Diario della caduta di un regime.
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Lilli e i suoi fratelli, la guerra dei media contro il popolo bue
Scritto il 20/6/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
Va bene tutto, tranne la verità: come quando cade un regime, e gli organi del vecchio potere annaspano, manifestando rabbia e paura, come di fronte a orde di rivoluzionari scatenati. E’ livido il bombardamento quotidiano, il grottesco fuoco di sbarramento che il mainstream – a prescindere – riversa contro il neonato governo gialloverde. Editorialisti e giornalisti da salotto, esperti sostanzialmente nell’arte del baciamano, oggi sembrano rivoltosi sulle barricate: a Elsa Fornero perdonavano tutto, inclusi gli spargimenti di sangue, mentre sui 5 Stelle e sulla Lega si avventano come mastini. Imperdonabile, il voto degli italiani il 4 marzo: e, visto che il popolo bue ha evidentemente sbagliato a votare, gli addetti alla verità stanno facendo gli straordinari per dimostrare agli elettori grillini e leghisti che non l’avranno vinta: loro, gli euro-cantori dell’establishment, in ogni caso non si arrenderanno alla storia; resisteranno – come gli ultimi giapponesi sull’isoletta – alla marea furibonda del “popolo degli abissi”, espressione che Giulio Sapelli mutua da Jack London. Provare per credere: da manuale di boxe il trattamento che Lilli Gruber ha riservato al cattivone Matteo Salvini, reo di aver osato costringere l’Unione Europea a meditare sulla politica per i migranti, fermando una nave e facendo imbestialire il nemico numero uno dell’Italia, il supermassone reazionario Emmanuel Macron, di scuola Rothschild.
A Salvini, in prima serata, “Lady Bilderberg” ha riservato tutte le domande tenute nel cassetto per anni, mai poste a nessuno in precedenza: ma più che le risposte del neo-ministro, a fare notizia era l’evidente dispetto dipinto sul volto dell’dell’ex anchorman del Tg2 craxiano, poi eletta europarlamentare dell’Ulivo prima di tornare, come se niente fosse, a fare “informazione”. Dietlinde Gruber, detta Lilli, di fronte al capo leghista ha sfoderato un piglio bellicoso da Watergate – ma Bob Woodward e Carl Bernstein, vincitori del Pulitzer, mai avrebbero accettato (per dignità professionale) di farsi arruolare ufficialmente tra le fila degli avversari politici di Nixon. E se proprio fossero stati invitati al Bilderberg, avrebbero messo in messo in piazza qualche notizia, intercettata tra quelle segrete stanze. La giornalista de La7 invece partecipa ai “caminetti” a porte chiuse, di cui non riferisce nulla ai suoi telespettatori, e poi – come se niente fosse – carica Salvini a testa bassa, ricordandogli che George Soros è in realtà un grand’uomo, un vero filantropo, essendo la sua Open Society dedita essenzialmente a opere di bene. Lui, Soros: il più celebre speculatore della storia, il più noto supermassone di potere, profeta delle rivoluzioni colorate e ispiratore di “home jobs” insanguinati come il golpe in Ucraina, coi cecchini sui tetti a sparare sulla polizia di Yanukovich per poi far ricadere la colpa sul governo, da abbattere con mezzi criminali.
Dopo aver terremotato l’Africa, l’élite francese neoliberista e neocoloniale gioca allo scaricabarile e prova a colpire direttamente l’Italia, anche per distrarre un’opinione pubblica che, oltralpe, ha già perso la fiducia che aveva nell’oscuro, opaco Macron, sodale occulto dei peggiori Soros in circolazione? Niente paura: a reti unificate, le testate italiane – giornali che più nessuno legge – si schierano compatte col francese e contro l’italiano, scelgono il paese che sta cercando di sfrattare l’Italia dalla Libia e si avventano contro il ministro che ha avuto l’ardire di rimettere in discussione l’ipocrisia europea. Salvini fa politica: per la prima volta, un italiano riesce a spaccare in due la Germania e a dividere Berlino da Parigi. Ragione in più per trattarlo da nemico pubblico, in Italia. A malmenarlo, con inaudita violenza, è proprio la Gruber, che utilizza una scheda televisiva per dimostrare che la Francia ha accolto più rifugiati, rispetto all’Italia. Salvini però la smentisce all’istante: i dati esibiti a “Otto e mezzo” sono vecchi, risalgono al 2015. La verità, oggi, è ribaltata: l’Italia accoglie, la Francia non più. Dati ufficiali, del Viminale: una notizia, in teoria – ma non per Lilli Gruber e soci: a loro, le notizie sono l’ultima cosa che interessano, impegnati come sono nella loro rabbiosa crociata contro il popolo italiano e i mascalzoni che ha osato mandare al governo.
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Lilli e i suoi fratelli, la guerra dei media contro il popolo bue
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A Salvini, in prima serata, “Lady Bilderberg” ha riservato tutte le domande tenute nel cassetto per anni, mai poste a nessuno in precedenza: ma più che le risposte del neo-ministro, a fare notizia era l’evidente dispetto dipinto sul volto dell’dell’ex anchorman del Tg2 craxiano, poi eletta europarlamentare dell’Ulivo prima di tornare, come se niente fosse, a fare “informazione”. Dietlinde Gruber, detta Lilli, di fronte al capo leghista ha sfoderato un piglio bellicoso da Watergate – ma Bob Woodward e Carl Bernstein, vincitori del Pulitzer, mai avrebbero accettato (per dignità professionale) di farsi arruolare ufficialmente tra le fila degli avversari politici di Nixon. E se proprio fossero stati invitati al Bilderberg, avrebbero messo in messo in piazza qualche notizia, intercettata tra quelle segrete stanze. La giornalista de La7 invece partecipa ai “caminetti” a porte chiuse, di cui non riferisce nulla ai suoi telespettatori, e poi – come se niente fosse – carica Salvini a testa bassa, ricordandogli che George Soros è in realtà un grand’uomo, un vero filantropo, essendo la sua Open Society dedita essenzialmente a opere di bene. Lui, Soros: il più celebre speculatore della storia, il più noto supermassone di potere, profeta delle rivoluzioni colorate e ispiratore di “home jobs” insanguinati come il golpe in Ucraina, coi cecchini sui tetti a sparare sulla polizia di Yanukovich per poi far ricadere la colpa sul governo, da abbattere con mezzi criminali.
Dopo aver terremotato l’Africa, l’élite francese neoliberista e neocoloniale gioca allo scaricabarile e prova a colpire direttamente l’Italia, anche per distrarre un’opinione pubblica che, oltralpe, ha già perso la fiducia che aveva nell’oscuro, opaco Macron, sodale occulto dei peggiori Soros in circolazione? Niente paura: a reti unificate, le testate italiane – giornali che più nessuno legge – si schierano compatte col francese e contro l’italiano, scelgono il paese che sta cercando di sfrattare l’Italia dalla Libia e si avventano contro il ministro che ha avuto l’ardire di rimettere in discussione l’ipocrisia europea. Salvini fa politica: per la prima volta, un italiano riesce a spaccare in due la Germania e a dividere Berlino da Parigi. Ragione in più per trattarlo da nemico pubblico, in Italia. A malmenarlo, con inaudita violenza, è proprio la Gruber, che utilizza una scheda televisiva per dimostrare che la Francia ha accolto più rifugiati, rispetto all’Italia. Salvini però la smentisce all’istante: i dati esibiti a “Otto e mezzo” sono vecchi, risalgono al 2015. La verità, oggi, è ribaltata: l’Italia accoglie, la Francia non più. Dati ufficiali, del Viminale: una notizia, in teoria – ma non per Lilli Gruber e soci: a loro, le notizie sono l’ultima cosa che interessano, impegnati come sono nella loro rabbiosa crociata contro il popolo italiano e i mascalzoni che ha osato mandare al governo.
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Magaldi: guerra ai massoni che hanno ucciso la democrazia
Scritto il 23/6/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
«Oggi non è più possibile assassinare massoni progressisti di peso o loro “protetti” senza innescare una spirale micidiale di boomerang e contrappasso distruttivo e devastante per quei massoni controiniziati, reazionari e neoaristocratici che, un tempo, hanno utilizzato l’omicidio politico-massonico come chiave di volta della loro lotta per il potere». Lo afferma Gioele Magaldi, che nel besteller “Massoni”, edito da Chiarelettere con prefazione di Laura Maragnani, ha puntato l’indice contro le oscure trame del massimo potere, il cui back-office è dominato da 36 Ur-Lodges, superlogge sovranazionali in cui, negli ultimi decenni, hanno preso il sopravvento le correnti reazionarie che hanno forgiato la globalizzazione neoliberista basata sulla privatizzazione universale. Ma il vento è cambiato, avverte Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista: «Oggi, in molti casi, i massoni neoaristocratici controiniziati neanche riescono ad avvicinarsi alle loro potenziali “vittime” o a concepirne l’eliminazione, senza essere prima dissuasi dalla pericolosità estrema della faccenda e dal suo carattere “anti-economico” e controproducente». Aggiunge Magaldi: «Oggi, “angeli e demoni” formidabili vegliano sulla sicurezza e l’incolumità dei più ragguardevoli liberi muratori impegnati nella ricostruzione/rigenerazione delle reti sovranazionali progressiste».
C’è stato un tempo, invece, in cui uomini decisivi come Mohandas Karamchand Gandhi, Enrico Mattei, John Fitzgerald e Robert Kennedy, Martin Luther King e Salvador Allende, insieme ad Aldo Moro, Olof Palme, Thomas Sankara, Yithzak Rabin ed altri «poterono essere assassinati senza ritegno, vergogna e giusta vendetta per i loro aguzzini», scrive Magaldi sul blog del Movimento Roosevelt, mettendo in fila i maggiori omicidi politici del ‘900 (più quello di Rabin) per accusare la regia “controiniziatica” di quelle uccisioni, orchestrate da elementi della supermassoneria reazionaria ai vertici del potere. «Ora è giunto il tempo della memoria celebrativa per questi eroi della massoneria progressista brutalmente eliminati e sottratti all’affetto di chi li amava, ammirava e seguiva», scrive Magaldi, rivelando in tal modo la cifra massonica dei leader citati. «Ora – aggiunge – è arrivato il tempo di una condanna storica e morale severissima per quegli assassini controiniziati che violarono tanto i propri giuramenti massonici quanto ogni legge ed etica umana». A partire dalla lettura di “Massoni”, cui seguirà il secondo volume – in uscita nella primavera 2019 – l’autore ha fornito «nomi e cognomi di certi personaggi e spiegazioni esaurienti e circostanziate dei loro misfatti», portando il caso all’attenzione della pubblica opinione.
Nel libro, Magaldi ha descritto chiaramente «le gesta eroiche di quelle avanguardie massoniche progressiste che hanno rivoluzionato il mondo sin dal XVIII secolo e dato vita a società libere, aperte, democratiche, laiche, tolleranti, ecumeniche, parlamentarizzate, costituzionali e fondate sullo Stato di diritto, sull’uguaglianza delle opportunità, sulla giustizia e mobilità sociale». Avverte Magaldi: «Adesso e in futuro, comunque, nessuno potrà più perpetrare crimini come quelli segnalati sopra, per miriadi di ragioni». E’ in corso, spiega, una «guerra globale (e anti-convenzionale) infra-massonica». Una lotta che si annuncia «dura e titanica», ma in cui «tutti saranno costretti a “giocare” in modo relativamente “pulito” e con il giusto fair-play». Soprattutto, conclude Magaldi, «questa guerra contro l’incubo neoaristocratico e neoliberista la vincerà l’alleanza tra massoni progressisti e popolo», ovvero «cittadini comuni consapevoli, oltre che fieri, del proprio diritto-dovere alla sovranità». In altre parole: il tempo del ritorno della democrazia sostanziale è giunto, assicura Magaldi, impegnato – a partire dall’Italia – a contrastare la “teologia” neoliberista che ha impoverito i popoli, svuotando gradualmente la democrazia.
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Magaldi: guerra ai massoni che hanno ucciso la democrazia
Scritto il 23/6/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
«Oggi non è più possibile assassinare massoni progressisti di peso o loro “protetti” senza innescare una spirale micidiale di boomerang e contrappasso distruttivo e devastante per quei massoni controiniziati, reazionari e neoaristocratici che, un tempo, hanno utilizzato l’omicidio politico-massonico come chiave di volta della loro lotta per il potere». Lo afferma Gioele Magaldi, che nel besteller “Massoni”, edito da Chiarelettere con prefazione di Laura Maragnani, ha puntato l’indice contro le oscure trame del massimo potere, il cui back-office è dominato da 36 Ur-Lodges, superlogge sovranazionali in cui, negli ultimi decenni, hanno preso il sopravvento le correnti reazionarie che hanno forgiato la globalizzazione neoliberista basata sulla privatizzazione universale. Ma il vento è cambiato, avverte Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista: «Oggi, in molti casi, i massoni neoaristocratici controiniziati neanche riescono ad avvicinarsi alle loro potenziali “vittime” o a concepirne l’eliminazione, senza essere prima dissuasi dalla pericolosità estrema della faccenda e dal suo carattere “anti-economico” e controproducente». Aggiunge Magaldi: «Oggi, “angeli e demoni” formidabili vegliano sulla sicurezza e l’incolumità dei più ragguardevoli liberi muratori impegnati nella ricostruzione/rigenerazione delle reti sovranazionali progressiste».
C’è stato un tempo, invece, in cui uomini decisivi come Mohandas Karamchand Gandhi, Enrico Mattei, John Fitzgerald e Robert Kennedy, Martin Luther King e Salvador Allende, insieme ad Aldo Moro, Olof Palme, Thomas Sankara, Yithzak Rabin ed altri «poterono essere assassinati senza ritegno, vergogna e giusta vendetta per i loro aguzzini», scrive Magaldi sul blog del Movimento Roosevelt, mettendo in fila i maggiori omicidi politici del ‘900 (più quello di Rabin) per accusare la regia “controiniziatica” di quelle uccisioni, orchestrate da elementi della supermassoneria reazionaria ai vertici del potere. «Ora è giunto il tempo della memoria celebrativa per questi eroi della massoneria progressista brutalmente eliminati e sottratti all’affetto di chi li amava, ammirava e seguiva», scrive Magaldi, rivelando in tal modo la cifra massonica dei leader citati. «Ora – aggiunge – è arrivato il tempo di una condanna storica e morale severissima per quegli assassini controiniziati che violarono tanto i propri giuramenti massonici quanto ogni legge ed etica umana». A partire dalla lettura di “Massoni”, cui seguirà il secondo volume – in uscita nella primavera 2019 – l’autore ha fornito «nomi e cognomi di certi personaggi e spiegazioni esaurienti e circostanziate dei loro misfatti», portando il caso all’attenzione della pubblica opinione.
Nel libro, Magaldi ha descritto chiaramente «le gesta eroiche di quelle avanguardie massoniche progressiste che hanno rivoluzionato il mondo sin dal XVIII secolo e dato vita a società libere, aperte, democratiche, laiche, tolleranti, ecumeniche, parlamentarizzate, costituzionali e fondate sullo Stato di diritto, sull’uguaglianza delle opportunità, sulla giustizia e mobilità sociale». Avverte Magaldi: «Adesso e in futuro, comunque, nessuno potrà più perpetrare crimini come quelli segnalati sopra, per miriadi di ragioni». E’ in corso, spiega, una «guerra globale (e anti-convenzionale) infra-massonica». Una lotta che si annuncia «dura e titanica», ma in cui «tutti saranno costretti a “giocare” in modo relativamente “pulito” e con il giusto fair-play». Soprattutto, conclude Magaldi, «questa guerra contro l’incubo neoaristocratico e neoliberista la vincerà l’alleanza tra massoni progressisti e popolo», ovvero «cittadini comuni consapevoli, oltre che fieri, del proprio diritto-dovere alla sovranità». In altre parole: il tempo del ritorno della democrazia sostanziale è giunto, assicura Magaldi, impegnato – a partire dall’Italia – a contrastare la “teologia” neoliberista che ha impoverito i popoli, svuotando gradualmente la democrazia.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Editoriale
Le mafie non dimenticano mai i loro nemici: non lasciamo solo chi le combatte
Salvini lancia un avvertimento a Saviano sulla sua scorta. E' bene ricordare al ministro quanti sono i servitori dello Stato uccisi perché quello Stato non li ha saputi proteggere
di Lirio Abbate
21 giugno 2018
Le mafie non dimenticano mai i loro nemici: non lasciamo solo chi le combatte
I capimafia che durante gli anni si sono “pentiti” ed hanno iniziato a collaborare con i magistrati svelando mandanti e autori di omicidi e attentati, hanno sempre tenuto a sottolineare che una sentenza di morte emessa dai boss - purtroppo - non va mai in prescrizione. Qualche mafioso, prima o poi, la esegue. Anche se dovessero trascorrere dieci o vent'anni qualcuno delle cosche la compirà, acquistando in questo modo ancor più prestigio nel clan, oltre alla riconoscenza del capomafia. Fa male dirlo, ma le mafie non dimenticano i propri nemici. La loro forza intimidatoria sta proprio in questo, nella memoria lunga. Nell'essere servitori di un capo che vogliono compiacere ad ogni costo, sparando e uccidendo anche quando tutto sembra esser tornato alla normalità.
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vedi anche:
Schermata-2018-06-21-alle-13-21-52-png
L'ossessione di Matteo Salvini (e della destra) per la scorta di Roberto Saviano
Il ministro dell'Interno minaccia di "valutare" se allo scrittore minacciato dalla Camorra debba essere garantita una protezione da parte dello Stato. Ma negli ultimi anni questi attacchi sono diventati una costante
I due italiani che hanno spiegato con le parole e con l’esempio l’ineluttabilità di questa condanna eterna sono stati due siciliani assassinati dalla mafia, due giudici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Erano l’incarnazione di questa condanna. Falcone apparteneva alla specie dei siciliani ironici fatalisti che combattono la mafia sapendo che prima o poi ne saranno uccisi. Dialogando con Giorgio Bocca il magistrato disse: «Il mio conto con Cosa nostra resta aperto. Lo salderò con la mia morte, naturale o meno. Tommaso Buscetta mi ha messo in guardia. Verrà il suo turno, prima o poi ci riusciranno».
=======================================================================================================
Lo sapeva anche Paolo Borsellino. Diceva: «Il rapporto tra Stato e mafia non ha misteri: controllano entrambi lo stesso territorio, a volte fanno finta di non vedersi, a volte si uccidono».
Un mafioso che aveva deciso di vuotare il sacco negli anni Novanta, raccontò ai magistrati siciliani che il suo clan voleva uccidere un commerciante che si rifiutava di pagare il pizzo. Il progetto di morte venne accantonato quando i mafiosi che erano già pronti ad entrare in azione videro che alla loro vittima era stata assegnata una “tutela” ed un'auto blindata. L'uomo aveva denunciato alla polizia le minacce con le richieste di pagamento e subito fu messo sotto protezione. Di fatto gli è stata salvata la vita perché i mafiosi rinunciarono a compiere l'omicidio.
Spessissimo la scorta rappresenta un deterrente. È un ostacolo a chi pensa di impugnare con facilità una pistola o il Kalashnikov e sparare. Tanto per citare un esempio, sarebbe stato molto più complicato per i mafiosi di Brancaccio organizzare l'attentato a Paolo Borsellino se i responsabili della sicurezza di allora a Palermo avessero pensato di far sgomberare tutte le auto in sosta davanti il palazzo in cui abitava la mamma del magistrato. E in cui lui spesso si recava per andarla a trovare. Una sottovalutazione che a 57 giorni dalla strage di Capaci ha provocato l'attentato a via D'Amelio.
Per non parlare di chi non ha preso in considerazione le lettere di Marco Biagi, ucciso il 19 marzo 2002. Oppure l'omicidio di Massimo D'Antona, di tre anni prima. Davanti alla drammatica denuncia di quelle lettere, che segnalavano pericoli, prefiguravano un quadro di morte, chiedevano aiuto e si domandavano la ragione incomprensibile del comportamento dello Stato, l'allora ministro dell'Interno non fece nulla.
Ma il pericolo non arriva solo dalla sottovalutazione, è pure quello di additare. Puntare il dito contro chi lotta le mafie, chi ne denuncia la potenza e le collusioni, contro chi opera. E spesso viene additato come “il responsabile” e quindi sovraesposto ed isolato. E se a queste persone togli pure la protezione allora è come mandarli al patibolo, o davanti ad un plotone di esecuzione.
Per riflettere su tutto questo basta guardare alle date delle prossime settimane per far scorrere un brivido a chi vuole lasciare sole le persone che stanno contro le mafie.
Il 26 giugno ricorrerà il trentacinquesimo anniversario dell'omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia. Era senza alcuna protezione e fu freddato a colpi di pistola da due killer della ‘ndrangheta: l’unico magistrato ucciso dalla mafia nel Nord Italia. Ed era solo. Il prossimo 11 luglio ricorre l'anniversario dell'uccisione dell'avvocato Giorgio Ambrosoli avvenuta a Milano nel 1979. Era il liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, il suo killer era un mafioso, e anche lui era senza alcuna protezione. Era solo. Il 21 luglio del 1979 veniva ucciso a Palermo il vicequestore della polizia di Stato Giorgio Boris Giuliano impegnato in diverse indagini sui Corleonesi e il 28 luglio 1985 a Porticello, a pochi chilometri da Palermo, viene ucciso il commissario di polizia Beppe Montana. Erano uomini soli. Come lo erano Ninni Cassarà, capo della squadra mobile e l'agente Roberto Antiochia uccisi il 6 agosto 1985 a Palermo e il giudice Antonio Scopelliti, senza scorta, assassinato il 9 agosto 1991 in provincia di Reggio Calabria. E solo era anche, dopo le denunce contro i clan mafiosi che gli chiedevano il pizzo, Libero Grassi, senza scorta, ucciso il 29 agosto 1991 a Palermo.
Ecco, erano tutti uomini coraggiosi che facevano il loro dovere di cittadini e servitori dello Stato, ma che lo Stato non ha saputo proteggere. Evitiamo che tutto ciò si possa ripetere.
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Le mafie non dimenticano mai i loro nemici: non lasciamo solo chi le combatte
Salvini lancia un avvertimento a Saviano sulla sua scorta. E' bene ricordare al ministro quanti sono i servitori dello Stato uccisi perché quello Stato non li ha saputi proteggere
di Lirio Abbate
21 giugno 2018
Le mafie non dimenticano mai i loro nemici: non lasciamo solo chi le combatte
I capimafia che durante gli anni si sono “pentiti” ed hanno iniziato a collaborare con i magistrati svelando mandanti e autori di omicidi e attentati, hanno sempre tenuto a sottolineare che una sentenza di morte emessa dai boss - purtroppo - non va mai in prescrizione. Qualche mafioso, prima o poi, la esegue. Anche se dovessero trascorrere dieci o vent'anni qualcuno delle cosche la compirà, acquistando in questo modo ancor più prestigio nel clan, oltre alla riconoscenza del capomafia. Fa male dirlo, ma le mafie non dimenticano i propri nemici. La loro forza intimidatoria sta proprio in questo, nella memoria lunga. Nell'essere servitori di un capo che vogliono compiacere ad ogni costo, sparando e uccidendo anche quando tutto sembra esser tornato alla normalità.
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L'ossessione di Matteo Salvini (e della destra) per la scorta di Roberto Saviano
Il ministro dell'Interno minaccia di "valutare" se allo scrittore minacciato dalla Camorra debba essere garantita una protezione da parte dello Stato. Ma negli ultimi anni questi attacchi sono diventati una costante
I due italiani che hanno spiegato con le parole e con l’esempio l’ineluttabilità di questa condanna eterna sono stati due siciliani assassinati dalla mafia, due giudici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Erano l’incarnazione di questa condanna. Falcone apparteneva alla specie dei siciliani ironici fatalisti che combattono la mafia sapendo che prima o poi ne saranno uccisi. Dialogando con Giorgio Bocca il magistrato disse: «Il mio conto con Cosa nostra resta aperto. Lo salderò con la mia morte, naturale o meno. Tommaso Buscetta mi ha messo in guardia. Verrà il suo turno, prima o poi ci riusciranno».
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Lo sapeva anche Paolo Borsellino. Diceva: «Il rapporto tra Stato e mafia non ha misteri: controllano entrambi lo stesso territorio, a volte fanno finta di non vedersi, a volte si uccidono».
Un mafioso che aveva deciso di vuotare il sacco negli anni Novanta, raccontò ai magistrati siciliani che il suo clan voleva uccidere un commerciante che si rifiutava di pagare il pizzo. Il progetto di morte venne accantonato quando i mafiosi che erano già pronti ad entrare in azione videro che alla loro vittima era stata assegnata una “tutela” ed un'auto blindata. L'uomo aveva denunciato alla polizia le minacce con le richieste di pagamento e subito fu messo sotto protezione. Di fatto gli è stata salvata la vita perché i mafiosi rinunciarono a compiere l'omicidio.
Spessissimo la scorta rappresenta un deterrente. È un ostacolo a chi pensa di impugnare con facilità una pistola o il Kalashnikov e sparare. Tanto per citare un esempio, sarebbe stato molto più complicato per i mafiosi di Brancaccio organizzare l'attentato a Paolo Borsellino se i responsabili della sicurezza di allora a Palermo avessero pensato di far sgomberare tutte le auto in sosta davanti il palazzo in cui abitava la mamma del magistrato. E in cui lui spesso si recava per andarla a trovare. Una sottovalutazione che a 57 giorni dalla strage di Capaci ha provocato l'attentato a via D'Amelio.
Per non parlare di chi non ha preso in considerazione le lettere di Marco Biagi, ucciso il 19 marzo 2002. Oppure l'omicidio di Massimo D'Antona, di tre anni prima. Davanti alla drammatica denuncia di quelle lettere, che segnalavano pericoli, prefiguravano un quadro di morte, chiedevano aiuto e si domandavano la ragione incomprensibile del comportamento dello Stato, l'allora ministro dell'Interno non fece nulla.
Ma il pericolo non arriva solo dalla sottovalutazione, è pure quello di additare. Puntare il dito contro chi lotta le mafie, chi ne denuncia la potenza e le collusioni, contro chi opera. E spesso viene additato come “il responsabile” e quindi sovraesposto ed isolato. E se a queste persone togli pure la protezione allora è come mandarli al patibolo, o davanti ad un plotone di esecuzione.
Per riflettere su tutto questo basta guardare alle date delle prossime settimane per far scorrere un brivido a chi vuole lasciare sole le persone che stanno contro le mafie.
Il 26 giugno ricorrerà il trentacinquesimo anniversario dell'omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia. Era senza alcuna protezione e fu freddato a colpi di pistola da due killer della ‘ndrangheta: l’unico magistrato ucciso dalla mafia nel Nord Italia. Ed era solo. Il prossimo 11 luglio ricorre l'anniversario dell'uccisione dell'avvocato Giorgio Ambrosoli avvenuta a Milano nel 1979. Era il liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, il suo killer era un mafioso, e anche lui era senza alcuna protezione. Era solo. Il 21 luglio del 1979 veniva ucciso a Palermo il vicequestore della polizia di Stato Giorgio Boris Giuliano impegnato in diverse indagini sui Corleonesi e il 28 luglio 1985 a Porticello, a pochi chilometri da Palermo, viene ucciso il commissario di polizia Beppe Montana. Erano uomini soli. Come lo erano Ninni Cassarà, capo della squadra mobile e l'agente Roberto Antiochia uccisi il 6 agosto 1985 a Palermo e il giudice Antonio Scopelliti, senza scorta, assassinato il 9 agosto 1991 in provincia di Reggio Calabria. E solo era anche, dopo le denunce contro i clan mafiosi che gli chiedevano il pizzo, Libero Grassi, senza scorta, ucciso il 29 agosto 1991 a Palermo.
Ecco, erano tutti uomini coraggiosi che facevano il loro dovere di cittadini e servitori dello Stato, ma che lo Stato non ha saputo proteggere. Evitiamo che tutto ciò si possa ripetere.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Inchiesta
Ministro Salvini, è ora di dire la verità sui soldi della Lega
Con quale denaro sopravvive il partito del vice premier? E chi sta mentendo sull'associazione "Più Voci" scoperta dalle nostre inchieste? Ricostruiamo la galassia finanziaria leghista e le troppe dissonanze. Su cui si sta instaurando un coordinamento investigativo tra le procura di Roma e Genova
di Giovanni Tizian e Stefano Vergine
21 giugno 2018
Caccia al tesoro sparito della Lega ai tempi della Terza Repubblica. E ai finanziatori segreti del Carroccio. Che fine hanno fatto i milioni di euro pubblici frutto della truffa sui rimborsi elettorali firmata da Umberto Bossi? E che ruolo ha l’associazione “Più voci”? Sono le domande da cui siamo partiti in questi mesi per ricostruire i flussi finanziari della galassia leghista post Bossi e Maroni, per capire dove sono finiti i 48 milioni messi sotto sequestro dai magistrati (che però ne hanno trovati solo 3) dopo gli scandali orchestrati dal vecchio tesoriere Francesco Belsito. Con la sentenza di primo grado del tribunale di Genova è stata riconosciuta la truffa ai danni dello Stato realizzata da Belsito, Bossi e altri uomini del partito di quell’epoca. Ma i giudici hanno anche stabilito che quei soldi devono essere restituiti. Matteo Salvini non perde occasione per sottolineare come le casse della Lega siano vuote. La stessa cosa si legge sui bilanci ufficiali del partito. E allora come sopravvive la Lega? Come paga le sue campagne elettorali?
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vedi anche:
ESPRESSOMUNAFO-20180613131018330-jpg
Lega, caccia ai milioni dal Lussemburgo: cosa sappiamo sui soldi del partito di Salvini
Gli investimenti illegali. L'associazione usata per ottenere finanziamenti privati. I soldi della truffa incassati dai nuovi dirigenti. I fortunati fornitori del partito. I bonifici di Parnasi. Fino allo strano gruppo di società controllate tramite una holding in Lussemburgo. Lo stesso Paese dove ora i magistrati credono che la Lega abbia riciclato milioni
A partire dall’inchiesta “ Salvinidanaio ” (2 ottobre 2017), L’Espresso ha cercato di ricostruire i flussi finanziari che hanno attraversato le tre diverse gestioni della Lega: Bossi, Maroni e Salvini. Quest’ultimo ha sempre sostenuto che di quei 48 milioni non ha mai visto uno spicciolo. I report interni del Carroccio però smentiscono il ministro dell’Interno e segretario del partito. E dimostrano l’esistenza di un filo diretto tra la truffa architettata dalla coppia Belsito-Bossi e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo Maroni ha incassato 12,9 milioni di euro. Rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato. Quando Salvini subentra a Maroni poco cambia. Il nuovo segretario incassa 820 mila euro per le elezioni regionali del 2010. Perché allora sostiene che quei soldi non li ha mai visti?
Sull'associazione "Più Voci" scoperta dalle nostre inchieste, qualcuno sta mentendo. Ma chi?
vedi anche:
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Esclusivo: alla Lega sovranista di Matteo Salvini piace offshore
Da Bergamo al Lussemburgo, via Lugano. Lungo questa direttrice si dipanano gli affari dei cassieri del partito scelti dal segretario neo ministro degli Interni. L'inchiesta su L'Espresso in edicola domenica 3 giugno
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È proprio seguendo i soldi, analizzando documenti bancari e contabili del partito, che sono emersi altri due dati rilevanti: un portafoglio di titoli finanziari di cui è titolare il partito di Salvini e un’associazione culturale, la “Più voci”, usata dopo la condanna per truffa per incamerare contributi volontari da imprenditori amici. Un’inchiesta giornalistica che ha dato il titolo a una delle copertine dedicate dal nostro settimanale al tesoro scomparso della Lega. “I Conti segreti di Salvini” (1° aprile 2018) svelava per la prima volta l’esistenza di un patrimonio finanziario del Carroccio fatto di buoni del tesoro italiano e obbligazioni societarie. Oltre alla liquidità, quindi, il partito poteva contare su un sostanzioso tesoretto. Investito parzialmente in titoli vietati per un partito politico, dato che la legge permette di scommettere denaro solo su titoli di Stato della zona euro.
Nel dicembre del 2013, quando Maroni è ancora il segretario federale, la Lega è titolare di titoli per 11,2 milioni di euro. Due terzi della somma equivalgono a buoni del tesoro italiani, mentre il resto sono obbligazioni societarie. E ci sono anche 380 mila euro investiti in un derivato, basato sull’andamento del Ftse Mib, il principale indice azionario della Borsa di Milano. Insomma una Lega che, a dispetto della legge e delle dichiarazioni ufficiali contro la finanza speculativa, ha scelto di rischiare parecchio con i soldi dei rimborsi elettorali. Con l’arrivo di Salvini la strategia non cambia. Nello specifico, il neo ministro ha puntato 1,2 milioni su Mediobanca, Arcelor Mittal e Gas Natural.
Ma c’è un fatto ulteriore che emerge dallo studio dei saldi bancari: da dicembre del 2013 al maggio del 2014 il patrimonio è crollato, passando da 14,2 milioni a 6,6 milioni. In che modo sono stati spesi così rapidamente tutti quei soldi resta uno dei misteri della nuova Lega sovranista, sulla quale si sono intanto accesi i riflettori della procura di Genova e della Guardia di finanza. Le perquisizioni presso le sedi della Sparkasse, la banca in cui per un certo periodo il Carroccio ha parcheggiato la sua liquidità, hanno infatti l’obiettivo di ricostruire lo spostamento del denaro fuori dai confini nazionali. I detective sono alla ricerca di investimenti passati per il Lussemburgo. Sono convinti che il materiale sequestrato darà loro molte risposte. Perché è anche da quei conti che è transitato il denaro poi improvvisamente sparito. Un passaggio che già nel 2015 L’Espresso raccontava in un’altra inchiesta dal titolo “Caccia al tesoro padano”. L’indagine della magistratura è ancora a carico di ignoti, e l’ipotesi di operazioni di riciclaggio effettuate tramite Sparkasse è solo uno dei filoni.
L’attività principale riguarda infatti la ricerca del denaro da sequestrare, così come ordinato dal tribunale dopo la sentenza di condanna per truffa.
Di certo la Lega non è riuscita a chiarire fino in fondo il ruolo dell’associazione “Più voci”. L’Espresso aveva rivelato, nell’inchiesta sui “Conti segreti di Salvini”, che questa organizzazione fondata nell’autunno 2015 aveva ricevuto parecchi finanziamenti privati. A tenere le redini dell’associazione sono tre commercialisti lombardi che Salvini ha voluto al suo fianco nel nuovo partito: Giulio Centemero, tesoriere, assistito dai colleghi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. La “Più Voci” finora non ha pubblicizzato alcuna attività politica o sociale, ma ha ricevuto parecchi bonifici. Soldi - 313 mila euro in pochi mesi, da fine 2015 a metà 2016 - che entrano, fanno una sosta e poi ripartono per altri lidi. O meglio, verso altri conti intestati a società della galassia leghista: aziende in cui i commercialisti preferiti da Salvini hanno incarichi di rilievo, come Radio Padania e la Mc Srl, l’impresa che edita il quotidiano online Il Populista, nuovo strumento della propaganda salviniana in rete.
Il citofono del palazzo Più voci
Il citofono del palazzo Più voci
Come avevamo raccontato, sul conto della “Più Voci” sono arrivati in particolare due bonifici per un totale di 250 mila euro dalla Immobiliare Pentapigna di Luca Parnasi. Già, proprio l’uomo che dovrebbe costruire il nuovo stadio della Roma e che è appena finito in carcere per corruzione nell’inchiesta che rischia di travolgere il Campidoglio a Cinquestelle. «Lo conosco personalmente come una persona perbene», ha dichiarato Salvini dopo l’arresto riferendosi al costruttore. Il ministro ha però dimenticato di ricordare dei 250 mila euro versati da Parnasi all’associazione gestita dai commercialisti della Lega. D’altra parte l’immobiliarista romano non è stato il solo benefattore. L’Espresso ha documentato come anche Esselunga abbia donato 40 mila euro. Ora è l’indagine della procura di Roma, con l’arresto di Parnasi, che permette di compiere un passo avanti. L’imprenditore, intercettato, si mostra agitato dopo aver ricevuto le nostre telefonate in cui gli chiedevamo conto di quei bonifici alla “Più voci”. Decide di non rispondere alle nostre domande, così come ha fatto Salvini, ma confida a un suo collaboratore che quei soldi servivano per finanziare la campagna elettorale di Stefano Parisi (candidato per il centro destra, Lega inclusa) a sindaco di Milano del 2016. Se fosse vero, questo smentirebbe la versione del tesoriere Centemero, che al nostro giornale aveva spiegato: «I fondi raccolti non sono stati trasferiti al partito o utilizzati in attività di carattere politico, come per esempio le campagne elettorali».
Di sicuro, una volta saputo della nostra inchiesta, il gruppo Parnasi si mette al lavoro per trovare una giustificazione al finanziamento. Tramite il suo commercialista, l’immobiliarista contatta Andrea Manzoni, il contabile fedele a Salvini. Gli vuole chiedere di «fare una cosa retroattiva». E poi aggiunge: «Te lo avevo detto che era una rogna», riferendosi alle nostre domande. Ma è il passaggio successivo che rende l’idea di quanto scompiglio avesse creato la nostra richiesta. Parnasi infatti propone a un suo collaboratore di «creare una giustificazione contabile retrodatata grazie alla quale sostenere che l’erogazione sia avvenuta a favore di Radio Padania». Ma perché tanta preoccupazione? In ogni caso quando Parnasi capisce che non c’è nulla da fare e che lo scoop dell’Espresso verrà pubblicato si arrende: «Pazienza, ma sotto un certo aspetto è positivo perché tutti sapranno che siamo vicini alla Lega che farà il governo». Tesi sostenuta anche da Luigi Bisignani. Il faccendiere evergreen prima chiede all’amico quanti sono gli imprenditori che hanno versato soldi all’associazione leghista “Più Voci”. «Una decina», risponde Parnasi: dunque molti di più rispetto ai due scoperti dal nostro giornale. Poi Bisignani dice all’amico che «non serve rispondere ai giornalisti ma cavalcare la cosa», perché in fondo è amico di tutti quelli che contano visto che «ha finanziato la Lega e il M5S». Che l’uomo incaricato di costruire lo stadio della Roma abbia finanziato anche i grillini è tutto da provare. Di certo l’intercettazione rivela un inedito spaccato sul nuovo potere. Ma anche sul vecchio: nella stessa conversazione i due sostengono che a sinistra «non possono dirgli nulla» sul finanziamento alla Lega, perché «anche quelli conoscono la sua società Pentapigna».
Se l’inchiesta della procura di Roma conferma l’esistenza di canali alternativi usati dalla Lega per finanziarsi, evitando così il possibile sequestro dei soldi, resta aperto il capitolo “vecchio tesoro padano”. Una traccia del metodo usato dai leghisti per blindare il patrimonio milionario l’abbiamo raccontata nell’ultima inchiesta di copertina, “L’Europa offshore che piace a Salvini” (3 giugno 2018). Scavando negli affari del trio di commercialisti Centemero-Di Rubba-Manzoni, L’Espresso ha scoperto una ragnatela di piccole imprese di cui è impossibile conoscere il proprietario, perché a controllarle è una fiduciaria che porta lontano, fino in Lussemburgo. I cassieri della Lega hanno risposto alle nostre domande sostenendo che queste società nulla hanno a che fare con il partito. Questioni private, insomma. Gestite però da professionisti con ruoli pubblici in Parlamento. Di certo è curioso notare come i commercialisti scelti da Salvini abbiano legami con il Lussemburgo, paradiso fiscale europeo guidato per anni dal guardiano dei vincoli di bilancio, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. E ancora più curioso è rilevare che proprio nel Granducato la procura di Genova ha appena inviato una rogatoria per indagare sui flussi finanziari partiti dall’Italia e macchiati dalla truffa di Bossi.
© Riproduzione riservata
Ministro Salvini, è ora di dire la verità sui soldi della Lega
Con quale denaro sopravvive il partito del vice premier? E chi sta mentendo sull'associazione "Più Voci" scoperta dalle nostre inchieste? Ricostruiamo la galassia finanziaria leghista e le troppe dissonanze. Su cui si sta instaurando un coordinamento investigativo tra le procura di Roma e Genova
di Giovanni Tizian e Stefano Vergine
21 giugno 2018
Caccia al tesoro sparito della Lega ai tempi della Terza Repubblica. E ai finanziatori segreti del Carroccio. Che fine hanno fatto i milioni di euro pubblici frutto della truffa sui rimborsi elettorali firmata da Umberto Bossi? E che ruolo ha l’associazione “Più voci”? Sono le domande da cui siamo partiti in questi mesi per ricostruire i flussi finanziari della galassia leghista post Bossi e Maroni, per capire dove sono finiti i 48 milioni messi sotto sequestro dai magistrati (che però ne hanno trovati solo 3) dopo gli scandali orchestrati dal vecchio tesoriere Francesco Belsito. Con la sentenza di primo grado del tribunale di Genova è stata riconosciuta la truffa ai danni dello Stato realizzata da Belsito, Bossi e altri uomini del partito di quell’epoca. Ma i giudici hanno anche stabilito che quei soldi devono essere restituiti. Matteo Salvini non perde occasione per sottolineare come le casse della Lega siano vuote. La stessa cosa si legge sui bilanci ufficiali del partito. E allora come sopravvive la Lega? Come paga le sue campagne elettorali?
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Lega, caccia ai milioni dal Lussemburgo: cosa sappiamo sui soldi del partito di Salvini
Gli investimenti illegali. L'associazione usata per ottenere finanziamenti privati. I soldi della truffa incassati dai nuovi dirigenti. I fortunati fornitori del partito. I bonifici di Parnasi. Fino allo strano gruppo di società controllate tramite una holding in Lussemburgo. Lo stesso Paese dove ora i magistrati credono che la Lega abbia riciclato milioni
A partire dall’inchiesta “ Salvinidanaio ” (2 ottobre 2017), L’Espresso ha cercato di ricostruire i flussi finanziari che hanno attraversato le tre diverse gestioni della Lega: Bossi, Maroni e Salvini. Quest’ultimo ha sempre sostenuto che di quei 48 milioni non ha mai visto uno spicciolo. I report interni del Carroccio però smentiscono il ministro dell’Interno e segretario del partito. E dimostrano l’esistenza di un filo diretto tra la truffa architettata dalla coppia Belsito-Bossi e i suoi successori. Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo Maroni ha incassato 12,9 milioni di euro. Rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato. Quando Salvini subentra a Maroni poco cambia. Il nuovo segretario incassa 820 mila euro per le elezioni regionali del 2010. Perché allora sostiene che quei soldi non li ha mai visti?
Sull'associazione "Più Voci" scoperta dalle nostre inchieste, qualcuno sta mentendo. Ma chi?
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Esclusivo: alla Lega sovranista di Matteo Salvini piace offshore
Da Bergamo al Lussemburgo, via Lugano. Lungo questa direttrice si dipanano gli affari dei cassieri del partito scelti dal segretario neo ministro degli Interni. L'inchiesta su L'Espresso in edicola domenica 3 giugno
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È proprio seguendo i soldi, analizzando documenti bancari e contabili del partito, che sono emersi altri due dati rilevanti: un portafoglio di titoli finanziari di cui è titolare il partito di Salvini e un’associazione culturale, la “Più voci”, usata dopo la condanna per truffa per incamerare contributi volontari da imprenditori amici. Un’inchiesta giornalistica che ha dato il titolo a una delle copertine dedicate dal nostro settimanale al tesoro scomparso della Lega. “I Conti segreti di Salvini” (1° aprile 2018) svelava per la prima volta l’esistenza di un patrimonio finanziario del Carroccio fatto di buoni del tesoro italiano e obbligazioni societarie. Oltre alla liquidità, quindi, il partito poteva contare su un sostanzioso tesoretto. Investito parzialmente in titoli vietati per un partito politico, dato che la legge permette di scommettere denaro solo su titoli di Stato della zona euro.
Nel dicembre del 2013, quando Maroni è ancora il segretario federale, la Lega è titolare di titoli per 11,2 milioni di euro. Due terzi della somma equivalgono a buoni del tesoro italiani, mentre il resto sono obbligazioni societarie. E ci sono anche 380 mila euro investiti in un derivato, basato sull’andamento del Ftse Mib, il principale indice azionario della Borsa di Milano. Insomma una Lega che, a dispetto della legge e delle dichiarazioni ufficiali contro la finanza speculativa, ha scelto di rischiare parecchio con i soldi dei rimborsi elettorali. Con l’arrivo di Salvini la strategia non cambia. Nello specifico, il neo ministro ha puntato 1,2 milioni su Mediobanca, Arcelor Mittal e Gas Natural.
Ma c’è un fatto ulteriore che emerge dallo studio dei saldi bancari: da dicembre del 2013 al maggio del 2014 il patrimonio è crollato, passando da 14,2 milioni a 6,6 milioni. In che modo sono stati spesi così rapidamente tutti quei soldi resta uno dei misteri della nuova Lega sovranista, sulla quale si sono intanto accesi i riflettori della procura di Genova e della Guardia di finanza. Le perquisizioni presso le sedi della Sparkasse, la banca in cui per un certo periodo il Carroccio ha parcheggiato la sua liquidità, hanno infatti l’obiettivo di ricostruire lo spostamento del denaro fuori dai confini nazionali. I detective sono alla ricerca di investimenti passati per il Lussemburgo. Sono convinti che il materiale sequestrato darà loro molte risposte. Perché è anche da quei conti che è transitato il denaro poi improvvisamente sparito. Un passaggio che già nel 2015 L’Espresso raccontava in un’altra inchiesta dal titolo “Caccia al tesoro padano”. L’indagine della magistratura è ancora a carico di ignoti, e l’ipotesi di operazioni di riciclaggio effettuate tramite Sparkasse è solo uno dei filoni.
L’attività principale riguarda infatti la ricerca del denaro da sequestrare, così come ordinato dal tribunale dopo la sentenza di condanna per truffa.
Di certo la Lega non è riuscita a chiarire fino in fondo il ruolo dell’associazione “Più voci”. L’Espresso aveva rivelato, nell’inchiesta sui “Conti segreti di Salvini”, che questa organizzazione fondata nell’autunno 2015 aveva ricevuto parecchi finanziamenti privati. A tenere le redini dell’associazione sono tre commercialisti lombardi che Salvini ha voluto al suo fianco nel nuovo partito: Giulio Centemero, tesoriere, assistito dai colleghi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. La “Più Voci” finora non ha pubblicizzato alcuna attività politica o sociale, ma ha ricevuto parecchi bonifici. Soldi - 313 mila euro in pochi mesi, da fine 2015 a metà 2016 - che entrano, fanno una sosta e poi ripartono per altri lidi. O meglio, verso altri conti intestati a società della galassia leghista: aziende in cui i commercialisti preferiti da Salvini hanno incarichi di rilievo, come Radio Padania e la Mc Srl, l’impresa che edita il quotidiano online Il Populista, nuovo strumento della propaganda salviniana in rete.
Il citofono del palazzo Più voci
Il citofono del palazzo Più voci
Come avevamo raccontato, sul conto della “Più Voci” sono arrivati in particolare due bonifici per un totale di 250 mila euro dalla Immobiliare Pentapigna di Luca Parnasi. Già, proprio l’uomo che dovrebbe costruire il nuovo stadio della Roma e che è appena finito in carcere per corruzione nell’inchiesta che rischia di travolgere il Campidoglio a Cinquestelle. «Lo conosco personalmente come una persona perbene», ha dichiarato Salvini dopo l’arresto riferendosi al costruttore. Il ministro ha però dimenticato di ricordare dei 250 mila euro versati da Parnasi all’associazione gestita dai commercialisti della Lega. D’altra parte l’immobiliarista romano non è stato il solo benefattore. L’Espresso ha documentato come anche Esselunga abbia donato 40 mila euro. Ora è l’indagine della procura di Roma, con l’arresto di Parnasi, che permette di compiere un passo avanti. L’imprenditore, intercettato, si mostra agitato dopo aver ricevuto le nostre telefonate in cui gli chiedevamo conto di quei bonifici alla “Più voci”. Decide di non rispondere alle nostre domande, così come ha fatto Salvini, ma confida a un suo collaboratore che quei soldi servivano per finanziare la campagna elettorale di Stefano Parisi (candidato per il centro destra, Lega inclusa) a sindaco di Milano del 2016. Se fosse vero, questo smentirebbe la versione del tesoriere Centemero, che al nostro giornale aveva spiegato: «I fondi raccolti non sono stati trasferiti al partito o utilizzati in attività di carattere politico, come per esempio le campagne elettorali».
Di sicuro, una volta saputo della nostra inchiesta, il gruppo Parnasi si mette al lavoro per trovare una giustificazione al finanziamento. Tramite il suo commercialista, l’immobiliarista contatta Andrea Manzoni, il contabile fedele a Salvini. Gli vuole chiedere di «fare una cosa retroattiva». E poi aggiunge: «Te lo avevo detto che era una rogna», riferendosi alle nostre domande. Ma è il passaggio successivo che rende l’idea di quanto scompiglio avesse creato la nostra richiesta. Parnasi infatti propone a un suo collaboratore di «creare una giustificazione contabile retrodatata grazie alla quale sostenere che l’erogazione sia avvenuta a favore di Radio Padania». Ma perché tanta preoccupazione? In ogni caso quando Parnasi capisce che non c’è nulla da fare e che lo scoop dell’Espresso verrà pubblicato si arrende: «Pazienza, ma sotto un certo aspetto è positivo perché tutti sapranno che siamo vicini alla Lega che farà il governo». Tesi sostenuta anche da Luigi Bisignani. Il faccendiere evergreen prima chiede all’amico quanti sono gli imprenditori che hanno versato soldi all’associazione leghista “Più Voci”. «Una decina», risponde Parnasi: dunque molti di più rispetto ai due scoperti dal nostro giornale. Poi Bisignani dice all’amico che «non serve rispondere ai giornalisti ma cavalcare la cosa», perché in fondo è amico di tutti quelli che contano visto che «ha finanziato la Lega e il M5S». Che l’uomo incaricato di costruire lo stadio della Roma abbia finanziato anche i grillini è tutto da provare. Di certo l’intercettazione rivela un inedito spaccato sul nuovo potere. Ma anche sul vecchio: nella stessa conversazione i due sostengono che a sinistra «non possono dirgli nulla» sul finanziamento alla Lega, perché «anche quelli conoscono la sua società Pentapigna».
Se l’inchiesta della procura di Roma conferma l’esistenza di canali alternativi usati dalla Lega per finanziarsi, evitando così il possibile sequestro dei soldi, resta aperto il capitolo “vecchio tesoro padano”. Una traccia del metodo usato dai leghisti per blindare il patrimonio milionario l’abbiamo raccontata nell’ultima inchiesta di copertina, “L’Europa offshore che piace a Salvini” (3 giugno 2018). Scavando negli affari del trio di commercialisti Centemero-Di Rubba-Manzoni, L’Espresso ha scoperto una ragnatela di piccole imprese di cui è impossibile conoscere il proprietario, perché a controllarle è una fiduciaria che porta lontano, fino in Lussemburgo. I cassieri della Lega hanno risposto alle nostre domande sostenendo che queste società nulla hanno a che fare con il partito. Questioni private, insomma. Gestite però da professionisti con ruoli pubblici in Parlamento. Di certo è curioso notare come i commercialisti scelti da Salvini abbiano legami con il Lussemburgo, paradiso fiscale europeo guidato per anni dal guardiano dei vincoli di bilancio, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. E ancora più curioso è rilevare che proprio nel Granducato la procura di Genova ha appena inviato una rogatoria per indagare sui flussi finanziari partiti dall’Italia e macchiati dalla truffa di Bossi.
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
............ALTRO CHE GOLPE CONTRO LA LIBERTA' SUL WEB, VENGANO SU QUESTO FORUM A VEDERE IL NUOVO FASCISMO 2.0
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Golpe europeo contro la libertà del web, l’Italia si opponga
Scritto il 25/6/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
Il diavolo non è poi brutto come lo si dipinge? In compenso, l’Unione Europea è peggio: come un monarca dispotico, ordina che sia imbavagliato il bambino che si è permesso di gridare che “il re è nudo”. Così, esercitando un arbitrio che ha la forza grottesca di un sopruso arcaico, Bruxelles prova a spegnere le antenne del popolo, quelle che i cittadini-elettori hanno ascoltato per poi decidere da chi farsi governare. E’ pensabile, una Brexit senza il web? E’ immaginabile una vittoria di Trump senza i social media? E una sconfitta di Renzi senza Facebook? Un governo “gialloverde” senza la Rete? No, appunto. Ed è per questo che il potere centrale del nuovo Sacro Romano Impero – con i suoi complici principali, i grandi media – sta preparando la spallata finale alla libertà di Internet: il divieto di far circolare idee, parole e immagini – tramite link, come finora si è fatto – sotto minaccia di violazione del copyright. Un bavaglio medievale, universale, bloccando alla fonte ogni notizia tramite filtri sulle piattaforme di distribuzione, cominciando da Google e Facebook. In pratica: la fine del web come l’abbiamo conosciuto, fondato sulla libera circolazione (immediata) di segnalazioni, opinioni, fatti e analisi, contenuti normalmente oscurati da giornali e televisioni.
Un gesto orwelliano, da tirannide asiatica d’altri tempi: è il 2018, eppure l’Unione Europea è questa. Non riconosce cittadini, vuole soltanto sudditi. E ha una paura maledetta che i sudditi si ribellino, ridiventando cittadini. Il killer prescelto per l’operazione è ovviamente tedesco e risponde al nome di Günther Oettinger, il simpaticone che – all’indomani del voto italiano del 4 marzo – spiegò che sarebbero stati “i mercati”, o meglio i signori occulti dello spread, a insegnare agli italiani come votare nel modo giusto, evitando cioè di rinnovare la loro fiducia a gentaglia come Salvini e Di Maio. Come sempre, Bruxelles cerca di ammantarsi di una parvenza di legalità: la Commissione Europea, organismo non-eletto e forte di poteri paragonabili a quelli delle “giunte militari” di sudamericana memoria, stavolta utilizza la foglia di fico del Parlamento Europeo (eletto, ma senza potere) per ricevere l’ipotetica legittimità politica dell’abuso, che verrebbe incoraggiato con il voto di Strasburgo il 4 luglio. Da qui il conto alla rovescia della petizione lanciata da Claudio Messora su “ByoBlu” e ripresa da “Change.org”, che in pochi giorni ha raccolto quasi mezzo milione di firme, in Italia, per tentare di convincere gli europarlamentari a non votare il piano Oettinger, in base al quale non sarebbe più possibile far circolare, su blog e social, i testi, le idee e le immagini che in questi anni hanno fatto informazione.
L’intento è evidente: “spegnere” le fonti che hanno sopperito al colpevole silenzio dei grandi media, sostituendo in modo prezioso la non-informazione di giornali e televisioni, canali mainstream reticenti e omertosi, largamente difettosi quando non direttamente mafiosi, docili strumenti nelle mani di editori collusi con il potere centrale che trama contro le democrazie per svuotarle e depredarle. Senza informazione non c’è democrazia, ed è normale quindi che l’oligarchia si premuri innanzitutto di imbavagliare la libertà di espressione. Prima hanno ridotto i giornali a carta straccia, e le televisioni a salotti tragicomicamente impermeabili a qualsiasi verità. E ora, dato che il pubblico ha aggirato i grandi media rivolgendosi al web – in Italia il 50% dei cittadini dichiara di informarsi ormai solo sulla Rete – ecco il supremo bavaglio a Internet, con l’espediente della tutela del copyright. Con l’alibi della (giusta) sanzione contro gli abusi, si mette il bavaglio alla prima fonte di notizie per 30 milioni di persone, nel nostro paese. Difficile credere che un simile attentato alla libertà possa essere accettato come costituzionale, in Italia.
Beninteso: è più che legittima la tutela del copyright, ove si impedisca di eseguire dei pedestri copia-e-incolla non autorizzati. Ma il legislatore Ue va ben oltre: impedirà addirittura che, su blog e social, vengano caricate segnalazioni ipertestuali: in pratica, sarebbe la fine dei link, cioè dell’anima stessa di Internet. Vietato riportare frasi, estratti, dichiarazioni. Vietato certificare le fonti di provenienza. Vietato veicolare – mediante collegamento diretto – i contenuti più interessanti. In altre parole: la fine del web, la morte della libertà d’opinione. Il sovrano europeo pensa di fermare, letteralmente, l’orologio della storia: vuol far diventare lento e disfunzionale ciò che oggi è veloce, immediato. Una pazzia anacronistica, come quella di chi schierasse i carri armati nelle strade. L’essenza stessa del web è la rapidità, la circolazione di notizie in tempo reale: e il web è diventato il più potente vettore economico del nostro tempo. Ostacolarlo significa arrecare un danno di portata incalcolabile alla dinamica economica del terzo millennio, riportando l’Europa al medioevo anche sul piano civile, oltre che economico e politico.
Non è strano che a organizzare il golpe sia l’Unione Europea, che i suoi carri armati (finanziari) li ha già spediti ovunque, a fare strage di democrazia. Resta da vedere come reagiranno le anime morte del Parlamento Europeo il 4 luglio, sotto la pressione dell’opinione pubblica. E soprattutto: c’è da capire come risponderà, al golpe, il governo italiano. Salvini “esiste” soprattutto su Twitter, i 5 Stelle sono nati dalla Rete. Il cielo stellato è stato inquadrato dal cannocchiale di Galileo, che adesso l’ultima reincarnazione del cardinale Bellarmino – il fantoccio Oettinger e i suoi mandanti – sta per fare a pezzi. Questa Ue si comporta come una dittatura di colonnelli: nasce morta e condannata dalla storia. E’ destinata alla sconfitta, ma a che prezzo? Quanto durerebbe, il blackout, prima del ripristrino della democrazia? Quanti altri danni produrrebbero, nel frattempo, i golpisti del web? Nessun aiuto, intanto, da giornali e televisioni: gli operatori ufficiali dell’informazione, ancora una volta, tacciono. Non una parola, da loro, sulla più importante notizia – la peggiore – che abbia investito il pubblico italiano. Tacciono, giornali e televisioni, sul golpe in atto. Sperano, probabilmente, che il colpo di Stato riesca. Si comportano come fossero complici dei golpisti. Se c’è un’occasione per dimostrare che il “governo del cambiamento” non è solo un modo di dire, è questa: se c’è un “no” che l’Italia deve pronunciare, forte e chiaro, è proprio questo, contro il golpe che vorrebbe spegnere il web.
(Su Change.org la petizione contro il bavaglio al web che l’Ue vorrebbe imporre).
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Golpe europeo contro la libertà del web, l’Italia si opponga
Scritto il 25/6/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
Il diavolo non è poi brutto come lo si dipinge? In compenso, l’Unione Europea è peggio: come un monarca dispotico, ordina che sia imbavagliato il bambino che si è permesso di gridare che “il re è nudo”. Così, esercitando un arbitrio che ha la forza grottesca di un sopruso arcaico, Bruxelles prova a spegnere le antenne del popolo, quelle che i cittadini-elettori hanno ascoltato per poi decidere da chi farsi governare. E’ pensabile, una Brexit senza il web? E’ immaginabile una vittoria di Trump senza i social media? E una sconfitta di Renzi senza Facebook? Un governo “gialloverde” senza la Rete? No, appunto. Ed è per questo che il potere centrale del nuovo Sacro Romano Impero – con i suoi complici principali, i grandi media – sta preparando la spallata finale alla libertà di Internet: il divieto di far circolare idee, parole e immagini – tramite link, come finora si è fatto – sotto minaccia di violazione del copyright. Un bavaglio medievale, universale, bloccando alla fonte ogni notizia tramite filtri sulle piattaforme di distribuzione, cominciando da Google e Facebook. In pratica: la fine del web come l’abbiamo conosciuto, fondato sulla libera circolazione (immediata) di segnalazioni, opinioni, fatti e analisi, contenuti normalmente oscurati da giornali e televisioni.
Un gesto orwelliano, da tirannide asiatica d’altri tempi: è il 2018, eppure l’Unione Europea è questa. Non riconosce cittadini, vuole soltanto sudditi. E ha una paura maledetta che i sudditi si ribellino, ridiventando cittadini. Il killer prescelto per l’operazione è ovviamente tedesco e risponde al nome di Günther Oettinger, il simpaticone che – all’indomani del voto italiano del 4 marzo – spiegò che sarebbero stati “i mercati”, o meglio i signori occulti dello spread, a insegnare agli italiani come votare nel modo giusto, evitando cioè di rinnovare la loro fiducia a gentaglia come Salvini e Di Maio. Come sempre, Bruxelles cerca di ammantarsi di una parvenza di legalità: la Commissione Europea, organismo non-eletto e forte di poteri paragonabili a quelli delle “giunte militari” di sudamericana memoria, stavolta utilizza la foglia di fico del Parlamento Europeo (eletto, ma senza potere) per ricevere l’ipotetica legittimità politica dell’abuso, che verrebbe incoraggiato con il voto di Strasburgo il 4 luglio. Da qui il conto alla rovescia della petizione lanciata da Claudio Messora su “ByoBlu” e ripresa da “Change.org”, che in pochi giorni ha raccolto quasi mezzo milione di firme, in Italia, per tentare di convincere gli europarlamentari a non votare il piano Oettinger, in base al quale non sarebbe più possibile far circolare, su blog e social, i testi, le idee e le immagini che in questi anni hanno fatto informazione.
L’intento è evidente: “spegnere” le fonti che hanno sopperito al colpevole silenzio dei grandi media, sostituendo in modo prezioso la non-informazione di giornali e televisioni, canali mainstream reticenti e omertosi, largamente difettosi quando non direttamente mafiosi, docili strumenti nelle mani di editori collusi con il potere centrale che trama contro le democrazie per svuotarle e depredarle. Senza informazione non c’è democrazia, ed è normale quindi che l’oligarchia si premuri innanzitutto di imbavagliare la libertà di espressione. Prima hanno ridotto i giornali a carta straccia, e le televisioni a salotti tragicomicamente impermeabili a qualsiasi verità. E ora, dato che il pubblico ha aggirato i grandi media rivolgendosi al web – in Italia il 50% dei cittadini dichiara di informarsi ormai solo sulla Rete – ecco il supremo bavaglio a Internet, con l’espediente della tutela del copyright. Con l’alibi della (giusta) sanzione contro gli abusi, si mette il bavaglio alla prima fonte di notizie per 30 milioni di persone, nel nostro paese. Difficile credere che un simile attentato alla libertà possa essere accettato come costituzionale, in Italia.
Beninteso: è più che legittima la tutela del copyright, ove si impedisca di eseguire dei pedestri copia-e-incolla non autorizzati. Ma il legislatore Ue va ben oltre: impedirà addirittura che, su blog e social, vengano caricate segnalazioni ipertestuali: in pratica, sarebbe la fine dei link, cioè dell’anima stessa di Internet. Vietato riportare frasi, estratti, dichiarazioni. Vietato certificare le fonti di provenienza. Vietato veicolare – mediante collegamento diretto – i contenuti più interessanti. In altre parole: la fine del web, la morte della libertà d’opinione. Il sovrano europeo pensa di fermare, letteralmente, l’orologio della storia: vuol far diventare lento e disfunzionale ciò che oggi è veloce, immediato. Una pazzia anacronistica, come quella di chi schierasse i carri armati nelle strade. L’essenza stessa del web è la rapidità, la circolazione di notizie in tempo reale: e il web è diventato il più potente vettore economico del nostro tempo. Ostacolarlo significa arrecare un danno di portata incalcolabile alla dinamica economica del terzo millennio, riportando l’Europa al medioevo anche sul piano civile, oltre che economico e politico.
Non è strano che a organizzare il golpe sia l’Unione Europea, che i suoi carri armati (finanziari) li ha già spediti ovunque, a fare strage di democrazia. Resta da vedere come reagiranno le anime morte del Parlamento Europeo il 4 luglio, sotto la pressione dell’opinione pubblica. E soprattutto: c’è da capire come risponderà, al golpe, il governo italiano. Salvini “esiste” soprattutto su Twitter, i 5 Stelle sono nati dalla Rete. Il cielo stellato è stato inquadrato dal cannocchiale di Galileo, che adesso l’ultima reincarnazione del cardinale Bellarmino – il fantoccio Oettinger e i suoi mandanti – sta per fare a pezzi. Questa Ue si comporta come una dittatura di colonnelli: nasce morta e condannata dalla storia. E’ destinata alla sconfitta, ma a che prezzo? Quanto durerebbe, il blackout, prima del ripristrino della democrazia? Quanti altri danni produrrebbero, nel frattempo, i golpisti del web? Nessun aiuto, intanto, da giornali e televisioni: gli operatori ufficiali dell’informazione, ancora una volta, tacciono. Non una parola, da loro, sulla più importante notizia – la peggiore – che abbia investito il pubblico italiano. Tacciono, giornali e televisioni, sul golpe in atto. Sperano, probabilmente, che il colpo di Stato riesca. Si comportano come fossero complici dei golpisti. Se c’è un’occasione per dimostrare che il “governo del cambiamento” non è solo un modo di dire, è questa: se c’è un “no” che l’Italia deve pronunciare, forte e chiaro, è proprio questo, contro il golpe che vorrebbe spegnere il web.
(Su Change.org la petizione contro il bavaglio al web che l’Ue vorrebbe imporre).
(Su Change.org la petizione contro il bavaglio al web che l’Ue vorrebbe imporre).
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Magaldi: Renzi riposi in pace, il progressista oggi è Salvini
Scritto il 26/6/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
«I progressisti devono capire la gente: il mondo va verso situazioni molto dure e le persone chiedono, giustamente, protezione. Invece, sino ad oggi, il Pd ha trattato le persone che hanno paura come se fossero imbecilli». Viva la sincerità, anche se fuori tempo massimo. Suonano comunque lucide, finalmente, le parole dell’ex manager Ferrari e poi ministro post-renziano Carlo Calenda, nipote di Luigi Comencini, approdato al Pd dopo l’esordio politico prima con Montezemolo e poi con Monti. «Dobbiamo dar vita ad un progetto con nuove parole», dice Calenda a “Otto e mezzo”: «Ma pretendere questo dal Pd – ammette – non è possibile». Tra le macerie elettorali dell’ex centrosinistra, forse anche Calenda pensa al “partito che serve all’Italia”, su cui il Movimento Roosevelt si confronterà il 14 luglio a Roma con politologi e sociologi. Tra gli invitati anche il sindaco milanese Beppe Sala e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. A Matteo Renzi, che in un tweet dopo il disastro dei ballottaggi alle amministrative prova a gettare la croce sul povero Martina («con tutto il rispetto, nel Pd manca una leadership: per questo mi riprendo la guida del partito»), Zingaretti risponde a stretto giro: troppo tardi, «un ciclo storico si è chiuso». Tradotto: abbiamo sbagliato tutto, Renzi in primis. Primo errore, capitale: il Pd ha preso per cretini gli italiani spaventati dalla crisi. «Salvini invece li ha saputi ascoltare», dice Calenda, «e questo è il suo grande merito». Infatti, per Gioele Magaldi, il vero progressista sulla scena, oggi, è proprio il leader della Lega.
Ormai l’ha capito anche Calenda: il futuro di Renzi è irrilevante. L’ex premier fiorentino? «E’ un personaggio che, con un po’ di smalto comunicativo, ha coperto la continuità sostanziale con i governi che da Monti a Gentiloni si sono susseguiti nella storia di questoCarlo Calenda paese», dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, fotografando la crisi di un centrosinistra che ormai è tale solo di nome. «L’unica cosa che Renzi potrebbe fare – aggiunge Magaldi – sarebbe dimettersi, magari anche da senatore, e passare un intenso periodo di studi». Un consiglio? «Studi l’astrologia, come fanno tuttora i capi di Stato e di governo. Se si impegnasse, scoprirebbe che il suo quadro astrale è funestato da questa sorta di cecità e sordità: non si rende conto di quanto lo circonda, vive in una sua dimensione parallela». Non si accorge, Renzi, che ormai potrebbe solo collezionare altre sconfitte: «La gente lo ha bocciato, vede in lui il sigillo del perdente e dello sciagurato chiacchierone, che ha dissipato il consenso illusorio ottenuto a suo tempo». Certo dal tunnel non si esce con Martina, «che non a caso è incolore come gli altri renziani: chi è mediocre – infierisce Magaldi – tende sempre a circondarsi di persone ancora più mediocri, per risaltare un po’». In realtà servirebbero «un leader ricco di appeal, energico, e una classe dirigente con una nuova narrativa».
Lo sa benissimo anche Calenda, che infatti archivia Renzi – ma al tempo stesso innalza l’ectoplasmatico Gentiloni come vessillo del riscatto dell’ipotetico centrosinistra. Leader carismatico e nuova narrativa? Eccoli: Matteo Salvini e la sua Lega, che porta in Parlamento l’economista progressista Alberto Bagnai e prova a riscrivere l’agenda europea, archiviando l’orrore neoliberale del rigore fin qui sostenuto dal centrosinistra, Pd in testa. Vogliamo smetterla con la commedia degli equivoci? «Siamo nella Terza Repubblica, le vecchie etichette non contano più», sottolinea Magaldi, esponente del circuito massonico internazionale progressista che veglia sul tentativo del governo “gialloverde”, visto come possibile apripista della discontinuità da imporre all’Ue, in nome della sovranità democratica. Severo il giudizio di Magaldi sugli alfieri dell’ex sinistra in piena rottamazione: «Nel quadro politico delle grandi sfide che il governo Conte, questa nuova maggioranza e l’Italia si trovano ad Martina e Renziaffrontare in ambito internazionale, ciò che fa o non fa Matteo Renzi è irrilevante, così come ciò che fa o non fa un centrosinistra che non voglia ripensarsi».
Non solo nel Pd, ma anche in “Liberi e Uguali” e in altre aree del sedicente centrosinistra, ancora si ragiona in termini di rigenerazione della sinistra e del centrosinistra. «E’ una prospettiva sbagliata», taglia corto il presidente del Movimento Roosevelt: «Sono cadute, queste categorie, di fronte al giudizio impietoso del popolo sovrano». Ovvero: «Il popolo non vuole più sentir parlare di centrosinistra e centrodestra, perché entrambi lo hanno deluso, nello svolgimento della Seconda Repubblica. Vuole sentire più sostanza e meno etichette formali, che finiscono per nascondere ambivalenze e ambiguità». Infatti: «E’ osceno che un partito e una coalizione di centrosinistra poi sposino le teorie neoliberiste che sono classiche dell’ultra-destra economica». Per contro, «è strano, stravagante, che partiti accreditati come “di centrodestra”, come la Lega, si dotino di un paradigma economico e programmatico post-keynesiano, che è tipico, semmai, in termini novecenteschi, proprio dei partiti della sinistra socialista, democratica, liberale». Quindi è in atto un capovolgimento assoluto, sintetizza Magaldi, «e la gente vuole sentire parlare di sostanza – non di etichette». Matteo Renzi? «Riposi in pace, con Martina e gli altri: vadano a farsi un giro di pista». Il Pd? Potrebbe risorgere solo con un dibattito interno lacerante e sincero, «se solo le prime file attuali – che sono state le seconde, terze e quarte file fino a poco tempo fa – non fossero composte di mediocri, che non hanno una sola idea per rilanciare il partito».
Eppure, ci sono elettori che non si sentiranno mai rappresentati dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, hanno bisogno di nuove “case” politiche. «Non li poteva aiutare Martina e non li può certo aiutare Renzi, tantomeno Grasso con Bersani e D’Alema». Il forum sul “partito che serve all’Italia”, socialista e liberale, potrebbe anche ragionare su come si possa aiutare questo processo di “morte e resurrezione” del Pd, e in quale forma. L’importante è sgombrare il campo dagli equivoci: in Italia come in Europa, dice, le “famiglie” dei socialisti e dei popolari sono le responsabili di questo sfascio politico (e anche di appeal) della Disunione Europea». Vogliamo ammetterlo? In Italia, continua Magaldi, ai microfoni di David Gramiccioli, queste “famiglie” politiche sono allo sbando. Lo è il centrosinistra, mentre l’area popolare non sussiste (“non pervenuta”, letteralmente). Forza Italia? «Certo, milita nel Partito Popolare Europeo, ma se non ci fosse il traino psicologico e materiale della Lega sarebbe già estinta – come peraltro rischia di estinguersi il Pd». Quindi, attenzione: per chi non se ne fosse ancora accorto, «siamo nella Terza Repubblica, nulla sarà più come prima». E’ di questo avviso Zingaretti, che secondo Magaldi «dice cose ineccepibili, sul piano Nicola Zingarettiformale», così come lo stesso Giuseppe Sala, sindaco di Milano, «altro amministratore locale che, di questi tempi, si è preoccupato del futuro del Pd e anche di un’area che percepisce se stessa come “di sinistra” ma, come nota Zingaretti, ha perso il quadro d’insieme».
Per l’appunto: cosa significa essere progressisti, oggi? Basta dire “sono nel Pd”, oppure “sono in Leu” con ex comunisti, ex Pd, ex Pds, ex Ds, ex Margherita, e allora sono un progressista? No, ovviamente: «Dimmi piuttosto qual è il tuo pensiero economico», ragiona Magaldi. «Dimmi cosa vuoi fare per promuovere il lavoro, dimmi qual è la tua visione dei rapporti internazionali dell’Italia, dimmi qual è la tua visione di sviluppo del paese. Sarà quello a dire se sei un progressista o se sei un conservatore, se lavori – consapevolmente o meno – al soldo di gruppi neo-aristocratici apolidi, o se lavori per chi vuole implementare democrazia a livello globale e locale». Ma attenzione, avverte Magaldi: il “partito che serve all’Italia” non deve essere “contro” questo o quello. «Nel momento in cui si va a ricostruire il Pd o altre aree di sedicente centrosinistra, non si può ragionare “contro” il Movimento 5 Stelle, “contro” la Lega e “contro” questo governo. Bisogna passare a un’altra fase, nella quale si propongono dei soggetti politici “per” fare delle cose. Se poi il fare queste cose differenza o accomuna ad altre forze politiche, lo si vede sul campo». Insiste il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna passare dalle parole alle cose, dall’apparenza alla sostanza». Ovvero: «Chi vuole costruire qualcosa non lo deve fare “contro” qualcuno». Pessimo esempio, lo squallido spettacolo dei reduci del sedicente centrosinistra che fanno il tiro al bersaglio, sui media, sparando sul neo-ministro dell’interno e leader della Lega.
«Bisogna che la si smetta – scandisce Magaldi – con questa retorica per cui, ad esempio, il lucidissimo e coraggioso Matteo Salvini, che ha fatto una grandissima maturazione politica, viene svillaneggiato quotidianamente da pennivendoli di un regime ormai decadente, che lo dipingono come xenofobo, fascista e razzista, ostile agli zingari e agli islamici». Accuse completamente infondate: «Se si va a vedere la sostanza delle parole e delle azioni di Salvini, si scopre che non c’è nulla di tutto questo». In più, chi spara sul leader leghista – secondo Magaldi – sta sparando sull’Italia: «Si sbaglia in modo clamoroso a demonizzare questo politico, e insieme a lui una classe dirigente che si è assunta l’onere – davvero gravoso – di ridare all’Italia un qualche posto dignitoso nel contesto internazionale ed europeo». Addirittura, per Magaldi, Matteo Salvini «è il primo politico italiano del XXI secolo che abbia la statura dello statista, con tutti i limiti». Certo, ha un passato criticabilissimo:«Il Salvini che è stato consigliere comunale a Milano e che ha militato nella Lega di Bossi e Maroni non svettava né per originalità di pensiero né per Matteo Salviniparticolare spessore nelle proposte politiche. Difendeva cose indifendibili e aveva atteggiamenti sguaiati, tipici della Lega delle origini – che qualche buona istanza, comunque, ce l’aveva». Ma poi, bisogna ammetterlo, è nato il “nuovo” Salvini: quello che oggi gli eurocrati temono.
«Questo Salvini si è strutturato, si è messo in discussione con umiltà e abnegazione, si è messo a studiare politica ed economia seriamente», sostiene Magaldi. «Ha dato l’avallo a una scuola politica di prim’ordine diretta da Armando Siri, attuale sottosegretario alle infrastrutture e ai trasporti – scuola in cui ha insegnato Nino Galloni, mentre la regia tecnica è di un altro “rooseveltiano” come Aldo Storti, un raffinatissimo intellettuale che mette insieme cultura scientifica e cultura umanistica». Salvini? «S’è messo in una traiettoria che, se continua così, lo porterà sicuramente a essere uno dei protagonisti della scena politica, non solo italiana ma europea». Salvini “progressista”? «Oggi – insiste Magaldi – si può essere progressisti se si ama la libertà, la democrazia sostanziale, con un approccio social-liberale alle questioni che riguardano la cittadinanza». Ancora: «Si può essere progressisti se si guarda alla tradizione prendendo ciò che c’è di meglio, però aprendosi alle novità secondo coscienza». Le idee, continua Magaldi, si possono cambiare e migliorare. «Salvini lo ha fatto, e in questo senso è senz’altro un progressista: è progredito sulla sua storia, ha cambiato quello che doveva cambiare mantenendo la passione iniziale. E oggi ha sostenuto Savona, dopo aver portato in Parlamento personaggi come Bagnai e Borghi. Sta portando il meglio del pensiero economico italiano nelle stanze del potere».
Ovvio che gli sparino addosso, ogni giorno, i rottami di un establishment – sconfitto alle elezioni – che ha messo in secondo piano gli italiani per obbedire a diktat stranieri, come tragicamente ammesso dallo stesso Sergio Mattarella, nello sbarrare la strada a Paolo Savona per il timore dello spread, cioè il ricatto della finanza privata, manovrata da massoni neo-aristocratici. Un’imposizione inaudita e vessatoria, ai danni dell’autorità (vistosamente dimezzata) delle istituzioni repubblicane. E’ a questo, che Salvini e Di Maio si sono opposti, forti del mandato popolare che sorregge il governo Conte, approvato da oltre il 60% degli italiani (ma la stima è prudente, perché a tifare per i “gialloverdi” è anche Fratelli d’Italia, senza contare la non-opposizione dell’elettorato berlusconiano). Reddito di cittadinanza, meno tasse e pensioni dignitose: non è progressista, il “contratto” di governo? Perché piace, agli italiani? E perché gli elettori hanno appena sfrattato il Pd anche dalle Regioni rosse? Evidente: il centrosinistra ha creato disoccupazione in ossequio ai diktat dell’Ue, ha alzato le tasse per reggere la gestioneGioele Magaldi finanziaria dell’euro e, sempre per lo stesso motivo, ha ingoiato il Fiscal Compact e varato l’abominevole riforma Fornero, tradendo anche i pensionati.
Salvini, l’asso pigliatutto di questa interminabile stagione elettorale, forse sta anche facendo da scudo umano al governo Conte: è il parafulmine (innaturale) di ogni gazzarra scatenata dagli sconfitti, e dai media loro alleati, che non trovano di meglio che attaccare il ministro dell’interno sui migranti, sui Rom, sull’Islam. Gioele Magaldi oggi difende Salvini su tutta la linea: «E’ uno che – sulla vicenda dei Rom e su quella dei migranti – non ha affatto detto parole di discriminazione. Ha chiesto, per l’ambiente sociale dei Rom, anche una tutela dei minori, spesso abusati perché privati dei diritti dell’infanzia. Che c’è di strano nel proporre un censimento, come per tutti gli altri italiani? Salvini ha detto semplicemente che vuole introdurre anche lì un principio di legalità, com’è normale per un neo-ministro degli interni». Idem per gli islamici: «La mistificazione regna totale, sulle parole di Salvini. Titoloni sul fatto che chiude le moschee, facendo una crociata anti-islamica, mentre si limita a pretendere che le leggi laiche dello Stato stiano al di sopra di qualsiasi legge religiosa. E non c’è solo un fanatismo islamico, ci sono anche integralismi ebraici e cattolici». E invece, ogni volta che Salvini apre bocca «le vestali del finto progressismo si allarmano, si stracciano le vesti e vengono a fare questo piagnisteo isterico, che in realtà denuncia il loro senso di frustrazione e impotenza». Si vuole rimettere in piedi la cultura progressista? Meglio non sparare, allora, sul progressista Salvini: che, da statista – ribadisce Magaldi – sta lavorando innanzitutto per l’Italia.
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Magaldi: Renzi riposi in pace, il progressista oggi è Salvini
Scritto il 26/6/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
«I progressisti devono capire la gente: il mondo va verso situazioni molto dure e le persone chiedono, giustamente, protezione. Invece, sino ad oggi, il Pd ha trattato le persone che hanno paura come se fossero imbecilli». Viva la sincerità, anche se fuori tempo massimo. Suonano comunque lucide, finalmente, le parole dell’ex manager Ferrari e poi ministro post-renziano Carlo Calenda, nipote di Luigi Comencini, approdato al Pd dopo l’esordio politico prima con Montezemolo e poi con Monti. «Dobbiamo dar vita ad un progetto con nuove parole», dice Calenda a “Otto e mezzo”: «Ma pretendere questo dal Pd – ammette – non è possibile». Tra le macerie elettorali dell’ex centrosinistra, forse anche Calenda pensa al “partito che serve all’Italia”, su cui il Movimento Roosevelt si confronterà il 14 luglio a Roma con politologi e sociologi. Tra gli invitati anche il sindaco milanese Beppe Sala e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. A Matteo Renzi, che in un tweet dopo il disastro dei ballottaggi alle amministrative prova a gettare la croce sul povero Martina («con tutto il rispetto, nel Pd manca una leadership: per questo mi riprendo la guida del partito»), Zingaretti risponde a stretto giro: troppo tardi, «un ciclo storico si è chiuso». Tradotto: abbiamo sbagliato tutto, Renzi in primis. Primo errore, capitale: il Pd ha preso per cretini gli italiani spaventati dalla crisi. «Salvini invece li ha saputi ascoltare», dice Calenda, «e questo è il suo grande merito». Infatti, per Gioele Magaldi, il vero progressista sulla scena, oggi, è proprio il leader della Lega.
Ormai l’ha capito anche Calenda: il futuro di Renzi è irrilevante. L’ex premier fiorentino? «E’ un personaggio che, con un po’ di smalto comunicativo, ha coperto la continuità sostanziale con i governi che da Monti a Gentiloni si sono susseguiti nella storia di questoCarlo Calenda paese», dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, fotografando la crisi di un centrosinistra che ormai è tale solo di nome. «L’unica cosa che Renzi potrebbe fare – aggiunge Magaldi – sarebbe dimettersi, magari anche da senatore, e passare un intenso periodo di studi». Un consiglio? «Studi l’astrologia, come fanno tuttora i capi di Stato e di governo. Se si impegnasse, scoprirebbe che il suo quadro astrale è funestato da questa sorta di cecità e sordità: non si rende conto di quanto lo circonda, vive in una sua dimensione parallela». Non si accorge, Renzi, che ormai potrebbe solo collezionare altre sconfitte: «La gente lo ha bocciato, vede in lui il sigillo del perdente e dello sciagurato chiacchierone, che ha dissipato il consenso illusorio ottenuto a suo tempo». Certo dal tunnel non si esce con Martina, «che non a caso è incolore come gli altri renziani: chi è mediocre – infierisce Magaldi – tende sempre a circondarsi di persone ancora più mediocri, per risaltare un po’». In realtà servirebbero «un leader ricco di appeal, energico, e una classe dirigente con una nuova narrativa».
Lo sa benissimo anche Calenda, che infatti archivia Renzi – ma al tempo stesso innalza l’ectoplasmatico Gentiloni come vessillo del riscatto dell’ipotetico centrosinistra. Leader carismatico e nuova narrativa? Eccoli: Matteo Salvini e la sua Lega, che porta in Parlamento l’economista progressista Alberto Bagnai e prova a riscrivere l’agenda europea, archiviando l’orrore neoliberale del rigore fin qui sostenuto dal centrosinistra, Pd in testa. Vogliamo smetterla con la commedia degli equivoci? «Siamo nella Terza Repubblica, le vecchie etichette non contano più», sottolinea Magaldi, esponente del circuito massonico internazionale progressista che veglia sul tentativo del governo “gialloverde”, visto come possibile apripista della discontinuità da imporre all’Ue, in nome della sovranità democratica. Severo il giudizio di Magaldi sugli alfieri dell’ex sinistra in piena rottamazione: «Nel quadro politico delle grandi sfide che il governo Conte, questa nuova maggioranza e l’Italia si trovano ad Martina e Renziaffrontare in ambito internazionale, ciò che fa o non fa Matteo Renzi è irrilevante, così come ciò che fa o non fa un centrosinistra che non voglia ripensarsi».
Non solo nel Pd, ma anche in “Liberi e Uguali” e in altre aree del sedicente centrosinistra, ancora si ragiona in termini di rigenerazione della sinistra e del centrosinistra. «E’ una prospettiva sbagliata», taglia corto il presidente del Movimento Roosevelt: «Sono cadute, queste categorie, di fronte al giudizio impietoso del popolo sovrano». Ovvero: «Il popolo non vuole più sentir parlare di centrosinistra e centrodestra, perché entrambi lo hanno deluso, nello svolgimento della Seconda Repubblica. Vuole sentire più sostanza e meno etichette formali, che finiscono per nascondere ambivalenze e ambiguità». Infatti: «E’ osceno che un partito e una coalizione di centrosinistra poi sposino le teorie neoliberiste che sono classiche dell’ultra-destra economica». Per contro, «è strano, stravagante, che partiti accreditati come “di centrodestra”, come la Lega, si dotino di un paradigma economico e programmatico post-keynesiano, che è tipico, semmai, in termini novecenteschi, proprio dei partiti della sinistra socialista, democratica, liberale». Quindi è in atto un capovolgimento assoluto, sintetizza Magaldi, «e la gente vuole sentire parlare di sostanza – non di etichette». Matteo Renzi? «Riposi in pace, con Martina e gli altri: vadano a farsi un giro di pista». Il Pd? Potrebbe risorgere solo con un dibattito interno lacerante e sincero, «se solo le prime file attuali – che sono state le seconde, terze e quarte file fino a poco tempo fa – non fossero composte di mediocri, che non hanno una sola idea per rilanciare il partito».
Eppure, ci sono elettori che non si sentiranno mai rappresentati dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, hanno bisogno di nuove “case” politiche. «Non li poteva aiutare Martina e non li può certo aiutare Renzi, tantomeno Grasso con Bersani e D’Alema». Il forum sul “partito che serve all’Italia”, socialista e liberale, potrebbe anche ragionare su come si possa aiutare questo processo di “morte e resurrezione” del Pd, e in quale forma. L’importante è sgombrare il campo dagli equivoci: in Italia come in Europa, dice, le “famiglie” dei socialisti e dei popolari sono le responsabili di questo sfascio politico (e anche di appeal) della Disunione Europea». Vogliamo ammetterlo? In Italia, continua Magaldi, ai microfoni di David Gramiccioli, queste “famiglie” politiche sono allo sbando. Lo è il centrosinistra, mentre l’area popolare non sussiste (“non pervenuta”, letteralmente). Forza Italia? «Certo, milita nel Partito Popolare Europeo, ma se non ci fosse il traino psicologico e materiale della Lega sarebbe già estinta – come peraltro rischia di estinguersi il Pd». Quindi, attenzione: per chi non se ne fosse ancora accorto, «siamo nella Terza Repubblica, nulla sarà più come prima». E’ di questo avviso Zingaretti, che secondo Magaldi «dice cose ineccepibili, sul piano Nicola Zingarettiformale», così come lo stesso Giuseppe Sala, sindaco di Milano, «altro amministratore locale che, di questi tempi, si è preoccupato del futuro del Pd e anche di un’area che percepisce se stessa come “di sinistra” ma, come nota Zingaretti, ha perso il quadro d’insieme».
Per l’appunto: cosa significa essere progressisti, oggi? Basta dire “sono nel Pd”, oppure “sono in Leu” con ex comunisti, ex Pd, ex Pds, ex Ds, ex Margherita, e allora sono un progressista? No, ovviamente: «Dimmi piuttosto qual è il tuo pensiero economico», ragiona Magaldi. «Dimmi cosa vuoi fare per promuovere il lavoro, dimmi qual è la tua visione dei rapporti internazionali dell’Italia, dimmi qual è la tua visione di sviluppo del paese. Sarà quello a dire se sei un progressista o se sei un conservatore, se lavori – consapevolmente o meno – al soldo di gruppi neo-aristocratici apolidi, o se lavori per chi vuole implementare democrazia a livello globale e locale». Ma attenzione, avverte Magaldi: il “partito che serve all’Italia” non deve essere “contro” questo o quello. «Nel momento in cui si va a ricostruire il Pd o altre aree di sedicente centrosinistra, non si può ragionare “contro” il Movimento 5 Stelle, “contro” la Lega e “contro” questo governo. Bisogna passare a un’altra fase, nella quale si propongono dei soggetti politici “per” fare delle cose. Se poi il fare queste cose differenza o accomuna ad altre forze politiche, lo si vede sul campo». Insiste il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna passare dalle parole alle cose, dall’apparenza alla sostanza». Ovvero: «Chi vuole costruire qualcosa non lo deve fare “contro” qualcuno». Pessimo esempio, lo squallido spettacolo dei reduci del sedicente centrosinistra che fanno il tiro al bersaglio, sui media, sparando sul neo-ministro dell’interno e leader della Lega.
«Bisogna che la si smetta – scandisce Magaldi – con questa retorica per cui, ad esempio, il lucidissimo e coraggioso Matteo Salvini, che ha fatto una grandissima maturazione politica, viene svillaneggiato quotidianamente da pennivendoli di un regime ormai decadente, che lo dipingono come xenofobo, fascista e razzista, ostile agli zingari e agli islamici». Accuse completamente infondate: «Se si va a vedere la sostanza delle parole e delle azioni di Salvini, si scopre che non c’è nulla di tutto questo». In più, chi spara sul leader leghista – secondo Magaldi – sta sparando sull’Italia: «Si sbaglia in modo clamoroso a demonizzare questo politico, e insieme a lui una classe dirigente che si è assunta l’onere – davvero gravoso – di ridare all’Italia un qualche posto dignitoso nel contesto internazionale ed europeo». Addirittura, per Magaldi, Matteo Salvini «è il primo politico italiano del XXI secolo che abbia la statura dello statista, con tutti i limiti». Certo, ha un passato criticabilissimo:«Il Salvini che è stato consigliere comunale a Milano e che ha militato nella Lega di Bossi e Maroni non svettava né per originalità di pensiero né per Matteo Salviniparticolare spessore nelle proposte politiche. Difendeva cose indifendibili e aveva atteggiamenti sguaiati, tipici della Lega delle origini – che qualche buona istanza, comunque, ce l’aveva». Ma poi, bisogna ammetterlo, è nato il “nuovo” Salvini: quello che oggi gli eurocrati temono.
«Questo Salvini si è strutturato, si è messo in discussione con umiltà e abnegazione, si è messo a studiare politica ed economia seriamente», sostiene Magaldi. «Ha dato l’avallo a una scuola politica di prim’ordine diretta da Armando Siri, attuale sottosegretario alle infrastrutture e ai trasporti – scuola in cui ha insegnato Nino Galloni, mentre la regia tecnica è di un altro “rooseveltiano” come Aldo Storti, un raffinatissimo intellettuale che mette insieme cultura scientifica e cultura umanistica». Salvini? «S’è messo in una traiettoria che, se continua così, lo porterà sicuramente a essere uno dei protagonisti della scena politica, non solo italiana ma europea». Salvini “progressista”? «Oggi – insiste Magaldi – si può essere progressisti se si ama la libertà, la democrazia sostanziale, con un approccio social-liberale alle questioni che riguardano la cittadinanza». Ancora: «Si può essere progressisti se si guarda alla tradizione prendendo ciò che c’è di meglio, però aprendosi alle novità secondo coscienza». Le idee, continua Magaldi, si possono cambiare e migliorare. «Salvini lo ha fatto, e in questo senso è senz’altro un progressista: è progredito sulla sua storia, ha cambiato quello che doveva cambiare mantenendo la passione iniziale. E oggi ha sostenuto Savona, dopo aver portato in Parlamento personaggi come Bagnai e Borghi. Sta portando il meglio del pensiero economico italiano nelle stanze del potere».
Ovvio che gli sparino addosso, ogni giorno, i rottami di un establishment – sconfitto alle elezioni – che ha messo in secondo piano gli italiani per obbedire a diktat stranieri, come tragicamente ammesso dallo stesso Sergio Mattarella, nello sbarrare la strada a Paolo Savona per il timore dello spread, cioè il ricatto della finanza privata, manovrata da massoni neo-aristocratici. Un’imposizione inaudita e vessatoria, ai danni dell’autorità (vistosamente dimezzata) delle istituzioni repubblicane. E’ a questo, che Salvini e Di Maio si sono opposti, forti del mandato popolare che sorregge il governo Conte, approvato da oltre il 60% degli italiani (ma la stima è prudente, perché a tifare per i “gialloverdi” è anche Fratelli d’Italia, senza contare la non-opposizione dell’elettorato berlusconiano). Reddito di cittadinanza, meno tasse e pensioni dignitose: non è progressista, il “contratto” di governo? Perché piace, agli italiani? E perché gli elettori hanno appena sfrattato il Pd anche dalle Regioni rosse? Evidente: il centrosinistra ha creato disoccupazione in ossequio ai diktat dell’Ue, ha alzato le tasse per reggere la gestioneGioele Magaldi finanziaria dell’euro e, sempre per lo stesso motivo, ha ingoiato il Fiscal Compact e varato l’abominevole riforma Fornero, tradendo anche i pensionati.
Salvini, l’asso pigliatutto di questa interminabile stagione elettorale, forse sta anche facendo da scudo umano al governo Conte: è il parafulmine (innaturale) di ogni gazzarra scatenata dagli sconfitti, e dai media loro alleati, che non trovano di meglio che attaccare il ministro dell’interno sui migranti, sui Rom, sull’Islam. Gioele Magaldi oggi difende Salvini su tutta la linea: «E’ uno che – sulla vicenda dei Rom e su quella dei migranti – non ha affatto detto parole di discriminazione. Ha chiesto, per l’ambiente sociale dei Rom, anche una tutela dei minori, spesso abusati perché privati dei diritti dell’infanzia. Che c’è di strano nel proporre un censimento, come per tutti gli altri italiani? Salvini ha detto semplicemente che vuole introdurre anche lì un principio di legalità, com’è normale per un neo-ministro degli interni». Idem per gli islamici: «La mistificazione regna totale, sulle parole di Salvini. Titoloni sul fatto che chiude le moschee, facendo una crociata anti-islamica, mentre si limita a pretendere che le leggi laiche dello Stato stiano al di sopra di qualsiasi legge religiosa. E non c’è solo un fanatismo islamico, ci sono anche integralismi ebraici e cattolici». E invece, ogni volta che Salvini apre bocca «le vestali del finto progressismo si allarmano, si stracciano le vesti e vengono a fare questo piagnisteo isterico, che in realtà denuncia il loro senso di frustrazione e impotenza». Si vuole rimettere in piedi la cultura progressista? Meglio non sparare, allora, sul progressista Salvini: che, da statista – ribadisce Magaldi – sta lavorando innanzitutto per l’Italia.
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Re: Diario della caduta di un regime.
..A QUESTO PUNTO LA DOMANDA AL FORUM E' (D'BBLIGO.<<<BCFR, SEMPRE ALL'OPERA ) D'OBBLIGO
CHI SARA' IL MUSSOLINI DEL TERZO MILLENNIO??????????????????????
Pinocchio Mussoloni ha avuto la sua occasione ma ha fallito.
Nello stesso tempo, la sua missione di far fallire il Pd è andata a segno.
La responsabilità di confondere l'ex elettorato di centrosinistra è tutta sua.
Come è tutta sua è la responsabilità di aver creato la necessità di votare M5S e Lega per gli operai di Terni e per l'elettorato della (Tscan<<<BCFR, SEMPRE ALL'OPERA ) Toscana e dell'Emilia.
Ma non bisogna dimenticare il Piano della rinascita democratica, del maestro venerabile della P2, LICIO GELLI.
Iniziato con la tessera P2 (1816), e tentato di completare dal DUCETTO DI RIGNANO SULL'ARNO, promuovendo con Silvietto il Referendum per la riforma costituzionale, poi bocciato dagli italiani il 4 dicembre 2016.
(Mom <<<BCFR, SEMPRE ALL'OPERA )
Non per lo specifico sulla materia, ma solo perchè si volevano liberare di MUSSOLONI, perchè aveva esagerato in tutto, non combinando assolutamente NIENTE.
MUSSOLONI, nei fatti ha spianato la strada all'altro Matteo.
Il gradasso di Milano.
Sarà lui il prossimo Mussolini del Terzo millennio??????????????
Mi è stata segnalato un intervento preoccupato di un ebrea, apparso sul Corriere della Sera, la settimana scorsa.
Come mi è stato segnalato dal sovraintendente di polizia che frequenta la libreria Feltrinelli di Milano, che la scorsa settimana si sono riuniti gli ebrei milanesi, compreso Gad Lerner, che hanno manifestato preoupazione dopo gli interventi sugli immigrati e successivamente i Rom.
Dicono gli ebrei milanesi:
"Dopo di loro tocca a noi"
A qualcuno questa paura sembra esagerata, ma nom dobbiamo mai dimenticare la storia degli ebrei europei negli anni trenta del secolo scorso.
Quando ti accadono certe cose, non si può dimenticare facilmente.
E quindi, nell'indifferenza generale come allora, gli ebrei milanesi si stanno preoccupando per la loro sorte, visto come si mettono le cose.
.....commentando sull'<<Avvenire>> del 18 febbraio 2017 le parole del celebre discorso in cui Salvini aveva detto:
<<Ci vuole una "pulizia di massa anche in Italia"....." via per via" quartiere per quartiere e "con le maniere forti" se serve>>.
Ecco il giudizio di Anna Foa<< Una pulizia di questo genere c'è già stata nella nostra Europa e ne abbiamo ancora la memoria fresca.>>
DALLA PREFAZIONE DI TOMASO MONTANARI
COME NON POSSONO ESSERE PREOCCUPATE LE MINORANZE EBREE D'ITALIA?????
CHI SARA' IL MUSSOLINI DEL TERZO MILLENNIO??????????????????????
Pinocchio Mussoloni ha avuto la sua occasione ma ha fallito.
Nello stesso tempo, la sua missione di far fallire il Pd è andata a segno.
La responsabilità di confondere l'ex elettorato di centrosinistra è tutta sua.
Come è tutta sua è la responsabilità di aver creato la necessità di votare M5S e Lega per gli operai di Terni e per l'elettorato della (Tscan<<<BCFR, SEMPRE ALL'OPERA ) Toscana e dell'Emilia.
Ma non bisogna dimenticare il Piano della rinascita democratica, del maestro venerabile della P2, LICIO GELLI.
Iniziato con la tessera P2 (1816), e tentato di completare dal DUCETTO DI RIGNANO SULL'ARNO, promuovendo con Silvietto il Referendum per la riforma costituzionale, poi bocciato dagli italiani il 4 dicembre 2016.
(Mom <<<BCFR, SEMPRE ALL'OPERA )
Non per lo specifico sulla materia, ma solo perchè si volevano liberare di MUSSOLONI, perchè aveva esagerato in tutto, non combinando assolutamente NIENTE.
MUSSOLONI, nei fatti ha spianato la strada all'altro Matteo.
Il gradasso di Milano.
Sarà lui il prossimo Mussolini del Terzo millennio??????????????
Mi è stata segnalato un intervento preoccupato di un ebrea, apparso sul Corriere della Sera, la settimana scorsa.
Come mi è stato segnalato dal sovraintendente di polizia che frequenta la libreria Feltrinelli di Milano, che la scorsa settimana si sono riuniti gli ebrei milanesi, compreso Gad Lerner, che hanno manifestato preoupazione dopo gli interventi sugli immigrati e successivamente i Rom.
Dicono gli ebrei milanesi:
"Dopo di loro tocca a noi"
A qualcuno questa paura sembra esagerata, ma nom dobbiamo mai dimenticare la storia degli ebrei europei negli anni trenta del secolo scorso.
Quando ti accadono certe cose, non si può dimenticare facilmente.
E quindi, nell'indifferenza generale come allora, gli ebrei milanesi si stanno preoccupando per la loro sorte, visto come si mettono le cose.
.....commentando sull'<<Avvenire>> del 18 febbraio 2017 le parole del celebre discorso in cui Salvini aveva detto:
<<Ci vuole una "pulizia di massa anche in Italia"....." via per via" quartiere per quartiere e "con le maniere forti" se serve>>.
Ecco il giudizio di Anna Foa<< Una pulizia di questo genere c'è già stata nella nostra Europa e ne abbiamo ancora la memoria fresca.>>
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Il Pd è finito perché ha scelto la finanza archiviando Keynes
Scritto il 11/7/18 • nella Categoria: idee Condividi
L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.
Tra i tanti peccati che ha da scontare, scrive Da Rold, l’ex sinistra italiana «deve fare i conti con l’accettazione quasi acritica del “pensiero unico” neoliberista, scambiato per modernità». Nei dettagli, deve scontare il via libera alla nuova funzione della banca dopo l’abbandono del Glass-Steagall Act voluto da Roosevelt per separare nettamente il credito produttivo dalla finanza speculativa. L’ex sinistra, aggiunge l’analista, «non può dimenticarsi della concezione di un capitalismo basato su un’impresa responsabile, che cura innovazione, investimenti e occupazione». Tantomeno la sinistra poi dimenticarsi «del welfare, dei diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotte sindacali», all’epoca in cui si puntava alla piena occupazione. «Il capitalismo che ha conosciuto e con cui si è confrontata la sinistra europea, dopo l’ultimo conflitto mondiale, era il capitalismo già corretto da Keynes, dal welfare di Lord Beveridge, dalla lezione della grande crisi del 1929 risolta da Roosevelt», scrive Da Rold. «E’ vero che la sinistra italiana, unica in Occidente, straparlava di Lenin più ancora che di Marx e conosceva poco Keynes. Ma nella sostanza, il boom e il benessere vennero proprio dalle dottrine e dalle pratiche keynesiane».
Quello che è avvenuto negli ultimi anni era impensabile solo trent’anni fa, aggiunge Da Rold sul “Sussidiario”. «Mentre la sinistra socialdemocratica europea si ingolfava in sperimentazioni di sempre maggiore apertura neoliberista, la sinistra italiana abbandonava addirittura di colpo il marxismo post-classico per abbracciare il neoliberismo in versione monetarista. Un delirio». E non capiva, il centrosinistra, che «anche se Keynes avrebbe potuto essere superato e aggiornato, era lui il vero bersaglio della nuova destra rampante, non Lenin o Marx». Parole al vento: il risultato sono state «privatizzazioni forzate e, in molti casi, demenziali». Tutto questo, senza contare «le tappe forzate della globalizzazione, la crisi del 2007, l’assetto istituzionale italiano che non è mai stato aggiornato, con le procure interventiste nel campo politico che si muovono come feudi indipendenti e spesso in aperta opposizione all’esecutivo». Che cosa ha fatto, di fronte a tutto questo, la sedicente sinistra? «E’ stata a guardare, passivamente, godendo di una rendita di egemonia spesso usurpata».
Poi, nel momento in cui questa egemonia si è frantumata, «la sinistra non si è neppure scomposta a ricercare le cause di una crisi storica, a rivedere e correggere alcune concezioni, a cercare di comprendere le nuove ragioni di un potenziale e molto ampio popolo di sinistra, che si è moltiplicato per l’aumento delle povertà, delle diseguaglianze sociali e della disoccupazione». La sedicente sinistra italiana «si è fermata a crogiolarsi nella subordinazione al potere dettata dalla grande finanza internazionale e da alcuni poteri istituzionali del paese», accusa Da Rold. Lo spettacolo dell’ultima assemblea Pd? Penoso. «E’ proprio impossibile che si possa avviare, anche con ritardo, una autocritica collettiva, non distruttiva, affrontando i nuovi problemi sociali, nazionali e internazionali? Si è ancora in grado di fare un congresso a tesi, come si è sempre fatto?». Se non si ripensa al passato, non si guarda al presente e non si pensa il futuro – conclude Da Rold – si è destinati a restare al palo. «E’ questa l’impressione che oggi comunica il Partito Democratico. E sembra che resti poco tempo per rimediare».
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Il Pd è finito perché ha scelto la finanza archiviando Keynes
Scritto il 11/7/18 • nella Categoria: idee Condividi
L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.
Tra i tanti peccati che ha da scontare, scrive Da Rold, l’ex sinistra italiana «deve fare i conti con l’accettazione quasi acritica del “pensiero unico” neoliberista, scambiato per modernità». Nei dettagli, deve scontare il via libera alla nuova funzione della banca dopo l’abbandono del Glass-Steagall Act voluto da Roosevelt per separare nettamente il credito produttivo dalla finanza speculativa. L’ex sinistra, aggiunge l’analista, «non può dimenticarsi della concezione di un capitalismo basato su un’impresa responsabile, che cura innovazione, investimenti e occupazione». Tantomeno la sinistra poi dimenticarsi «del welfare, dei diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotte sindacali», all’epoca in cui si puntava alla piena occupazione. «Il capitalismo che ha conosciuto e con cui si è confrontata la sinistra europea, dopo l’ultimo conflitto mondiale, era il capitalismo già corretto da Keynes, dal welfare di Lord Beveridge, dalla lezione della grande crisi del 1929 risolta da Roosevelt», scrive Da Rold. «E’ vero che la sinistra italiana, unica in Occidente, straparlava di Lenin più ancora che di Marx e conosceva poco Keynes. Ma nella sostanza, il boom e il benessere vennero proprio dalle dottrine e dalle pratiche keynesiane».
Quello che è avvenuto negli ultimi anni era impensabile solo trent’anni fa, aggiunge Da Rold sul “Sussidiario”. «Mentre la sinistra socialdemocratica europea si ingolfava in sperimentazioni di sempre maggiore apertura neoliberista, la sinistra italiana abbandonava addirittura di colpo il marxismo post-classico per abbracciare il neoliberismo in versione monetarista. Un delirio». E non capiva, il centrosinistra, che «anche se Keynes avrebbe potuto essere superato e aggiornato, era lui il vero bersaglio della nuova destra rampante, non Lenin o Marx». Parole al vento: il risultato sono state «privatizzazioni forzate e, in molti casi, demenziali». Tutto questo, senza contare «le tappe forzate della globalizzazione, la crisi del 2007, l’assetto istituzionale italiano che non è mai stato aggiornato, con le procure interventiste nel campo politico che si muovono come feudi indipendenti e spesso in aperta opposizione all’esecutivo». Che cosa ha fatto, di fronte a tutto questo, la sedicente sinistra? «E’ stata a guardare, passivamente, godendo di una rendita di egemonia spesso usurpata».
Poi, nel momento in cui questa egemonia si è frantumata, «la sinistra non si è neppure scomposta a ricercare le cause di una crisi storica, a rivedere e correggere alcune concezioni, a cercare di comprendere le nuove ragioni di un potenziale e molto ampio popolo di sinistra, che si è moltiplicato per l’aumento delle povertà, delle diseguaglianze sociali e della disoccupazione». La sedicente sinistra italiana «si è fermata a crogiolarsi nella subordinazione al potere dettata dalla grande finanza internazionale e da alcuni poteri istituzionali del paese», accusa Da Rold. Lo spettacolo dell’ultima assemblea Pd? Penoso. «E’ proprio impossibile che si possa avviare, anche con ritardo, una autocritica collettiva, non distruttiva, affrontando i nuovi problemi sociali, nazionali e internazionali? Si è ancora in grado di fare un congresso a tesi, come si è sempre fatto?». Se non si ripensa al passato, non si guarda al presente e non si pensa il futuro – conclude Da Rold – si è destinati a restare al palo. «E’ questa l’impressione che oggi comunica il Partito Democratico. E sembra che resti poco tempo per rimediare».
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