Diario della caduta di un regime.

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Re: Diario della caduta di un regime.

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UncleTom ha scritto:....RITORNANDO AL TEMA ORIGINALE DEL 3d


......IL SEGNO DEI TEMPI.......


Scrive MASSIMO FINI sul Fatto Quotidiano di oggi:


IL COMMENTO
Un consiglio a Grillo & c.
Per favore, non cadete nella trappola del solito Berlusconi

CON TUTTI, MA NON COL DELINQUENTENERO SU BIANCO
:cry: :cry: :cry: :cry: :cry: :cry: :cry: :cry: :cry: :cry: :cry:

SPOSTATO DALLA SOLITA BANDA CRIMINALE


SOTTINTESO CHE SE GOVERNASSERO LORO AVVEREBBERO I CAMPI DI STERMINIO.

MA LA DESTRA NON ERA CATTOLICA?????????????


:evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil: :evil:




FINO A QUALCHE ANNO FA SAREBBE STATA IMPOSSIBILE UNA DICHIARAZIONE DI QUESTO GENERE.

IL CAPO DI FORZA ITALIA DEFINITO "UN DELINQUENTE".


MA I TEMPI SONO QUELLI DELLO SFASCIO TOTALE DI UN PAESE, E QUINDI QUESTA E' LA REALTA'.


^^^^^^^^^^^^^^^^^Ì


Il Bufaliere e il vice Bufaliere si distinguono nella fabbricazione dell'odio nazionale.

Scrive in prima pagina il vice Bufaliere:

.........Accoglienza da pazzi

Un richiedente asilo su due
è matto da legare e va curato


Oltre la metà degli immigrati che ospitiamo soffre di disturbi mentali. Molti di essi vedono gli spiriti
Il 17% dei detenuti nei manicomi giudiziari viene dall'estero


di RENATO FARINA (L'ex agente Betulla-ndt)



SOTTINTESO CHE SE GOVERNASSERO LORO AVVEREBBERO I CAMPI DI STERMINIO.

MA LA DESTRA NON ERA CATTOLICA?????????????




^^^^^^^^

Il Bufaliere scrive:

..............TUTTO DA RIFARE E OGGI SI VOTA

I CINQUE STELLE NEL PALLONE

I grillini si spaccano e scappano dal tavolo con Berlusconi
No del M5s a Romani. Trattative a oltranza






Da LA STAMPA, riportata da Dagospia:


23 mar 2018 10:52

BERLUSCONI, COME TI SGONFIO SALVINI E DI MAIO - È BASTATO CHE IL BANANA ALLONTANASSE GHEDINI E RITORNASSE DA GIANNI LETTA PER FAR SCOPRIRE AI DUE STROMBAZZANTI “MEZZI-VINCITORI” CHE SONO DUE MEZZE SEGHE: PER FARE UN GOVERNO CI VUOLE BEN ALTRO DEI VOTI FIN QUI RACCOLTI - IL PROGETTO SUICIDA DI SALVINI: UNIRSI AL 36% DEL M5S CON IL SUO 18%: DOVE ANDAVA IL TAPINO?


Lucia Annunziata per la Stampa



BERLUSCONI E ANNUNZIATA BERLUSCONI E ANNUNZIATA

Per diciannove giorni esatti, due uomini, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno girato l' Italia in lungo e in largo, in un tour della vittoria, raccontando a tutti di aver vinto le elezioni. Intessendo intorno a questo concetto un racconto fatto di emozioni («saremo sempre fedeli a chi ci ha scelto») e parole d' ordine («nulla sarà come prima») che ha rapito anche le migliori menti nella seduzione di una idea - l' inevitabilità di un governo Lega-M5S, dannazione, disperazione, entusiasmo, come preferite, in Europa, in Usa, in Russia.



Ma, come nelle favole, a 24 ore dall' inizio della prima scelta che avvia la strada per formare un esecutivo, tutto svanisce, e i due uomini, Salvini e Di Maio, come la ragazza che porta la ricottina al mercato, scoprono che la vittoria nelle urne è stata solo un rapido sguardo riflesso in uno specchio. Avevano fatto un accordo che contentava entrambi: al primo la presidenza del Senato, al secondo la presidenza della Camera.

SALVINI - DI MAIO - BERLUSCONI - RENZI SALVINI - DI MAIO - BERLUSCONI - RENZI

Intesa viatico di un futuro accordo di governo.



Salvo scoprire che per fare un governo ci vuole ben altro dei voti fin qui raccolti, e molto molto altro che una semplice somma numerica.

È bastato che si rialzasse dal suo dispiacere il vecchio leone della politica italiana, per scompigliare ogni progetto.

Nelle prime ore dopo i risultati sembrava morta, Forza Italia. Vergognosa, schiacciata dal sorpasso inflittogli dalla Lega. Poi, tre giorni fa l' arrivo a Roma di Silvio Berlusconi.



A differenza degli altri leader che hanno solo partiti, il Cavaliere può contare anche su una poderosa macchina che ha costruito negli anni, e che, sebbene sminuita di peso, schiera un' ampia articolazione di ruoli e intelligenze, come Ghedini e Letta, giornali e televisioni, relazioni istituzionali e fedeltà consolidate. Fili sono stati tirati da questa macchina, progetti sono stati abbozzati.



berlusconi salvini meloni berlusconi salvini meloni

Discreti approcci, telefonate, amicizie riascoltate, una tela è stata sistemata, a Roma, per provare a rimettere l' esuberanza salviniana in un progetto logico. Un richiamo al realismo di un accordo: alla Lega l' incarico di governo, a Forza Italia la presidenza del Senato. Carica, quest' ultima da non sottovalutare, essendo la seconda dopo il Presidente, e la guida della più incerta delle ali del Parlamento, dove le maggioranze sono più ristrette e dunque più decisive.



Come mai questo ovvio accordo fra alleati non fosse stato definito finora, è una domanda superflua. La matematica anche in politica è una scienza esatta: un Salvini in uscita dalla coalizione con Forza Italia, per fare un governo con i Cinquestelle sarebbe stato il leader di una forza politica del 18 per cento che si univa a una forza politica con il 33 per cento. Un progetto suicida per se stesso e per tutta la destra.



BERLUSCONI ED IL SUDORE DI SALVINI BERLUSCONI ED IL SUDORE DI SALVINI

L' accordo con i Cinquestelle era dunque, dopotutto, solo un po' di scena, da parte di Salvini, per spingere la coalizione ad assicurargli l' incarico di fare il governo.

E per rendere nullo ogni accordo fin qui fatto tra Lega e Pentastellati non è stato nemmeno necessario fare una telefonata o mandare una nota: per Di Maio una cosa è giocare con Salvini, altro è allearsi con Berlusconi. L' intesa che doveva sconvolgere l' Italia si è rivelata alla fine solo un classico «teatrino» politico.



Potremmo persino felicitarci per questa lezione di realismo che scuote tutti ancora prima dell' insediamento del nuovo Parlamento. Se non fosse che ora sul tavolo non rimane uno straccio di idea su future maggioranze. Il Pd ex partito di governo oggi disorientato, diviso, è senza una strategia.

gianni letta e berlusconi gianni letta e berlusconi

Certo non gli sarà facile accodarsi a un centrodestra unito; d' altra parte non è nemmeno pronto a costruire un rapporto con l' acerrimo nemico M5S. In ogni caso, la lacerazione interna, dopo la sconfitta, lo tira su aree politiche opposte.



Gli M5S che finora pensavano di poter giocare usando i due forni, la Lega e il Pd, magari mettendoli su piani di competizione, oggi si ritrovano a dover cambiare del tutto schema.

Se il voto per le presidenze di Camera e Senato che inizia stamattina vedrà un centrodestra compatto sul nome di Romani, come è stato detto ieri sera dopo il vertice dei capigruppo, la destra sarà l' unica area con una strategia chiara.

lurch ghedini lurch ghedini

Se c' è un incrocio dove nei prossimi giorni ogni accordo sarà fatto o disfatto, questo è l' incrocio fra piazza Venezia e via del Plebiscito, dove si erge Palazzo Grazioli, da anni casa del Cavaliere.
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Re: Diario della caduta di un regime.

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Totem e tabù della sinistra che ha rinnegato il socialismo

Scritto il 24/3/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet

Il socialismo ha rappresentato l’ideologia umanista per eccellenza, anche se oggi sembra essersi trasformata in un carrozzone, un libro di buoni propositi, certo non realizzabili dalle due sinistre ancora in campo: quella borghese e disincantata, «che ha subordinato l’ideologia progressista e illuminista al pensiero liberista e ad una astratta morale liquida», e la sinistra “popolare”, radicata in una narrazione «fuori dal tempo», che risponde al liberismo in modo “reazionario” e “arrabbiato”, sfoderando «una morale da internazionale para-religiosa». Una peggio dell’altra: di sicuro, secondo Stefano Pica, non hanno più nulla a che fare con il socialismo «se non su un piano velleitario e di facciata». Quello che sopravvive, in loro, «è il cerimoniale liturgico di slogan, parole d’ordine e riferimenti estetici, che assomigliano più a dei totem sinistri che non ad un reale progetto politico». Sono «totem senz’anima, a cui viene sacrificato il pensiero critico», e che «nascondono insidiosi e inconfessabili tabù». Ovvero: ormai entrambe le sinistre «hanno come riferimento ideologico l’economia di mercato, verso cui assumono atteggiamenti ambivalenti, sottomessi o reazionari». Il progressismo di oggi (con la ‘p’ minuscola) teorizza «un progresso che mira al ripudio della tradizione, dell’appartenenza, di ogni differenza culturale e sociale, con l’unico scopo di neutralizzare l’individualità e la cultura locale».
Si tratta quindi di «un progressismo sinistro, che mira ad un livellamento verso il basso della società, minando i confini antropologico-culturali di un paese a vantaggio di una società liquida e amorfa», scrive Pica sul blog del Movimento Roosevelt. Siamo in una società liquida «fondata su un internazionalismo di valori e diritti che in realtà finiscono con l’essere solo dei simulacri di carta», lontani dalla realtà quotidiana dei cittadini. Simulacri «carichi di retorica», che di fatto «nascondono il tabù di un silente desiderio di dominio sulle masse», cui forse la sinistra aspira da sempre, dietro al tabù della «religione del progresso», che si orienta «verso un irraggiungibile futuro migliore», lungo un internazionalismo dei diritti spesso insostenibile, all’interno di una morale condivisa. «In nome del diritto e di una ambigua morale internazional-umanitaria – scrive Pica – viene creato il pretesto per annullare le differenze tra le persone e le culture, offrendo in cambio la democrazia digitale del wi-fi o più genericamente del consumismo», l’unico luogo dove ormai si realizzerebbe una vera uguaglianza. La “causa del popolo” è spesso iper-urbana, sradica la cultura identitaria con la propaganda del multiculturalismo e un utilizzo spregiudicato di un fenomeno migratorio.
Il totem del diritto al lavoro nasconde il tabù di un impiego precario, «sottomesso alle regole del mercato», senza una reale analisi sull’effettivo servizio offerto alla comunità, né sul peso umano del lavoratore. «Secondo l’etica di un socialismo postmoderno – agiunge Pica – il lavoro non deve essere più un diritto garantito». Oggi, infatti, «sta avanzando l’idea di un lavoratore asservito al suo lavoro come un moderno “servo della gleba”». Altro totem, l’accoglienza umanitaria senza regole: «Nasconde il tabù di una deportazione di nuovi schiavi da sfruttare», e si parla di «persone con culture e tradizioni spesso incompatibili con quelle del paese ospitante». Il fenomeno «rischia di innescare una dittatura delle minoranze, in virtù di un rispetto della diversità che puzza tanto di un razzismo al contrario». Naturalmente, «se l’obiettivo è il dominio», secondo Pica «torna utile avere un mobbing migratorio impiegato come un grimaldello demografico». E il totem dell’integrazione, specie a vantaggio della cultura islamista (l’Islam politico) cela un altro tabù: il rilancio di «una nuova Internazionale para-religiosa, come rivincita rispetto ad una vocazione internazional-rivoluzionaria mai del tutto realizzata».
C’è un processo asimmetrico di stampo post-coloniale, prosegue Pica: «Spetta al “grande e benevolo uomo bianco” educare il “povero nero” o il “diverso”». Tutto questo «innesca una nauseabonda retorica che non ha alcun fondamento logico e analitico per noi italiani (noi stessi culturalmente disomogenei) che non riusciamo a integrare neanche le nostre risorse e perdiamo ogni anno circa 3.000 laureati». Persino ovvio: «Sarebbe logico cominciare ad integrare le nostre risorse», innanzitutto. E invece subiamo anche il totem dei “diritti per tutti”, «che nasconde il tabù di una “socializzazione della miseria” che alla fine tutela solo alcuni a danno di altri». In virtù del diritto, a sinistra, si tollerano spesso comportamenti criminosi, il cui costo è sulle spalle degli italiani più tartassati. «Quando la sinistra è divenuta progressista – scrive Pica – ha iniziato il suo lento declino, diventando la gran sacerdotessa della religione del progresso (che è intrinsecamente legata al liberismo)». Diventando progressista, la sinistra «si è condannata a confluire nel campo liberista, con la conseguente fine dell’opera socialista», insieme a cui «si è interrotto quel processo che ha fornito alle categorie popolari un prezioso linguaggio politico e una certa consapevolezza sul mondo che avevano davanti». Davanti al Totem di un “progressismo sinistro” è stata schiacciata anche la morale condivisa, che è il sale di una sana democrazia. Come diceva Durkheim: «E’ morale tutto ciò che è fonte di solidarietà, tutto ciò che costringe l’uomo a tenere conto dell’altro, a regolare i propri movimenti su qualcosa di diverso dagli impulsi del proprio egoismo».
UncleTom
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Il neoliberismo ha conquistato lo Stato, complice la sinistra

Scritto il 15/6/17 • nella Categoria: idee Condividi Tweet

Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.
«Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno – scrive Vero su “Megachip” – il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello Stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati – al loro giudizio finale – una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali». Quindi uno Stato in funzione di coordinatore strategico dei grandi interessi economici. «Il cosiddetto “laissez faire” era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale». Nell’accezione più diffusa, invece, proprio lo Stato «deve costruire, mantenere, sorvegliare una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del “capitale umano”». Una distinzione «fasulla», quella tra destra e sinistra, figlia di una narrazione «fraudolenta» del rapporto con l’istituzione statale.
Quella attuale, aggiunge Vero, è «una sinistra che consegna l’anima e il corpo a una “razionalità” irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale». Questa è una post-sinistra, «il cui sogno, da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l’uguaglianza con la lotta alla povertà, è divenuto la scomparsa delle classi: e non nel senso vaticinato da Marx». Ma la responsabilità della sinistra, «specie nell’imminenza del varo dell’euro e dell’Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile)», secondo Vero non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali: «Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo Stato si fa garante».
E la “forgia” di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto-dovere di essere libero e concorrenziale «è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto». Per Sandro Vero è stata «una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un’intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell’auto-misurazione, dell’auto-premiazione, perfino dell’auto-esecrazione». La solidarietà sociale? «E’ divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l’anima dell’individuo, privandolo dell’energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l’infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!».
UncleTom
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.....CRONACA DELL'AGONIA DELLA REPUBBLICA ITALIANA


Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano:

DESTRA IN PEZZI
- Il Caimano scaricato( meglio "Rottamatato" secondo l'ultima moda- ndt) 24 anni dopo la prima vittoria elettorale.

Salvini uccide un B. morto

La Lega vota Bernini presidente del Senato. FI: "Tradimento" : lei si ritira

Di Maio : "Bene anche un prof>> :evil: :evil: olo :twisted: :twisted: profilo simile". Re Giorgio contro il Pd, mai in partita.



STRANO MA VERO, IL BUFALIERE CONFERMA


Dalla prima pagina:

...ESPLODE IL CENTRODESTRA
SALVINI VA CON GRILLO
Al Senato la Lega tradisce i patti con gli alleati e rompe la coalizione
Berlusconi: <<Atto ostile. Noi avanti con Romani>>



NON CI VOLEVE :cry: UN GENIO DELLA POLITICA PER CAPIRE CHE QUELLA COALIZIONE "SUPER- RAFFAZZONATA" SAREBBE ESPLOSA AL PRIMO INTOPPO

NON FATE CASO A SVARIONI VOLUTI DALLA BANDA CRIMINALE RENZIANA, NON LI CANCELLO E CORREGGO PERCHE' MI SERVONO COME PROVA DOCUMENTALE PER LA POLIZIA POSTALE DI VIA MOISE' LARIO DI MILANO. ASSIEME ALLE FOTO DEI VARI INTERVENTI DELLA NOTA BANDA

AD ESEMPIO:
Windowd Defender Security Center è stato bloccato da 23 minuti su 2620 file.

La foto riprende ora e file
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......CRONACA DELL'AGONIA DELLA REPUBBLICA ITALIANA





B. sei tutti loro

(M.Travaglio)
Scritto il marzo 24, 2018 da Contro*Corrente





Noi qui a scrivere che mai Di Maio deve fare accordi con B., e neanche incontrarlo, neppure parlargli al telefono, tantomeno votare un suo fedelissimo pregiudicato a presidente del Senato. Intanto, tutto intorno, anche al punto più basso della sua parabola politica, B. riciccia dappertutto sotto mentite spoglie. Un caso di possessione diabolica di massa, delle persone e persino del paesaggio.
Il Pd Emanuele Fiano, anziché incitare i suoi a un no chiaro e netto al condannato Romani, dice che “il diniego del M5S su Romani è un ostacolo” e si sente distintamente che la voce non è la sua, ma quella di B. Il Pd che si astiene, e sotto sotto tifa per il pregiudicato seconda carica dello Stato, è figlio del berlusconianissimo “primato della politica” sulla legge e dell’abbandono della questione morale berlingueriana per legittimare tutti gli inciuci passati, presenti e futuri.

L’indifferenza dei giornaloni per la sentenza della Cassazione su un politico che guadagna soldi a palate con tripli e quadrupli incarichi e tenta di accollare ai contribuenti pure le bollette telefoniche della figlia, poi si candida a presidente del Senato, è l’ultimo stadio del berlusconismo che ha sfigurato la cosiddetta informazione, ormai immemore dei propri doveri e anche del proprio non indecente passato (basta confrontare le battaglie della stampa su Tangentopoli e i silenzi odierni).
Lotti che incontra Letta per un nuovo Nazarenino prêt-à-porter con B., in barba al giuramento dei renziani di stare all’opposizione, sull’Aventino, per godersi lo sfascio prodotto da loro, è berlusconismo allo stato puro. Il pm milanese che chiede al Tribunale di condannare l’ex governatore Bobo Maroni a 2 anni e mezzo per induzione indebita (la vecchia concussione per induzione) a proposito delle pressioni fatte per portarsi a Tokyo, in missione istituzionale, la sua presunta amante, ricorda come il familismo amorale berlusconiano abbia contagiato gli ex duri e puri della Lega, nata proprio contro i nepotismi e gli sperperi di “Roma ladrona”.
La sparata di Tiziano Renzi che rifiuta di rispondere ai pm di Firenze e Roma non per una legittima strategia difensiva, ma per attaccare i “processi mediatici” a orologeria originati –a suo dire –non dai fallimenti di sue società, dai pasticci contabili, dalle fatture farlocche, dai traffici sugli appalti Consip, ma dal suo cognome e dall’ansia di colpire il figlio premier, e la nota di Matteo che s’affretta a dargli ragione (“Da 4 anni le persone a me vicine sono state oggetto di indagini di vario genere”), sono purissima prosa berlusconiana, o dell’utriana, o previtiana.
Stesse parole, stesso disprezzo per l’indipendenza della magistratura e per la libertà di stampa, stessa protervia da “io so’ io e voi nun siete un caXXo”. E la pestilenza B. dilaga persino alla Consulta, un tempo tempio della legalità. Non appena il giudice costituzionale Nicolò Zanon (ovviamente berlusconiano) si dimette perché indagato per peculato a proposito dell’auto blu –con autista e buoni benzina – passata alla moglie per farla scarrozzare a sbafo pure in vacanza da Forte dei Marmi, la Corte respinge le sue dimissioni. E accoglie la sua farsesca “autosospensione” dall’incarico. Poi gli confeziona un regolamento domestico ad personam, anzi ad Zanonem, con “valenza di normazione primaria” e con effetto retroattivo, per salvarlo dall’indagine in base a un principio che sarebbe già previsto (secondo lorsignori) da una normativa interna del 1979 (e allora perché vararne un’altra proprio adesso?): e cioè che l’auto di servizio fino all’altroieri era una specie di proprietà privata con soldi pubblici, estesa pure ai famigliari; ma in futuro non potrà più esserlo, essendo concessa in uso “personale ed esclusivo”.
Così ieri, in base al nuovo regolamento (che ai tempi degli scarrozzamenti di lady Zanon non esisteva: è del 21 marzo), la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta a tempo di record. Bei tempi, quando la Consulta le leggi ad personam non le faceva, ma le dichiarava incostituzionali. Aveva ragione Gaber venti e più anni fa, quando paventava “il Berlusconi in me più del Berlusconi in sé”.
Nel frattempo B. si è fatto legione, atmosfera, clima, panorama, categoria dello spirito. Non per tutti, ma per molti. Anche se non può metter piede in Parlamento e hanno lo stomaco di votarlo soltanto il 13% degli elettori (che sono comunque 4 milioni e mezzo di persone: un’enormità), non riusciremo a liberarcene neppure da morto, perché continuerà a far danni nella testa e nelle viscere di milioni di italiani per decenni. Girarci intorno come fosse una parentesi sarebbe assurdo. E sperare in un esorcismo di massa perché esca da tutti quei corpi sarebbe ridicolo: non basterebbero un milione di padri Amorth e vescovi Milingo.
Ora che la Consulta s’è arresa alle leggi ad personam retroattive, ne appronti subito un’altra per cancellare la destituzione di B. da senatore in base alla legge Severino e lo restituisca ai suoi fan a Palazzo Madama e fuori (molto più numerosi dei suoi senatori e anche dei suoi elettori), così che venga eletto direttamente lui alla presidenza.
Ieri Salvini ha mollato Romani e dunque B., votando Annamaria Bernini, rara avisdi forzista incensurata e financo perbene, gradita anche al M5S. Ma la Bernini ha dovuto subito ritirarsi, perchè un presidente del Senato forzista e pulito sarebbe un ossimoro. E anche un lusso che non possiamo permetterci. Molto meglio un’operazione verità e trasparenza che dia finalmente rappresentanza dichiarata, formale, ufficiale all’Italia dei tangentari, evasori, piduisti e mafiosi. Così non dovranno più nascondersi, ma potranno sfilare orgogliosi sotto Palazzo Madama e urlare “Silvio, sei tutti noi”.
M.Travaglio 24 marzo 2018
Ultima modifica di UncleTom il 25/03/2018, 14:11, modificato 1 volta in totale.
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Reddito e Flat Tax: Di Maio e Salvini devono imporsi all’Ue
Scritto il 17/3/18 • nella Categoria: idee
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«La mancanza di copertura che la Lega ha presentato sulla Flat Tax – avvertono ambienti di Bankitalia – non è dissimile dalla mancanza di coperture del reddito di cittadinanza dei 5 Stelle». Vista l’aria che tira, i vincitori delle elezioni riusciranno a dribblare i sommi sacerdoti dell’austerity, già all’opera da Bruxelles a Roma? Ce la faranno, Lega e 5 Stelle, a mettersi d’accordo «agendo, una volta tanto, nell’interesse dell’Italia e non dell’Unione Europea?». L’appello è rivolto a tutti – grillini e leghisti in primis – ma anche ai perdenti: cioè «la “famiglia” Soros-De Benedetti-Bonino», alias «Pd and friends», cioè «la “cosa grassa” di D’Alema», nonché «la “famiglia” Berlusconi-Lupi-Fitto», anch’essa ormai giunta all’irrilevanza. Da Vincenzo Bellisario una proposta secca, anzi due: accordo tra Salvini e Di Maio su un unico punto (cambiare la legge elettorale, mettendo il vincitore in condizioni di governare) o accordarsi per modificare i trattati europei. Obiettivo: rendere finanziabili misure come il reddito di cittadinanza e la Flat Tax. «Basta una settimana, per trovare una soluzione». Unico scenario da evitare: la palude, nella quale si sta lentamente inabissando il risultato delle urne, con gravi rischi innanzitutto per le due formazioni uscite vincitrici dal test elettorale. Il 55% degli elettori ha votato Di Maio, Salvini e Meloni per dire “no” al rigore. Esiste un modo per tradurre in pratica il mandato ricevuto, ma bisogna agire subito.
Sul blog del Movimento Roosevelt, Bellisario avverte i grillini: «Avete proposto per circa 12 anni un reddito di cittadinanza, un reddito per tutti: non potete tirarvi indietro, o farlo a metà, perché la “gente normale” vi ha votato solo per quello». Dovrebbe essere il primo pensiero, per un movimento che si è dipinto “alternativo” e oggi rischia di farsi ingabbiare nei “giochetti” per la presidenza delle Camere. Il rischio? Deludere gli elettori, e quindi fare la fine della Bonino, sostenuta da George Soros, o del Pd sorretto da Carlo De Benedetti. E’ lo stesso Salvini a proporre uno spiraglio: basterebbe una settimana per votare un emendamento al Rosatellum, che introduca un premio di maggioranza per chi arriva primo. Obiettivo: tornare al voto di corsa, per offrire al paese un risultato più chiaro (e un governo coerente con il voto). Oppure, Piano-B: un accordo fondato su appena 4 punti, due indicati da Di Maio e due dalla Lega, per rendere attuabili le proposte lanciate durante la campagna elettorale. Come? Nel solo modo possibile: mettendo mano alla complessa procedura che consente la revisione dei trattati europei a partire da quello di Maastricht, che obbliga lo Stato a contenere la spesa pubblica entro il 3% del Pil. L’Ue boccerebbe il ricorso? «E allora bisogna essere pronti a togliere il disturbo: ciao, Bruxelles».
Negli ultimi 26 anni, dopo Tangentopoli, l’Unione Europea ha avuto il coltello dalla parte del manico: ha imposto e ottenuto tutto quello che voleva. Come affermare le proprie ragioni in sede comunitaria? «Semplicemente – scrive Bellisario – trattiamo quelli dell’Ue come loro hanno trattato noi negli ultimi 26 anni. Ma se “se la tirano troppo”, nel giro di poche ore possiamo salutarli a colpi di decreti, avendo una maggioranza assoluta decisa a impugnare il famoso coltello dalla parte del manico». Altre soluzioni, semplicemente, non esistono: a lungo andare, la Lega appassirebbe all’ombra del Muro di Bruxelles, non potendo attuare le proprie proposte di salvataggio dell’economia basate sul taglio verticale delle tasse. Peggio ancora il Movimento 5 Stelle, che ha quasi il 33% dei voti ed è esposto da più tempo alle aspettative degli elettori, accese dal reddito di cittadinanza: guai, se non lo si potesse applicare integralmente, e in tempi rapidissimi. L’esasperazione sociale è al limite. Lo stesso Grillo, nel suo blog, scrive: «Si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito, per diritto di nascita. Soltanto così la società metterà al centro l’uomo e non il mercato». Non ci provi, il Movimento 5 Stelle, a tirarsi indietro proprio adesso. Finirebbe in barzelletta: “Mamma, ho perso il reddito!”.
Ultima modifica di UncleTom il 25/03/2018, 14:11, modificato 1 volta in totale.
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Re: Diario della caduta di un regime.

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Piccole alchimie parlamentari per un paese in rottamazione
Scritto il 17/3/18 • nella Categoria: segnalazioni
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Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che torna protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite finanziaria che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.
Tiene banco, ancora, il surreale connubio tra i 5 Stelle e i rottami del Pd, cioè il “nemico” dei grillini; accordo invocato da quell’Eugenio Scalfari che, a Di Maio, avrebbe preferito l’odiato Berlusconi. Tra i “pontieri”, dopo Scalfari, figurano personaggi come Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, Barbara Spinelli e Massimo Cacciari. Un giornalista come Marco Travaglio accusa Di Maio di non ascoltarli. Arrivare primi con quasi il 33% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo – scrive Travaglio sul “Fatto” – ma questo non conferisce «il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis». E’ vero che l’inciucio lo vogliono solo i due “trombati” del 4 marzo, cioè Berlusconi e Renzi, «terrorizzati dalle rispettive ininfluenze e soprattutto da nuove elezioni», ma una maggioranza parlamentare va costruita, «facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare». Ovvero? «La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari, e bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega». E poi «è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto». Già: quale programma?
Travaglio ricorda la proposta di Grillo nel 2013: «Eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme». E aggiunge: «Fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato, a rifiutarla» (per Travaglio, dunque, il grande manovratore era Berlusconi, cioè l’omino ricattato e brutalmente disarcionato, due anni prima, dai padroni della Borsa). L’obiettivo di Napolitano, all’epoca: mantenere i 5 Stelle lontano dall’area di governo, dato che nel 2013 i grillini facevano ancora paura (più che al “povero” Silvio, ai veri poteri forti rappresentati da Napolitano: quelli che con Draghi e Trichet firmarono la condanna dell’Italia, affidata al commissario Monti). E oggi? Tutto è cambiato; da Scalfari in giù, è il vecchio mainstream a tifare per un’intesa che pare spaventi solo Renzi. Piccoli tatticismi, dove a contare non sono tanto le mosse dei leader, quanto il futuro dei rispettivi elettorati. Un italiano su quattro si è rifiutato di votare. Tra i votanti, il 55% ha scelto Di Maio, Salvini e la Meloni per gridare un “no”, forte e chiaro. Se il reddito di cittadinanza (arma vincente per mietere voti) è una misura ascrivibile alla voce welfare (sinistra), è piuttosto la Lega a sfidare il sistema europeo, con il taglio delle tasse (destra), sia pure da un’angolazione ancora liberista.
Tra veti incrociati e opposte convenienze, resta solo lo spiraglio per il mini-governo a cui starebbe lavorando Mattarella, inevitabilmente imbottito di “tecnici” per incoraggiare tiepide convergenze eterodosse. Niente a che vedere, in ogni caso, con il “no” proclamato dalla maggioranza assoluta degli elettori italiani, cui si aggiunge l’astensionismo del 25% della popolazione, che non ha letto niente di convincente (o realisticamente praticabile) né sul programma grillino né su quello leghista. Se siamo a questo non-risultato, ribadisce Gianfranco Carpeoro, è perché – ancora una volta – abbiamo votato “contro” qualcuno, innanzitutto (votare “per qualcosa”, probabilmente, era impossibile). E senza una gestione nazionale autonoma, la regia delle operazioni passerà alla consueta “sovragestione” internazionale. E’ il potere-ombra che – licenziati Andreotti e Craxi – da 25 anni fa dell’Italia quello che vuole: fabbricando partiti, movimenti e leader senza idee né progetti, costruiti per durare una sola stagione, prima di essere rottamati da altri, futuri rottamandi. Una spirale senza fine, dove a essere rottamata è l’Italia, a cui è stato raccontato che il debito pubblico (cioè lo sviluppo, il benessere diffuso) è roba che non ci possiamo più permettere.
Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che deve tornare protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate alla finanza anglosassone o, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.
Tiene banco, ancora, il surreale connubio tra i 5 Stelle e i rottami del Pd, cioè il “nemico” dei grillini; accordo invocato da quell’Eugenio Scalfari che, a Di Maio, avrebbe preferito l’odiato Berlusconi. Tra i “pontieri”, dopo Scalfari, figurano personaggi come Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, Barbara Spinelli e Massimo Cacciari. Un giornalista come Marco Travaglio accusa Di Maio di non ascoltarli. Arrivare primi con quasi il 33% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo – scrive Travaglio sul “Fatto” – ma questo non conferisce «il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis». E’ vero che l’inciucio lo vogliono solo i due “trombati” del 4 marzo, cioè Berlusconi e Renzi, «terrorizzati dalle rispettive ininfluenze e soprattutto da nuove elezioni», ma una maggioranza parlamentare va costruita, «facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare». Ovvero? «La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari, e bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega». E poi «è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto». Già: quale programma?
Travaglio ricorda la proposta di Grillo nel 2013: «Eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme». E aggiunge: «Fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato, a rifiutarla» (per Travaglio, dunque, il grande manovratore era Berlusconi, cioè l’omino ricattato e brutalmente disarcionato, due anni prima, dai padroni della Borsa). L’obiettivo di Napolitano, all’epoca: mantenere i 5 Stelle lontano dall’area di governo, dato che nel 2013 i grillini facevano ancora paura (più che al “povero” Silvio, ai veri poteri forti rappresentati da Napolitano: quelli che con Draghi e Trichet firmarono la condanna dell’Italia, affidata al commissario Monti). E oggi? Tutto è cambiato; da Scalfari in giù, è il vecchio mainstream a tifare per un’intesa che pare spaventi solo Renzi. Piccoli tatticismi, dove a contare non sono tanto le mosse dei leader, quanto il futuro dei rispettivi elettorati. Un italiano su quattro si è rifiutato di votare. Tra i votanti, il 55% ha scelto Di Maio, Salvini e la Meloni per gridare un “no”, forte e chiaro. Se il reddito di cittadinanza (arma vincente per mietere voti) è una misura ascrivibile alla voce welfare (sinistra), è piuttosto la Lega a sfidare il sistema europeo, con il taglio delle tasse (destra), sia pure da un’angolazione ancora liberista.
Tra veti incrociati e opposte convenienze, resta solo lo spiraglio per il mini-governo a cui starebbe lavorando Mattarella, inevitabilmente imbottito di “tecnici” per incoraggiare tiepide convergenze eterodosse. Niente a che vedere, in ogni caso, con il “no” proclamato dalla maggioranza assoluta degli elettori italiani, cui si aggiunge l’astensionismo del 27% della popolazione, che non ha letto niente di convincente (o di realisticamente praticabile) né sul programma grillino né su quello leghista. Se siamo a questo non-risultato, ribadisce Gianfranco Carpeoro, è perché – ancora una volta – abbiamo votato “contro” qualcuno (votare “per qualcosa”, probabilmente, era impossibile). E senza una gestione nazionale autonoma, la regia delle operazioni passerà alla consueta “sovragestione” internazionale. E’ il potere-ombra che – licenziati Andreotti e Craxi – da 25 anni fa dell’Italia quello che vuole: fabbricando partiti, movimenti e leader senza idee né progetti, costruiti per durare una sola stagione, prima di essere rottamati da altri, futuri rottamandi. Una spirale senza fine, dove a essere rottamata è l’Italia, a cui è stato raccontato che il debito pubblico (cioè lo sviluppo, il benessere diffuso) è roba che non ci possiamo più permettere.
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Piccole alchimie parlamentari per un paese in rottamazione

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Tiene banco, ancora, il surreale connubio tra i 5 Stelle e i rottami del Pd, cioè il “nemico” dei grillini; accordo invocato da quell’Eugenio Scalfari che, a Di Maio, avrebbe preferito l’odiato Berlusconi. Tra i “pontieri”, dopo Scalfari, figurano personaggi come Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, Barbara Spinelli e Massimo Cacciari. Un giornalista come Marco Travaglio accusa Di Maio di non ascoltarli. Arrivare primi con quasi il 33% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo – scrive Travaglio sul “Fatto” – ma questo non conferisce «il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis». E’ vero che l’inciucio lo vogliono solo i due “trombati” del 4 marzo, cioè Berlusconi e Renzi, «terrorizzati dalle rispettive ininfluenze e soprattutto da nuove elezioni», ma una maggioranza parlamentare va costruita, «facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare». Ovvero? «La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari, e bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega». E poi «è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto». Già: quale programma?
Travaglio ricorda la proposta di Grillo nel 2013: «Eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme». E aggiunge: «Fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato, a rifiutarla» (per Travaglio, dunque, il grande manovratore era Berlusconi, cioè l’omino ricattato e brutalmente disarcionato, due anni prima, dai padroni della Borsa). L’obiettivo di Napolitano, all’epoca: mantenere i 5 Stelle lontano dall’area di governo, dato che nel 2013 i grillini facevano ancora paura (più che al “povero” Silvio, ai veri poteri forti rappresentati da Napolitano: quelli che con Draghi e Trichet firmarono la condanna dell’Italia, affidata al commissario Monti). E oggi? Tutto è cambiato; da Scalfari in giù, è il vecchio mainstream a tifare per un’intesa che pare spaventi solo Renzi. Piccoli tatticismi, dove a contare non sono tanto le mosse dei leader, quanto il futuro dei rispettivi elettorati. Un italiano su quattro si è rifiutato di votare. Tra i votanti, il 55% ha scelto Di Maio, Salvini e la Meloni per gridare un “no”, forte e chiaro. Se il reddito di cittadinanza (arma vincente per mietere voti) è una misura ascrivibile alla voce welfare (sinistra), è piuttosto la Lega a sfidare il sistema europeo, con il taglio delle tasse (destra), sia pure da un’angolazione ancora liberista.
Tra veti incrociati e opposte convenienze, resta solo lo spiraglio per il mini-governo a cui starebbe lavorando Mattarella, inevitabilmente imbottito di “tecnici” per incoraggiare tiepide convergenze eterodosse. Niente a che vedere, in ogni caso, con il “no” proclamato dalla maggioranza assoluta degli elettori italiani, cui si aggiunge l’astensionismo del 25% della popolazione, che non ha letto niente di convincente (o realisticamente praticabile) né sul programma grillino né su quello leghista. Se siamo a questo non-risultato, ribadisce Gianfranco Carpeoro, è perché – ancora una volta – abbiamo votato “contro” qualcuno, innanzitutto (votare “per qualcosa”, probabilmente, era impossibile). E senza una gestione nazionale autonoma, la regia delle operazioni passerà alla consueta “sovragestione” internazionale. E’ il potere-ombra che – licenziati Andreotti e Craxi – da 25 anni fa dell’Italia quello che vuole: fabbricando partiti, movimenti e leader senza idee né progetti, costruiti per durare una sola stagione, prima di essere rottamati da altri, futuri rottamandi. Una spirale senza fine, dove a essere rottamata è l’Italia, a cui è stato raccontato che il debito pubblico (cioè lo sviluppo, il benessere diffuso) è roba che non ci possiamo più permettere.
Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che deve tornare protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate alla finanza anglosassone o, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.
Tiene banco, ancora, il surreale connubio tra i 5 Stelle e i rottami del Pd, cioè il “nemico” dei grillini; accordo invocato da quell’Eugenio Scalfari che, a Di Maio, avrebbe preferito l’odiato Berlusconi. Tra i “pontieri”, dopo Scalfari, figurano personaggi come Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, Barbara Spinelli e Massimo Cacciari. Un giornalista come Marco Travaglio accusa Di Maio di non ascoltarli. Arrivare primi con quasi il 33% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo – scrive Travaglio sul “Fatto” – ma questo non conferisce «il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis». E’ vero che l’inciucio lo vogliono solo i due “trombati” del 4 marzo, cioè Berlusconi e Renzi, «terrorizzati dalle rispettive ininfluenze e soprattutto da nuove elezioni», ma una maggioranza parlamentare va costruita, «facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare». Ovvero? «La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari, e bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega». E poi «è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto». Già: quale programma?
Travaglio ricorda la proposta di Grillo nel 2013: «Eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme». E aggiunge: «Fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato, a rifiutarla» (per Travaglio, dunque, il grande manovratore era Berlusconi, cioè l’omino ricattato e brutalmente disarcionato, due anni prima, dai padroni della Borsa). L’obiettivo di Napolitano, all’epoca: mantenere i 5 Stelle lontano dall’area di governo, dato che nel 2013 i grillini facevano ancora paura (più che al “povero” Silvio, ai veri poteri forti rappresentati da Napolitano: quelli che con Draghi e Trichet firmarono la condanna dell’Italia, affidata al commissario Monti). E oggi? Tutto è cambiato; da Scalfari in giù, è il vecchio mainstream a tifare per un’intesa che pare spaventi solo Renzi. Piccoli tatticismi, dove a contare non sono tanto le mosse dei leader, quanto il futuro dei rispettivi elettorati. Un italiano su quattro si è rifiutato di votare. Tra i votanti, il 55% ha scelto Di Maio, Salvini e la Meloni per gridare un “no”, forte e chiaro. Se il reddito di cittadinanza (arma vincente per mietere voti) è una misura ascrivibile alla voce welfare (sinistra), è piuttosto la Lega a sfidare il sistema europeo, con il taglio delle tasse (destra), sia pure da un’angolazione ancora liberista.
Tra veti incrociati e opposte convenienze, resta solo lo spiraglio per il mini-governo a cui starebbe lavorando Mattarella, inevitabilmente imbottito di “tecnici” per incoraggiare tiepide convergenze eterodosse. Niente a che vedere, in ogni caso, con il “no” proclamato dalla maggioranza assoluta degli elettori italiani, cui si aggiunge l’astensionismo del 27% della popolazione, che non ha letto niente di convincente (o di realisticamente praticabile) né sul programma grillino né su quello leghista. Se siamo a questo non-risultato, ribadisce Gianfranco Carpeoro, è perché – ancora una volta – abbiamo votato “contro” qualcuno (votare “per qualcosa”, probabilmente, era impossibile). E senza una gestione nazionale autonoma, la regia delle operazioni passerà alla consueta “sovragestione” internazionale. E’ il potere-ombra che – licenziati Andreotti e Craxi – da 25 anni fa dell’Italia quello che vuole: fabbricando partiti, movimenti e leader senza idee né progetti, costruiti per durare una sola stagione, prima di essere rottamati da altri, futuri rottamandi. Una spirale senza fine, dove a essere rottamata è l’Italia, a cui è stato raccontato che il debito pubblico (cioè lo sviluppo, il benessere diffuso) è roba che non ci possiamo più permettere.
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Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da UncleTom »

25 mar 2018 09:31

A SALVINI NON RESTA CHE “UCCIDERE” IL CAV

- PER TROVARE UN ACCORDO CON DI MAIO, AL LEGHISTA SERVE CHE BERLUSCONI NON SIA IN PRIMA LINEA

- ECCO PERCHE’ GLI PROPORRÀ DI LASCIARE IL PARTITO A QUALCUNO CHE SIA DIGERIBILE PER IL M5S PER SUPERARE I VETI

- I GRILLINI HANNO PARLATO CHIARO: “NON SIEDEREMO MAI IN UN GOVERNO DOVE CI SONO MINISTRI DI FORZA ITALIA”



Amedeo La Mattina e Ilario Lombardo per “la Stampa”



murale salvini di maio
murale salvini di maio

In questa partita c' è uno sconfitto e ci sono troppi vincitori. Lo sconfitto è Silvio Berlusconi, i vincitori sono Matteo Salvini e Luigi Di Maio. E questa, di solito, non è la migliore condizione per agevolare un accordo. Logica vorrebbe che tra i due futuri contendenti, ci sia, alla fine, un terzo nome a godere di una sintesi, l' ìunica possibile per far partire un governo. Ma non è così semplice.



Anche perché Salvini, che qualche giorno fa avrebbe dato la sua disponibilità «a un passo indietro», chiedendo a Luigi Di Maio di «fare lo stesso», adesso ha ribaltato a suo favore i rapporti di forza. La Terza Repubblica che aveva bisogno di un cadavere politico per poter iniziare, non ha ancora un linguaggio comune con cui parlare.



berlusconi salvini meloni
berlusconi salvini meloni

Dal 4 marzo sono cambiate tante cose. Salvini ha definitivamente conquistato la leadership e imposto la sua egemonia sul centrodestra, giocando di sponda con il M5S e affossando i piani di Berlusconi sulle presidenze di Camera e Senato. Ora il capo del Carroccio vuole incassare gli utili della capitalizzazione sulla coalizione e puntare alla «pazza idea» del governo, convinto di aver dimostrato «di saper trovare una soluzione anche quando sembra impossibile».



Come al solito, sono i numeri a dare un peso alle ambizioni. «Io non sono più il leader di un partito del 17 per cento ma del 37, il M5S se ne faccia una ragione» dice Salvini che pensa di spiazzare Di Maio con una semplice offerta: «Gli proporrò un governo di programma da scrivere insieme e gli chiederò di essere quello che lui ha chiesto a tutti: di essere responsabile. Ma sappia che se si confronta con me si confronta con tutto il centrodestra».



luigi di maio
luigi di maio

Al leghista però serve che Berlusconi non sia in prima linea, ed è quello che gli proporrà: lasciare il partito a qualcuno che sia digeribile per il M5S per superare i veti dei grillini ed evitare di trovarsi Fi all' opposizione. Come invece vorrebbe Di Maio.



Basta spostare l' attenzione dalla Lega sul M5S, e lo stesso risultato produce conseguenze differenti: «Salvini è stato bravo - ragiona Di Maio con i suoi collaboratori -. E ora proverà sicuramente a far valere i voti della coalizione su di noi, ma il premier dobbiamo averlo noi, da qui non ci schioderemo». Di Maio non vuole «un governo di breve durata» ma per sventolare la bandiera della vittoria su Palazzo Chigi i 5 Stelle stanno valutando tutti gli scenari. Ai loro occhi il leader leghista non si ostinerà troppo a pretendere la presidenza del Consiglio.



MARIA ELISABETTA ALBERTI CASELLATI
MARIA ELISABETTA ALBERTI CASELLATI

Certo, dovrebbe essere lui ad avere il primo pre-incarico, ma potrebbe fallire proprio di fronte al muro dei grillini. A quel punto perché Salvini dovrebbe dare l'ok a un governo con Di Maio premier? «Perché gli offriremmo ministeri di peso, tra Economia o Sviluppo economico, Interno, Difesa. E lui avrebbe anche il tempo di azzerare Fi e tornare alle elezioni più forte» spiegano dal M5S.



Serviranno tempi più lunghi e soprattutto che si realizzi una condizione, necessaria per gli schemi del M5S. Si dovrà consumare una rottura con Forza Italia, e Berlusconi dovrà finire nella ridotta dell'opposizione con il Pd. «Berlusconi non è eletto, non comanda più nulla, non è candidabile - sostiene Di Maio -. Abbiamo già detto che per noi vale quanto Raffaele Fitto: è meglio che lasci la politica». Ai vertici del M5S è forte la convinzione che il Caimano abbia in serbo un'altra mossa «che andrà a vuoto».



Proverà a replicare lo schema del patto centrodestra-M5S anche sul governo, per tentare di infilarsi nelle trattative, nella convinzione di riuscire a sfruttare il prevedibile logoramento dell'asse Di Maio-Salvini, e spuntarla con un governo istituzionale, meno ambizioso, con una figura terza.

Di Maio Mattarella
Di Maio Mattarella



Magari proprio Maria Elisabetta Alberti Casellati, la neo-presidente del Senato, seconda carica dello Stato, che per prassi potrebbe ricevere un mandato esplorativo dal presidente della Repubblica. Ma i 5 Stelle sono già pronti a neutralizzare i desideri di Berlusconi: «Non siederemo mai in un governo dove ci sono ministri di Forza Italia» giurano nello staff di Di Maio, consapevoli che sarebbe impossibile di fronte a Beppe Grillo e ai militanti un qualsiasi accordo con Berlusconi dopo quello sulle presidenze.



Avere gli azzurri all' opposizione, inoltre, avrebbe l' indubbio vantaggio di indebolire Salvini che dietro a un pezzo di coalizione vedrebbe sfuggirsi di mano anche un po' di voti. E infatti quale messaggio ha già fatto recapitare Salvini a Di Maio?

«Partirò dal programma perché è quello che ci chiedono gli elettori. Ma io lavoro a un accordo a nome di tutto il centrodestra e non accetto liste di proscrizione». E il centrodestra almeno fino alla prossima apocalisse interna prevede anche Fi.

matteo salvini al mare 6
matteo salvini al mare 6

Insomma, servirà un miracolo politico per avere un governo.



Ed è ovvio che già in tanti, nella Lega e nel M5S, anche esponenti di spicco, comincino a sbilanciarsi su un' ipotesi: che la battaglia della premiership tra Salvini e Di Maio finisca con una tregua su un terzo nome gradito a entrambi. Salvini aveva dato un minimo di disponibilità per un passo indietro. Di Maio no, ed è pronto a usare nuovamente la strategia dei due forni per far cambiare idea al leghista, un po' come ha fatto rilanciando un piano B sul Senato che avrebbe riaperto il dialogo con il Pd.

«Siamo aperti a tutti i partiti» è tornato a dire ieri sera.
UncleTom
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Iscritto il: 11/10/2016, 2:47

Re: Diario della caduta di un regime.

Messaggio da UncleTom »

.....MESSA DA REQUIEM.....




Di solito, la domenica, il Fatto Quotidiano riverva un'articolo dedicato al "VANGELO DELLA DOMENICA"

Quello di oggi, a cura di Don FRANCESCO BRUGNARO, ha per titolo:

Domenica delle Palme:
la gloria di Gesù
si mostra nella sua umiltà



In realtà oggi, più che domenica delle Palme dovrebbe essere titolata: DOMENICA DELLE SALME.

Perchè le salme in campo oggi sono numerose.

Dopo la Balena bianca che si è estinta nella prima Repubblica, si è estinta anche la Balena rosa, come riporta DAMILANO nel suo fondo di oggi sull'Espresso citando Marco Follini ripreso a suo tempo dal Corriere della Sera, che indicava "l'Ulivo" come la Balena rosa.

La sinistra non esiste più da tempo. Ma oggi registriamo l'esplosione degli eredi della Dc, e partiti limitrofi reggicoda dell'ulti ma fase della prima Repubblica.

Riporta il Fatto Quotidiano a pagina 4:

"Caro presidente, vaffan..."
B. cacciò Romani e Brunetta


In realtà se ne sono andati loro, dichiarando che faranno un altro partito.

^^^^^^^


Giacomo Portas
Il deputato eletto con i dem: "Uno a sinistra che recuperi LeU e l'altro al centro con Renzi"

"Per il Pd meglio sciogliersi in due partiti"

In realtà non c'è niente da sciogliere. E' finita per la Balena rosa


^^^^^^^^^

Dalla Repubblica, pagina 9:

L'opposizione

Renzi esulta
per il Pd immobile
Zanda: "Rischiamo
la liquidzione"


L'ex segretario rivendica la strategia dell'Aventino
e insiste sui capigruppo vuole Guerrini e Marcucci
Martina lo punge: caminetti? Si chiama collegialità
GIOVANNA CASADIO, ROMA
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