suo enfatizzare il “pericolo” grillino per preparare il terreno – nel più che probabile caso che nessuno ottenga la maggioranza assoluta – a una “grosse koalition” in salsa italiana (sarà per caso che Renzi sostiene a sua volta che la vera sfida è fra Pd e M5S?). Una soluzione che gli consentirebbe di svincolarsi della imbarazzante alleanza con Salvini, il quale è la vera controfigura italiana di Trump, almeno per quanto riguarda la scorrettezza politica e le velleità antiglobaliste e antieuropeiste. Perché il populismo di Berlusconi è soprattutto una tecnica elettorale, ma il nostro non coltiva alcuna intenzione di sfidare i diktat dell’Europa a trazione tedesca.
(Carlo Formenti, “Il fiuto politico dell’intramontabile Silvio”, da “Micromega” del 15 gennaio 2018).
NEL PD ORAMAI TUTTO DEMOCRISTIANO(BERLUSCONI TRE GG. FA LODAVA PINOCCHIO MUSSOLONI PER AVER ALLONTANATO I "COMUNISTI") LA MAGGIORANZA RENZIANA E' COMPOSTA DA EX BERLUSCONIANI DELUSI
L'INCIUCIO DIVENTA COMPRENSIBILE
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Ma la bufera sulle logge non sfiora la massoneria che conta
Scritto il 27/1/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
«Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. « E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».
«Ci vogliono mettere il triangolo rosso come ai tempi delle persecuzioni naziste», protesta il gran maestro del Goi, Stefano Bisi, a capo di 23.000 affiliati distribuiti in oltre 800 logge. Sull’“Espresso”, Turano sostiene che le nuove indagini «hanno stretto i liberi muratori in una morsa politico-giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 (marzo 1981) quando Licio Gelli, il “venerabile” per eccellenza, gestiva un potere occulto, alternativo allo Stato democratico, raccogliendo un’oligarchia di deputati, ministri, generali, imprenditori e criminali che si erano sottratti alle leggi della Repubblica». Il giornale cita lo storico Aldo Mola, secondo cui la P2 non era affatto una loggia coperta, ma una cellula speciale regolarmente affiliata al Goi, con tre caratteristiche. «Primo: l’iniziazione non avveniva in loggia. Secondo: non c’era diritto di visita, ossia altri fratelli non potevano visitare la loggia. Terzo: non c’era obbligo di riunioni. Infatti la P2 non si è mai riunita». La loggia di Gelli, afferma Mola, era una replica della loggia Propaganda, costituita nel 1877 «come vetrina e fiore all’occhiello del Goi, tanto che i fratelli erano dispensati dal pagare le quote». Peraltro, si trattava di “capitazioni” ridicole: «Il cantante Claudio Villa versava 2 mila lire all’anno e lo scrittore Roberto Gervaso 60 mila. Erano somme piccole anche negli anni Settanta».
Finisce lì, l’analisi sulla P2 offerta dall’“Espresso”. Secondo Gioele Magadi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) la P2 non era altro che il braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, fondata da Kissinger e Rockefeller, “mente” storica della supermassoneria globalista neo-reazionaria, che avrebbe affiliato – tra gli altri – Giorgio Napolitano. Un circuito potentissimo, quello delle Ur-Lodges di ispirazione neo-aristocratica, che terrebbe insieme politici e tecnocrati, da Monti a Draghi passando per D’Alema e per il governatore Visco di Bankitalia, inclusi tutti i recenti ministri dell’economia (da Siniscalco a Grilli, da Saccomanni a Padoan), ridotti a cinghie di trasmissione dei diktat neoliberisti del super-potere globalista, quello delle crisi finanziarie e della disoccupazione di massa. Lo stesso Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione) svela i retroscena ben poco islamici degli attentati europei firmati Isis (chiamando in causa settori dell’intelligence Nato), sostiene che la P2 di Gelli serviva a “coprire” il vero ponte di comando del potere: «Si tratta della loggia P1, mai scoperta ufficialmente, responsabile della “sovragestione” che ha eterodiretto in Italia la strategia della tensione e poi la crisi degli ultimi anni».
Fatevi qualche domanda, insiste Carpeoro: «Non è strano che nessun giornale, nemmeno per sbaglio, abbia mai evocato la P1?». La lettera P, come scrive lo stesso Mola, sta per “propaganda”: doveva essere una vetrina di iscritti prestigiosi, destinati a dare lustro al Grande Oriente. «E allora che senso ha, poi, fare la P2 e tenerla nascosta?». In proposito, Carpeoro ha le idee chiare: «Un tempo, ogni anno, la massoneria apriva le porte delle logge alla cittadinanza, ricordando i massoni illustri che avevano fatto qualcosa di meritevole per la loro città». Dal canto suo, Magaldi contesta il farisaismo della politica italiana: «Questo è uno Stato nato dalla massoneria risorgimentale», e non solo: era notoriamente massone Meuccio Ruini, capo della commissione per la Costituente, così come il giurista Pietro Calamandrei, uomo simbolo dell’antifascismo e della rinascita democratica del paese. Era massone – trentatreesimo grado del Rito Scozzese – lo stesso Giacomo Matteotti, martire antifascista, come ricorda Carpeoro nel saggio “Il compasso, il fascio e la mitra” (Uno Editori), che documenta lo strano “inciucio” tra massoneria e Vaticano all’origine del regime di Mussolini – col placet del sovrano Vittorio Emanuele III, che in cambio avrebbe intascato una maxi-tangente petrolifera dalla Sinclair Oil della famiglia Rockefeller.
Grandi poteri, non beghe di cortile: il reportage dell’“Espresso” cita solo di striscio il drammatico caso Mps, che ha coinvolto il Goi nelle recenti inchieste. «Politica e giornali hanno attaccato il gran maestro Stefano Bisi – protesta Magaldi – guardandosi bene dal citare Anna Maria Tarantola e Mario Draghi, cioè i due tecnocrati allora ai vertici di Bankitalia che avrebbero dovuto vigilare sulle azioni del Montepaschi». Peggio: sul caso incombe la strana morte di David Rossi, alto funzionario della banca senese, precipitato da una finestra. Un suicidio da più parti ritenuto inverosimile, che secondo Carpeoro (intervistato da Fabio Frabetti di “Border Nights”) lascia pensare a una guerra inframassonica senza esclusione di colpi, tutta interna all’ala destra della supermassoneria internazionale oligarchica: «Da una parte il gruppo di Draghi, e dall’altra i suoi antagonisti, che probabilmente vogliono metterlo in difficoltà – con la tempesta su Mps – per poi arrivare a sostituirlo». Carpeoro e Magaldi, massoni entrambi (il primo uscito dal circuito delle logge, il secondo fondatore del Grande Oriente Democratico, che punta a creare una massoneria trasparente) sono tra i pochissimi a spiegare, in modo convincente, un mondo di cui sui giornali continua a non esservi traccia.
Lo stesso libro “Massoni” (sottotitolo, “La scoperta delle Ur-Lodges”), dopo infinite ristampe che ne hanno fatto un bestseller italiano è stato recensito soltanto dal “Fatto Quotidiano”, nel silenzio assordante della grande stampa mainstream, quella che poi si scatena sulle inchieste che coinvolgono le periferie massoniche provinciali. «Come tutte le associazioni umane, anche la massoneria si degrada se smarrisce lo scopo iniziale e si riduce a essere una struttura, che poi diventa inevitabilmente appetibile per il potere», sintetizza Carpeoro: «L’architetto Christopher Wren, capo della massoneria inglese incaricato di ricostruire Londra dopo l’incendio che la distrusse nel 1666, riprogettò tutti i maggiori edifici tranne uno, il tempio massonico. Il 1717 è ufficialmente la data di nascita della massoneria moderna, ma in realtà segna l’inizio della sua morte». Magaldi non concorda appieno: «Dobbiamo a quella massoneria la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Americana e persino la Rivoluzione d’Ottobre che abbattè lo zarismo. Lo Stato laico, la democrazia elettiva: valori che oggi diamo per scontati, ma che nascono dalla libera muratoria del ‘700».
Per questo, sostiene Magaldi, è assolutamente disonesto sparare sulla massoneria tout-court. E lo dice uno che l’ha messa in croce, per iscritto, la supermassoneria oligarchica “contro-iniziatica” che ha letteralmente inquinato l’Occidente, sabotandone il percorso democratico. Nel suo libro, Magaldi ascrive alle Ur-Lodges reazionarie il colpo di Stato del massone Pinochet in Cile (contro il massone Allende) e il doppio omicidio di Bob Kennedy e del massone Martin Luther King, nonché i tentativi di golpe nell’Italia del dopoguerra, orchestrati con la collaborazione della P2 di Gelli su mandato della “Three Eyes”. Capolavoro europeo dell’offensiva neo-oligarchica, l’omicidio del premier svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu, come segretario generale. «Socialista democratico – sottolinea Carpeoro – Palme era un trentatreesimo grado del Rito Scozzese». Poco prima del delitto, Gelli inviò un telegramma negli Usa per avvertire che «la palma svedese» sarebbe stata abbattutta. «Il telegramma – scrive Carpeoro – era destinato a Philip Guarino, parlamentare allora vicino al politologo Michael Ledeen, massone e membro del B’nai B’rit sionista, negli anni ‘80 vicino a Craxi e poi a Di Pietro, quindi a Renzi ma al tempo stesso anche a Di Maio e Grillo».
«Se Olof Palme fosse rimasto in campo, mai e poi mai avremmo visto nascere questo obbrobrio di Unione Europea», scommette Carpeoro, intenzionato – con Magaldi e il Movimento Roosevelt – a promuovere un convegno, a Milano, proprio sulla figura del leader svedese, «l’uomo che creò il miglior welfare europeo e scongiurò la disoccupazione impegnando direttamente lo Stato nelle imprese in crisi: la sua missione dichiarata era “tagliare le unghie al capitalismo”, contenerlo e limitarne l’egemonia». Non poteva non sapere, Olof Palme, che all’inzio degli anni ‘80 l’intera comunità delle potentissime Ur-Lodges, comprese quelle di ispirazione progressista, aveva firmato lo storico patto “United Freemasons for Globalization”, che diede il via alla mondializzazione definitiva dell’economia, archiviando decenni di diritti e conquiste democratiche. Era scomoda, la “palma svedese”: andava “abbattuta”. Per mano di fratelli massoni? «Nella ritualistica, l’iniziazione del maestro rievoca l’uccisione del mitico architetto Hiram Abif, assassinato proprio da due confratelli», sottolinea Carpeoro. «Lo stesso organizzatore del delitto Matteotti, il massone Filippo Naldi, fece in modo – con estrema perfidia – che fossero massoni i killer del leader socialista, massone anche lui».
Analisi e retroscena, spiegazioni, ragionamenti in controluce che permettono di rileggere la storia da un’altra angolazione. Nulla che si possa rintracciare, tuttora, nella stampa mainstream. «Di certo Gelli, a poco più di un anno dalla sua morte, sembra avere seminato anche troppo bene», si limita a scrivere Turano sull’“Espresso”. «Come alla fine dell’Ottocento, è tornato di moda il motto del garibaldino e deputato Felice Cavallotti: “Non tutti i massoni sono delinquenti, ma tutti i delinquenti sono massoni”». Garibaldi, passato alla storia (spesso agiografica) come “l’eroe dei due mondi”, fu il primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia. Un altro massone, Cavour, fu il “cervello” del Risorgimento: se non fosse morto prematuramente, sostiene Carpeoro, non avremmo vissuto in modo così drammatico l’Unità d’Italia, con il Sud martizizzato dal militarismo di La Marmora e Cialdini e l’esodo di milioni di migranti. Massoni “delinquenti”? «Erano massoni anche Gandhi, Papa Giovanni XXIII e Nelson Mandela», protesta Magaldi. Problema: la storia ufficiale non ne fa cenno. Risultato: per il potere, il miglior massone resta il massone occulto, segreto. E per la gran parte dell’opinione pubblica italiana, la massoneria resta un mondo opaco e borderline, tra le indagini antimafia e il fantasma di Gelli. Anche per questo, grazie al silenzio dei media, la massoneria mondiale – quella vera – continuerà a stabilire a tavolino cosa deciderà il prossimo G20, che politica farà la Bce, come agirà Macron in Francia e cosa dichiarerà il Fondo Monetario Internazionale sulle pensioni italiane, a prescindere dalle prossime elezioni.
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Ma la bufera sulle logge non sfiora la massoneria che conta
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«Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. « E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».
«Ci vogliono mettere il triangolo rosso come ai tempi delle persecuzioni naziste», protesta il gran maestro del Goi, Stefano Bisi, a capo di 23.000 affiliati distribuiti in oltre 800 logge. Sull’“Espresso”, Turano sostiene che le nuove indagini «hanno stretto i liberi muratori in una morsa politico-giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 (marzo 1981) quando Licio Gelli, il “venerabile” per eccellenza, gestiva un potere occulto, alternativo allo Stato democratico, raccogliendo un’oligarchia di deputati, ministri, generali, imprenditori e criminali che si erano sottratti alle leggi della Repubblica». Il giornale cita lo storico Aldo Mola, secondo cui la P2 non era affatto una loggia coperta, ma una cellula speciale regolarmente affiliata al Goi, con tre caratteristiche. «Primo: l’iniziazione non avveniva in loggia. Secondo: non c’era diritto di visita, ossia altri fratelli non potevano visitare la loggia. Terzo: non c’era obbligo di riunioni. Infatti la P2 non si è mai riunita». La loggia di Gelli, afferma Mola, era una replica della loggia Propaganda, costituita nel 1877 «come vetrina e fiore all’occhiello del Goi, tanto che i fratelli erano dispensati dal pagare le quote». Peraltro, si trattava di “capitazioni” ridicole: «Il cantante Claudio Villa versava 2 mila lire all’anno e lo scrittore Roberto Gervaso 60 mila. Erano somme piccole anche negli anni Settanta».
Finisce lì, l’analisi sulla P2 offerta dall’“Espresso”. Secondo Gioele Magadi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) la P2 non era altro che il braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, fondata da Kissinger e Rockefeller, “mente” storica della supermassoneria globalista neo-reazionaria, che avrebbe affiliato – tra gli altri – Giorgio Napolitano. Un circuito potentissimo, quello delle Ur-Lodges di ispirazione neo-aristocratica, che terrebbe insieme politici e tecnocrati, da Monti a Draghi passando per D’Alema e per il governatore Visco di Bankitalia, inclusi tutti i recenti ministri dell’economia (da Siniscalco a Grilli, da Saccomanni a Padoan), ridotti a cinghie di trasmissione dei diktat neoliberisti del super-potere globalista, quello delle crisi finanziarie e della disoccupazione di massa. Lo stesso Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione) svela i retroscena ben poco islamici degli attentati europei firmati Isis (chiamando in causa settori dell’intelligence Nato), sostiene che la P2 di Gelli serviva a “coprire” il vero ponte di comando del potere: «Si tratta della loggia P1, mai scoperta ufficialmente, responsabile della “sovragestione” che ha eterodiretto in Italia la strategia della tensione e poi la crisi degli ultimi anni».
Fatevi qualche domanda, insiste Carpeoro: «Non è strano che nessun giornale, nemmeno per sbaglio, abbia mai evocato la P1?». La lettera P, come scrive lo stesso Mola, sta per “propaganda”: doveva essere una vetrina di iscritti prestigiosi, destinati a dare lustro al Grande Oriente. «E allora che senso ha, poi, fare la P2 e tenerla nascosta?». In proposito, Carpeoro ha le idee chiare: «Un tempo, ogni anno, la massoneria apriva le porte delle logge alla cittadinanza, ricordando i massoni illustri che avevano fatto qualcosa di meritevole per la loro città». Dal canto suo, Magaldi contesta il farisaismo della politica italiana: «Questo è uno Stato nato dalla massoneria risorgimentale», e non solo: era notoriamente massone Meuccio Ruini, capo della commissione per la Costituente, così come il giurista Pietro Calamandrei, uomo simbolo dell’antifascismo e della rinascita democratica del paese. Era massone – trentatreesimo grado del Rito Scozzese – lo stesso Giacomo Matteotti, martire antifascista, come ricorda Carpeoro nel saggio “Il compasso, il fascio e la mitra” (Uno Editori), che documenta lo strano “inciucio” tra massoneria e Vaticano all’origine del regime di Mussolini – col placet del sovrano Vittorio Emanuele III, che in cambio avrebbe intascato una maxi-tangente petrolifera dalla Sinclair Oil della famiglia Rockefeller.
Grandi poteri, non beghe di cortile: il reportage dell’“Espresso” cita solo di striscio il drammatico caso Mps, che ha coinvolto il Goi nelle recenti inchieste. «Politica e giornali hanno attaccato il gran maestro Stefano Bisi – protesta Magaldi – guardandosi bene dal citare Anna Maria Tarantola e Mario Draghi, cioè i due tecnocrati allora ai vertici di Bankitalia che avrebbero dovuto vigilare sulle azioni del Montepaschi». Peggio: sul caso incombe la strana morte di David Rossi, alto funzionario della banca senese, precipitato da una finestra. Un suicidio da più parti ritenuto inverosimile, che secondo Carpeoro (intervistato da Fabio Frabetti di “Border Nights”) lascia pensare a una guerra inframassonica senza esclusione di colpi, tutta interna all’ala destra della supermassoneria internazionale oligarchica: «Da una parte il gruppo di Draghi, e dall’altra i suoi antagonisti, che probabilmente vogliono metterlo in difficoltà – con la tempesta su Mps – per poi arrivare a sostituirlo». Carpeoro e Magaldi, massoni entrambi (il primo uscito dal circuito delle logge, il secondo fondatore del Grande Oriente Democratico, che punta a creare una massoneria trasparente) sono tra i pochissimi a spiegare, in modo convincente, un mondo di cui sui giornali continua a non esservi traccia.
Lo stesso libro “Massoni” (sottotitolo, “La scoperta delle Ur-Lodges”), dopo infinite ristampe che ne hanno fatto un bestseller italiano è stato recensito soltanto dal “Fatto Quotidiano”, nel silenzio assordante della grande stampa mainstream, quella che poi si scatena sulle inchieste che coinvolgono le periferie massoniche provinciali. «Come tutte le associazioni umane, anche la massoneria si degrada se smarrisce lo scopo iniziale e si riduce a essere una struttura, che poi diventa inevitabilmente appetibile per il potere», sintetizza Carpeoro: «L’architetto Christopher Wren, capo della massoneria inglese incaricato di ricostruire Londra dopo l’incendio che la distrusse nel 1666, riprogettò tutti i maggiori edifici tranne uno, il tempio massonico. Il 1717 è ufficialmente la data di nascita della massoneria moderna, ma in realtà segna l’inizio della sua morte». Magaldi non concorda appieno: «Dobbiamo a quella massoneria la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Americana e persino la Rivoluzione d’Ottobre che abbattè lo zarismo. Lo Stato laico, la democrazia elettiva: valori che oggi diamo per scontati, ma che nascono dalla libera muratoria del ‘700».
Per questo, sostiene Magaldi, è assolutamente disonesto sparare sulla massoneria tout-court. E lo dice uno che l’ha messa in croce, per iscritto, la supermassoneria oligarchica “contro-iniziatica” che ha letteralmente inquinato l’Occidente, sabotandone il percorso democratico. Nel suo libro, Magaldi ascrive alle Ur-Lodges reazionarie il colpo di Stato del massone Pinochet in Cile (contro il massone Allende) e il doppio omicidio di Bob Kennedy e del massone Martin Luther King, nonché i tentativi di golpe nell’Italia del dopoguerra, orchestrati con la collaborazione della P2 di Gelli su mandato della “Three Eyes”. Capolavoro europeo dell’offensiva neo-oligarchica, l’omicidio del premier svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu, come segretario generale. «Socialista democratico – sottolinea Carpeoro – Palme era un trentatreesimo grado del Rito Scozzese». Poco prima del delitto, Gelli inviò un telegramma negli Usa per avvertire che «la palma svedese» sarebbe stata abbattutta. «Il telegramma – scrive Carpeoro – era destinato a Philip Guarino, parlamentare allora vicino al politologo Michael Ledeen, massone e membro del B’nai B’rit sionista, negli anni ‘80 vicino a Craxi e poi a Di Pietro, quindi a Renzi ma al tempo stesso anche a Di Maio e Grillo».
«Se Olof Palme fosse rimasto in campo, mai e poi mai avremmo visto nascere questo obbrobrio di Unione Europea», scommette Carpeoro, intenzionato – con Magaldi e il Movimento Roosevelt – a promuovere un convegno, a Milano, proprio sulla figura del leader svedese, «l’uomo che creò il miglior welfare europeo e scongiurò la disoccupazione impegnando direttamente lo Stato nelle imprese in crisi: la sua missione dichiarata era “tagliare le unghie al capitalismo”, contenerlo e limitarne l’egemonia». Non poteva non sapere, Olof Palme, che all’inzio degli anni ‘80 l’intera comunità delle potentissime Ur-Lodges, comprese quelle di ispirazione progressista, aveva firmato lo storico patto “United Freemasons for Globalization”, che diede il via alla mondializzazione definitiva dell’economia, archiviando decenni di diritti e conquiste democratiche. Era scomoda, la “palma svedese”: andava “abbattuta”. Per mano di fratelli massoni? «Nella ritualistica, l’iniziazione del maestro rievoca l’uccisione del mitico architetto Hiram Abif, assassinato proprio da due confratelli», sottolinea Carpeoro. «Lo stesso organizzatore del delitto Matteotti, il massone Filippo Naldi, fece in modo – con estrema perfidia – che fossero massoni i killer del leader socialista, massone anche lui».
Analisi e retroscena, spiegazioni, ragionamenti in controluce che permettono di rileggere la storia da un’altra angolazione. Nulla che si possa rintracciare, tuttora, nella stampa mainstream. «Di certo Gelli, a poco più di un anno dalla sua morte, sembra avere seminato anche troppo bene», si limita a scrivere Turano sull’“Espresso”. «Come alla fine dell’Ottocento, è tornato di moda il motto del garibaldino e deputato Felice Cavallotti: “Non tutti i massoni sono delinquenti, ma tutti i delinquenti sono massoni”». Garibaldi, passato alla storia (spesso agiografica) come “l’eroe dei due mondi”, fu il primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia. Un altro massone, Cavour, fu il “cervello” del Risorgimento: se non fosse morto prematuramente, sostiene Carpeoro, non avremmo vissuto in modo così drammatico l’Unità d’Italia, con il Sud martizizzato dal militarismo di La Marmora e Cialdini e l’esodo di milioni di migranti. Massoni “delinquenti”? «Erano massoni anche Gandhi, Papa Giovanni XXIII e Nelson Mandela», protesta Magaldi. Problema: la storia ufficiale non ne fa cenno. Risultato: per il potere, il miglior massone resta il massone occulto, segreto. E per la gran parte dell’opinione pubblica italiana, la massoneria resta un mondo opaco e borderline, tra le indagini antimafia e il fantasma di Gelli. Anche per questo, grazie al silenzio dei media, la massoneria mondiale – quella vera – continuerà a stabilire a tavolino cosa deciderà il prossimo G20, che politica farà la Bce, come agirà Macron in Francia e cosa dichiarerà il Fondo Monetario Internazionale sulle pensioni italiane, a prescindere dalle prossime elezioni.
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Re: Diario della caduta di un regime.
» Cronaca
sabato 27/01/2018
Rattoppo di legno sui binari. Il guasto segnalato da giorni
L’indagine - Per la Procura le responsabilità vanno ricercate nel gestore della rete, cioè Rfi. Un operaio aveva avvisato ma si è deciso per un intervento provvisorio
Un buco nel tracciato – Tra i binari era stato inserito un legno per rattoppare il guasto, ma non ha retto – Ansa
Lunga scia di sangue – Il deragliamento ha provocato tre vittime e 47 feriti – LaPresse
Un buco nel tracciato – Tra i binari era stato inserito un legno per rattoppare il guasto, ma non ha retto – Ansa
Lunga scia di sangue – Il deragliamento ha provocato tre vittime e 47 feriti – LaPresse
Un buco nel tracciato – Tra i binari era stato inserito un legno per rattoppare il guasto, ma non ha retto – Ansa
Lunga scia di sangue – Il deragliamento ha provocato tre vittime e 47 feriti – LaPresse
di Davide Milosa | 27 gennaio 2018
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Il guasto c’era eccome. Non al carrello ma alla rete ferroviaria. Tradotto: le rotaie. Non solo, era stato segnalato. Di più: un intervento tampone era stato fatto. Ma il rattoppo con un banale pezzo di legno disgraziatamente non ha retto. Per comprendere le cause che giovedì mattina hanno provocato il deragliamento del treno di Trenord un chilometro dopo la stazione di Limito di Pioltello nel Milanese provocando la morte di tre donne, oltre a 47 feriti (di cui cinque ancora gravi), bisogna tornare al cosiddetto punto zero, ovvero dove sta il giunto al quale mancano 23 centimetri di acciaio.
Primo dato: gli inquirenti escludono in via quasi definitiva un mal funzionamento del carrello del treno. Gli accertamenti si concentrano sul danno alla rotaia. E le responsabilità si spostano, secondo la Procura, su Rfi e non su Trenord. Il giunto è composto da due barre di acciaio tenute assieme da quattro grossi bulloni, e poi saldate con il segmento di rotaia. Le due barre tra loro non sono unite. Il dato risulta normale. Cosa succede a questo punto? Qualche operaio nei giorni precedenti o forse anche settimane fa (la tempistica va accertata) segnala che vi è un disallineamento delle due barre. Dovuto all’assenza di un dado che doveva tenere il bullone. La cosa dunque viene comunicata a Rfi, questa è l’ipotesi investigativa. A quel punto cosa succede? Viene dato l’ordine di intervenire. L’intervento è però solo provvisorio. E questo, secondo la Procura, con buona probabilità produrrà l’incidente. La scientifica infatti ha trovato sotto al giunto un pezzo di legno messo appositamente per tenere allineate le barre. Quando è stato messo è ancora da accertare. Il dato è che però quel legno, forse per uno svuotamento della massicciata, si abbassa non reggendo più il giunto e disallineando le barre. E torniamo all’alba di giovedì, quando il treno passa. Secondo la ricostruzione, le ruote delle prime carrozze passando sopra al giunto che ha, evidentemente, una barra più alta dell’altra, strappano il pezzo di metallo. A quel punto la terza vettura o forse la quarta (non la quinta e la sesta che resteranno sui binari) sobbalzano sull’avvallamento. Le ruote del carrello però non cadono subito. In particolare quelle esterne per qualche minuto continuano a correre sullo spigolo delle rotaie. Poi scendono, ma poi tornano sopra, dando la sensazione di un sobbalzo. Quindi le ruote scendono definitivamente. E questo è provato dai segni sulla massicciata e sulle traversine. Il treno, va ricordato, corre a 140 chilometri orari. Oltre la stazione di Limito di Pioltello le ruote si allargano sempre più verso l’esterno colpendo due pali. Alla fine il deragliamento è provocato dal gancio tra un vagone e un altro che non regge più la pressione e si stacca. A quel punto una delle carrozze, la terza, si gira a novanta gradi piegandosi attorno a un palo dell’alta tensione. A quanto risulta poi il macchinista originario di Cremona non si accorge dei sobbalzi iniziali. Almeno questo ha messo a verbale due giorni fa dopo l’incidente. Anzi, ed è un’ipotesi credibile, potrebbe aver accelerato un po’ dopo aver sentito la mancanza di trazione provocata dalla discesa delle ruote. E che non si accorga di nulla lo dimostra il fatto che non è stato tirato il freno di emergenza. Se il dispositivo fosse stato azionato il treno si sarebbe fermato nello spazio di 800 metri ancora prima di entrare nella stazione. Invece il convoglio attraversa le banchine sbandando e provocando le scintille. L’indagine, dunque, prosegue in una direzione ben precisa. Anche per questo non ci sono iscritti nel registro degli indagati con l’ipotesi di disastro ferroviario colposo. L’obiettivo adesso è capire se, come filtrato ieri, la riparazione doveva essere fatta a giorni, oppure se quel rattoppo era considerato sufficiente. E che possa essere così viene confermato dal fatto che un tale modo di agire non è per nulla raro sulla rete ferroviaria nazionale. Gli interrogatori chiariranno il quadro. Ma non vi è dubbio su una cosa, almeno questo sostengono gli investigatori: la segnalazione del guasto e l’ordine di ripararlo non partono da una decisione autonoma della ditta che ha in appalto la manutenzione, ma direttamente da Rfi. Questo in via generale e non solo per il caso di Segrate. Certo esiste anche la componente della casualità. Sul quel tratto prima del treno deragliato erano passati altri convogli e non solo quel giorno stesso.
Ancora da capire, infine, quale fosse il danno reale al giunto, un dado mancante oppure una crepa. Il fatto certo è che per tenere allineate le due barre è stato utilizzato un semplicissimo pezzo di legno.
di Davide Milosa | 27 gennaio 2018
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Re: Diario della caduta di un regime.
A forza di favorire solo il trasporto su gomma poi succedono queste cose.
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