IL MODELLO SOCIALE EUROPEO
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Re: IL MODELLO SOCIALE EUROPEO
PER UNA SINISTRA PENSANTE , Costruire una cultura politica che non c è DI SALVATORE BIASCO .
Prendendo spunto dal saggio di Salvatore Biasco :
Alcune considerazioni sul Liberalismo e sul Socialimo, sul modello Sociale Europeo.
( Parte 1 )
Il congresso del PD e il dibattito su Tonino Blair e il liberisimo in corso sul giornale L’Altro rendono molto attuale il saggio di Salvatore Biasco. .
In particolare per il congresso del PD il libro di Salvatore Biasco sembra un documento di PRE-TESI congressuali cioè un documento che viene prima delle tesi congressuali ma senza questo documento lo sviluppo delle future tesi congressuali sarebbero una ‘ mission impossibile’ .
Il saggio è suddiviso in 5 capitoli .
Il primo è intitolato Limiti della cultura liberale come cultura del centro sinistra.
Quale cultura politica per il PD quale cultura politica per il centro sinistra ?
Una cultura politica socialista socialdemocratica , una cultura per lo sviluppo del modello sociale europeo ( solidaristica ) o una cultura liberale ?
Biasco si domanda ma è proprio necessaria una cultura politica ?
Risponde Biasco ‘ le pluralità di storie politiche …..confluite nel nuovo partito (PD) rende per ora una incognita le ‘ OPZIONI CULTURALI ‘ di fondo.
Opzioni culturali a nostro avviso è una via di mezzo tra la ‘ cultura del centralismo democratico’ e la cultura siamo tutti compagni ed amici voliamoci tutti bene.
La prima opzione ‘ centralismo democratico’ ci riporta al comunismo terzointernazionalista ( il famoso ritorno al passato) mentre il voliamo tutti bene ci riporta al democraticismo americano senza opzioni culturali.
In questo contesto Biasco ‘ va da se che la cultura politica del centro sinistra non potrà essere un monolite e sarà comunque articolata al suo interno ( per questo ho preferito parlare di ‘ opzioni culturali’ ) ma queste ultime non possono non attenere a modi di pensare e interpretare il mondo ( paradigmi ) COESI .……che consenta di distinguere chi è dentro il perimetro di quell’ alveo culturale e chi no.
Per il centro sinistra il paradigma di riferimento può essere il liberalismo politico ed economico ?
Questo è il quesito che si pone il prof . Biasco .
Il termine liberalismo non è quello corretto a nostro avviso e andrebbe sostituito con il termine liberismo , quindi la domanda dovrebbe essere può essere il liberismo politico e economico ?
Ma la terminologia esatta dovrebbe essere …può essere il liberismo politico ed il neoliberismo la cultura del centro sinistra ?
Su Veltroni dice Biasco ‘ In una marcata direzione liberale sembrava muoversi l’ esordio di Veltroni come leader nel suo famoso discorso del lingotto al Lingotto ‘.
Una fondamentale dichiarazione programmatica di Veltroni ( stessa dichiarazione di Salvati all’ Infedele ) : rilasciata al Sole 24 ore del 21 gennaio 2009 ‘ IL PROBLEMA DELL’ ITALIA è che non ha mai avuto una storia riformista : NON C E’ MAI STATO NULLA DI PARAGONABILE A UNA THATCHER O A UN BLAIR ‘
povera Italia Non ha mai avuto una Thatcher !!
ma neanche in Italia non abbiamo avuto un riformista come Adolf Hitler negli ultimi 50 anni !!!
In Italia abbiamo ancora ebrei che vagano liberi nelle nostre città .
Qualcuno sembra che in un comizio parlando della storia riformista della Thatcher e di Hitler abbia detto : ‘ si apra una nuova grande stagione riformista in Italia , riapriamo il campo di concentramento di Fossoli !!’
Le riforme in Italia senza Thatcher ? troppi lacci e lacciuoli , in Italia abbiamo ancora il sindacato ma come siamo arretrati !!
PARADIGMA LIBERISTA e CULTURA SOCIALISTA LIBERTARIA.
La definizione di liberalismo data dal prof. Biasco sembra di impostazione anglosassone e non tiene conto della complessità ‘ italiota ‘ .
Dice Biasco ‘ (…il liberalismo ) ha significato rispetto dei diritti individuali , eguaglianza nei confronti della legge, merito, società aperta, eguaglianza delle opportunità, società giusta, universalismo’.
A nostro avviso questa impostazione sia metodologica che concettuale si rifà al tradizionale paradigma liberista pur nella versione blariana ( peraltro parzialmente abbondata dal suo teorico di riferimento Giddens).
Lo stesso errore a nostro avviso è stato fatto da parte del piccolo partito socialista italiano .
Il liberalismo di matrice SOCIALISTA cosi come si è sviluppato in Italia è altra cosa molto più complessa .
I riferimenti sono Proudhon e lo sviluppo del movimento anarchico, dell’ anarco - sindacalismo e dei movimenti cooperativi.
Il giovane Marx con l’ elaborazione della critica alle burocrazie, all’ autonomia della società civile e il ruolo dei processi conoscitivi e culturali per il controllo sociale dei mezzi di produzione.
Controverso è il socialismo liberale di Carlo Rosselli.
Norberto Bobbio nell’ introduzione al libro di Carlo Rosselli Socialismo Liberale individua il liberalismo come METODOLOGIA e il RIFIUTO DI ROSSELLI di aderire ad (NEO)LIBERISMO come SISTEMA : ‘ per ‘ metodo liberale’ Rosselli intende quello che oggi si dice correttamente ‘ metodo democratico’ che Rosselli definisce come ‘ un complesso di regole di giuoco che tutte le parti in lotta s’ impegnano a rispettare ; regole dirette ad assicurare la pacifica convivenza dei cittadini, delle classi, degli Stati, a contenere le lotte, fatali a anche desiderabili, entro limiti tollerabili, a consentire la successione al potere dei vari partiti, ad incanalare nella legalità le forze innovatrici via via insorgenti’.
Questo liberalismo elaborato poi da Noberto Bobbio con la critica alla mancanza di una teoria politica della democrazia da parte del marxismo e largamente condivisibile ma in Carlo Rosselli è solo UN APPRCCIO METODOLOGICO non c è teoria politica.
E NON C E’ TEORIA ECONOMICA NEOLIBERSTA , Rosselli incalzato dai marxisti anche revisionisti , (cit Bobbio ) ‘ riprendendo la distinzione fra liberalismo come sistema e come metodo, Rosselli respinge il primo, che incorpora nel (neo)liberalismo UN DETERMINATO SISTEMA ECONOMICO , IL CAPITALISMO, ( questo rifiuta Rosselli ndr ) accetta (invece) il secondo già descritto come metodologia per il rispetto delle regole ( di convivenza democratica ).
E sul versante socialismo cosa ci dice Carlo Rosselli ?
Qui c è il contenuto, qui la TEORIA POLITICA c è .
Ma si tratta veramente di poca cosa come giudizio di valore di chi scrive.
No al marxismo scientifico, no alla teoria del valore lavoro con argomentazioni da piccolo summer studentesco, no al grande revisionismo socialdemocratico tedesco, no al revisionismo marxista,
In ambito di analisi politica che a noi interessa in questa sede rimane del socialismo veramente poco, un socialismo senza Marx, un vago umanesimo sulla giustizia sociale e poco altro.
Per questo il socialismo in Europa è in crisi ed particolarmente acuta è la crisi del socialismo ma anche dell’ apparato concettuale e produttivo che risponde al modello sociale europeo che comprende oltre al socialismo alla socialdemocrazia scuole politiche sociali e solidaristiche.
Rimane comunque un errore accostare il Blarismo al Socialismo Liberale di Carlo Rosselli , il primo è di scuola neoliberista e mercantista il secondo pur vagheggiando un socialismo senza Marx non ha aderito all’ Economia di Mercato come paradigma ideologico liberista .
Il paradigma liberale cosi come si è sviluppato nel PD e anche nel centro sinistra è estraneo alla storia alla cultura e alle masse lavorative del centro sinistra, il fallimento del Blarismo anche con l’ attuale crisi economica è tragicamente conclamato, il socialismo liberale di Rosselli oltre alla metodologia democratica non riesce e non può andare di più , non ha strumenti concettuali di interpretazione critica della realtà .
Rimangono i filoni storici del socialismo libertario di Proudhon , del sindacalismo e del movimento cooperativo ed
il socialismo della critica dell’ economia politica, di egemonia culturale di gestione dei processi produttivi e sociali degli apparati teorici elaborato dal giovane Marx .
Questi 2 filoni storici sono stati dimenticati sotto l’ orgia neoliberista e blariani .
Il compito di tutto il centro sinistra è oggi misurarsi con queste progettualità , anche se è forse ‘ mission impossible’.
I LIMITI DELLA CULTURA LIBERALE COME CULTURA DEL CENTRO SINISTRA .
( Parte 1A).
Il prof. Biasco distingue politiche di liberalizzazione da ‘ una visione metafisica del neoliberismo ‘ e dal mercantismo.
Tre sono i drivers per un percorso di sviluppo di una economia della politica.
Il prof. Biasco le chiama le bussole .
Il primo driver è ‘ il benessere delle generazioni future ‘.
L’ agire politico si misura con il parametro ‘ cosa ne deriva alle generazioni che verranno ?
L’azione programmatica della politica presente si misura con l’incidenza del benessere ‘ sulle generazioni che verranno ‘.
Il secondo driver di sviluppo di una economia della politica è individuato dal prof. Biasco è ‘ l’obbiettivo della coesione sociale attorno al sistema‘
inteso come ‘ ricomporre lo scarto che esiste tra i principi che regolano di fatto l’organizzazione economico - sociale e il modo di sentire dei cittadini .
Il terzo driver è una governance mondiale dell’economia,
questa ‘ bussola’ è un po lontana a noi basterebbe una governance europea e su questo il prof. Biasco dedica nel suo saggio il capitolo : Una visione economica dei processi in soggezione verso il pensiero dominante . Il banco di prova europeo.
Venendo alla prima bussola il benessere delle generazioni future come guida della politica andrebbe focalizzato il luogo , la cultura del progetto/ideologia e la cultura del programma/fare .
Se la cultura di riferimento è la grande politica non vi è dubbio che il principio etico della politica non può che essere il benessere delle future generazioni.
E su questo è fondamentale costruire un senso di comunità ( vedi driver due ).
Ma le future generazioni nascono ….oggi, se una mamma chiude il bambino di un mese nella lavatrice o se il papa saluta il piccolo figlio e va al lavoro e finisce sotto una metropolitana ,è evidente che il senso della comunità e che l’ art. 1 della costituzione ( L’Italia è una Repubblica democratica, fondato sul lavoro ) si sono frantumati sotto l’orgia neoliberista di sinistra e di destra.
E’ necessario chiedersi se oltre alla cultura del benessere delle generazioni future non ci debba essere anche una cultura del benessere delle generazioni attuali che dovrebbero generare le generazioni future.
In periodi di crisi economica forse è meglio ricostruire una catena del benessere sociale partendo dal presente .
Qui subentra la cultura della ideologia come cultura dell’economia politica e anche una cultura del programma come cultura del fare mai parolaia mai fine a se stessa ( si pensi ad uno ‘strano’ antonio gramsci che chiacchierando sulla questione meridionale lanciava per la prima volta in un qualche forum la Banca Pubblica del Sud per essere precisi Banca per lo sviluppo del Mezzogiorno anno 2005 !!! ) .
La cultura dell’Economia Politica si misura con la definizione di ‘Breve Periodo’ e di ‘ Lungo Periodo’.
Se il compito etico della grande politica è quello di occuparsi delle generazioni future siamo sicuri che sia anche questo il compito della ‘scienza’ economica ?
L’economista Keynes rispondeva con l’ indimenticabile motto ‘ nel lungo periodo siamo tutti morti ‘.
Il ‘ breve periodo’ Keynesiano nulla c’ entra con le follie ‘trimestrali’ del capitalismo speculativo.
Nel capitolo ‘ una visione economica dei processi’ sarà possibile approfondire il concetto fondamentale in tempi di crisi economica di ‘ breve periodo ‘ keynesiano.
Le 8 problematiche della crisi economica o della crisi del centro sinistra ?
1) ‘ Tramonta l’ idea che i bisogni sociali dalla casa, al diritto allo studio, alla pensione alla sanità possano essere risolti su base individuale con l’intervento dei mercati finanziari’. ( cit Biasco) , caso clamorose è la privatizzazione delle case popolari di Milano con affitti quadruplicati , affitti non compatibili con normali stipendi.
2) ‘ si allarga il concetto di bene pubblico , le nazionalizzazioni bancarie….l’ interesse pubblico si estende ed abbraccia le grandi aziende non finanziarie ( es. Fiat) ,….il ritorno…della responsabilità pubblica nella stabilizzazione macroeconomica, vale a dire nella gestione della domanda globale a salvaguardia dei livelli di attività e di occupazione ( ma di questo parleremo dopo ) ( cit Biasco).
Fondamentale è il ruolo dello Stato ( italiano) in rapporto alle direttive europee.
( ma di questo parleremo piu avanti ) .
3) La crisi ha indubbiamente inferto un colpo all’economia di mercato, sia al convincimento che i mercati si autoregolano, sia che gli operatori agiscono sempre razionalmente. ( cit. Biaco) i valori di riferimento erano l’individualismo, il reddito individuale e il successo.
4) ‘ Non è indifferente che l’ epicentro della crisi siano gli USA,…. la sinistra italiana ( ma non solo ) ha avuto una fascinazione del modello economico che usciva da quella cultura; fascinazione alla quale sono da ascrivere le ragioni dell’ abdicazione da una battaglia culturale in sede di una costruzione europea, (cit Biasco) , non rimane che ricordare il ‘liberculo’ good bye europa di giavazzi alesina e la crisi conclamata della bocconi university ( per quanto riguarda l’area politica economica ed economia politica ) .
Non rimane che ricordare le ‘povere’ lobby neoliberiste foraggiate a 200.000 dollari l’anno per ‘ fondamentali ’ articoli giornalistici .
5) ‘La crisi e i suoi sviluppi fanno quindi tornare a parlare di ‘ capitalismo’ e ‘ non solo di sistema economico’ ………..non è possibile nasconderla dietro la tesi del superamento di tutte le ideologie. ( cit. Biasco).
‘ I cittadini non sono solo operatori economici, lavoratori, consumatori, risparmiatori, ovvero non sono solo attori del sistema economico. Sono prima di tutto cittadini che fanno parte di una comunità che dovrebbe riconoscere nello Stato un attore portatore di un interesse effettivamente e simbolicamente generale ‘ ( cit . Dau 1/11/2008 il sole24 ore)
Prendendo spunto dal saggio di Salvatore Biasco :
Alcune considerazioni sul Liberalismo e sul Socialimo, sul modello Sociale Europeo.
( Parte 1 )
Il congresso del PD e il dibattito su Tonino Blair e il liberisimo in corso sul giornale L’Altro rendono molto attuale il saggio di Salvatore Biasco. .
In particolare per il congresso del PD il libro di Salvatore Biasco sembra un documento di PRE-TESI congressuali cioè un documento che viene prima delle tesi congressuali ma senza questo documento lo sviluppo delle future tesi congressuali sarebbero una ‘ mission impossibile’ .
Il saggio è suddiviso in 5 capitoli .
Il primo è intitolato Limiti della cultura liberale come cultura del centro sinistra.
Quale cultura politica per il PD quale cultura politica per il centro sinistra ?
Una cultura politica socialista socialdemocratica , una cultura per lo sviluppo del modello sociale europeo ( solidaristica ) o una cultura liberale ?
Biasco si domanda ma è proprio necessaria una cultura politica ?
Risponde Biasco ‘ le pluralità di storie politiche …..confluite nel nuovo partito (PD) rende per ora una incognita le ‘ OPZIONI CULTURALI ‘ di fondo.
Opzioni culturali a nostro avviso è una via di mezzo tra la ‘ cultura del centralismo democratico’ e la cultura siamo tutti compagni ed amici voliamoci tutti bene.
La prima opzione ‘ centralismo democratico’ ci riporta al comunismo terzointernazionalista ( il famoso ritorno al passato) mentre il voliamo tutti bene ci riporta al democraticismo americano senza opzioni culturali.
In questo contesto Biasco ‘ va da se che la cultura politica del centro sinistra non potrà essere un monolite e sarà comunque articolata al suo interno ( per questo ho preferito parlare di ‘ opzioni culturali’ ) ma queste ultime non possono non attenere a modi di pensare e interpretare il mondo ( paradigmi ) COESI .……che consenta di distinguere chi è dentro il perimetro di quell’ alveo culturale e chi no.
Per il centro sinistra il paradigma di riferimento può essere il liberalismo politico ed economico ?
Questo è il quesito che si pone il prof . Biasco .
Il termine liberalismo non è quello corretto a nostro avviso e andrebbe sostituito con il termine liberismo , quindi la domanda dovrebbe essere può essere il liberismo politico e economico ?
Ma la terminologia esatta dovrebbe essere …può essere il liberismo politico ed il neoliberismo la cultura del centro sinistra ?
Su Veltroni dice Biasco ‘ In una marcata direzione liberale sembrava muoversi l’ esordio di Veltroni come leader nel suo famoso discorso del lingotto al Lingotto ‘.
Una fondamentale dichiarazione programmatica di Veltroni ( stessa dichiarazione di Salvati all’ Infedele ) : rilasciata al Sole 24 ore del 21 gennaio 2009 ‘ IL PROBLEMA DELL’ ITALIA è che non ha mai avuto una storia riformista : NON C E’ MAI STATO NULLA DI PARAGONABILE A UNA THATCHER O A UN BLAIR ‘
povera Italia Non ha mai avuto una Thatcher !!
ma neanche in Italia non abbiamo avuto un riformista come Adolf Hitler negli ultimi 50 anni !!!
In Italia abbiamo ancora ebrei che vagano liberi nelle nostre città .
Qualcuno sembra che in un comizio parlando della storia riformista della Thatcher e di Hitler abbia detto : ‘ si apra una nuova grande stagione riformista in Italia , riapriamo il campo di concentramento di Fossoli !!’
Le riforme in Italia senza Thatcher ? troppi lacci e lacciuoli , in Italia abbiamo ancora il sindacato ma come siamo arretrati !!
PARADIGMA LIBERISTA e CULTURA SOCIALISTA LIBERTARIA.
La definizione di liberalismo data dal prof. Biasco sembra di impostazione anglosassone e non tiene conto della complessità ‘ italiota ‘ .
Dice Biasco ‘ (…il liberalismo ) ha significato rispetto dei diritti individuali , eguaglianza nei confronti della legge, merito, società aperta, eguaglianza delle opportunità, società giusta, universalismo’.
A nostro avviso questa impostazione sia metodologica che concettuale si rifà al tradizionale paradigma liberista pur nella versione blariana ( peraltro parzialmente abbondata dal suo teorico di riferimento Giddens).
Lo stesso errore a nostro avviso è stato fatto da parte del piccolo partito socialista italiano .
Il liberalismo di matrice SOCIALISTA cosi come si è sviluppato in Italia è altra cosa molto più complessa .
I riferimenti sono Proudhon e lo sviluppo del movimento anarchico, dell’ anarco - sindacalismo e dei movimenti cooperativi.
Il giovane Marx con l’ elaborazione della critica alle burocrazie, all’ autonomia della società civile e il ruolo dei processi conoscitivi e culturali per il controllo sociale dei mezzi di produzione.
Controverso è il socialismo liberale di Carlo Rosselli.
Norberto Bobbio nell’ introduzione al libro di Carlo Rosselli Socialismo Liberale individua il liberalismo come METODOLOGIA e il RIFIUTO DI ROSSELLI di aderire ad (NEO)LIBERISMO come SISTEMA : ‘ per ‘ metodo liberale’ Rosselli intende quello che oggi si dice correttamente ‘ metodo democratico’ che Rosselli definisce come ‘ un complesso di regole di giuoco che tutte le parti in lotta s’ impegnano a rispettare ; regole dirette ad assicurare la pacifica convivenza dei cittadini, delle classi, degli Stati, a contenere le lotte, fatali a anche desiderabili, entro limiti tollerabili, a consentire la successione al potere dei vari partiti, ad incanalare nella legalità le forze innovatrici via via insorgenti’.
Questo liberalismo elaborato poi da Noberto Bobbio con la critica alla mancanza di una teoria politica della democrazia da parte del marxismo e largamente condivisibile ma in Carlo Rosselli è solo UN APPRCCIO METODOLOGICO non c è teoria politica.
E NON C E’ TEORIA ECONOMICA NEOLIBERSTA , Rosselli incalzato dai marxisti anche revisionisti , (cit Bobbio ) ‘ riprendendo la distinzione fra liberalismo come sistema e come metodo, Rosselli respinge il primo, che incorpora nel (neo)liberalismo UN DETERMINATO SISTEMA ECONOMICO , IL CAPITALISMO, ( questo rifiuta Rosselli ndr ) accetta (invece) il secondo già descritto come metodologia per il rispetto delle regole ( di convivenza democratica ).
E sul versante socialismo cosa ci dice Carlo Rosselli ?
Qui c è il contenuto, qui la TEORIA POLITICA c è .
Ma si tratta veramente di poca cosa come giudizio di valore di chi scrive.
No al marxismo scientifico, no alla teoria del valore lavoro con argomentazioni da piccolo summer studentesco, no al grande revisionismo socialdemocratico tedesco, no al revisionismo marxista,
In ambito di analisi politica che a noi interessa in questa sede rimane del socialismo veramente poco, un socialismo senza Marx, un vago umanesimo sulla giustizia sociale e poco altro.
Per questo il socialismo in Europa è in crisi ed particolarmente acuta è la crisi del socialismo ma anche dell’ apparato concettuale e produttivo che risponde al modello sociale europeo che comprende oltre al socialismo alla socialdemocrazia scuole politiche sociali e solidaristiche.
Rimane comunque un errore accostare il Blarismo al Socialismo Liberale di Carlo Rosselli , il primo è di scuola neoliberista e mercantista il secondo pur vagheggiando un socialismo senza Marx non ha aderito all’ Economia di Mercato come paradigma ideologico liberista .
Il paradigma liberale cosi come si è sviluppato nel PD e anche nel centro sinistra è estraneo alla storia alla cultura e alle masse lavorative del centro sinistra, il fallimento del Blarismo anche con l’ attuale crisi economica è tragicamente conclamato, il socialismo liberale di Rosselli oltre alla metodologia democratica non riesce e non può andare di più , non ha strumenti concettuali di interpretazione critica della realtà .
Rimangono i filoni storici del socialismo libertario di Proudhon , del sindacalismo e del movimento cooperativo ed
il socialismo della critica dell’ economia politica, di egemonia culturale di gestione dei processi produttivi e sociali degli apparati teorici elaborato dal giovane Marx .
Questi 2 filoni storici sono stati dimenticati sotto l’ orgia neoliberista e blariani .
Il compito di tutto il centro sinistra è oggi misurarsi con queste progettualità , anche se è forse ‘ mission impossible’.
I LIMITI DELLA CULTURA LIBERALE COME CULTURA DEL CENTRO SINISTRA .
( Parte 1A).
Il prof. Biasco distingue politiche di liberalizzazione da ‘ una visione metafisica del neoliberismo ‘ e dal mercantismo.
Tre sono i drivers per un percorso di sviluppo di una economia della politica.
Il prof. Biasco le chiama le bussole .
Il primo driver è ‘ il benessere delle generazioni future ‘.
L’ agire politico si misura con il parametro ‘ cosa ne deriva alle generazioni che verranno ?
L’azione programmatica della politica presente si misura con l’incidenza del benessere ‘ sulle generazioni che verranno ‘.
Il secondo driver di sviluppo di una economia della politica è individuato dal prof. Biasco è ‘ l’obbiettivo della coesione sociale attorno al sistema‘
inteso come ‘ ricomporre lo scarto che esiste tra i principi che regolano di fatto l’organizzazione economico - sociale e il modo di sentire dei cittadini .
Il terzo driver è una governance mondiale dell’economia,
questa ‘ bussola’ è un po lontana a noi basterebbe una governance europea e su questo il prof. Biasco dedica nel suo saggio il capitolo : Una visione economica dei processi in soggezione verso il pensiero dominante . Il banco di prova europeo.
Venendo alla prima bussola il benessere delle generazioni future come guida della politica andrebbe focalizzato il luogo , la cultura del progetto/ideologia e la cultura del programma/fare .
Se la cultura di riferimento è la grande politica non vi è dubbio che il principio etico della politica non può che essere il benessere delle future generazioni.
E su questo è fondamentale costruire un senso di comunità ( vedi driver due ).
Ma le future generazioni nascono ….oggi, se una mamma chiude il bambino di un mese nella lavatrice o se il papa saluta il piccolo figlio e va al lavoro e finisce sotto una metropolitana ,è evidente che il senso della comunità e che l’ art. 1 della costituzione ( L’Italia è una Repubblica democratica, fondato sul lavoro ) si sono frantumati sotto l’orgia neoliberista di sinistra e di destra.
E’ necessario chiedersi se oltre alla cultura del benessere delle generazioni future non ci debba essere anche una cultura del benessere delle generazioni attuali che dovrebbero generare le generazioni future.
In periodi di crisi economica forse è meglio ricostruire una catena del benessere sociale partendo dal presente .
Qui subentra la cultura della ideologia come cultura dell’economia politica e anche una cultura del programma come cultura del fare mai parolaia mai fine a se stessa ( si pensi ad uno ‘strano’ antonio gramsci che chiacchierando sulla questione meridionale lanciava per la prima volta in un qualche forum la Banca Pubblica del Sud per essere precisi Banca per lo sviluppo del Mezzogiorno anno 2005 !!! ) .
La cultura dell’Economia Politica si misura con la definizione di ‘Breve Periodo’ e di ‘ Lungo Periodo’.
Se il compito etico della grande politica è quello di occuparsi delle generazioni future siamo sicuri che sia anche questo il compito della ‘scienza’ economica ?
L’economista Keynes rispondeva con l’ indimenticabile motto ‘ nel lungo periodo siamo tutti morti ‘.
Il ‘ breve periodo’ Keynesiano nulla c’ entra con le follie ‘trimestrali’ del capitalismo speculativo.
Nel capitolo ‘ una visione economica dei processi’ sarà possibile approfondire il concetto fondamentale in tempi di crisi economica di ‘ breve periodo ‘ keynesiano.
Le 8 problematiche della crisi economica o della crisi del centro sinistra ?
1) ‘ Tramonta l’ idea che i bisogni sociali dalla casa, al diritto allo studio, alla pensione alla sanità possano essere risolti su base individuale con l’intervento dei mercati finanziari’. ( cit Biasco) , caso clamorose è la privatizzazione delle case popolari di Milano con affitti quadruplicati , affitti non compatibili con normali stipendi.
2) ‘ si allarga il concetto di bene pubblico , le nazionalizzazioni bancarie….l’ interesse pubblico si estende ed abbraccia le grandi aziende non finanziarie ( es. Fiat) ,….il ritorno…della responsabilità pubblica nella stabilizzazione macroeconomica, vale a dire nella gestione della domanda globale a salvaguardia dei livelli di attività e di occupazione ( ma di questo parleremo dopo ) ( cit Biasco).
Fondamentale è il ruolo dello Stato ( italiano) in rapporto alle direttive europee.
( ma di questo parleremo piu avanti ) .
3) La crisi ha indubbiamente inferto un colpo all’economia di mercato, sia al convincimento che i mercati si autoregolano, sia che gli operatori agiscono sempre razionalmente. ( cit. Biaco) i valori di riferimento erano l’individualismo, il reddito individuale e il successo.
4) ‘ Non è indifferente che l’ epicentro della crisi siano gli USA,…. la sinistra italiana ( ma non solo ) ha avuto una fascinazione del modello economico che usciva da quella cultura; fascinazione alla quale sono da ascrivere le ragioni dell’ abdicazione da una battaglia culturale in sede di una costruzione europea, (cit Biasco) , non rimane che ricordare il ‘liberculo’ good bye europa di giavazzi alesina e la crisi conclamata della bocconi university ( per quanto riguarda l’area politica economica ed economia politica ) .
Non rimane che ricordare le ‘povere’ lobby neoliberiste foraggiate a 200.000 dollari l’anno per ‘ fondamentali ’ articoli giornalistici .
5) ‘La crisi e i suoi sviluppi fanno quindi tornare a parlare di ‘ capitalismo’ e ‘ non solo di sistema economico’ ………..non è possibile nasconderla dietro la tesi del superamento di tutte le ideologie. ( cit. Biasco).
‘ I cittadini non sono solo operatori economici, lavoratori, consumatori, risparmiatori, ovvero non sono solo attori del sistema economico. Sono prima di tutto cittadini che fanno parte di una comunità che dovrebbe riconoscere nello Stato un attore portatore di un interesse effettivamente e simbolicamente generale ‘ ( cit . Dau 1/11/2008 il sole24 ore)
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Re: IL MODELLO SOCIALE EUROPEO
QUESTO DOCUMENTO STORICO E' LA RELAZIONE DEL COMPAGNO FERDINANDO SANTI SUL PIANO DEL LAVORO AL CONGRESSO DELLA CGIL 1949.
E UN ESEMPIO DI ANALISI INTERDISCIPLINARE TRA POLITICA ED ECONOMIA ,IN CUI LA POLITICA INTESA COME
PROGETTUALITA' PRODUCE ECONOMIA.
------------------------------------------------------------------------------------------------
Relazione di Ferdinando Santi al 20 Congresso nazionale della CGIL, tenutosi a
Genova dal 4 al 9 ottobre 1949-
——————————————————————————————————————
Io devo parlarvi delle riforme di struttura.
La proposizione non è certo nuova a voi né a tutti coloro che portano un qualche interesse alla vita
economica sociale e politica italiana.
Direi anzi che questa proposizione è ormai popolare nel senso che è entrata nel discorso comune al
punto che i nostri avversari la qualificano uno slogan che per effetto di una ripetuta educazione
meccanica della memoria diviene familiare a chi l’ascolta o a chi la legge, senza per altro che egli si
renda conto del suo reale e preciso significato.
La verità è un’altra. La verità è che la storia della evoluzione del concetto delle riforme di struttura
è la storia stessa della evoluzione politica del nostro Paese.
Dapprima fu dottrina elaborata da una ristretta cerchia di economisti, di sociologi, di politici. Poi fu
bagaglio ideologico dei partiti che hanno come programma un profondo rinnovamento della vita
sociale del paese, la costruzione di una società basata sui principi di giustizia sociale.
Fu, quattro anni or sono, una aspirazione sia pur vaga ed indistinta delle nostre masse popolari. Ora
è consapevole, cosciente esigenza della parte più progredita del popolo italiano.
All’indomani della Liberazione infatti le riforme di struttura apparvero al mondo degli uomini in
buona fede più che una esigenza di carattere economico e sociale, una esigenza rispondente ad un
criterio di astratta morale, di vaga giustizia riparatrice.
Quale era la situazione allora?
La borghesia responsabile del fascismo e del disastro nazionale usciva dalla guerra umiliata e
condannata. Di fronte ad essa la classe lavoratrice levava alto lo scudo della sua nobiltà:
l’opposizione tenace, senza concessione alcuna, al fascismo sin dal suo primo sorgere; il sacrificio
di migliaia e migliaia di lavoratori, di dirigenti sindacali e politici che avevano popolato le isole di
confino e le carceri o si erano incamminati per i sentieri amari ed inospiti dell’esilio; l’epopea
partigiana infine, questa ventata sanguinosa e liberatrice passata sul nostro paese.
Era quindi giusto, a molti appariva giusto, che i colpevoli delle sciagure e del sangue pagassero e
pagassero anche con le loro fortune cosi spesso mal accumulate. Eppoi era veramente in molti, se
non in tutti, l’ansia di volgere le spalle al mondo del passato per camminare verso un mondo nuovo
nel quale fossero assicurati il pane, la libertà e la giustizia sociale per tutti.
In quali termini si pone ora il problema delle riforme di struttura nel nostro Paese? In quali termini
noi parliamo oggi di queste riforme?
Le riforme di struttura oggi non sono più una aspirazione vaga ed indistinta. Sono una esigenza di
progresso economico e quindi sociale, una necessità vitale del popolo italiano, una nuova
impostazione dello sviluppo dell’economia non nell’interesse del profitto privato ma nell’interesse
della collettività, il solo che conti, il solo che deve contare.
È necessario riformare la struttura economica esistente se noi vogliamo vivere.
È necessario riformare questa struttura se vogliamo difendere la democrazia e rendere sicura la pace
perché ad ogni momento la struttura economica non risponde più agli interessi vitali della società,
diventa un ostacolo al progredire delle forze produttrici e la società non evolve più, ristagna. Non dà
più benessere ma crisi e miseria, non dà più pace ma guerra e sciagure.
È chiaro dunque che se noi vogliamo che il nostro paese progredisca, se noi vogliamo che la nostra
economia si sviluppi, se noi vogliamo scuoterci di dosso la miseria secolare che ci opprime, è
necessario altrettanto che qui da noi, in Italia, si riformino le vecchie strutture insufficienti a
garantire al popolo italiano il lavoro, la pace, la libertà.
Perché, qualcuno giustamente si domanderà, perché non sono ancora state realizzate queste riforme
di struttura nel nostro paese, che è l’unico paese d’Europa che in questo dopo guerra non ha portato
la minima sostanziale modifica alla propria economia, che non ha attuato nessuna
nazionalizzazione?
Perché, qualcuno può continuare a domandarsi, queste riforme di cui ci parlate con così grande
impegno al secondo Congresso unitario della CGIL non sono state realizzate immediatamente dopo
la Liberazione, quando l’animo della più gran parte degli italiani era aperto verso nuove ed audaci
forme di organizzazione politico-sociale?
Non dobbiamo dimenticare la situazione del nostro paese all’indomani del 25 aprile. Immensi
compiti di ricostruzione erano davanti al popolo italiano: ricostruzione degli spiriti, educazione
degli italiani a nuovi concetti di convivenza sociale, quelli della democrazia politica e della libertà.
Abbiamo dovuto in primo luogo far porre salde radici nelle coscienze a questi nuovi concetti ed
abbiamo dovuto lottare per mutare la forma istituzionale dello Stato per eliminare una delle forze
attorno alla quale più agevolmente potevano fare coalizione quelle della conservazione e della
reazione.
Per quanto riguarda la CGIL vi è stata l’azione contingente, di tutti i giorni, diretta ad assicurare il
soddisfacimento dei bisogni elementari, urgenti dei lavoratori. Un’altra e tutt’altro che trascurabile
cosa vi è stata ancora: l’occupazione militare del paese da parte di eserciti di paesi la cui struttura è
una struttura capitalistica.
Ma io voglio dire ancora qualcosa d’altro e di più. Voglio dire che la esigenza di queste riforme non
era chiara e matura in ognuno di noi e voglio dire che le riforme che si realizzano e che incidono nel
profondo sono quelle che sorgono radicate nella nostra coscienza, nella nostra consapevolezza e che
sono soprattutto il frutto della nostra lotta e del nostro sacrificio.
Tuttavia noi siamo riusciti ad ottenere un risultato positivo, quello di inserire nella Costituzione
Repubblicana i principi ispiratori delle riforme di struttura.
Indubbiamente questo è stato un gran passo in avanti. Dipende ora da noi realizzare quanto la
Costituzione ha accolto, dipende da noi fare in modo che i principi sanciti non rimangano inerti
nelle pagine del Gran Libro e su di essi cada la polvere del tempo e dell’oblio ma diventino realtà
concreta, forme nuove di organizzazione della nostra società italiana, sangue vivo che circoli nelle
vene della Nazione e la risollevi e la guarisca dai suoi mali.
Ma prima di continuare io voglio rispondere ad un’altra domanda che sorge legittima e spontanea.
Perché da due anni le riforme di struttura da pura proposizione teorica, da aspirazione indistinta,
sono diventate esigenza concreta, sono diventate cioè mature?
Perché l’involuzione che da due anni sta subendo la vita democratica del nostro paese apre gli occhi
a chiunque voglia vedere soltanto un poco di luce e dimostra che se vogliamo difendere il nostro
salario ed insieme le nostre conquiste e le nostre libertà, è necessario incidere nel profondo della
struttura economica e sociale dei paese.
Noi esercitiamo sulla struttura capitalistica, attraverso le conquiste realizzate, una pressione tale che
questa struttura è portata a reagire violentemente contro di noi, uscendo dal terreno della legalità
democratica. Noi invece intendiamo difendere e migliorare il tenore di vita dei lavoratori italiani e
le libertà repubblicane e democratiche, ed esigiamo che la presente struttura sociale si adegui alle
necessità del popolo italiano e si muti per raccoglierle e garantirle.
In regime di economia privata ogni attività economica è promossa e regolata dal profitto.
1) PROFITTO E CRISI DEI MERCATI .
Il capitale tenta la via del profitto, la più facile, vale a dire la compressione dei costi attraverso la
riduzione del salario e degli oneri sociali e cosi toglie il principale sano stimolo economico allo
sviluppo produttivo perché di conseguenza ci consegua un mercato anemico, di sottoconsumo. Ma
oltre queste conseguenze di carattere economico altre ben più gravi noi vediamo profilarsi. Gli
uomini del profitto hanno necessità di creare condizioni ideali per la realizzazione dei loro
propositi, per assicurare la difesa delle loro posizioni di privilegio.
Quali sono queste condizioni ideali? La messa fuori combattimento della classe lavoratrice per
assicurarsi l’incontrastato dominio politico e sociale.
La lotta quindi contro le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori, l’insidia della divisione
e del tradimento, l’asservimento dei pubblici poteri, la mobilitazione di tutte le forze della
conservazione, dalle leggi che rappresentano sempre la cristallizzazione sul piano giuridico di una
fase dei rapporti sociali, alle armi spirituali ecc. ecc.
Il fascismo è stato l’ultimo tentativo della borghesia italiana di rinviare la soluzione dei problemi
sociali posti in modo confuso dal popolo italiano nell’immediato dopoguerra 1914-1918. Possiamo
ben dire che oggi, a quattro anni dalla Liberazione, il nostro Paese si trova nelle stesse difficoltà
lasciate dal fascismo negli ultimi anni della sua esistenza. I nodi sono venuti rapidamente al pettine
e mai come ora i problemi della libertà della pace e del rinnovamento sociale sono insieme così
profondamente uniti.
Oggi però vi è questo di profondamente mutato. Noi siamo in grado di lottare efficacemente perché
oggi la classe lavoratrice è ricca di esperienze, più forte più unita e più cosciente di prima,
sicuramente guidata dai suoi organismi politici e sindacali ed ogni tentativo di risolvere contro di
noi le paurose contraddizioni interne del capitalismo sarà da noi rigettato con estremo coraggio e
con estrema decisione.
2) DUALISMO MONOPOLIO E FEUDALESIMO
La struttura economica italiana è oggi un miscuglio di monopolismo e di feudalismo.
Monopolismo che prevale nel settore industriale e finanziario, feudalismo nel settore agricolo.
Cosa determina tutto questo?
Determina, ad esempio, che i concimi chimici prodotti quasi esclusivamente dalla Montecatini
vengono venduti al più alto prezzo di monopolio, mentre l’agricoltura italiana non è in grado di
acquistare il fabbisogno necessario e pertanto consuma concimi chimici in misura inferiore a tutti i
paesi d’Europa.
Il settore metalmeccanico è in crisi con conseguente parziale utilizzazione degli impianti e
disoccupazione delle maestranze, mentre vi è un fabbisogno enorme di macchine agricole che i
contadini piccoli e medi non possono acquistare perché troppo care.
D’altra parte nel settore agricolo il grande agrario assenteista mantiene i terreni in condizioni di
abbandono con grave permanente disoccupazione del bracciantato, perché non reinveste la rendita
agraria nelle opere di bonifica e di trasformazione fondiaria.
Tutto questo per effetto della legge inesorabile del profitto.
Dove vi è minor impiego di capitale abbiamo la rendita fondiaria più alta. Mentre nella Valle
Padana essa si aggira attorno al 10 %, in Sardegna sale fino al 24-25%. Ma nella Valle Padana gli
agrari hanno avuto ed hanno costante il pungolo della pressione dei braccianti (imponibile di mano
d’opera) per continui lavori di miglioria.
Qui la rendita è più reinvestita ed abbiamo per conseguenza l’agricoltura più progredita d’Europa.
In Sardegna non abbiamo il fattore sociale emiliano e la rendita non viene reinvestita pur giungendo
per i terreni a pascolo alla punta altissima del 24-25%.
Ma nei pascoli non abbiamo nemmeno una giornata di lavoro di un bracciante.
Nello stesso settore commerciale, data la struttura del mercato italiano, si verifica la caduta dei
prezzi agricoli alla produzione: vino, carni, ecc. mentre le quantità immesse al consumo sono
inferiori al fabbisogno e i prezzi non diminuiscono. In queste condizioni si accentua lo squilibrio
degli scambi fra città e campagna. La campagna vende alla città prodotti alimentari per un valore
assai inferiore di quanto è obbligata ad acquistare di prodotti industriali.
Questo spiega la miseria delle nostre campagne e le condizioni critiche della piccola e media
proprietà terriera, nonché le tragiche condizioni dei braccianti.
Quelli che ho citati sono alcuni esempi delle paurose contraddizioni cui la presente struttura
economica dà luogo e questo avviene perché il carattere monopolistico delle attività produttrici
determina la formazione dei prezzi.
7) Non si fa il prezzo sulla base dei costi. Si fa il prezzo sulla possibile vendita. E si regola la
vendita, cioè la produzione, secondo il principio: massimo profitto, minima produzione.
3)POLITICHE DI SETTORE ECONOMICO : ( Agricoltura, Energia Elettrica , Industria , Credito)
Cosa fare in questa situazione?
Noi non propugniamo la trasformazione totale e immediata della nostra struttura sociale. Noi ci
rendiamo conto che abbiamo la possibilità di risolvere soltanto i problemi che sono maturi in noi e
nelle cose che sono al di fuori di noi.
Noi non perdiamo il contatto con la realtà. Il vuoto massimalismo è il peggior nemico di ogni serio
movimento operaio organizzato.
Partendo da un punto di vista realistico, obiettivo, noi consideriamo che vi sono tre settori
principali, i più critici della vita economica del paese nei quali occorre urgentemente operare:
il settore dell’elettricità, il settore dell’agricoltura e il settore del credito, quale strumento per
l’attuazione di una politica economica coordinata attraverso il controllo degli investimenti.
La situazione nel settore elettrico è grave; parlo a degli organizzatori sindacali per i quali questo
problema è un problema di tutti i giorni. Abbiamo un deficit annuo nella produzione di circa 7
miliardi di Kwh dovuto alla deficienza di impianti.
La siccità è un fattore stagionale passeggero che può acuire una situazione di carenza, ma non la
determina.
I gruppi monopolistici per costruire gli impianti necessari chiedono aumenti di tariffe per assicurare
al capitale il profitto che stimano necessario. Un aumento di tariffe d’altra parte provocherebbe un
aggravio generale dei costi proprio nel momento nel quale per le esigenze del mercato interno delle
esportazioni l’economia italiana dovrebbe fare ogni sforzo per ridurli.
In realtà le imprese elettriche monopolistiche sono decise a trasformare in uno strumento di lotta
capitalistica la voluta carenza di energia. Pertanto non costruiscono o costruiscono a rilento le
centrali indispensabili alla vita delle nostre industrie per mantenere uno stato permanente di carenza
che faciliti loro l’aumento delle tariffe, ben sapendo che questo non è il fattore che potrà risolvere il
problema.
Come riescono a bilanciare l’offerta con la domanda?
Aumentando i prezzi in modo che diminuisca la richiesta. Le tariffe sono 24 volte quelle di
anteguerra, ma solo nominalmente. In effetti gli introiti delle società elettriche sono almeno 40-45
volte quelli di anteguerra, perché la politica di vendita delle società elettriche è stata volutamente
spostata, contrariamente all’interesse nazionale e quindi dei lavoratori, dalle cosiddette utenze
povere (le utenze industriali), alle utenze ricche (elettrodomestici, illuminazione, ecc.).
Gli utili delle società elettriche sono notevoli e le tariffe, secondo il pensiero di tutti i tecnici, anche
nella misura di 24 volte l’anteguerra sono altamente remunerative perché si riferiscono per gran
parte ad impianti già completamente ammortizzati.
I bilanci delle società elettriche non possono essere un indice obbiettivo del profitto che le società
stesse traggono dall’esercizio della loro attività.
Noi sappiamo ormai che vi è tutta una tecnica sperimentata per l’occultamento degli utili,
occultamento che si fa particolarmente attraverso le cosiddette società distributrici che sono
affiliazioni di comodo.
Per cui si riscontra che in un certo periodo per la vendita di un miliardo e 300 milioni di Kwh alle
utenze dirette la Edison denuncia un incasso di circa 7 miliardi e per la vendita di uguale
quantitativo di energia fatta a società di comodo, a società distributrici, la stessa Edison denuncia un
incasso di circa quattro miliardi
Il monopolio degli elettrici costituisce veramente una camicia di forza dell’economia italiana. Se
non si sviluppa la produzione di energia elettrica in un paese come il nostro privo di altre fonti di
energia le fabbriche chiudono, la disoccupazione aumenta, il tenore di vita della popolazione si
immiserisce ancora di più, tutto il tono civile della nostra vita nazionale decade.
3) POLITICHE DI NAZIONALIZZAZIONI.
Come risolvere il problema?
E quello che è stato fatto del resto anche in paesi ad economia capitalistica, quali la Francia e
l’Inghilterra dove la nazionalizzazione delle industrie elettriche è stata totale.
Solamente nel nostro paese nulla si è fatto e nulla si è tentato in questo senso.
Possiamo continuare in una situazione di questo genere?
Nell’attuale fase della civiltà industriale l’elettricità è un servizio pubblico di alto interesse sociale,
esattamente come il servizio della sicurezza dei cittadini, della scuola, della salute pubblica, ecc.
Ora come nessuno può pensare di affidare il servizio di polizia ad una società anonima, quello della
scuola ad imprese private, quello che ha riguardo alla salute dei cittadini a qualche monopolio, cosi
è delittuoso e suicida che le fonti di energia, di lavoro e di vita del popolo italiano siano lasciate
nelle mani di privati speculatori, siano cioè regolate e rette sulla base del profitto privato che mette
in forse le attività produttive del paese.
La CGIL ha la percezione esatta della gravità e dell’urgenza del problema dell’energia elettrica, che
è problema che ci riguarda non soltanto quando vi sono sospensioni di corrente ed i nostri operai
per due o tre giorni alla settimana sono senza lavoro.
È un problema che trascende i limiti delle nostre categorie, è un problema nazionale che investe gli
interessi di strati e di ceti sempre piu’ larghi.
Il mese scorso la CGIL ha convocato in Roma una Conferenza Nazionale della Elettricità che, oltre
ad essere la dimostrazione del grado di maturità con il quale la CGIL affronta i problemi
fondamentali della vita del paese, ha rappresentato anche un successo notevole.
Sono intervenuti a questo Convegno non solo i rappresentanti delle Federazioni più direttamente
interessate, ma anche quelli di una infinità di categorie e di ceti, commercianti, artigiani, piccoli
industriali, ecc. Quest’ultimi rappresentanti, in modo particolare, hanno dichiarato che la situazione
era insostenibile, che essi non potevano sopportare ulteriori aumenti di tariffe ed erano grati alla
CGIL perché, assenti i grandi organismi economici, assente il governo, solo l’organizzazione dei
lavoratori aveva portato al fuoco della pubblica discussione il problema dell’aumento dell’energia
elettrica, problema vitale per il nostro paese e per le categorie produttive.
La crisi nel settore agricolo presenta due aspetti: uno strutturale qualificato dell’esistenza del
fenomeno del bracciantato (due milioni di contadini che lavorano la terra ma non posseggono la
terra) e l’altro della presenza di vaste estensioni di terreno incolto o mal coltivato.
Voi vedete tutta la gravità della contraddizione.
Ancora un altro aspetto della crisi è quello della crisi del mercato: caduta dei prezzi alla produzione
sia all’interno che all’estero.
Il governo cerca di rimediare all’aspetto strutturale della crisi con timide promesse di riforma che
ancora non si sa se riuscirà, pur nella sua assoluta insufficienza, a tradurre in progetti concreti e farli
accettare alla sua stessa maggioranza e che creerebbe per altro un’altra categoria, quella dei piccoli
proprietari, oppressa dai debiti e dalle imposte e vittima designata in anticipo al prepotere dei
produttori di attrezzi, di concimi e dei prestatori di danaro.
È stato facile con lo slogan “non più proletari, tutti proprietari” al partito democristiano sollecitare e
raccogliere i voti di larghe masse contadine. Ma questi voti non hanno inviato i contadini in
Parlamento. A rappresentarli vi sono in realtà i latifondisti del Meridione e gli esponenti aperti o
mascherati della Confida.
Per quanto riguarda la crisi di mercato il governo pensa di rimediare ripetendo la soluzione
corporativa dei consorzi obbligatori o volontari di produttori.
Il problema della nostra agricoltura va invece affrontato decisamente nei due aspetti della riforma
che soddisfi la fame di terra dei contadini poveri immettendoli in possesso della terra e assicurando
i mezzi per la realizzazione delle trasformazioni fondiarie e rendendo vitali le nuove aziende con gli
aiuti necessari, sviluppando le forme cooperative o consortili (che anche a possesso diviso
assicurino l’unità economica dell’azienda) e affrontando i piani di produzione agricola.
Le due cose - riforma fondiaria e piani di produzione - sono intimamente legati.
Il problema della nostra agricoltura è un problema economico, sociale e umano di urgenza assoluta
improrogabile.
La stessa stampa straniera non amica della CGIL, in occasione dell’ultimo sciopero dei braccianti
ha denunciato la contraddizione della struttura agricola del paese e la sopravvivenza di antiche
forme feudali: due milioni di braccianti, come vi ho detto, che non posseggono altro che la loro
volontà di lavorare, e nello stesso tempo larghissime estensioni di terreno incolto o mal coltivato.
Questo problema riguarda non soltanto i contadini ma anche gli operai del Nord e tutto il paese.
Se vogliamo sollevare queste aree depresse del Mezzogiorno è necessario che anche i lavoratori
industriali del Nord facciano propria la esigenza della riforma fondiaria.
Se noi vogliamo unire i braccianti delle Puglie e della Sicilia ai metallurgici di Genova, Torino,
Milano, è necessario porre uniti il problema per risolverlo nell’interesse comune.
Se noi libereremo dalla fame i contadini del Sud attraverso la riforma fondiaria, tutto il
Mezzogiorno risorgerà a nuova vita, e costituirà un efficiente mercato interno finalmente in grado di
acquistare i prodotti industriali che sono fabbricati dagli operai del Nord.
D’altra parte, non è soltanto un problema economico e sociale; è anche un problema umano perché
noi vogliamo cancellare dal volto del nostro paese il segno della vergogna rappresentato dalla
miseria secolare dei nostri contadini.
Nel settore del credito la situazione è singolare. Le grandi banche, sono nominalmente controllate
dallo Stato o di proprietà dello Stato.
Sono infatti controllate dall’IRI il Banco di Roma, la Banca Commerciale Italiana, il Credito
Italiano, il Banco di Santo Spirito. Vi sono poi gli Istituti di diritto pubblico: il Banco di Napoli, il
Banco di Sicilia, la Banca Nazionale del Lavoro, il Monte dei Paschi di Siena e l’Istituto San Paolo
di Torino. Infine la Banca d’Italia e le Casse di Risparmio.
In totale oltre il 90% del settore creditizio nazionale.
Ebbene, nonostante questa formale appartenenza allo Stato diretta o indiretta, le grandi banche sono
amministrate dai Valletta, dai Costa, dai Nogara, dai Marzotto, che sono gli esponenti dei gruppi di
minoranza privatistica; a proposito dei quali gruppi e della loro azione tendente a snaturare
l’indirizzo e lo scopo degli istituti bancari nei quali lo Stato partecipa come azionista, noi sappiamo
che vi è ormai tutta una tecnica speciale che opera valendosi della deficienza della burocrazia e
dell’assenteismo assoluto del governo.
Nel settore delle banche non si tratta perciò di mutare o di innovare profondamente. Si tratta
semplicemente di mettere questi strumenti al servizio di una politica di investimenti, quale quella
tracciata nel nostro Piano, politica di utilizzazione di tutte le risorse nazionali nell’interesse
collettivo e non nell’interesse dei gruppi monopolistici.
Senza una politica di investimenti che sia promossa dall’interesse della collettività, anziché dal
profitto privato, noi svilupperemo probabilmente le fabbriche di Coca-Cola, ma renderemo più forti
e dominanti i gruppi privati e anemizzeremo sempre più l’IRI sino alla sua completa liquidazione.
Per completare il quadro delle contraddizioni della nostra struttura economica converrebbe qui
parlare della situazione dei settori siderurgico e metalmeccanico ma il discorso mi porterebbe
troppo lontano. Ognuno di voi del resto è in grado di valutare lo stato di crisi di questi settori i cui
impianti sono utilizzati soltanto in misura del 60% circa, mentre la necessità dello sviluppo
industriale del paese esigerebbe una intensa produzione di beni strumentali e di consumo.
Non ho bisogno di aggiungere che lo stato di crisi puntualizzato dalla situazione liquidatoria di
molte aziende è dovuto ad una assoluta mancanza di intervento e di controllo da parte dello stato
negli investimenti e dal prepotere di gruppi monopolistici.
Piuttosto mi pare giunto il momento di domandarci: come ci proponiamo di realizzare le riforme di
struttura, almeno quelle che a noi paiono indispensabili?
La forma, io penso, non può essere che quella della nazionalizzazione.
I mezzi per raggiungere il nostro obiettivo: in primo luogo impostare il problema in termini chiari
ed essenziali davanti all’opinione pubblica, in secondo luogo lottare in Parlamento e fuori per la
realizzazione dei principi già accolti nella Carta Costituzionale presentando appropriati disegni di
legge, battendoci per migliorare eventualmente quelli governativi, operando con una forte azione
sindacale di massa per la realizzazione di una nuova politica economica che abbia questi obiettivi:
massimo impiego di mano d’opera e potenziamento del mercato interno.
Io credo che noi sfogliamo troppo raramente le pagine della Costituzione, la legge fondamentale
della Repubblica italiana.
Se noi leggessimo con maggiore frequenza potremmo portare impressi nella nostra memoria articoli
come l’art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale e in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina
i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata ai fini sociali”.
Quando noi, nel caso specifico, chiediamo la nazionalizzazione delle imprese elettriche, perché lo
svolgersi dell’attività privata in questi settori è in contrasto con l’utilità sociale, facciamo della
demagogia o non chiediamo soltanto che sia applicato un principio sancito dalla Costituzione
democratica e repubblicana del nostro Paese?
L’art. 42 afferma poi: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i
modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indeNnizzo.
Espropriata per motivi di interesse generale”.
Rinuncio a leggervi gli articoli del titolo che si riferisce ai rapporti sociali se non per ricordarvi l’art.
46: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro ed in armonia con le esigenze della
produzione, la repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge, alla gestione dell’azienda”.
È possibile un’azione sindacale di massa per la realizzazione delle riforme di struttura? Io credo di
si e aggiungo che qualche cosa in questo senso noi lo abbiamo già fatto.
Quando i lavoratori della Isotta Fraschini per evitare che i loro stabilimenti vengano smantellati
dichiarano: “Noi prenderemo in esame le richieste di licenziamento soltanto dopo che ci avrete
presentato i piani produttivi”, e sollecitano in questo senso l’intervento dello Stato, in definitiva
danno alla loro lotta il carattere e l’obiettivo della lotta per gli investimenti pubblici in un settore
come quello delle industrie metalmeccaniche che realizza le condizioni del minor investimento di
capitale in rapporto alla maggiore occupazione di lavoratori.
Quando i braccianti lottano per l’imponibile di mano d’opera e per le migliorie fondiarie non
lottano in definitiva per una certa direzione degli investimenti che consenta una maggiore
occupazione nelle campagne?
La FIOM chiese a suo tempo il controllo degli investimenti del FIM e fu forse un errore che questa
richiesta non diventasse un motivo più chiaro, più aperto di fronte ai lavoratori, forse un motivo di
lotta.
Il FIM stesso, che ha stanziato un certo numero di miliardi con un criterio che doveva essere quello
dello sviluppo dell’attività produttiva del settore metalmeccanico, non è forse il risultato dell’azione
condotta dai lavoratori, della lotta che ha indotto il Governo a fare un timido tentativo, troppo presto
abbandonato, nel senso di un intervento dello Stato negli investimenti produttivi?
Considerate la differenza che vi è fra le ragioni di vita dell’IRI e le ragioni di vita del FIM. L’IRI
sorge nel 1933 per difendere gli interessi di grossi capitalisti colpiti da una crisi formidabile, sia
pure sotto il pretesto che questa crisi trascinava a fondo le banche e bisognava difendere i piccoli
risparmiatori. Al contrario dell’IRI, il FIM nasceva come risultato dell’azione svolta dai lavoratori
per la difesa non di interessi privati ma per la difesa dell’industria del nostro Paese.
Vi dicevo che la nazionalizzazione è, nelle condizioni attuali, la forma migliore per realizzare le
riforme di struttura. E nazionalizzare i grandi complessi industriali vuol dire anche sottrarre
all’orbita speculativa e jugulatrice dei monopoli le piccole e medie imprese, assicurandone
condizioni di vita e di sviluppo. Ma nazionalizzare non vuol dire burocratizzare.
Abbiamo in proposito davanti a noi l’esempio dell’IRI che viene sempre meno ai suoi compiti
perché coloro che lo dirigono seguono un criterio privatistico e non quello dell’interesse della
collettività nazionale.
Perciò la nazionalizzazione nelle attuali condizioni politiche fa sorgere un altro problema, quello del
controllo delle forze produttive, degli operai, degli impiegati e dei tecnici.
La nazionalizzazione senza controllo operaio si può ridurre ad una incastellatura burocratica che si
allontana ben presto dagli scopi per i quali è stata realizzata.
Solamente con il controllo permanente degli operai, degli impiegati e dei tecnici la
nazionalizzazione verrà mantenuta nella giusta strada e potrà raggiungere gli obiettivi per i quali
essa viene attuata.
4) I CONSIGLI DI GESTIONE ( Una pagina mancata della Storia Economica Italiana ).
Sorge a questo punto naturale il problema dei Consigli di Gestione, verso i quali noi sindacalisti
dobbiamo onestamente confessare di ritenerci in netta colpa.
Per molto tempo noi abbiamo considerato i Consigli di Gestione come la innocua mania di qualche
volenteroso compagno. Il problema c’è e non basta esprimere la nostra solidarietà e la nostra
simpatia in termini generici di ordini del giorno. Noi saremo in grado di fare veramente qualche
cosa per i Consigli di Gestione quando avremo operato in modo che la loro esigenza sia radicata
nella nostra coscienza, nella coscienza dei lavoratori.
Dunque, le riforme di struttura non sono più oggi aspirazione indistinta delle masse popolari o parte
di programmi di determinati partiti. Sono una esigenza tecnica di progresso economico e sociale del
paese e nello stesso tempo una esigenza politica, una garanzia della difesa della libertà e della
democrazia e della indipendenza nazionale.
Infatti i gruppi monopolistici che fanno del loro privilegio economico un’arma potente di
dominazione politica e sociale, incapaci come sono di risolvere i problemi del pane e del lavoro
degli italiani, cercano oltre frontiera, oltre oceano, la protezione che assicuri la realizzazione dei
loro profitti, a prezzo di mettere a vassallaggio l’economia di tutto il paese. E che sia la nostra
economia in queste condizioni di soggezione che portano fatalmente alla soggezione politica io non
ho bisogno di documentarlo a voi.
La situazione sempre più precaria del nostro apparato produttivo, l’anemizzarsi progressivo dei
nostri scambi con l’estero a direzione obbligata, il conseguente asservimento politico all’America
ne sono i segni e nello stesso tempo le conseguenze più eloquenti.
Vorrei soltanto accennare ad un aspetto economico particolare di questa dipendenza del nostro
paese e dell’Europa, possiamo dire, dall’America.
5) LE RIFORME DI STRUTTURA
Quest’aspetto è rappresentato dal monopolio della ricerca tecnica e scientifica che gli Stati Uniti
detengono, monopolio che viene realizzato comprando a peso d’oro dai tecnici e dagli scienziati di
tutto il mondo i risultati dei loro studi, i loro ritrovati e le loro scoperte.
Questo monopolio impedisce il progresso autonomo delle attività industriali nazionali, fa permanere
la nostra economia in costante ritardo e ci obbliga a servitù tecniche e finanziarie che noi dobbiamo
pagare a profitto degli stranieri.
Cosa fa il governo, il governo della Repubblica Italiana fondata sul lavoro, per rompere le posizioni
monopolistiche all’interno del nostro Paese? Il governo aveva promesso una legge sui monopoli
facendola annunciare, se ben ricordo, per bocca del ministro dell’Industria on. Ivan Matteo
Lombardo. Che ne è avvenuto di questo proposito? La realtà è che questa legge non viene
presentata perché il governo si è accorto che, contrariamente alla opinione che si tenta di
accreditare, tutto in Italia o quasi tutto è monopolio, e che il libero mercato e la libera concorrenza
sono una finzione, sono una menzogna.
In realtà, il governo nulla intende fare per ridurre il prepotere dei monopoli e ciò nonostante le
affermazioni programmatiche e le promesse che talvolta vengono fatte anche da ministri
responsabili. Ancora recentemente alla Camera, discutendosi la mozione Togliatti-Di Vittorio sulle
conseguenze della svalutazione della sterlina, abbiamo registrato una dichiarazione dell’On. De
Gasperi che non abbiamo dimenticato. Preso nella stretta della logica del ragionamento dell’on.
Riccardo Lombardi, il Presidente del Consiglio ha creduto di svincolarsene proclamando di fronte
alla Camera dei Deputati: “Le nazionalizzazioni se non si fanno non è per motivi ideologici. Io sono
pronto a nazionalizzare le industrie che vanno bene, non le industrie che vanno male”.
Ebbene, compagni, noi dobbiamo chiedere all’on. De Gasperi che mantenga fede a questo suo
impegno di governo. Noi domandiamo fin da ora all’on De Gasperi: “A quando la
nazionalizzazione della Edison? A quando la nazionalizzazione della Montecatini? A quando la
nazionalizzazione della FIAT”?
Nazionalizzando questi complessi indubbiamente sani economicamente, noi avremo modo di
salvare altri complessi, salveremo le piccole e medie industrie e le solleveremo dal peso
schiacciante dei trust.
Il compagno Di Vittorio ha esposto ieri le linee di un piano economico e costruttivo che tende a
raggiungere due obiettivi fondamentali: la massima occupazione possibile e un ampliamento del
mercato interno, quindi una elevazione del tenore di vita dei lavoratori italiani.
È un piano la cui realizzazione può veramente avere il risultato di rompere il cerchio della
rassegnazione alla miseria e dell’immobilismo economico, di dare un nuovo slancio alla nostra
economia produttiva, un nuovo volto al nostro paese.
Lasciatemi fare questa constatazione: quale prova migliore della maturità del movimento sindacale
italiano, quale prova migliore che veramente gli interessi che noi rappresentiamo non sono più gli
interessi ristretti della classe, ma quelli generali del paese, di questa discussione a un congresso
della nostra CGIL?
Al di sopra delle esigenze particolari delle varie categorie poniamo, davanti a noi e davanti
all’opinione pubblica le esigenze generali fondamentali di tutto il paese.
Noi non ci attendiamo i piani dal governo, non attendiamo i piani da quegli organismi economici -
Confindustria ed altri gruppi - i quali tuttavia pretendono di avere il potere esclusivo di determinare
la linea di politica economica che il paese deve seguire.
Di fronte alla carenza dei pubblici poteri, di fronte alla incomprensione dei ministri e del governo,
di fronte al cieco e sordo egoismo delle classi padronali siamo noi, i lavoratori italiani, che
presentiamo un grande piano di ripresa e di ricostruzione economica e sociale non nell’interesse
della classe, ma nell’interesse della collettività nazionale.
L’avvenire quali prospettive ci riserva?
I bisogni delle masse popolari italiane che premono dietro di noi sono tali e tanti, insoddisfatti da
secoli, che noi non possiamo perdere molto tempo, troppo tempo.
La mutevole situazione sociale e politica condiziona le forme gli aspetti e gli obiettivi tattici della
nostra lotta.
Oggi, a mio avviso, la linea della nostra azione la possiamo cosi riassumere:
“Lottare per realizzare la Costituzione Repubblicana, lottare per tradurre nei termini concreti della
vita nazionale i principi sociali da essa sanciti”.
Ecco, compagni, un’ulteriore prova della maturità del movimento sindacale italiano.
Noi non siamo più i “sovversivi” nel significato tradizionale del termine, noi siamo sul terreno della
legalità democratica e costituzionale quando lottiamo per la realizzazione delle nostre
rivendicazioni.
Sono sovversivi, fuori dalla legalità costituzionale, coloro che si oppongono a che i principi della
Costituzione vengano realizzati.
Le vicende delle nostre lotte sono alterne. A fasi di slancio seguono talvolta momenti di sosta
apparente. In ogni caso le lotte esigono da ognuno di noi un impegno continuo. Io mi rendo conto
che nell’animo di qualche lavoratore a volte sorga il dubbio, l’interrogativo a noi diretto: “ci parlate
sempre di lotta, di lotta, di lotta. Ma quando mai potremo considerare i nostri risultati raggiunti,
quando vi sarà per noi un attimo di respiro?”.
Io dico a questi lavoratori, dico innanzi tutto a me stesso: la missione della classe lavoratrice è
quella di lottare finché non siano realizzate le nostre profonde aspirazioni che sono riassunte nei
punti programmatici dello Statuto confederale: ” La liberazione del lavoro da ogni sfruttamento “.
Prendiamo esempio da coloro che sono venuti prima di noi.
Io ho un vecchio maestro il cui nome non troverete certo nella storia del movimento socialista; è un
modesto operaio che ha imparato a leggere e a scrivere a 18 anni da un ombrellaio ambulante
perché ad otto anni lavorava già per 14 ore al giorno alla fornace. Io ho sempre presente quello che
mi dice questo vecchio maestro quando richiama alla memoria i tempi delle sue prime lotte,
sessant’anni orsono.
“Facevamo le riunioni della lega la domenica, in aperta campagna, sotto gli alberi, perché avevamo
paura che il padrone ci vedesse. Eravamo pochi, ma pure a poco a poco siamo riusciti a diventare
tanti”.
Sì, compagni, ai primordi del movimento operaio un pugno di uomini coraggiosi aveva inalberato
nel nostro paese la bandiera della riscossa proletaria. Tutto il mondo di allora era contro di loro.
Con coraggio, con tenacia, con pazienza e con spirito di sacrificio questi nostri pionieri riuscirono
alfine a spezzare il cerchio chiuso dell’odio, dell’ignoranza e degli interessi avversi che minacciava
di soffocare il loro cammino.
Essi vinsero allora perché non dubitarono mai.
Dobbiamo dubitare noi che non siamo più pattuglia disperata ai margini della società borghese,
dobbiamo dubitare noi della nostra vittoria ora che siamo tanto più forti per numero e per coscienza,
ora che siamo popolo?
Ferdinando Santi
E UN ESEMPIO DI ANALISI INTERDISCIPLINARE TRA POLITICA ED ECONOMIA ,IN CUI LA POLITICA INTESA COME
PROGETTUALITA' PRODUCE ECONOMIA.
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Relazione di Ferdinando Santi al 20 Congresso nazionale della CGIL, tenutosi a
Genova dal 4 al 9 ottobre 1949-
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Io devo parlarvi delle riforme di struttura.
La proposizione non è certo nuova a voi né a tutti coloro che portano un qualche interesse alla vita
economica sociale e politica italiana.
Direi anzi che questa proposizione è ormai popolare nel senso che è entrata nel discorso comune al
punto che i nostri avversari la qualificano uno slogan che per effetto di una ripetuta educazione
meccanica della memoria diviene familiare a chi l’ascolta o a chi la legge, senza per altro che egli si
renda conto del suo reale e preciso significato.
La verità è un’altra. La verità è che la storia della evoluzione del concetto delle riforme di struttura
è la storia stessa della evoluzione politica del nostro Paese.
Dapprima fu dottrina elaborata da una ristretta cerchia di economisti, di sociologi, di politici. Poi fu
bagaglio ideologico dei partiti che hanno come programma un profondo rinnovamento della vita
sociale del paese, la costruzione di una società basata sui principi di giustizia sociale.
Fu, quattro anni or sono, una aspirazione sia pur vaga ed indistinta delle nostre masse popolari. Ora
è consapevole, cosciente esigenza della parte più progredita del popolo italiano.
All’indomani della Liberazione infatti le riforme di struttura apparvero al mondo degli uomini in
buona fede più che una esigenza di carattere economico e sociale, una esigenza rispondente ad un
criterio di astratta morale, di vaga giustizia riparatrice.
Quale era la situazione allora?
La borghesia responsabile del fascismo e del disastro nazionale usciva dalla guerra umiliata e
condannata. Di fronte ad essa la classe lavoratrice levava alto lo scudo della sua nobiltà:
l’opposizione tenace, senza concessione alcuna, al fascismo sin dal suo primo sorgere; il sacrificio
di migliaia e migliaia di lavoratori, di dirigenti sindacali e politici che avevano popolato le isole di
confino e le carceri o si erano incamminati per i sentieri amari ed inospiti dell’esilio; l’epopea
partigiana infine, questa ventata sanguinosa e liberatrice passata sul nostro paese.
Era quindi giusto, a molti appariva giusto, che i colpevoli delle sciagure e del sangue pagassero e
pagassero anche con le loro fortune cosi spesso mal accumulate. Eppoi era veramente in molti, se
non in tutti, l’ansia di volgere le spalle al mondo del passato per camminare verso un mondo nuovo
nel quale fossero assicurati il pane, la libertà e la giustizia sociale per tutti.
In quali termini si pone ora il problema delle riforme di struttura nel nostro Paese? In quali termini
noi parliamo oggi di queste riforme?
Le riforme di struttura oggi non sono più una aspirazione vaga ed indistinta. Sono una esigenza di
progresso economico e quindi sociale, una necessità vitale del popolo italiano, una nuova
impostazione dello sviluppo dell’economia non nell’interesse del profitto privato ma nell’interesse
della collettività, il solo che conti, il solo che deve contare.
È necessario riformare la struttura economica esistente se noi vogliamo vivere.
È necessario riformare questa struttura se vogliamo difendere la democrazia e rendere sicura la pace
perché ad ogni momento la struttura economica non risponde più agli interessi vitali della società,
diventa un ostacolo al progredire delle forze produttrici e la società non evolve più, ristagna. Non dà
più benessere ma crisi e miseria, non dà più pace ma guerra e sciagure.
È chiaro dunque che se noi vogliamo che il nostro paese progredisca, se noi vogliamo che la nostra
economia si sviluppi, se noi vogliamo scuoterci di dosso la miseria secolare che ci opprime, è
necessario altrettanto che qui da noi, in Italia, si riformino le vecchie strutture insufficienti a
garantire al popolo italiano il lavoro, la pace, la libertà.
Perché, qualcuno giustamente si domanderà, perché non sono ancora state realizzate queste riforme
di struttura nel nostro paese, che è l’unico paese d’Europa che in questo dopo guerra non ha portato
la minima sostanziale modifica alla propria economia, che non ha attuato nessuna
nazionalizzazione?
Perché, qualcuno può continuare a domandarsi, queste riforme di cui ci parlate con così grande
impegno al secondo Congresso unitario della CGIL non sono state realizzate immediatamente dopo
la Liberazione, quando l’animo della più gran parte degli italiani era aperto verso nuove ed audaci
forme di organizzazione politico-sociale?
Non dobbiamo dimenticare la situazione del nostro paese all’indomani del 25 aprile. Immensi
compiti di ricostruzione erano davanti al popolo italiano: ricostruzione degli spiriti, educazione
degli italiani a nuovi concetti di convivenza sociale, quelli della democrazia politica e della libertà.
Abbiamo dovuto in primo luogo far porre salde radici nelle coscienze a questi nuovi concetti ed
abbiamo dovuto lottare per mutare la forma istituzionale dello Stato per eliminare una delle forze
attorno alla quale più agevolmente potevano fare coalizione quelle della conservazione e della
reazione.
Per quanto riguarda la CGIL vi è stata l’azione contingente, di tutti i giorni, diretta ad assicurare il
soddisfacimento dei bisogni elementari, urgenti dei lavoratori. Un’altra e tutt’altro che trascurabile
cosa vi è stata ancora: l’occupazione militare del paese da parte di eserciti di paesi la cui struttura è
una struttura capitalistica.
Ma io voglio dire ancora qualcosa d’altro e di più. Voglio dire che la esigenza di queste riforme non
era chiara e matura in ognuno di noi e voglio dire che le riforme che si realizzano e che incidono nel
profondo sono quelle che sorgono radicate nella nostra coscienza, nella nostra consapevolezza e che
sono soprattutto il frutto della nostra lotta e del nostro sacrificio.
Tuttavia noi siamo riusciti ad ottenere un risultato positivo, quello di inserire nella Costituzione
Repubblicana i principi ispiratori delle riforme di struttura.
Indubbiamente questo è stato un gran passo in avanti. Dipende ora da noi realizzare quanto la
Costituzione ha accolto, dipende da noi fare in modo che i principi sanciti non rimangano inerti
nelle pagine del Gran Libro e su di essi cada la polvere del tempo e dell’oblio ma diventino realtà
concreta, forme nuove di organizzazione della nostra società italiana, sangue vivo che circoli nelle
vene della Nazione e la risollevi e la guarisca dai suoi mali.
Ma prima di continuare io voglio rispondere ad un’altra domanda che sorge legittima e spontanea.
Perché da due anni le riforme di struttura da pura proposizione teorica, da aspirazione indistinta,
sono diventate esigenza concreta, sono diventate cioè mature?
Perché l’involuzione che da due anni sta subendo la vita democratica del nostro paese apre gli occhi
a chiunque voglia vedere soltanto un poco di luce e dimostra che se vogliamo difendere il nostro
salario ed insieme le nostre conquiste e le nostre libertà, è necessario incidere nel profondo della
struttura economica e sociale dei paese.
Noi esercitiamo sulla struttura capitalistica, attraverso le conquiste realizzate, una pressione tale che
questa struttura è portata a reagire violentemente contro di noi, uscendo dal terreno della legalità
democratica. Noi invece intendiamo difendere e migliorare il tenore di vita dei lavoratori italiani e
le libertà repubblicane e democratiche, ed esigiamo che la presente struttura sociale si adegui alle
necessità del popolo italiano e si muti per raccoglierle e garantirle.
In regime di economia privata ogni attività economica è promossa e regolata dal profitto.
1) PROFITTO E CRISI DEI MERCATI .
Il capitale tenta la via del profitto, la più facile, vale a dire la compressione dei costi attraverso la
riduzione del salario e degli oneri sociali e cosi toglie il principale sano stimolo economico allo
sviluppo produttivo perché di conseguenza ci consegua un mercato anemico, di sottoconsumo. Ma
oltre queste conseguenze di carattere economico altre ben più gravi noi vediamo profilarsi. Gli
uomini del profitto hanno necessità di creare condizioni ideali per la realizzazione dei loro
propositi, per assicurare la difesa delle loro posizioni di privilegio.
Quali sono queste condizioni ideali? La messa fuori combattimento della classe lavoratrice per
assicurarsi l’incontrastato dominio politico e sociale.
La lotta quindi contro le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori, l’insidia della divisione
e del tradimento, l’asservimento dei pubblici poteri, la mobilitazione di tutte le forze della
conservazione, dalle leggi che rappresentano sempre la cristallizzazione sul piano giuridico di una
fase dei rapporti sociali, alle armi spirituali ecc. ecc.
Il fascismo è stato l’ultimo tentativo della borghesia italiana di rinviare la soluzione dei problemi
sociali posti in modo confuso dal popolo italiano nell’immediato dopoguerra 1914-1918. Possiamo
ben dire che oggi, a quattro anni dalla Liberazione, il nostro Paese si trova nelle stesse difficoltà
lasciate dal fascismo negli ultimi anni della sua esistenza. I nodi sono venuti rapidamente al pettine
e mai come ora i problemi della libertà della pace e del rinnovamento sociale sono insieme così
profondamente uniti.
Oggi però vi è questo di profondamente mutato. Noi siamo in grado di lottare efficacemente perché
oggi la classe lavoratrice è ricca di esperienze, più forte più unita e più cosciente di prima,
sicuramente guidata dai suoi organismi politici e sindacali ed ogni tentativo di risolvere contro di
noi le paurose contraddizioni interne del capitalismo sarà da noi rigettato con estremo coraggio e
con estrema decisione.
2) DUALISMO MONOPOLIO E FEUDALESIMO
La struttura economica italiana è oggi un miscuglio di monopolismo e di feudalismo.
Monopolismo che prevale nel settore industriale e finanziario, feudalismo nel settore agricolo.
Cosa determina tutto questo?
Determina, ad esempio, che i concimi chimici prodotti quasi esclusivamente dalla Montecatini
vengono venduti al più alto prezzo di monopolio, mentre l’agricoltura italiana non è in grado di
acquistare il fabbisogno necessario e pertanto consuma concimi chimici in misura inferiore a tutti i
paesi d’Europa.
Il settore metalmeccanico è in crisi con conseguente parziale utilizzazione degli impianti e
disoccupazione delle maestranze, mentre vi è un fabbisogno enorme di macchine agricole che i
contadini piccoli e medi non possono acquistare perché troppo care.
D’altra parte nel settore agricolo il grande agrario assenteista mantiene i terreni in condizioni di
abbandono con grave permanente disoccupazione del bracciantato, perché non reinveste la rendita
agraria nelle opere di bonifica e di trasformazione fondiaria.
Tutto questo per effetto della legge inesorabile del profitto.
Dove vi è minor impiego di capitale abbiamo la rendita fondiaria più alta. Mentre nella Valle
Padana essa si aggira attorno al 10 %, in Sardegna sale fino al 24-25%. Ma nella Valle Padana gli
agrari hanno avuto ed hanno costante il pungolo della pressione dei braccianti (imponibile di mano
d’opera) per continui lavori di miglioria.
Qui la rendita è più reinvestita ed abbiamo per conseguenza l’agricoltura più progredita d’Europa.
In Sardegna non abbiamo il fattore sociale emiliano e la rendita non viene reinvestita pur giungendo
per i terreni a pascolo alla punta altissima del 24-25%.
Ma nei pascoli non abbiamo nemmeno una giornata di lavoro di un bracciante.
Nello stesso settore commerciale, data la struttura del mercato italiano, si verifica la caduta dei
prezzi agricoli alla produzione: vino, carni, ecc. mentre le quantità immesse al consumo sono
inferiori al fabbisogno e i prezzi non diminuiscono. In queste condizioni si accentua lo squilibrio
degli scambi fra città e campagna. La campagna vende alla città prodotti alimentari per un valore
assai inferiore di quanto è obbligata ad acquistare di prodotti industriali.
Questo spiega la miseria delle nostre campagne e le condizioni critiche della piccola e media
proprietà terriera, nonché le tragiche condizioni dei braccianti.
Quelli che ho citati sono alcuni esempi delle paurose contraddizioni cui la presente struttura
economica dà luogo e questo avviene perché il carattere monopolistico delle attività produttrici
determina la formazione dei prezzi.
7) Non si fa il prezzo sulla base dei costi. Si fa il prezzo sulla possibile vendita. E si regola la
vendita, cioè la produzione, secondo il principio: massimo profitto, minima produzione.
3)POLITICHE DI SETTORE ECONOMICO : ( Agricoltura, Energia Elettrica , Industria , Credito)
Cosa fare in questa situazione?
Noi non propugniamo la trasformazione totale e immediata della nostra struttura sociale. Noi ci
rendiamo conto che abbiamo la possibilità di risolvere soltanto i problemi che sono maturi in noi e
nelle cose che sono al di fuori di noi.
Noi non perdiamo il contatto con la realtà. Il vuoto massimalismo è il peggior nemico di ogni serio
movimento operaio organizzato.
Partendo da un punto di vista realistico, obiettivo, noi consideriamo che vi sono tre settori
principali, i più critici della vita economica del paese nei quali occorre urgentemente operare:
il settore dell’elettricità, il settore dell’agricoltura e il settore del credito, quale strumento per
l’attuazione di una politica economica coordinata attraverso il controllo degli investimenti.
La situazione nel settore elettrico è grave; parlo a degli organizzatori sindacali per i quali questo
problema è un problema di tutti i giorni. Abbiamo un deficit annuo nella produzione di circa 7
miliardi di Kwh dovuto alla deficienza di impianti.
La siccità è un fattore stagionale passeggero che può acuire una situazione di carenza, ma non la
determina.
I gruppi monopolistici per costruire gli impianti necessari chiedono aumenti di tariffe per assicurare
al capitale il profitto che stimano necessario. Un aumento di tariffe d’altra parte provocherebbe un
aggravio generale dei costi proprio nel momento nel quale per le esigenze del mercato interno delle
esportazioni l’economia italiana dovrebbe fare ogni sforzo per ridurli.
In realtà le imprese elettriche monopolistiche sono decise a trasformare in uno strumento di lotta
capitalistica la voluta carenza di energia. Pertanto non costruiscono o costruiscono a rilento le
centrali indispensabili alla vita delle nostre industrie per mantenere uno stato permanente di carenza
che faciliti loro l’aumento delle tariffe, ben sapendo che questo non è il fattore che potrà risolvere il
problema.
Come riescono a bilanciare l’offerta con la domanda?
Aumentando i prezzi in modo che diminuisca la richiesta. Le tariffe sono 24 volte quelle di
anteguerra, ma solo nominalmente. In effetti gli introiti delle società elettriche sono almeno 40-45
volte quelli di anteguerra, perché la politica di vendita delle società elettriche è stata volutamente
spostata, contrariamente all’interesse nazionale e quindi dei lavoratori, dalle cosiddette utenze
povere (le utenze industriali), alle utenze ricche (elettrodomestici, illuminazione, ecc.).
Gli utili delle società elettriche sono notevoli e le tariffe, secondo il pensiero di tutti i tecnici, anche
nella misura di 24 volte l’anteguerra sono altamente remunerative perché si riferiscono per gran
parte ad impianti già completamente ammortizzati.
I bilanci delle società elettriche non possono essere un indice obbiettivo del profitto che le società
stesse traggono dall’esercizio della loro attività.
Noi sappiamo ormai che vi è tutta una tecnica sperimentata per l’occultamento degli utili,
occultamento che si fa particolarmente attraverso le cosiddette società distributrici che sono
affiliazioni di comodo.
Per cui si riscontra che in un certo periodo per la vendita di un miliardo e 300 milioni di Kwh alle
utenze dirette la Edison denuncia un incasso di circa 7 miliardi e per la vendita di uguale
quantitativo di energia fatta a società di comodo, a società distributrici, la stessa Edison denuncia un
incasso di circa quattro miliardi
Il monopolio degli elettrici costituisce veramente una camicia di forza dell’economia italiana. Se
non si sviluppa la produzione di energia elettrica in un paese come il nostro privo di altre fonti di
energia le fabbriche chiudono, la disoccupazione aumenta, il tenore di vita della popolazione si
immiserisce ancora di più, tutto il tono civile della nostra vita nazionale decade.
3) POLITICHE DI NAZIONALIZZAZIONI.
Come risolvere il problema?
E quello che è stato fatto del resto anche in paesi ad economia capitalistica, quali la Francia e
l’Inghilterra dove la nazionalizzazione delle industrie elettriche è stata totale.
Solamente nel nostro paese nulla si è fatto e nulla si è tentato in questo senso.
Possiamo continuare in una situazione di questo genere?
Nell’attuale fase della civiltà industriale l’elettricità è un servizio pubblico di alto interesse sociale,
esattamente come il servizio della sicurezza dei cittadini, della scuola, della salute pubblica, ecc.
Ora come nessuno può pensare di affidare il servizio di polizia ad una società anonima, quello della
scuola ad imprese private, quello che ha riguardo alla salute dei cittadini a qualche monopolio, cosi
è delittuoso e suicida che le fonti di energia, di lavoro e di vita del popolo italiano siano lasciate
nelle mani di privati speculatori, siano cioè regolate e rette sulla base del profitto privato che mette
in forse le attività produttive del paese.
La CGIL ha la percezione esatta della gravità e dell’urgenza del problema dell’energia elettrica, che
è problema che ci riguarda non soltanto quando vi sono sospensioni di corrente ed i nostri operai
per due o tre giorni alla settimana sono senza lavoro.
È un problema che trascende i limiti delle nostre categorie, è un problema nazionale che investe gli
interessi di strati e di ceti sempre piu’ larghi.
Il mese scorso la CGIL ha convocato in Roma una Conferenza Nazionale della Elettricità che, oltre
ad essere la dimostrazione del grado di maturità con il quale la CGIL affronta i problemi
fondamentali della vita del paese, ha rappresentato anche un successo notevole.
Sono intervenuti a questo Convegno non solo i rappresentanti delle Federazioni più direttamente
interessate, ma anche quelli di una infinità di categorie e di ceti, commercianti, artigiani, piccoli
industriali, ecc. Quest’ultimi rappresentanti, in modo particolare, hanno dichiarato che la situazione
era insostenibile, che essi non potevano sopportare ulteriori aumenti di tariffe ed erano grati alla
CGIL perché, assenti i grandi organismi economici, assente il governo, solo l’organizzazione dei
lavoratori aveva portato al fuoco della pubblica discussione il problema dell’aumento dell’energia
elettrica, problema vitale per il nostro paese e per le categorie produttive.
La crisi nel settore agricolo presenta due aspetti: uno strutturale qualificato dell’esistenza del
fenomeno del bracciantato (due milioni di contadini che lavorano la terra ma non posseggono la
terra) e l’altro della presenza di vaste estensioni di terreno incolto o mal coltivato.
Voi vedete tutta la gravità della contraddizione.
Ancora un altro aspetto della crisi è quello della crisi del mercato: caduta dei prezzi alla produzione
sia all’interno che all’estero.
Il governo cerca di rimediare all’aspetto strutturale della crisi con timide promesse di riforma che
ancora non si sa se riuscirà, pur nella sua assoluta insufficienza, a tradurre in progetti concreti e farli
accettare alla sua stessa maggioranza e che creerebbe per altro un’altra categoria, quella dei piccoli
proprietari, oppressa dai debiti e dalle imposte e vittima designata in anticipo al prepotere dei
produttori di attrezzi, di concimi e dei prestatori di danaro.
È stato facile con lo slogan “non più proletari, tutti proprietari” al partito democristiano sollecitare e
raccogliere i voti di larghe masse contadine. Ma questi voti non hanno inviato i contadini in
Parlamento. A rappresentarli vi sono in realtà i latifondisti del Meridione e gli esponenti aperti o
mascherati della Confida.
Per quanto riguarda la crisi di mercato il governo pensa di rimediare ripetendo la soluzione
corporativa dei consorzi obbligatori o volontari di produttori.
Il problema della nostra agricoltura va invece affrontato decisamente nei due aspetti della riforma
che soddisfi la fame di terra dei contadini poveri immettendoli in possesso della terra e assicurando
i mezzi per la realizzazione delle trasformazioni fondiarie e rendendo vitali le nuove aziende con gli
aiuti necessari, sviluppando le forme cooperative o consortili (che anche a possesso diviso
assicurino l’unità economica dell’azienda) e affrontando i piani di produzione agricola.
Le due cose - riforma fondiaria e piani di produzione - sono intimamente legati.
Il problema della nostra agricoltura è un problema economico, sociale e umano di urgenza assoluta
improrogabile.
La stessa stampa straniera non amica della CGIL, in occasione dell’ultimo sciopero dei braccianti
ha denunciato la contraddizione della struttura agricola del paese e la sopravvivenza di antiche
forme feudali: due milioni di braccianti, come vi ho detto, che non posseggono altro che la loro
volontà di lavorare, e nello stesso tempo larghissime estensioni di terreno incolto o mal coltivato.
Questo problema riguarda non soltanto i contadini ma anche gli operai del Nord e tutto il paese.
Se vogliamo sollevare queste aree depresse del Mezzogiorno è necessario che anche i lavoratori
industriali del Nord facciano propria la esigenza della riforma fondiaria.
Se noi vogliamo unire i braccianti delle Puglie e della Sicilia ai metallurgici di Genova, Torino,
Milano, è necessario porre uniti il problema per risolverlo nell’interesse comune.
Se noi libereremo dalla fame i contadini del Sud attraverso la riforma fondiaria, tutto il
Mezzogiorno risorgerà a nuova vita, e costituirà un efficiente mercato interno finalmente in grado di
acquistare i prodotti industriali che sono fabbricati dagli operai del Nord.
D’altra parte, non è soltanto un problema economico e sociale; è anche un problema umano perché
noi vogliamo cancellare dal volto del nostro paese il segno della vergogna rappresentato dalla
miseria secolare dei nostri contadini.
Nel settore del credito la situazione è singolare. Le grandi banche, sono nominalmente controllate
dallo Stato o di proprietà dello Stato.
Sono infatti controllate dall’IRI il Banco di Roma, la Banca Commerciale Italiana, il Credito
Italiano, il Banco di Santo Spirito. Vi sono poi gli Istituti di diritto pubblico: il Banco di Napoli, il
Banco di Sicilia, la Banca Nazionale del Lavoro, il Monte dei Paschi di Siena e l’Istituto San Paolo
di Torino. Infine la Banca d’Italia e le Casse di Risparmio.
In totale oltre il 90% del settore creditizio nazionale.
Ebbene, nonostante questa formale appartenenza allo Stato diretta o indiretta, le grandi banche sono
amministrate dai Valletta, dai Costa, dai Nogara, dai Marzotto, che sono gli esponenti dei gruppi di
minoranza privatistica; a proposito dei quali gruppi e della loro azione tendente a snaturare
l’indirizzo e lo scopo degli istituti bancari nei quali lo Stato partecipa come azionista, noi sappiamo
che vi è ormai tutta una tecnica speciale che opera valendosi della deficienza della burocrazia e
dell’assenteismo assoluto del governo.
Nel settore delle banche non si tratta perciò di mutare o di innovare profondamente. Si tratta
semplicemente di mettere questi strumenti al servizio di una politica di investimenti, quale quella
tracciata nel nostro Piano, politica di utilizzazione di tutte le risorse nazionali nell’interesse
collettivo e non nell’interesse dei gruppi monopolistici.
Senza una politica di investimenti che sia promossa dall’interesse della collettività, anziché dal
profitto privato, noi svilupperemo probabilmente le fabbriche di Coca-Cola, ma renderemo più forti
e dominanti i gruppi privati e anemizzeremo sempre più l’IRI sino alla sua completa liquidazione.
Per completare il quadro delle contraddizioni della nostra struttura economica converrebbe qui
parlare della situazione dei settori siderurgico e metalmeccanico ma il discorso mi porterebbe
troppo lontano. Ognuno di voi del resto è in grado di valutare lo stato di crisi di questi settori i cui
impianti sono utilizzati soltanto in misura del 60% circa, mentre la necessità dello sviluppo
industriale del paese esigerebbe una intensa produzione di beni strumentali e di consumo.
Non ho bisogno di aggiungere che lo stato di crisi puntualizzato dalla situazione liquidatoria di
molte aziende è dovuto ad una assoluta mancanza di intervento e di controllo da parte dello stato
negli investimenti e dal prepotere di gruppi monopolistici.
Piuttosto mi pare giunto il momento di domandarci: come ci proponiamo di realizzare le riforme di
struttura, almeno quelle che a noi paiono indispensabili?
La forma, io penso, non può essere che quella della nazionalizzazione.
I mezzi per raggiungere il nostro obiettivo: in primo luogo impostare il problema in termini chiari
ed essenziali davanti all’opinione pubblica, in secondo luogo lottare in Parlamento e fuori per la
realizzazione dei principi già accolti nella Carta Costituzionale presentando appropriati disegni di
legge, battendoci per migliorare eventualmente quelli governativi, operando con una forte azione
sindacale di massa per la realizzazione di una nuova politica economica che abbia questi obiettivi:
massimo impiego di mano d’opera e potenziamento del mercato interno.
Io credo che noi sfogliamo troppo raramente le pagine della Costituzione, la legge fondamentale
della Repubblica italiana.
Se noi leggessimo con maggiore frequenza potremmo portare impressi nella nostra memoria articoli
come l’art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale e in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina
i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata ai fini sociali”.
Quando noi, nel caso specifico, chiediamo la nazionalizzazione delle imprese elettriche, perché lo
svolgersi dell’attività privata in questi settori è in contrasto con l’utilità sociale, facciamo della
demagogia o non chiediamo soltanto che sia applicato un principio sancito dalla Costituzione
democratica e repubblicana del nostro Paese?
L’art. 42 afferma poi: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i
modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indeNnizzo.
Espropriata per motivi di interesse generale”.
Rinuncio a leggervi gli articoli del titolo che si riferisce ai rapporti sociali se non per ricordarvi l’art.
46: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro ed in armonia con le esigenze della
produzione, la repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge, alla gestione dell’azienda”.
È possibile un’azione sindacale di massa per la realizzazione delle riforme di struttura? Io credo di
si e aggiungo che qualche cosa in questo senso noi lo abbiamo già fatto.
Quando i lavoratori della Isotta Fraschini per evitare che i loro stabilimenti vengano smantellati
dichiarano: “Noi prenderemo in esame le richieste di licenziamento soltanto dopo che ci avrete
presentato i piani produttivi”, e sollecitano in questo senso l’intervento dello Stato, in definitiva
danno alla loro lotta il carattere e l’obiettivo della lotta per gli investimenti pubblici in un settore
come quello delle industrie metalmeccaniche che realizza le condizioni del minor investimento di
capitale in rapporto alla maggiore occupazione di lavoratori.
Quando i braccianti lottano per l’imponibile di mano d’opera e per le migliorie fondiarie non
lottano in definitiva per una certa direzione degli investimenti che consenta una maggiore
occupazione nelle campagne?
La FIOM chiese a suo tempo il controllo degli investimenti del FIM e fu forse un errore che questa
richiesta non diventasse un motivo più chiaro, più aperto di fronte ai lavoratori, forse un motivo di
lotta.
Il FIM stesso, che ha stanziato un certo numero di miliardi con un criterio che doveva essere quello
dello sviluppo dell’attività produttiva del settore metalmeccanico, non è forse il risultato dell’azione
condotta dai lavoratori, della lotta che ha indotto il Governo a fare un timido tentativo, troppo presto
abbandonato, nel senso di un intervento dello Stato negli investimenti produttivi?
Considerate la differenza che vi è fra le ragioni di vita dell’IRI e le ragioni di vita del FIM. L’IRI
sorge nel 1933 per difendere gli interessi di grossi capitalisti colpiti da una crisi formidabile, sia
pure sotto il pretesto che questa crisi trascinava a fondo le banche e bisognava difendere i piccoli
risparmiatori. Al contrario dell’IRI, il FIM nasceva come risultato dell’azione svolta dai lavoratori
per la difesa non di interessi privati ma per la difesa dell’industria del nostro Paese.
Vi dicevo che la nazionalizzazione è, nelle condizioni attuali, la forma migliore per realizzare le
riforme di struttura. E nazionalizzare i grandi complessi industriali vuol dire anche sottrarre
all’orbita speculativa e jugulatrice dei monopoli le piccole e medie imprese, assicurandone
condizioni di vita e di sviluppo. Ma nazionalizzare non vuol dire burocratizzare.
Abbiamo in proposito davanti a noi l’esempio dell’IRI che viene sempre meno ai suoi compiti
perché coloro che lo dirigono seguono un criterio privatistico e non quello dell’interesse della
collettività nazionale.
Perciò la nazionalizzazione nelle attuali condizioni politiche fa sorgere un altro problema, quello del
controllo delle forze produttive, degli operai, degli impiegati e dei tecnici.
La nazionalizzazione senza controllo operaio si può ridurre ad una incastellatura burocratica che si
allontana ben presto dagli scopi per i quali è stata realizzata.
Solamente con il controllo permanente degli operai, degli impiegati e dei tecnici la
nazionalizzazione verrà mantenuta nella giusta strada e potrà raggiungere gli obiettivi per i quali
essa viene attuata.
4) I CONSIGLI DI GESTIONE ( Una pagina mancata della Storia Economica Italiana ).
Sorge a questo punto naturale il problema dei Consigli di Gestione, verso i quali noi sindacalisti
dobbiamo onestamente confessare di ritenerci in netta colpa.
Per molto tempo noi abbiamo considerato i Consigli di Gestione come la innocua mania di qualche
volenteroso compagno. Il problema c’è e non basta esprimere la nostra solidarietà e la nostra
simpatia in termini generici di ordini del giorno. Noi saremo in grado di fare veramente qualche
cosa per i Consigli di Gestione quando avremo operato in modo che la loro esigenza sia radicata
nella nostra coscienza, nella coscienza dei lavoratori.
Dunque, le riforme di struttura non sono più oggi aspirazione indistinta delle masse popolari o parte
di programmi di determinati partiti. Sono una esigenza tecnica di progresso economico e sociale del
paese e nello stesso tempo una esigenza politica, una garanzia della difesa della libertà e della
democrazia e della indipendenza nazionale.
Infatti i gruppi monopolistici che fanno del loro privilegio economico un’arma potente di
dominazione politica e sociale, incapaci come sono di risolvere i problemi del pane e del lavoro
degli italiani, cercano oltre frontiera, oltre oceano, la protezione che assicuri la realizzazione dei
loro profitti, a prezzo di mettere a vassallaggio l’economia di tutto il paese. E che sia la nostra
economia in queste condizioni di soggezione che portano fatalmente alla soggezione politica io non
ho bisogno di documentarlo a voi.
La situazione sempre più precaria del nostro apparato produttivo, l’anemizzarsi progressivo dei
nostri scambi con l’estero a direzione obbligata, il conseguente asservimento politico all’America
ne sono i segni e nello stesso tempo le conseguenze più eloquenti.
Vorrei soltanto accennare ad un aspetto economico particolare di questa dipendenza del nostro
paese e dell’Europa, possiamo dire, dall’America.
5) LE RIFORME DI STRUTTURA
Quest’aspetto è rappresentato dal monopolio della ricerca tecnica e scientifica che gli Stati Uniti
detengono, monopolio che viene realizzato comprando a peso d’oro dai tecnici e dagli scienziati di
tutto il mondo i risultati dei loro studi, i loro ritrovati e le loro scoperte.
Questo monopolio impedisce il progresso autonomo delle attività industriali nazionali, fa permanere
la nostra economia in costante ritardo e ci obbliga a servitù tecniche e finanziarie che noi dobbiamo
pagare a profitto degli stranieri.
Cosa fa il governo, il governo della Repubblica Italiana fondata sul lavoro, per rompere le posizioni
monopolistiche all’interno del nostro Paese? Il governo aveva promesso una legge sui monopoli
facendola annunciare, se ben ricordo, per bocca del ministro dell’Industria on. Ivan Matteo
Lombardo. Che ne è avvenuto di questo proposito? La realtà è che questa legge non viene
presentata perché il governo si è accorto che, contrariamente alla opinione che si tenta di
accreditare, tutto in Italia o quasi tutto è monopolio, e che il libero mercato e la libera concorrenza
sono una finzione, sono una menzogna.
In realtà, il governo nulla intende fare per ridurre il prepotere dei monopoli e ciò nonostante le
affermazioni programmatiche e le promesse che talvolta vengono fatte anche da ministri
responsabili. Ancora recentemente alla Camera, discutendosi la mozione Togliatti-Di Vittorio sulle
conseguenze della svalutazione della sterlina, abbiamo registrato una dichiarazione dell’On. De
Gasperi che non abbiamo dimenticato. Preso nella stretta della logica del ragionamento dell’on.
Riccardo Lombardi, il Presidente del Consiglio ha creduto di svincolarsene proclamando di fronte
alla Camera dei Deputati: “Le nazionalizzazioni se non si fanno non è per motivi ideologici. Io sono
pronto a nazionalizzare le industrie che vanno bene, non le industrie che vanno male”.
Ebbene, compagni, noi dobbiamo chiedere all’on. De Gasperi che mantenga fede a questo suo
impegno di governo. Noi domandiamo fin da ora all’on De Gasperi: “A quando la
nazionalizzazione della Edison? A quando la nazionalizzazione della Montecatini? A quando la
nazionalizzazione della FIAT”?
Nazionalizzando questi complessi indubbiamente sani economicamente, noi avremo modo di
salvare altri complessi, salveremo le piccole e medie industrie e le solleveremo dal peso
schiacciante dei trust.
Il compagno Di Vittorio ha esposto ieri le linee di un piano economico e costruttivo che tende a
raggiungere due obiettivi fondamentali: la massima occupazione possibile e un ampliamento del
mercato interno, quindi una elevazione del tenore di vita dei lavoratori italiani.
È un piano la cui realizzazione può veramente avere il risultato di rompere il cerchio della
rassegnazione alla miseria e dell’immobilismo economico, di dare un nuovo slancio alla nostra
economia produttiva, un nuovo volto al nostro paese.
Lasciatemi fare questa constatazione: quale prova migliore della maturità del movimento sindacale
italiano, quale prova migliore che veramente gli interessi che noi rappresentiamo non sono più gli
interessi ristretti della classe, ma quelli generali del paese, di questa discussione a un congresso
della nostra CGIL?
Al di sopra delle esigenze particolari delle varie categorie poniamo, davanti a noi e davanti
all’opinione pubblica le esigenze generali fondamentali di tutto il paese.
Noi non ci attendiamo i piani dal governo, non attendiamo i piani da quegli organismi economici -
Confindustria ed altri gruppi - i quali tuttavia pretendono di avere il potere esclusivo di determinare
la linea di politica economica che il paese deve seguire.
Di fronte alla carenza dei pubblici poteri, di fronte alla incomprensione dei ministri e del governo,
di fronte al cieco e sordo egoismo delle classi padronali siamo noi, i lavoratori italiani, che
presentiamo un grande piano di ripresa e di ricostruzione economica e sociale non nell’interesse
della classe, ma nell’interesse della collettività nazionale.
L’avvenire quali prospettive ci riserva?
I bisogni delle masse popolari italiane che premono dietro di noi sono tali e tanti, insoddisfatti da
secoli, che noi non possiamo perdere molto tempo, troppo tempo.
La mutevole situazione sociale e politica condiziona le forme gli aspetti e gli obiettivi tattici della
nostra lotta.
Oggi, a mio avviso, la linea della nostra azione la possiamo cosi riassumere:
“Lottare per realizzare la Costituzione Repubblicana, lottare per tradurre nei termini concreti della
vita nazionale i principi sociali da essa sanciti”.
Ecco, compagni, un’ulteriore prova della maturità del movimento sindacale italiano.
Noi non siamo più i “sovversivi” nel significato tradizionale del termine, noi siamo sul terreno della
legalità democratica e costituzionale quando lottiamo per la realizzazione delle nostre
rivendicazioni.
Sono sovversivi, fuori dalla legalità costituzionale, coloro che si oppongono a che i principi della
Costituzione vengano realizzati.
Le vicende delle nostre lotte sono alterne. A fasi di slancio seguono talvolta momenti di sosta
apparente. In ogni caso le lotte esigono da ognuno di noi un impegno continuo. Io mi rendo conto
che nell’animo di qualche lavoratore a volte sorga il dubbio, l’interrogativo a noi diretto: “ci parlate
sempre di lotta, di lotta, di lotta. Ma quando mai potremo considerare i nostri risultati raggiunti,
quando vi sarà per noi un attimo di respiro?”.
Io dico a questi lavoratori, dico innanzi tutto a me stesso: la missione della classe lavoratrice è
quella di lottare finché non siano realizzate le nostre profonde aspirazioni che sono riassunte nei
punti programmatici dello Statuto confederale: ” La liberazione del lavoro da ogni sfruttamento “.
Prendiamo esempio da coloro che sono venuti prima di noi.
Io ho un vecchio maestro il cui nome non troverete certo nella storia del movimento socialista; è un
modesto operaio che ha imparato a leggere e a scrivere a 18 anni da un ombrellaio ambulante
perché ad otto anni lavorava già per 14 ore al giorno alla fornace. Io ho sempre presente quello che
mi dice questo vecchio maestro quando richiama alla memoria i tempi delle sue prime lotte,
sessant’anni orsono.
“Facevamo le riunioni della lega la domenica, in aperta campagna, sotto gli alberi, perché avevamo
paura che il padrone ci vedesse. Eravamo pochi, ma pure a poco a poco siamo riusciti a diventare
tanti”.
Sì, compagni, ai primordi del movimento operaio un pugno di uomini coraggiosi aveva inalberato
nel nostro paese la bandiera della riscossa proletaria. Tutto il mondo di allora era contro di loro.
Con coraggio, con tenacia, con pazienza e con spirito di sacrificio questi nostri pionieri riuscirono
alfine a spezzare il cerchio chiuso dell’odio, dell’ignoranza e degli interessi avversi che minacciava
di soffocare il loro cammino.
Essi vinsero allora perché non dubitarono mai.
Dobbiamo dubitare noi che non siamo più pattuglia disperata ai margini della società borghese,
dobbiamo dubitare noi della nostra vittoria ora che siamo tanto più forti per numero e per coscienza,
ora che siamo popolo?
Ferdinando Santi
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Re: IL MODELLO SOCIALE EUROPEO
questo intervento del prof. ferdinando vianello dedicato a federico caffe dimostra la complessita del pensiero keynesiano, la sinistra in riferimento al tema importazioni non deve dimenticare il dumping sociale e quindi le politiche di dazi sociali, su questo punto sarebbe stato molto interessante la discussione con i professori vianello e caffe.
con il prof vianello questa discussione non è possibile ma puo essere possibile con quel 'mattacchione' del prof. caffe che da cuba sposato con una cubana segue le vicende italiane.
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Federico Caffè e l’ “intelligente pragmatismo” (a cura di Fernando Vianello; con un’intervista a Federico Caffè di Sinistra ’77).
Fernando Vianello
Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»
Attilio Esposto e Mario Tiberi (A cura di), “Federico Caffè. Realtà e critica del capitalismo storico”, Meridiana Libri, 1995, pp. 25-42.
Con in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77».
Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»
l. Introduzione.
«Intelligente pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per impiegarla come definizione generale di un atteggiamento intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa, con KEYNES, che «la teoria economica non fornisca un insieme di conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2) suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare, come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).
L’intelligente pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di KEYNES»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile. Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo, e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento, nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).
2. La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.
Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri – e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) – è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo – imposto DALLA necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente – è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri PRIMA che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.
Se la difficoltà sorge dall’insufficienza della capacità produttiva disponibile – che si traduce in un innalzamento della propensione a importare quando venga superato un certo livello di attività produttiva – è a tale insufficienza che va posto rimedio attraverso un’appropriata politica dell’offerta. Un compito, questo, che risulta fortemente facilitato dal fatto che l’insufficienza della capacità produttiva non si manifesta simultaneamente in tutta l’economia, ma assume la forma di strozzature produttive, aggredibili con interventi settoriali. Complementare, e non alternativo, al compito suddetto è quello di accrescere la capacità di esportazione.
Degli ostacoli che le strozzature frappongono alle politiche di piena occupazione erano ben consapevoli quelli che Steve ha chiamato i «keynesiani della PRIMA generazione» (8), fra i quali vanno compresi Michał Kalecki e gli altri autori del libro L’economia della piena occupazione, del 1944, tradotto in italiano nel 1979 con un’introduzione di Caffè (9). «Se non esistono riserve di capacità o QUESTE sono insufficienti – scrive Kalecki in questo libro – il tentativo di assicurare la piena occupazione nel breve periodo può facilmente causare delle tendenze inflazionistiche in vasti settori dell’economia, poiché la struttura della capacità produttiva non è necessariamente adeguata alla struttura della domanda [...]. In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli impiegati in tempo di guerra.» (10). Un’affermazione come questa basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata.
Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio – ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn – se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11). Se proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli investimenti nelle INDUSTRIE esportatrici e in quelle capaci di sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti. Vi sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano attraverso controlli diretti» (12).
Dal fatto che la sostituzione delle importazioni e il potenziamento della capacità di esportazione sono obiettivi di medio o lungo TERMINE, mentre la deflazione va evitata fin dall’inizio (anche per non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi suddetti) può discendere la necessità di imporre controlli amministrativi sulle importazioni di particolari merci, e dunque sulla loro distribuzione all’interno del paese. A proposito delle critiche frequentemente rivolte all’impiego di questi strumenti, uno degli autori del volume L’economia della piena occupazione, Burchardt, ha osservato che «non esistono ragioni a priori per le quali le discriminazioni OPERATE dal mercato contro coloro che hanno meno capacità di pagare debbano considerarsi ispirate a un criterio più obiettivo di quelle consapevolmente adottate dalla collettività contro certi usi o utenti» (13).
3. «E’ consentito discutere di protezionismo economico?».
Se mi sono dilungato sulle idee dei «keynesiani della prima generazione» è per ricordare le radici di una posizione cui Caffè restò fedele per tutta la vita. «Nel mio giudizio – egli affermava nel 1977 – gran parte dei mali economici del PRESENTE è da attribuire al mancato impiego di ragionevoli, circoscritti e selettivi controlli diretti; il che porta ad affidare soltanto ai “prezzi di mercato” una funzione di razionamento, resa spesso iniqua da una distribuzione del reddito e della ricchezza accentuatamente sperequata» (14).
Caffè non si nascondeva l’impopolarità di simili misure. Ma riteneva che la si dovesse combattere attraverso un’opera di persuasione volta a chiarire quali fossero gli obiettivi dei controlli e quali, ben più dolorosi, inconvenienti si sarebbero potuti evitare grazie a essi. «E’ bensì vero – scriveva a questo riguardo – che gli atteggiamenti sociali sono tutt’altro che favorevoli a interventi del genere. Ma la responsabilità degli economisti come professione non consiste nel prendere atto passivamente di tali atteggiamenti, ma [nel] chiedersi sia quanto essi possano aver contribuito ad alimentarli (drammatizzando i costi che sono inevitabili in ogni azione dei pubblici poteri in campo economico); sia quanto possa essere fatto per modificare gli atteggiamenti stessi con opera di chiarificazione e convincimento. Pure, era stato esattamente previsto che l’alternativa ai controlli, ove essi risultino NECESSARI, “non è qualche situazione ideale di pieno impiego senza controlli, ma la disoccupazione con il succedersi di fluttuazioni economiche» (15). La citazione che chiude il brano è tratta dall’ultimo capitolo dell’Economia della piena occupazione (16).
L’accoglienza riservata a proposte anche solo blandamente protezionistiche era tuttavia tale da indurre Caffè a chiedersi, nel titolo di un suo articolo, E’ consentito discutere di protezionismo economico? Certo, non era consentito discuterne pacatamente, la reazione degli avversari consistendo spesso nel rifiuto aprioristico e nella sleale (o stupida) deformazione delle proposte, quando non nell’accusa di volere l’«autarchia» (con quanto di evocativo dell’esperienza fascista questo termine inevitabilmente comportava). Per parte sua, Caffè non smise di fare appello alla ragione. «L’accorto dosaggio tra le misure intese ad accrescere le esportazioni, mantenendole competitive, e quelle rivolte a favorire l’incremento delle produzioni sostitutive delle importazioni – leggiamo nell’articolo appena ricordato – andrebbe cercato su un PIANO di mutua comprensione e di reciproco rispetto. Colpire ogni voce di dissenso con l’addebito di tendenza all’autarchia è mera espressione di arroganza intellettuale ben poco lodevole. E’ auspicabile che a un inesistente monopolio della verità si sostituisca il proposito di tener conto delle ragioni degli altri. E ve ne sono in abbondanza» (17).
4. Contro la libertà di movimento dei capitali.
Un discorso a parte merita la necessità, su cui Caffè ha sempre insistito, di limitare la libertà di movimento dei capitali, particolarmente in un sistema di cambi come quello di Bretton Woods o come il Sistema monetario europeo, cioè in un sistema di cambi modificabili di tempo in tempo con DETERMINATE procedure, ma fissi, o pressoché fissi, fra una modifica e l’altra. La necessità suddetta nasce da due diverse considerazioni. La prima è che, se i capitali sono liberi di spostarsi da una valuta all’altra, la difesa del tasso di cambio grava interamente sulla politica monetaria, impedendo a quest’ultima di tenere adeguatamente conto della situazione economica interna (o costringendola addirittura a muovere nella direzione opposta a quella che tale situazione richiederebbe). La seconda considerazione è che la manovra dei tassi di interesse è comunque di limitata efficacia di fronte a un attacco speculativo in atto; quando infatti la svalutazione di una moneta è attesa a brevissima scadenza, può risultare attraente speculare contro di essa anche in presenza di tassi d’interesse iperbolici, quali l’economia non potrebbe sopportare per più di poche settimane.
Caffè lodava spesso la saggezza dei costruttori del sistema di Bretton Woods, i quali avevano previsto la possibilità di imporre controlli sui movimenti di capitale. E ricordava con particolare approvazione quella clausola dello statuto del Fondo monetario internazionale (rimasta di fatto in vigore SOLO fino al 1961) che escludeva che un paese membro potesse ricorrere all’assistenza del Fondo allo scopo di fronteggiare un’ingente e prolungata fuga di capitali, e prevedeva inoltre che il paese membro potesse essere invitato ad adottare opportuni controlli, atti a impedire un tale uso dei mezzi valutari concessi (18). Egli non ha potuto assistere al tentativo europeo di far convivere cambi fissi e totale libertà di movimento dei capitali: due termini che l’esperienza e la riflessione facevano ritenere antitetici, e che tali si sono rivelati. E non ha neppure potuto assistere al trionfo di una concezione della politica economica che rappresenta l’esatto contrario dell’intelligente pragmatismo: la concezione che suggerisce di fissare il tasso di cambio, asservire a esso la politica monetaria e attendere che l’intera realtà sociale, nella sua infinita complessità, si riassesti – non importa a quali costi – intorno a questo punto fermo. Ma non è difficile immaginare cosa ne avrebbe pensato.
Mi piace anche ricordare l’apprezzamento espresso da Caffè (19) per l’imposta sugli acquisti di valuta proposta con insistenza da James Tobin (20). Un’imposta del genere ridurrebbe il rendimento dei titoli del paese A per chi dispone di moneta del paese B (propria o presa a prestito), e con esso il divario che è necessario mantenere fra i tassi di interesse del paese B e quelli del paese A quando sulla moneta del primo gravano attese di svalutazione. La suddetta riduzione del rendimento (annuo) dei capitali affluiti nel paese A risulterebbe poi tanto più forte quanto minore è la durata dell’operazione, attenuando così la già segnalata caratteristica che l’operazione stessa presenta, di risultare tanto più attraente quanto più vicina è la data alla quale ci si ATTENDE che la svalutazione abbia luogo (anche se va subito aggiunto che ciò non esime dall’apprestare una seconda, più robusta, linea di difesa contro gli attacchi speculativi).
5. Messaggi non ricevuti.
Fra le manifestazioni della vocazione sobriamente protezionistica (e accentuatamente anti-deflazionistica) di Caffè va ricordata la sua opposizione alla partecipazione dell’Italia al Mercato comune europeo nella seconda metà degli anni cinquanta (21). Non che fosse l’unico ad avanzare dubbi e perplessità al riguardo: dubbi e perplessità, com’egli stesso amava ricordare, erano anzi alquanto diffusi fra gli economisti (22). Particolarmente degni di nota appaiono tuttavia i due pericoli che Caffè segnalava: quello del predominio economico della Germania e quello, conseguente al primo, dell’affermarsi a livello europeo di orientamenti di politica economica poco favorevoli al raggiungimento e al mantenimento nel tempo della piena occupazione. Così come non è senza significato che egli si dichiarasse favorevole alla Zona di libero scambio (proposta allora in alternativa al Mercato comune), al cui interno il peso economico della Germania avrebbe potuto essere controbilanciato da quello dell’Inghilterra e l’inclinazione deflazionistica della PRIMA essere corretta dal prevalere nella seconda di correnti d’opinione e impostazioni di politica economica di derivazione keynesiana.
La preoccupazione che l’Europa nascesse SOTTO un segno deflazionistico ci rimanda alla preoccupazione per la nascita sotto lo stesso segno dell’Italia repubblicana, manifestata da Caffè in un articolo come Il mito della deflazione, pubblicato in forma anonima sulla rivista «Cronache sociali» nel 1949 (23). Al GRANDE equivoco del dopoguerra – la riscoperta in nome dell’antifascismo di un liberismo oltranzista – egli contrapponeva in questo notevolissimo articolo una solida formazione keynesiana, un pacato realismo e un’acuta consapevolezza che le occasioni di progresso sociale, una volta perdute, difficilmente si ripresentano.
Da allora Caffè non ha MAI smesso di sfidare il conformismo imperante. Né di ammonire che una cosa sono le difficoltà economiche del paese, altra cosa la loro indebita drammatizzazione come strumento di pressione sul movimento sindacale e sui partiti della sinistra, e come pretestuosa giustificazione di politiche deflazionistiche: si pensi a titoli quali La strategia dell’allarmismo economico (24) o Dal falso miracolo alla falsa agonia (25). (Personalmente schivo, e dimesso nello stile, Caffè amava consegnare il proprio messaggio a titoli squillanti).
Del fatto che QUESTE denunce e questi ammonimenti cadessero sistematicamente nel vuoto Caffè soffriva acutamente, pur senza darsi per vinto. «Gli scritti riuniti in questo volume – così inizia l’introduzione a Un’economia in ritardo – sono accomunati dal destino di costituire, in qualche modo, dei “messaggi non ricevuti”» (26).
Fra coloro che non davano segno di ricevere i suoi messaggi Caffè annoverava non SOLO le forze di governo, ma anche quelle di opposizione, e in particolare il Partito comunista, cui rimproverava la fede incrollabile nel primato della politica sull’economia e una cultura economica subalterna a quella dominante e impermeabile al keynesismo.
La sua critica assunse toni particolarmente accesi poco dopo la metà degli anni settanta, quando il Partito comunista, forte di poderosi successi elettorali, entrò a far PARTE di una vasta coalizione parlamentare che trovava il suo fragile cemento in un programma di stabilizzazione monetaria. Caffè sorrideva amaramente di quel programma e dei suoi presupposti teorici, come anche della generale approvazione con cui venivano accolte le terroristiche ingiunzioni del Fondo monetario internazionale (divenuto ormai, com’egli sottolineava, un organismo ben diverso da quello prefigurato dagli accordi di Bretton Woods).
Considerava un GRAVE errore, da parte della sinistra, garantire il consenso a una politica deflazionistica. E parlava dei guasti economici e sociali che in questo modo si producevano e di quelli cui ci si asteneva dal porre rimedio, del dramma dei giovani senza lavoro, della disgregazione sociale del Mezzogiorno, delle speranze suscitate e destinate ad andare deluse.
La sinistra, soleva ripetere, cadeva in un errore simile a quello commesso nell’immediato dopoguerra, quando aveva preso parte a governi di coalizione caratterizzati sul PIANOeconomico in senso conservatore; con il risultato di consentire alle classi dominanti di rafforzarsi fino al punto di poter fare a meno di dividere con le sinistre il governo del paese.
Mi accadde di intervistarlo, proprio su questi temi, per una rivista delle tante che nascevano e morivano nel convulso clima politico di quegli anni. La rivista, legata alla sinistra sindacale, si chiamava «Sinistra 77» e in quella forma non andò oltre il numero zero (ma rinacque immediatamente, con una diversa redazione e una diversa veste tipografica, come «Sinistra 78», «Sinistra 79» e «Lettere di Sinistra 80», e Caffè prese a collaborarvi direttamente) (27). All’intervista fu dato il titolo 1947-1977: gli stessi errori? Poiché si tratta di un testo introvabile, credo di fornire un utile contributo di documentazione riproducendolo in appendice a questo scritto.
6. Una discussione su Sraffa.
Essendo con ciò venuto a dire dei miei personali rapporti con Caffè, e poiché anche attraverso essi è possibile gettare qualche ulteriore luce su di lui, mi si consenta di indugiarvi sopra brevemente. La profonda intesa che c’era fra noi in tema di politica economica e il conforto che me ne veniva si accompagnavano a un netto dissenso teorico, tacere del quale non mi pare né giusto né utile. La concezione che Caffè aveva della scienza economica nel suo divenire era quella che amava esprimere con le PAROLE di Gustavo Del Vecchio (un economista che egli ha a più riprese tentato di strappare all’oblio) (28): «un’opera costante, continua e successiva, per cui l’edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti, in modo da costituire un tutto solido e armonico» (29). Questa concezione, diciamo così, continuista (o sincretista) era sopravvissuta in lui al chiarimento fornito da Sraffa circa la radicale inconciliabilità fra l’impostazione marginalista e quella propria degli economisti classici e di Marx: per cui non di aggiungere piani si trattava, secondo Sraffa, ma di riprendere un punto di vista «Sommerso e dimenticato» (30).
Fu appunto in occasione della morte di Sraffa che non potei trattenermi dall’entrare in aperta, anche se affettuosissima, polemica con Caffè sulle colonne del «Manifesto», di cui egli era allora un collaboratore abituale. Contro la sua opinione che il contributo di Sraffa dovesse essere assunto come mero «correttivo di incoerenze o storture di ragionamento (31) – dunque, per insistere nella metafora, come consolidamento e abbellimento del vecchio edificio – asserivo che quel che Sraffa aveva mostrato (e inteso mostrare) era la necessità di gettare al macero il marginalismo e di rifondare la teoria economica su basi del tutto DIVERSE (32).
Gettare al macero: l’espressione non gli piacque né punto né poco, e mi telefonò di PRIMAmattina per dirmelo. Per iscritto precisò il suo concetto con accattivante finezza. «Gettare al macero», osservò, è «una variante peggiorativa del “mettere in soffitta” che almeno non esclude che qualcuno possa riscoprire ciò che vi è stato accantonato (33). In seguito mi confessò di essersi convinto che, per quanto riguardava gli intendimenti di Sraffa, avevo probabilmente ragione. Aggiungendo però che si trattava di intendimenti per lui inaccettabili.
7. In difesa del Welfare State.
Tutt’altra, anche se per molti versi convergente, era la sua strada: quella, per così dire, dell’autocritica radicale e dello svuotamento dall’interno, piuttosto che del ripudio dei fondamenti, della teoria neoclassica. E’ per questa strada che egli era giunto alla sfiducia, che pervadeva le fibre più profonde del suo pensiero, nella capacità del mercato di promuovere l’efficienza, di garantire la piena occupazione, di dar luogo a una distribuzione accettabile del reddito e della ricchezza. Ed è da tale motivata sfiducia che derivavano la sua impermeabilità alle lusinghe del neoliberismo e la sua ostinata fedeltà a «una VISIONE del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale» (34).
Criticando la fretta con cui si era voluta proclamare la «fine» del Welfare State, Caffè parlava di una «riedizione del “crollismo”» (35): come, secondo certe interpretazioni marxiste, il sistema capitalistico era in evitabilmente destinato al «crollo», così, egli diceva, le disfunzioni del Welfare State vengono spesso PRESENTATE come sintomi di una «crisi» irreversibile e della necessità di superare la «vecchia» concezione dello Stato come garante del benessere sociale. E richiamava, a questo proposito, le considerazioni di Albert Hirschman sull’«errore strutturalista (o fondamentalista)»: che consiste appunto nel vedere crisi strutturali anche dove non vi sono che rimediabilissimi difetti di funzionamento (36).
Se si accetta la diagnosi di Hirschman, secondo cui il peggioramento qualitativo dei servizi è una conseguenza dell’estensione dei servizi stessi, se ne deve concludere, osservava Caffè, che «in una VISIONE non reazionaria del progresso sociale, non si tratta di ridurre la quantità dei servizi, ma di migliorarne la qualità» (37) combattendo con opportuni strumenti le conseguenze negative dell’estensione; nella consapevolezza che il Welfare State «è una conquista ancora da realizzare faticosamente, non un intralcio fallimentare da scrollarsi di dosso» (38). Quanto poi ai costi del Welfare State, Caffè faceva notare che, da un lato, esiste un margine elevato di «efficienza X» recuperabile a costo nullo, o pressoché nullo (39); e che, dall’altro, «la reazione critica dei contribuenti dovrebbe investire non lo strumento della tassazione in sé, ma il suo uso distorto, la sua incapacità di incidere in zone altamente protette della proprietà della ricchezza» (40).
Il completamento del Welfare State è l’obiettivo che Caffè assegnava a un riformismo che egli voleva rigorosamente laico e portatore di una concezione del Welfare come umanesimo (41); da intendersi, se ho interpretato bene il suo pensiero, come l’opposto di una concezione paternalistico-autoritaria per la quale si tratta di assistere i poveri, e non di riconoscere dei diritti ai cittadini e di promuoverne l’autonomia (42). Ma dal riformismo laico Caffè ha avuto tante e tali delusioni da indurlo ad augurarsi che i compiti cui esso si sottraeva fossero assolti da altri, quale che fosse la loro ispirazione etico-politica. A questa riflessione egli volle dare il massimo risalto esprimendola nella PRIMA pagina della ricordata raccolta In difesa del welfare state: «Non è improbabile che questi “punti fermi” di una concezione economico-sociale progressista, anche se oggi sembrino essere eco sbiadita di un pensiero attardato, si ripresentino – in realtà si stiano già ripresentando – sotto aspetti diversi: come critica a un profitto considerato avulso da preoccupazioni di indole sociale; come attività di volontariato ispirata a un’etica radicata nei valori della trascendenza; come rifiuto di un individualismo spinto a tal punto da perdere ogni contatto con un’economia “al servizio dell’uomo” [...]. Le condizioni di chi è privo di lavoro, di assistenza, di prospettive di elevarsi sono troppo gravi per poter astenersi dal riconoscimento dovuto a chi si faccia carico dei loro problemi, anche se secondo linee di pensiero che siano DIVERSE da quelle dei principi ispiratori del riformismo laico. Ma questo avrà indubbiamente perduta un’occasione; il che del resto non gli è inconsueto» (43).
Appendice.
Intervista a Federico Caffè di «Sinistra 77».
Come ho preannunciato, riproduco qui di seguito il testo dell’intervista concessa da Caffè a «Sinistra 77» sulla partecipazione delle sinistre al governo fino alla metà del 1947 e sugli insegnamenti che se ne potevano trarre trent’anni dopo (44).
Federico Caffè
1947-1977: gli stessi errori?
Intervista a «Sinistra 77».
Quali furono le scelte economiche che caratterizzarono i governi di unità nazionale?
Più che di scelte bisognerebbe forse parlare di non scelte, o di cose che si sarebbero potute fare e non si fecero. Fra le molte proposte che rimasero sulla carta, una delle più importanti è certamente quella del riconoscimento ufficiale dei Consigli di gestione. Il relativo progetto di legge, presentato da Morandi e D’Aragona, incontrò la violenta opposizione della Confindustria e fu insabbiato. Ecco una prima occasione perduta. Uso di proposito questo TERMINE, occasione perduta, proprio perché oggi ci sentiamo troppo spesso ripetere che la storia non può essere letta come una storia di occasioni perdute.
A questo punto Caffè cita un’affermazione di Giorgio Amendola: il cliché di un paese sempre pronto a fare la rivoluzione, ma che non la fa mai per colpa di qualcuno che tradisce, è duro a morire. Si parla SOLO e sempre di occasioni perdute: il Risorgimento, il primo dopoguerra, la Resistenza. Ma se in CENTO anni questo paese non l’ha mai fatta, la rivoluzione, delle ragioni oggettive ci saranno pure («la Repubblica», 17 maggio 1977. Nel parlare mi porge il ritaglio).
In questa tesi c’è un equivoco di fondo. A chi parla di occasioni perdute si attribuisce infatti l’idea che fosse possibile uno sbocco rivoluzionario. Ma ciò serve solo a eludere il vero problema. A nessuno sfugge, oggi come allora, che vi era stata una divisione del mondo in sfere d’influenza e che avevamo gli americani in casa. Il problema storico su cui non riusciamo a intenderci è: posto che non si poteva fare la rivoluzione, che cos’altro si poteva fare? Ciò che è mancato è la volontà di attuare un coraggioso programma di riforme. Per tornare ai Consigli di gestione, si trattava semplicemente di tener conto di quanto gli operai avevano fatto durante la ritirata tedesca per salvare gli impianti industriali del Nord.
Quali sono le altre occasioni perdute?
Un esempio è quello del progetto di legge sul cambio della moneta accoppiato con un’imposta straordinaria sul patrimonio. Anche questo progetto, presentato dal governo Parri, fu deliberatamente insabbiato. Non è vero, com’è stato sostenuto, che la sua attuazione presentasse gravi difficoltà tecniche. Le difficoltà erano esclusivamente di natura politica: mantenere la fiducia di quelli che vengono tradizionalmente chiamati i risparmiatori, fu ritenuto più importante che combattere efficacemente l’inflazione. Finora ho parlato solo di proposte che formarono oggetto di specifici progetti di legge. Ma le cose che si sarebbero potute fare sono assai più numerose. Penso al mantenimento e al ripristino dei controlli amministrativi sui prezzi e di un sistema di razionamenti (anche se in questo caso le difficoltà tecniche non possono essere considerate irrilevanti, DATE le condizioni del paese). Penso anche a una seria riforma urbanistica. E ad alcune nazionalizzazioni, come fu fatto in Inghilterra e anche in Francia. La nazionalizzazione dell’energia elettrica, per esempio, avrebbe potuto essere attuata in modo ben diverso che nel 1962, scaglionando i rimborsi su un arco di trenta o quarant’anni. Di nazionalizzare l’energia elettrica si era, in realtà, parlato durante la Resistenza, e se ne continuò a parlare nell’immediato dopoguerra. Ma non se ne fece nulla. Mentre le cose andavano in questo modo, alcuni ministeri economici erano tenuti dai partiti operai, con uomini prestigiosi e autorevoli come Pesenti e Scoccimarro. Ciò mi rende molto scettico sulla possibilità di realizzare alcunché per il semplice fatto di stare nella «stanza dei bottoni».
Se i partiti operai avallarono con la loro presenza al governo un indirizzo economico liberistico, fu perché lo condividevano o perché pensarono di non poter fare altrimenti?
Viene qui in considerazione la grande influenza esercitata, sul terreno culturale, dalla scuola economica liberale, i cui esponenti erano circondati dal più grande rispetto. Da questa influenza la sinistra non fu per nulla indenne. L’egemonia culturale della triade Del Vecchio, Bresciani Turroni, Einaudi era così forte che le voci critiche riuscivano difficilmente a farsi udire. Provenivano, QUESTE voci critiche, da giovani che gli economisti più attempati guardavano con olimpica indifferenza; oppure da studiosi molto rispettati, come Alberto Breglia, ma inclini per loro natura alla testimonianza di un dissenso piuttosto che alla lotta per l’egemonia.
Ma l’arrendevolezza della sinistra in materia economica non rifletteva anche una precisa gerarchia di obiettivi?
La preoccupazione dominante era, per la sinistra, la scelta istituzionale. Ma anche in seguito le scelte economiche furono considerate SECONDARIE rispetto alle scelte politiche. Non a caso lo slogan di Nenni era «politique d’abord». La mia convinzione, maturata fin da allora è che si trattò di una linea miope. Prendiamo, per esempio, la crisi ministeriale del marzo 1947. Fu subito chiaro che essa preludeva all’estromissione dei partiti operai dal governo. Allora mi chiedo: non era preferibile cadere combattendo? Non era preferibile dare battaglia sulle linee di fondo lungo cui si muoveva la ricostruzione? Una riflessione su questo problema può essere ricca di insegnamenti anche per l’oggi.
Veniamo dunque all’oggi. L’attuale discussione sulla politica economica presenta delle analogie con quella svoltasi nel dopoguerra?
Sul piano dell’egemonia culturale trovo delle analogie sconcertanti. Ricompare con forza il tema dell’efficienza. Si riparla dell’impresa come centro del sistema economico e dell’imprenditore come regolatore incontrastato della vita dell’impresa. Si ripetono, talora con PAROLE identiche; i discorsi che si sentivano nel dopoguerra, quando veniva detto che i Consigli di gestione non consentivano all’imprenditore di fare il suo mestiere, di prendere le decisioni con la necessaria rapidità e snellezza. Anche oggi la sinistra accetta un terreno di discussione proposto da altri. Non riesco a comprendere, per esempio, perché il Partito comunista debba rinunciare programmaticamente a qualsiasi estensione del settore pubblico dell’economia. In particolare, non vedo perché non si dovrebbe nazionalizzare almeno l’industria farmaceutica. Per continuare il paragone con il dopoguerra, mi sembra di cogliere nell’atteggiamento del Partito comunista la stessa paralizzante preoccupazione di rassicurare i ceti medi moderati.
Il problema del Pci è sempre stato quello di FARSI accettare all’interno di un assetto socio-politico che voleva emarginarlo. Non è anche per questo che esso ha assunto atteggiamenti più moderati di quelli tipici dei tradizionali partiti riformisti?
Nell’immediato dopoguerra il più forte partito della sinistra non era il Pci, ma il Psi. Il Pci ne prese il posto in seguito, grazie a una politica molto accorta. Per cominciare, lo scavalcò immediatamente a destra già dalla «svolta di Salerno•, riconoscendo la monarchia. SOTTO il profilo dell’acquisizione di rispettabilità, e quindi dell’efficacia propagandistica e degli esiti elettorali, la politica di Togliatti non si può certo definire sbagliata. L’obiezione che ho rivolto ad Amendola nel corso di un dibattito è, tuttavia, che questa politica è stata utile per il partito, ma forse non altrettanto utile per il paese. Le sinistre potevano almeno far pagare qualcosa per ciò che concedevano. E ciò che concedevano non era poco: l’adesione delle forze organizzate del lavoro. Invece tutto si è risolto nell’avallo dato a una politica di restaurazione.
Con quali conseguenze?
Molte delle cose che si sarebbero potute fare allora non furono fatte, a maggior ragione, neppure in seguito. Il modo in cui si provvide alla ricostruzione e le scelte deflazionistiche dei governi centristi condizionarono tutto lo sviluppo economico italiano. La consapevolezza delle cose non fatte emerse improvvisamente nel 1962, quando la «Nota aggiuntiva» di La Malfa colpì molti come una rivelazione.
La politica economica italiana è sempre stata caratterizzata da un orientamento deflazionistico. Oggi, tuttavia, un simile orientamento e la sua accettazione da PARTE della sinistra sembrano trovare qualche giustificazione nello stato della bilancia dei pagamenti. Dobbiamo dunque chiederci: dove conduce questa strada? Ma anche: esiste una strada diversa?
Continuare sulla strada attuale non mi sembra assolutamente auspicabile. Le nostre esportazioni, tutto sommato, reggono. Ma ciò avviene grazie al lavoro nero e accettando una posizione subalterna nella divisione internazionale del lavoro. Il deterioramento delle ragioni di scambio impone senza dubbio dei sacrifici. Ma affidare la distribuzione dei sacrifici al meccanismo dei prezzi non è affatto l’unica scelta possibile. Questa è, però, la strada che ci viene indicata. Inoltre viene richiesta una maggiore mobilità del lavoro e, più in generale, la liberazione delle decisioni imprenditoriali da tutti i vincoli cui sono oggi sottoposte. Il problema che si pone è se le forze di sinistra debbano accettare QUESTE condizioni (o, meglio, subire il ricatto, poiché di questo in realtà si tratta); oppure se esse debbano proporre un sistema di sacrifici generalizzato e controllato. La Robinson ha scritto che se usassimo anche in tempo di pace i metodi dell’economia di guerra il problema della piena occupazione sarebbe risolto. Non dovrebbe essere questo il programma delle sinistre?
Economia di guerra per scopi non di guerra. Quali sono gli obiettivi prioritari?
Il problema principale è quello dell’occupazione. L’aumento dell’occupazione non può essere affidato all’espansione delle esportazioni, e cioè a una variabile che è fuori del nostro controllo. E’ necessario rilanciare l’edilizia e fare una politica di opere pubbliche, espandere la spesa pubblica nelle sue componenti non assistenziali. C’è però un equivoco di cui dobbiamo liberarci: si sente spesso ripetere che la spesa pubblica deve rivolgersi in maggior misura agli investimenti e in minor misura al pagamento di SALARI e stipendi. Ma alcune riforme fra le più importanti, richiedono un aumento dell’occupazione nel settore terziario. Se si vogliono migliorare i servizi sociali, si devono pagare salari e stipendi. Non è vero, poi, che la spesa pubblica è troppo elevata. E’ il gettito fiscale che è troppo basso per le ragioni che sappiamo.
E quali sono i metodi dell’economia di guerra?
Per esempio il circuito dei capitali. Noi facciamo qualcosa del genere quando blocchiamo la scala MOBILE, imponendo un prestito forzoso. Ma lo facciamo poco e male, colpendo alcuni e non altri. Trascuriamo, poi, lo strumento fondamentale, che è rappresentato da una politica di estesi razionamenti.
… e di controllo delle importazioni.
Certo. Ma occorre anche il razionamento. Bisogna evitare che il razionamento avvenga automaticamente attraverso l’aumento dei prezzi. La mia preoccupazione è che si continui sulla strada del liberismo economico, aggravando progressivamente la situazione del paese. Se si vuole parlare di austerità, per me va bene, purché non sia un esercizio retorico e purché l’austerità sia concretamente finalizzata all’aumento dell’occupazione. E a un’occupazione non precaria. Io vedo la situazione dei giovani. Giovani di venticinque anni che appassiscono nell’inattività. Non è escluso che tutto questo si traduca m un aumento dei suicidi. Occorrono misure immediate per aumentare l’occupazione, accompagnate dagli altri provvedimenti che mi sono sforzato di indicare. Dire che tutto si risolve esportando di più praticando l’austerità e restituendo efficienza al sistema è una colossale mistificazione.
Fra gli argomenti più frequentemente addotti contro una politica di controllo delle importazioni e di razionamenti vi sono quelli relativi ai vincoli del Mercato comune e all’inefficienza della pubblica amministrazione. Qual è la forza di questi argomenti?
I regolamenti del Mercato comune sono stati fatti da PERSONE intelligenti, e prevedono clausole di salvaguardia, scappatoie da usare ne1 momenti di difficoltà. Quanto poi all’inefficienza della pubblica amministrazione, non bisogna esagerare. Nel 1945-46, allora sì, la situazione dei ministeri era disastrosa, anche per effetto delle epurazioni. Eppure si è rapidamente compiuta un’imponente opera di ricostruzione delle ferrovie. Quindi, quando qualcuno ha voluto fare, le cose sono state fatte.
Se l’attuale linea di politica economica non verrà modificata, vi saranno ripercussioni sul quadro politico? E’ compatibile questa politica economica, con uno stabile spostamento a sinistra degli equilibri governativi?
Non mi sento completamente in grado di rispondere a questa domanda. Il mio compito di intellettuale, così come io l’intendo, è quello di indicare un modello alternativo e di dimostrare che si tratta di un modello possibile. Sul resto mi è difficile addentrarmi. Posso dire solo questo. Che, dopo un periodo di restaurazione sociale e dell’assetto dell’economia, la sinistra venga ricacciata all’opposizione mi sembra un’ipotesi da prendere in seria considerazione. Vi è tuttavia, un’ipotesi che mi preoccupa ancora di più: quella di una Sinistra subalterna che, per andare o restare al governo, rimette al passo le forze del lavoro senza ottenere sostanziali trasformazioni economiche. Vorrei aggiungere che, se per miracolo qualche risultato si dovesse raggiungere, ma andasse nel senso di un avvicinamento della nostra situazione a quella, poniamo, della Germania, non è questo il destino che augurerei al mio paese. Si tratta, infatti, di una situazione in cui i lavoratori, pur godendo di un certo benessere, sono in una posizione fortemente subalterna. Non credo, in altri termini, che il risanamento della bilancia dei pagamenti e un riassetto dell’economia, senza l’introduzione di veri elementi di socialismo, sia qualcosa che vale, un traguardo degno di essere indicato alla società italiana. Se ci mettessimo su questa strada, tradiremmo per la seconda volta gli ideali della Resistenza. Non vorrei apparire retorico. Ma tradiremmo l’ideale di costruire un mondo in cui il progresso sociale e CIVILE non rappresenti un sottoprodotto dello sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito.
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Note:
(1) F. Caffè, La crisi del welfare state come riedizione del «crollismo»; in Id., In difesa del welfare state, Rosenberg & Sellier, Torino 1986, p. 19.
(2) J. M. KEYNES, Introduzione ai Cambridge ECONOMIE Handbooks, in Id., COLLECTED Writings, 12, p. 856. Cfr. anche A. Simonazzi, Economia politica: «tecnica di pensiero» o tecniche di aggiustamento?, in «Il Mulino», marzo-aprile 1982.
(3) F. Caffè, Introduzione a In difesa del welfare state cit., p. 10.
(4) Alle proposte avanzate da KEYNES nel novembre 1939 e riformulate qualche mese più tardi in How to Pay for the War (Macmillan, LONDON 1940) Caffè dà il massimo risalto nelle sue Lezioni di politica economica, il cui nono capitolo è significativamente intitolato L’applicazione delle politiche keynesiane: dal finanziamento del secondo conflitto mondiale agli impegni pubblici per il pieno impiego. Cfr. F. Caffè, Lezioni di politica economica, Boringhieri, Torino 1978, pp. 168-9
(5) Keynes, per dirne una, abbraccia il protezionismo negli anni trenta; si piega nel dopoguerra al liberoscambismo americano, adoperandosi tuttavia per una soluzione che lasci spazio alle politiche di piena occupazione; individua dapprima tale soluzione nella predisposizione di una fonte di liquidità per i paesi in disavanzo (L’International CLEARING Union); reagisce infine al mancato accoglimento della sua proposta affidando la salvaguardia della piena occupazione alla modificabilità dei tassi di cambio e alla possibilità di imporre restrizioni alla libertà di movimento dei capitali. Cfr. Simonazzi, Economia politica cit., p. 225. Per un’ampia analisi delle posizioni assunte in diversi momenti da Keynes in tema di relazioni economiche internazionali cfr. L. M. Milone, Libero scambio, protezionismo e cooperazione internazionale nel pensiero di Keynes, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993.
(6) Impedire che la piena occupazione si traduca in un eccessivo aumento dei salari monetari e dei prezzi rappresenta, scrive Keynes nel 1943, «uno dei principali compiti con cui dovrà misurarsi la nostra ARTE di governo». Note by Lord Keynes, in «Economic Journal», december 1944, riprodotta in J. M. Keynes, COLLECTED Writings, 26, pp. 39-40.
(7) Di Fuà e Steve – entrambi presenti a questo Convegno, anche se solo Steve come relatore – voglio ricordare i lucidi interventi alla Conferenza economica nazionale per il «PIANO del lavoro» della Cgil. Cfr. Il PIANO del lavoro. Resoconto integrale della Conferenza economica nazionale della CGIL e un’appendice. Roma 18-20 febbraio 1950, Stab. Tip. Uesisa, Roma, pp. 131-7 e 215-9. Di Steve si veda anche il notevolissimo articolo Politica finanziaria e sviluppo dell’economia italiana, in «Moneta e credito», secondo trimestre, 1950.
(8) Cfr. S. Steve, Politica fiscale keynesiana e inflazione, in «Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali», febbraio 1977, p. 98.
(9) F. A. Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1979.
(10) M. Kalecki, Tre metodi per la piena occupazione, in Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione cit., p. 73.
(11) R. F. Kahn, Memorandum of evidence submitted to the Radcliffe Committee (1958), in Id., Selected Essays on Employment and Growth, Cambridge UNIVERSITY Press, Cambridge 1972, p. 133.
(12) Ibid., p. 136.
(13) F. A. Burchardt, Le CAUSE della disoccupazione, in Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione cit., p. 66.
(14) F. Caffè, Teoria economica e politica economica in Italia, in «Civiltà delle macchine», settembre-dicembre 1976, p. 67.
(15) F. Caffè, KEYNES oggi, in Id., L’economia contemporanea. I protagonisti e altri saggi, Edizioni Studium, Roma 1981, p. 87.
(16) Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione cit., p. 254.
(17) F. Caffè, E’ consentito discutere di protezionismo economico? (1977), in Id., La solitudine del riformista, a cura di N. Acocella e M. Franzini, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 240.
(18) Cfr. in particolare F. Caffè, Vecchi e nuovi trasferimenti anormali dei capitali (1966), in Id., Teorie e problemi di politica sociale, Laterza, Bari 1970, p. 105.
(19) Cfr. F. Caffè, Umanesimo del welfare (1986), in Id., La solitudine cit., pp. 258-9.
(20) Cfr. J. Tobin, A Proposal for INTERNATIONAL Monetary Reform (1978), in Id., Essays in ECONOMICS. Theory and Policy, The MIT Press, CAMBRIDGE (Mass.)-London 1982, pp. 488-94.
(21) Cfr. F. Caffè, Sguardi su un mondo economico in trasformazione (1957), in F. Caffè, Saggi critici di economia, De LUCA, Roma 1958. Ho richiamato l’attenzione su questo saggio in un ricordo di Federico Caffè pubblicato sul «Manifesto» del 16 aprile 1988. Da tale testo ho attinto liberamente nella stesura dei punti 5 e 6.
(22) Cfr. su ciò M. de Cecco, Gli economisti italiani e l’adesione dell’Italia al Mec, in Aa.Vv., Scelte politiche e teorie economiche in Italia 1945-1978, a cura di G. Lunghini, Einaudi, Torino 1981, pp. 245-57.
(23) Cfr. F. Caffè, Il mito della deflazione, in «Cronache sociali», 13 luglio 1949. Si veda anche, sulla stessa rivista, il successivo articolo Bilancio di una politica (settembre-ottobre 1949, 16-17 e 18).
(24) F. Caffè, La strategia dell’allarmismo economico (1972) in Id., Un’economia in ritardo, Boringhieri, Torino 1976, pp. 48 segg.
(25) F. Caffè, Dal falso miracolo alla falsa «agonia», in «Il punto di riferimento», maggio-giugno 1975, pp. 27-9.
(26) F. Caffè, Un’economia in ritardo cit., p. 7.
(27) Si vedano gli articoli riprodotti in Caffè, La solutine cit., pp. 80-2, 81-9, 143-5, 146-9, 150-1, 155-8, 163-5, 168-82 e 225-9.
(28) Caffè ha, fra l’altro, curato una raccolta di scritti ti Del Vecchio: Antologia degli scritti di Gustavo Del Vecchio nel centenario della nascita (1883-1983), introduzione e cura di F. Caffè, Collana di pubblicazioni dell’Istituto di Politica economica e finanziaria della Facoltà di economia e commercio dell’Università di ROMA, Angeli, Milano 1983.
(29) G. Del Vecchio, Economia generale, Utet Torino 1961, p. 741. Cfr. anche F. Caffè, Economia senza profeti. Contributi di bibliografia economica, Nuova Universale Studium, ROMA 1977, pp. 10-1.
(30) P. Sraffa, Produzione di MERCI a mezzo di merci, Einaudi, T orino 1960, p. V.
(31) F. Caffè, Morte di un GRANDE economista. La solitudine insidiata di Sraffa, in «Il Mamfesto», 7 settembre 1983; ristampato in Caffè, La solitudine cit., pp. 23-5.
(32) F. Vianello, Sraffa dopo Sraffa. Correggere o rifondare la teoria economica, in «Il Manifesto», 14 settembre 1983.
(33) F. Caffè, Una precisazione, in «Il Manifesto», 14 settembre 1983.
(34) Caffè, Introduzione a In difesa del welfare state cit., p. 10.
(35) Cfr. Caffè, La crisi del welfare state cit., p.18.
(36) Cfr. A. O. Hirschman, Lo stato sociale in difficoltà crisi sistemica o mal di crescita?, in Id., L’economia politica come scienza morale e sociale, Liguori, NAPOLI 1987, pp. 135-40.
(37) Caffè, La crisi del welfare state cit., p. 20.
(38) Ibid., p. 24.
(39) Caffè, Umanesimo del welfare cit., p. 255.
(40) Caffè, La crisi del welfare state cit., p. 18.
(41) Caffè, Umanesimo del welfare cit.
(42) Cfr. F. Vianello, Umanesimo del welfare: qualche riflessione, in Aa.Vv., In difesa del welfare state, a cura di G. M. Rey e G. C. Romagnoli, Angeli, Milano 1993, pp. 107-17 (in particolare p. 112).
(43) Caffè, Introduzione a In difesa del welfare state cit., p. 7.
(44) All’incontro con Caffè partecipò anche ANTONIO Lettieri, cui è dovuta una parte delle domande. Solo mia è invece la trascrizione delle risposte.
con il prof vianello questa discussione non è possibile ma puo essere possibile con quel 'mattacchione' del prof. caffe che da cuba sposato con una cubana segue le vicende italiane.
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Federico Caffè e l’ “intelligente pragmatismo” (a cura di Fernando Vianello; con un’intervista a Federico Caffè di Sinistra ’77).
Fernando Vianello
Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»
Attilio Esposto e Mario Tiberi (A cura di), “Federico Caffè. Realtà e critica del capitalismo storico”, Meridiana Libri, 1995, pp. 25-42.
Con in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77».
Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»
l. Introduzione.
«Intelligente pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per impiegarla come definizione generale di un atteggiamento intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa, con KEYNES, che «la teoria economica non fornisca un insieme di conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2) suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare, come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).
L’intelligente pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di KEYNES»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile. Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo, e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento, nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).
2. La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.
Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri – e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) – è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo – imposto DALLA necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente – è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri PRIMA che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.
Se la difficoltà sorge dall’insufficienza della capacità produttiva disponibile – che si traduce in un innalzamento della propensione a importare quando venga superato un certo livello di attività produttiva – è a tale insufficienza che va posto rimedio attraverso un’appropriata politica dell’offerta. Un compito, questo, che risulta fortemente facilitato dal fatto che l’insufficienza della capacità produttiva non si manifesta simultaneamente in tutta l’economia, ma assume la forma di strozzature produttive, aggredibili con interventi settoriali. Complementare, e non alternativo, al compito suddetto è quello di accrescere la capacità di esportazione.
Degli ostacoli che le strozzature frappongono alle politiche di piena occupazione erano ben consapevoli quelli che Steve ha chiamato i «keynesiani della PRIMA generazione» (8), fra i quali vanno compresi Michał Kalecki e gli altri autori del libro L’economia della piena occupazione, del 1944, tradotto in italiano nel 1979 con un’introduzione di Caffè (9). «Se non esistono riserve di capacità o QUESTE sono insufficienti – scrive Kalecki in questo libro – il tentativo di assicurare la piena occupazione nel breve periodo può facilmente causare delle tendenze inflazionistiche in vasti settori dell’economia, poiché la struttura della capacità produttiva non è necessariamente adeguata alla struttura della domanda [...]. In un’economia nella quale l’attrezzatura produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli impiegati in tempo di guerra.» (10). Un’affermazione come questa basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno della domanda aggregata.
Se, anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio – ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn – se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni.» (11). Se proprio occorre ridurre gli investimenti, afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli investimenti nelle INDUSTRIE esportatrici e in quelle capaci di sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti. Vi sono qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che operano attraverso controlli diretti» (12).
Dal fatto che la sostituzione delle importazioni e il potenziamento della capacità di esportazione sono obiettivi di medio o lungo TERMINE, mentre la deflazione va evitata fin dall’inizio (anche per non pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi suddetti) può discendere la necessità di imporre controlli amministrativi sulle importazioni di particolari merci, e dunque sulla loro distribuzione all’interno del paese. A proposito delle critiche frequentemente rivolte all’impiego di questi strumenti, uno degli autori del volume L’economia della piena occupazione, Burchardt, ha osservato che «non esistono ragioni a priori per le quali le discriminazioni OPERATE dal mercato contro coloro che hanno meno capacità di pagare debbano considerarsi ispirate a un criterio più obiettivo di quelle consapevolmente adottate dalla collettività contro certi usi o utenti» (13).
3. «E’ consentito discutere di protezionismo economico?».
Se mi sono dilungato sulle idee dei «keynesiani della prima generazione» è per ricordare le radici di una posizione cui Caffè restò fedele per tutta la vita. «Nel mio giudizio – egli affermava nel 1977 – gran parte dei mali economici del PRESENTE è da attribuire al mancato impiego di ragionevoli, circoscritti e selettivi controlli diretti; il che porta ad affidare soltanto ai “prezzi di mercato” una funzione di razionamento, resa spesso iniqua da una distribuzione del reddito e della ricchezza accentuatamente sperequata» (14).
Caffè non si nascondeva l’impopolarità di simili misure. Ma riteneva che la si dovesse combattere attraverso un’opera di persuasione volta a chiarire quali fossero gli obiettivi dei controlli e quali, ben più dolorosi, inconvenienti si sarebbero potuti evitare grazie a essi. «E’ bensì vero – scriveva a questo riguardo – che gli atteggiamenti sociali sono tutt’altro che favorevoli a interventi del genere. Ma la responsabilità degli economisti come professione non consiste nel prendere atto passivamente di tali atteggiamenti, ma [nel] chiedersi sia quanto essi possano aver contribuito ad alimentarli (drammatizzando i costi che sono inevitabili in ogni azione dei pubblici poteri in campo economico); sia quanto possa essere fatto per modificare gli atteggiamenti stessi con opera di chiarificazione e convincimento. Pure, era stato esattamente previsto che l’alternativa ai controlli, ove essi risultino NECESSARI, “non è qualche situazione ideale di pieno impiego senza controlli, ma la disoccupazione con il succedersi di fluttuazioni economiche» (15). La citazione che chiude il brano è tratta dall’ultimo capitolo dell’Economia della piena occupazione (16).
L’accoglienza riservata a proposte anche solo blandamente protezionistiche era tuttavia tale da indurre Caffè a chiedersi, nel titolo di un suo articolo, E’ consentito discutere di protezionismo economico? Certo, non era consentito discuterne pacatamente, la reazione degli avversari consistendo spesso nel rifiuto aprioristico e nella sleale (o stupida) deformazione delle proposte, quando non nell’accusa di volere l’«autarchia» (con quanto di evocativo dell’esperienza fascista questo termine inevitabilmente comportava). Per parte sua, Caffè non smise di fare appello alla ragione. «L’accorto dosaggio tra le misure intese ad accrescere le esportazioni, mantenendole competitive, e quelle rivolte a favorire l’incremento delle produzioni sostitutive delle importazioni – leggiamo nell’articolo appena ricordato – andrebbe cercato su un PIANO di mutua comprensione e di reciproco rispetto. Colpire ogni voce di dissenso con l’addebito di tendenza all’autarchia è mera espressione di arroganza intellettuale ben poco lodevole. E’ auspicabile che a un inesistente monopolio della verità si sostituisca il proposito di tener conto delle ragioni degli altri. E ve ne sono in abbondanza» (17).
4. Contro la libertà di movimento dei capitali.
Un discorso a parte merita la necessità, su cui Caffè ha sempre insistito, di limitare la libertà di movimento dei capitali, particolarmente in un sistema di cambi come quello di Bretton Woods o come il Sistema monetario europeo, cioè in un sistema di cambi modificabili di tempo in tempo con DETERMINATE procedure, ma fissi, o pressoché fissi, fra una modifica e l’altra. La necessità suddetta nasce da due diverse considerazioni. La prima è che, se i capitali sono liberi di spostarsi da una valuta all’altra, la difesa del tasso di cambio grava interamente sulla politica monetaria, impedendo a quest’ultima di tenere adeguatamente conto della situazione economica interna (o costringendola addirittura a muovere nella direzione opposta a quella che tale situazione richiederebbe). La seconda considerazione è che la manovra dei tassi di interesse è comunque di limitata efficacia di fronte a un attacco speculativo in atto; quando infatti la svalutazione di una moneta è attesa a brevissima scadenza, può risultare attraente speculare contro di essa anche in presenza di tassi d’interesse iperbolici, quali l’economia non potrebbe sopportare per più di poche settimane.
Caffè lodava spesso la saggezza dei costruttori del sistema di Bretton Woods, i quali avevano previsto la possibilità di imporre controlli sui movimenti di capitale. E ricordava con particolare approvazione quella clausola dello statuto del Fondo monetario internazionale (rimasta di fatto in vigore SOLO fino al 1961) che escludeva che un paese membro potesse ricorrere all’assistenza del Fondo allo scopo di fronteggiare un’ingente e prolungata fuga di capitali, e prevedeva inoltre che il paese membro potesse essere invitato ad adottare opportuni controlli, atti a impedire un tale uso dei mezzi valutari concessi (18). Egli non ha potuto assistere al tentativo europeo di far convivere cambi fissi e totale libertà di movimento dei capitali: due termini che l’esperienza e la riflessione facevano ritenere antitetici, e che tali si sono rivelati. E non ha neppure potuto assistere al trionfo di una concezione della politica economica che rappresenta l’esatto contrario dell’intelligente pragmatismo: la concezione che suggerisce di fissare il tasso di cambio, asservire a esso la politica monetaria e attendere che l’intera realtà sociale, nella sua infinita complessità, si riassesti – non importa a quali costi – intorno a questo punto fermo. Ma non è difficile immaginare cosa ne avrebbe pensato.
Mi piace anche ricordare l’apprezzamento espresso da Caffè (19) per l’imposta sugli acquisti di valuta proposta con insistenza da James Tobin (20). Un’imposta del genere ridurrebbe il rendimento dei titoli del paese A per chi dispone di moneta del paese B (propria o presa a prestito), e con esso il divario che è necessario mantenere fra i tassi di interesse del paese B e quelli del paese A quando sulla moneta del primo gravano attese di svalutazione. La suddetta riduzione del rendimento (annuo) dei capitali affluiti nel paese A risulterebbe poi tanto più forte quanto minore è la durata dell’operazione, attenuando così la già segnalata caratteristica che l’operazione stessa presenta, di risultare tanto più attraente quanto più vicina è la data alla quale ci si ATTENDE che la svalutazione abbia luogo (anche se va subito aggiunto che ciò non esime dall’apprestare una seconda, più robusta, linea di difesa contro gli attacchi speculativi).
5. Messaggi non ricevuti.
Fra le manifestazioni della vocazione sobriamente protezionistica (e accentuatamente anti-deflazionistica) di Caffè va ricordata la sua opposizione alla partecipazione dell’Italia al Mercato comune europeo nella seconda metà degli anni cinquanta (21). Non che fosse l’unico ad avanzare dubbi e perplessità al riguardo: dubbi e perplessità, com’egli stesso amava ricordare, erano anzi alquanto diffusi fra gli economisti (22). Particolarmente degni di nota appaiono tuttavia i due pericoli che Caffè segnalava: quello del predominio economico della Germania e quello, conseguente al primo, dell’affermarsi a livello europeo di orientamenti di politica economica poco favorevoli al raggiungimento e al mantenimento nel tempo della piena occupazione. Così come non è senza significato che egli si dichiarasse favorevole alla Zona di libero scambio (proposta allora in alternativa al Mercato comune), al cui interno il peso economico della Germania avrebbe potuto essere controbilanciato da quello dell’Inghilterra e l’inclinazione deflazionistica della PRIMA essere corretta dal prevalere nella seconda di correnti d’opinione e impostazioni di politica economica di derivazione keynesiana.
La preoccupazione che l’Europa nascesse SOTTO un segno deflazionistico ci rimanda alla preoccupazione per la nascita sotto lo stesso segno dell’Italia repubblicana, manifestata da Caffè in un articolo come Il mito della deflazione, pubblicato in forma anonima sulla rivista «Cronache sociali» nel 1949 (23). Al GRANDE equivoco del dopoguerra – la riscoperta in nome dell’antifascismo di un liberismo oltranzista – egli contrapponeva in questo notevolissimo articolo una solida formazione keynesiana, un pacato realismo e un’acuta consapevolezza che le occasioni di progresso sociale, una volta perdute, difficilmente si ripresentano.
Da allora Caffè non ha MAI smesso di sfidare il conformismo imperante. Né di ammonire che una cosa sono le difficoltà economiche del paese, altra cosa la loro indebita drammatizzazione come strumento di pressione sul movimento sindacale e sui partiti della sinistra, e come pretestuosa giustificazione di politiche deflazionistiche: si pensi a titoli quali La strategia dell’allarmismo economico (24) o Dal falso miracolo alla falsa agonia (25). (Personalmente schivo, e dimesso nello stile, Caffè amava consegnare il proprio messaggio a titoli squillanti).
Del fatto che QUESTE denunce e questi ammonimenti cadessero sistematicamente nel vuoto Caffè soffriva acutamente, pur senza darsi per vinto. «Gli scritti riuniti in questo volume – così inizia l’introduzione a Un’economia in ritardo – sono accomunati dal destino di costituire, in qualche modo, dei “messaggi non ricevuti”» (26).
Fra coloro che non davano segno di ricevere i suoi messaggi Caffè annoverava non SOLO le forze di governo, ma anche quelle di opposizione, e in particolare il Partito comunista, cui rimproverava la fede incrollabile nel primato della politica sull’economia e una cultura economica subalterna a quella dominante e impermeabile al keynesismo.
La sua critica assunse toni particolarmente accesi poco dopo la metà degli anni settanta, quando il Partito comunista, forte di poderosi successi elettorali, entrò a far PARTE di una vasta coalizione parlamentare che trovava il suo fragile cemento in un programma di stabilizzazione monetaria. Caffè sorrideva amaramente di quel programma e dei suoi presupposti teorici, come anche della generale approvazione con cui venivano accolte le terroristiche ingiunzioni del Fondo monetario internazionale (divenuto ormai, com’egli sottolineava, un organismo ben diverso da quello prefigurato dagli accordi di Bretton Woods).
Considerava un GRAVE errore, da parte della sinistra, garantire il consenso a una politica deflazionistica. E parlava dei guasti economici e sociali che in questo modo si producevano e di quelli cui ci si asteneva dal porre rimedio, del dramma dei giovani senza lavoro, della disgregazione sociale del Mezzogiorno, delle speranze suscitate e destinate ad andare deluse.
La sinistra, soleva ripetere, cadeva in un errore simile a quello commesso nell’immediato dopoguerra, quando aveva preso parte a governi di coalizione caratterizzati sul PIANOeconomico in senso conservatore; con il risultato di consentire alle classi dominanti di rafforzarsi fino al punto di poter fare a meno di dividere con le sinistre il governo del paese.
Mi accadde di intervistarlo, proprio su questi temi, per una rivista delle tante che nascevano e morivano nel convulso clima politico di quegli anni. La rivista, legata alla sinistra sindacale, si chiamava «Sinistra 77» e in quella forma non andò oltre il numero zero (ma rinacque immediatamente, con una diversa redazione e una diversa veste tipografica, come «Sinistra 78», «Sinistra 79» e «Lettere di Sinistra 80», e Caffè prese a collaborarvi direttamente) (27). All’intervista fu dato il titolo 1947-1977: gli stessi errori? Poiché si tratta di un testo introvabile, credo di fornire un utile contributo di documentazione riproducendolo in appendice a questo scritto.
6. Una discussione su Sraffa.
Essendo con ciò venuto a dire dei miei personali rapporti con Caffè, e poiché anche attraverso essi è possibile gettare qualche ulteriore luce su di lui, mi si consenta di indugiarvi sopra brevemente. La profonda intesa che c’era fra noi in tema di politica economica e il conforto che me ne veniva si accompagnavano a un netto dissenso teorico, tacere del quale non mi pare né giusto né utile. La concezione che Caffè aveva della scienza economica nel suo divenire era quella che amava esprimere con le PAROLE di Gustavo Del Vecchio (un economista che egli ha a più riprese tentato di strappare all’oblio) (28): «un’opera costante, continua e successiva, per cui l’edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti, in modo da costituire un tutto solido e armonico» (29). Questa concezione, diciamo così, continuista (o sincretista) era sopravvissuta in lui al chiarimento fornito da Sraffa circa la radicale inconciliabilità fra l’impostazione marginalista e quella propria degli economisti classici e di Marx: per cui non di aggiungere piani si trattava, secondo Sraffa, ma di riprendere un punto di vista «Sommerso e dimenticato» (30).
Fu appunto in occasione della morte di Sraffa che non potei trattenermi dall’entrare in aperta, anche se affettuosissima, polemica con Caffè sulle colonne del «Manifesto», di cui egli era allora un collaboratore abituale. Contro la sua opinione che il contributo di Sraffa dovesse essere assunto come mero «correttivo di incoerenze o storture di ragionamento (31) – dunque, per insistere nella metafora, come consolidamento e abbellimento del vecchio edificio – asserivo che quel che Sraffa aveva mostrato (e inteso mostrare) era la necessità di gettare al macero il marginalismo e di rifondare la teoria economica su basi del tutto DIVERSE (32).
Gettare al macero: l’espressione non gli piacque né punto né poco, e mi telefonò di PRIMAmattina per dirmelo. Per iscritto precisò il suo concetto con accattivante finezza. «Gettare al macero», osservò, è «una variante peggiorativa del “mettere in soffitta” che almeno non esclude che qualcuno possa riscoprire ciò che vi è stato accantonato (33). In seguito mi confessò di essersi convinto che, per quanto riguardava gli intendimenti di Sraffa, avevo probabilmente ragione. Aggiungendo però che si trattava di intendimenti per lui inaccettabili.
7. In difesa del Welfare State.
Tutt’altra, anche se per molti versi convergente, era la sua strada: quella, per così dire, dell’autocritica radicale e dello svuotamento dall’interno, piuttosto che del ripudio dei fondamenti, della teoria neoclassica. E’ per questa strada che egli era giunto alla sfiducia, che pervadeva le fibre più profonde del suo pensiero, nella capacità del mercato di promuovere l’efficienza, di garantire la piena occupazione, di dar luogo a una distribuzione accettabile del reddito e della ricchezza. Ed è da tale motivata sfiducia che derivavano la sua impermeabilità alle lusinghe del neoliberismo e la sua ostinata fedeltà a «una VISIONE del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale» (34).
Criticando la fretta con cui si era voluta proclamare la «fine» del Welfare State, Caffè parlava di una «riedizione del “crollismo”» (35): come, secondo certe interpretazioni marxiste, il sistema capitalistico era in evitabilmente destinato al «crollo», così, egli diceva, le disfunzioni del Welfare State vengono spesso PRESENTATE come sintomi di una «crisi» irreversibile e della necessità di superare la «vecchia» concezione dello Stato come garante del benessere sociale. E richiamava, a questo proposito, le considerazioni di Albert Hirschman sull’«errore strutturalista (o fondamentalista)»: che consiste appunto nel vedere crisi strutturali anche dove non vi sono che rimediabilissimi difetti di funzionamento (36).
Se si accetta la diagnosi di Hirschman, secondo cui il peggioramento qualitativo dei servizi è una conseguenza dell’estensione dei servizi stessi, se ne deve concludere, osservava Caffè, che «in una VISIONE non reazionaria del progresso sociale, non si tratta di ridurre la quantità dei servizi, ma di migliorarne la qualità» (37) combattendo con opportuni strumenti le conseguenze negative dell’estensione; nella consapevolezza che il Welfare State «è una conquista ancora da realizzare faticosamente, non un intralcio fallimentare da scrollarsi di dosso» (38). Quanto poi ai costi del Welfare State, Caffè faceva notare che, da un lato, esiste un margine elevato di «efficienza X» recuperabile a costo nullo, o pressoché nullo (39); e che, dall’altro, «la reazione critica dei contribuenti dovrebbe investire non lo strumento della tassazione in sé, ma il suo uso distorto, la sua incapacità di incidere in zone altamente protette della proprietà della ricchezza» (40).
Il completamento del Welfare State è l’obiettivo che Caffè assegnava a un riformismo che egli voleva rigorosamente laico e portatore di una concezione del Welfare come umanesimo (41); da intendersi, se ho interpretato bene il suo pensiero, come l’opposto di una concezione paternalistico-autoritaria per la quale si tratta di assistere i poveri, e non di riconoscere dei diritti ai cittadini e di promuoverne l’autonomia (42). Ma dal riformismo laico Caffè ha avuto tante e tali delusioni da indurlo ad augurarsi che i compiti cui esso si sottraeva fossero assolti da altri, quale che fosse la loro ispirazione etico-politica. A questa riflessione egli volle dare il massimo risalto esprimendola nella PRIMA pagina della ricordata raccolta In difesa del welfare state: «Non è improbabile che questi “punti fermi” di una concezione economico-sociale progressista, anche se oggi sembrino essere eco sbiadita di un pensiero attardato, si ripresentino – in realtà si stiano già ripresentando – sotto aspetti diversi: come critica a un profitto considerato avulso da preoccupazioni di indole sociale; come attività di volontariato ispirata a un’etica radicata nei valori della trascendenza; come rifiuto di un individualismo spinto a tal punto da perdere ogni contatto con un’economia “al servizio dell’uomo” [...]. Le condizioni di chi è privo di lavoro, di assistenza, di prospettive di elevarsi sono troppo gravi per poter astenersi dal riconoscimento dovuto a chi si faccia carico dei loro problemi, anche se secondo linee di pensiero che siano DIVERSE da quelle dei principi ispiratori del riformismo laico. Ma questo avrà indubbiamente perduta un’occasione; il che del resto non gli è inconsueto» (43).
Appendice.
Intervista a Federico Caffè di «Sinistra 77».
Come ho preannunciato, riproduco qui di seguito il testo dell’intervista concessa da Caffè a «Sinistra 77» sulla partecipazione delle sinistre al governo fino alla metà del 1947 e sugli insegnamenti che se ne potevano trarre trent’anni dopo (44).
Federico Caffè
1947-1977: gli stessi errori?
Intervista a «Sinistra 77».
Quali furono le scelte economiche che caratterizzarono i governi di unità nazionale?
Più che di scelte bisognerebbe forse parlare di non scelte, o di cose che si sarebbero potute fare e non si fecero. Fra le molte proposte che rimasero sulla carta, una delle più importanti è certamente quella del riconoscimento ufficiale dei Consigli di gestione. Il relativo progetto di legge, presentato da Morandi e D’Aragona, incontrò la violenta opposizione della Confindustria e fu insabbiato. Ecco una prima occasione perduta. Uso di proposito questo TERMINE, occasione perduta, proprio perché oggi ci sentiamo troppo spesso ripetere che la storia non può essere letta come una storia di occasioni perdute.
A questo punto Caffè cita un’affermazione di Giorgio Amendola: il cliché di un paese sempre pronto a fare la rivoluzione, ma che non la fa mai per colpa di qualcuno che tradisce, è duro a morire. Si parla SOLO e sempre di occasioni perdute: il Risorgimento, il primo dopoguerra, la Resistenza. Ma se in CENTO anni questo paese non l’ha mai fatta, la rivoluzione, delle ragioni oggettive ci saranno pure («la Repubblica», 17 maggio 1977. Nel parlare mi porge il ritaglio).
In questa tesi c’è un equivoco di fondo. A chi parla di occasioni perdute si attribuisce infatti l’idea che fosse possibile uno sbocco rivoluzionario. Ma ciò serve solo a eludere il vero problema. A nessuno sfugge, oggi come allora, che vi era stata una divisione del mondo in sfere d’influenza e che avevamo gli americani in casa. Il problema storico su cui non riusciamo a intenderci è: posto che non si poteva fare la rivoluzione, che cos’altro si poteva fare? Ciò che è mancato è la volontà di attuare un coraggioso programma di riforme. Per tornare ai Consigli di gestione, si trattava semplicemente di tener conto di quanto gli operai avevano fatto durante la ritirata tedesca per salvare gli impianti industriali del Nord.
Quali sono le altre occasioni perdute?
Un esempio è quello del progetto di legge sul cambio della moneta accoppiato con un’imposta straordinaria sul patrimonio. Anche questo progetto, presentato dal governo Parri, fu deliberatamente insabbiato. Non è vero, com’è stato sostenuto, che la sua attuazione presentasse gravi difficoltà tecniche. Le difficoltà erano esclusivamente di natura politica: mantenere la fiducia di quelli che vengono tradizionalmente chiamati i risparmiatori, fu ritenuto più importante che combattere efficacemente l’inflazione. Finora ho parlato solo di proposte che formarono oggetto di specifici progetti di legge. Ma le cose che si sarebbero potute fare sono assai più numerose. Penso al mantenimento e al ripristino dei controlli amministrativi sui prezzi e di un sistema di razionamenti (anche se in questo caso le difficoltà tecniche non possono essere considerate irrilevanti, DATE le condizioni del paese). Penso anche a una seria riforma urbanistica. E ad alcune nazionalizzazioni, come fu fatto in Inghilterra e anche in Francia. La nazionalizzazione dell’energia elettrica, per esempio, avrebbe potuto essere attuata in modo ben diverso che nel 1962, scaglionando i rimborsi su un arco di trenta o quarant’anni. Di nazionalizzare l’energia elettrica si era, in realtà, parlato durante la Resistenza, e se ne continuò a parlare nell’immediato dopoguerra. Ma non se ne fece nulla. Mentre le cose andavano in questo modo, alcuni ministeri economici erano tenuti dai partiti operai, con uomini prestigiosi e autorevoli come Pesenti e Scoccimarro. Ciò mi rende molto scettico sulla possibilità di realizzare alcunché per il semplice fatto di stare nella «stanza dei bottoni».
Se i partiti operai avallarono con la loro presenza al governo un indirizzo economico liberistico, fu perché lo condividevano o perché pensarono di non poter fare altrimenti?
Viene qui in considerazione la grande influenza esercitata, sul terreno culturale, dalla scuola economica liberale, i cui esponenti erano circondati dal più grande rispetto. Da questa influenza la sinistra non fu per nulla indenne. L’egemonia culturale della triade Del Vecchio, Bresciani Turroni, Einaudi era così forte che le voci critiche riuscivano difficilmente a farsi udire. Provenivano, QUESTE voci critiche, da giovani che gli economisti più attempati guardavano con olimpica indifferenza; oppure da studiosi molto rispettati, come Alberto Breglia, ma inclini per loro natura alla testimonianza di un dissenso piuttosto che alla lotta per l’egemonia.
Ma l’arrendevolezza della sinistra in materia economica non rifletteva anche una precisa gerarchia di obiettivi?
La preoccupazione dominante era, per la sinistra, la scelta istituzionale. Ma anche in seguito le scelte economiche furono considerate SECONDARIE rispetto alle scelte politiche. Non a caso lo slogan di Nenni era «politique d’abord». La mia convinzione, maturata fin da allora è che si trattò di una linea miope. Prendiamo, per esempio, la crisi ministeriale del marzo 1947. Fu subito chiaro che essa preludeva all’estromissione dei partiti operai dal governo. Allora mi chiedo: non era preferibile cadere combattendo? Non era preferibile dare battaglia sulle linee di fondo lungo cui si muoveva la ricostruzione? Una riflessione su questo problema può essere ricca di insegnamenti anche per l’oggi.
Veniamo dunque all’oggi. L’attuale discussione sulla politica economica presenta delle analogie con quella svoltasi nel dopoguerra?
Sul piano dell’egemonia culturale trovo delle analogie sconcertanti. Ricompare con forza il tema dell’efficienza. Si riparla dell’impresa come centro del sistema economico e dell’imprenditore come regolatore incontrastato della vita dell’impresa. Si ripetono, talora con PAROLE identiche; i discorsi che si sentivano nel dopoguerra, quando veniva detto che i Consigli di gestione non consentivano all’imprenditore di fare il suo mestiere, di prendere le decisioni con la necessaria rapidità e snellezza. Anche oggi la sinistra accetta un terreno di discussione proposto da altri. Non riesco a comprendere, per esempio, perché il Partito comunista debba rinunciare programmaticamente a qualsiasi estensione del settore pubblico dell’economia. In particolare, non vedo perché non si dovrebbe nazionalizzare almeno l’industria farmaceutica. Per continuare il paragone con il dopoguerra, mi sembra di cogliere nell’atteggiamento del Partito comunista la stessa paralizzante preoccupazione di rassicurare i ceti medi moderati.
Il problema del Pci è sempre stato quello di FARSI accettare all’interno di un assetto socio-politico che voleva emarginarlo. Non è anche per questo che esso ha assunto atteggiamenti più moderati di quelli tipici dei tradizionali partiti riformisti?
Nell’immediato dopoguerra il più forte partito della sinistra non era il Pci, ma il Psi. Il Pci ne prese il posto in seguito, grazie a una politica molto accorta. Per cominciare, lo scavalcò immediatamente a destra già dalla «svolta di Salerno•, riconoscendo la monarchia. SOTTO il profilo dell’acquisizione di rispettabilità, e quindi dell’efficacia propagandistica e degli esiti elettorali, la politica di Togliatti non si può certo definire sbagliata. L’obiezione che ho rivolto ad Amendola nel corso di un dibattito è, tuttavia, che questa politica è stata utile per il partito, ma forse non altrettanto utile per il paese. Le sinistre potevano almeno far pagare qualcosa per ciò che concedevano. E ciò che concedevano non era poco: l’adesione delle forze organizzate del lavoro. Invece tutto si è risolto nell’avallo dato a una politica di restaurazione.
Con quali conseguenze?
Molte delle cose che si sarebbero potute fare allora non furono fatte, a maggior ragione, neppure in seguito. Il modo in cui si provvide alla ricostruzione e le scelte deflazionistiche dei governi centristi condizionarono tutto lo sviluppo economico italiano. La consapevolezza delle cose non fatte emerse improvvisamente nel 1962, quando la «Nota aggiuntiva» di La Malfa colpì molti come una rivelazione.
La politica economica italiana è sempre stata caratterizzata da un orientamento deflazionistico. Oggi, tuttavia, un simile orientamento e la sua accettazione da PARTE della sinistra sembrano trovare qualche giustificazione nello stato della bilancia dei pagamenti. Dobbiamo dunque chiederci: dove conduce questa strada? Ma anche: esiste una strada diversa?
Continuare sulla strada attuale non mi sembra assolutamente auspicabile. Le nostre esportazioni, tutto sommato, reggono. Ma ciò avviene grazie al lavoro nero e accettando una posizione subalterna nella divisione internazionale del lavoro. Il deterioramento delle ragioni di scambio impone senza dubbio dei sacrifici. Ma affidare la distribuzione dei sacrifici al meccanismo dei prezzi non è affatto l’unica scelta possibile. Questa è, però, la strada che ci viene indicata. Inoltre viene richiesta una maggiore mobilità del lavoro e, più in generale, la liberazione delle decisioni imprenditoriali da tutti i vincoli cui sono oggi sottoposte. Il problema che si pone è se le forze di sinistra debbano accettare QUESTE condizioni (o, meglio, subire il ricatto, poiché di questo in realtà si tratta); oppure se esse debbano proporre un sistema di sacrifici generalizzato e controllato. La Robinson ha scritto che se usassimo anche in tempo di pace i metodi dell’economia di guerra il problema della piena occupazione sarebbe risolto. Non dovrebbe essere questo il programma delle sinistre?
Economia di guerra per scopi non di guerra. Quali sono gli obiettivi prioritari?
Il problema principale è quello dell’occupazione. L’aumento dell’occupazione non può essere affidato all’espansione delle esportazioni, e cioè a una variabile che è fuori del nostro controllo. E’ necessario rilanciare l’edilizia e fare una politica di opere pubbliche, espandere la spesa pubblica nelle sue componenti non assistenziali. C’è però un equivoco di cui dobbiamo liberarci: si sente spesso ripetere che la spesa pubblica deve rivolgersi in maggior misura agli investimenti e in minor misura al pagamento di SALARI e stipendi. Ma alcune riforme fra le più importanti, richiedono un aumento dell’occupazione nel settore terziario. Se si vogliono migliorare i servizi sociali, si devono pagare salari e stipendi. Non è vero, poi, che la spesa pubblica è troppo elevata. E’ il gettito fiscale che è troppo basso per le ragioni che sappiamo.
E quali sono i metodi dell’economia di guerra?
Per esempio il circuito dei capitali. Noi facciamo qualcosa del genere quando blocchiamo la scala MOBILE, imponendo un prestito forzoso. Ma lo facciamo poco e male, colpendo alcuni e non altri. Trascuriamo, poi, lo strumento fondamentale, che è rappresentato da una politica di estesi razionamenti.
… e di controllo delle importazioni.
Certo. Ma occorre anche il razionamento. Bisogna evitare che il razionamento avvenga automaticamente attraverso l’aumento dei prezzi. La mia preoccupazione è che si continui sulla strada del liberismo economico, aggravando progressivamente la situazione del paese. Se si vuole parlare di austerità, per me va bene, purché non sia un esercizio retorico e purché l’austerità sia concretamente finalizzata all’aumento dell’occupazione. E a un’occupazione non precaria. Io vedo la situazione dei giovani. Giovani di venticinque anni che appassiscono nell’inattività. Non è escluso che tutto questo si traduca m un aumento dei suicidi. Occorrono misure immediate per aumentare l’occupazione, accompagnate dagli altri provvedimenti che mi sono sforzato di indicare. Dire che tutto si risolve esportando di più praticando l’austerità e restituendo efficienza al sistema è una colossale mistificazione.
Fra gli argomenti più frequentemente addotti contro una politica di controllo delle importazioni e di razionamenti vi sono quelli relativi ai vincoli del Mercato comune e all’inefficienza della pubblica amministrazione. Qual è la forza di questi argomenti?
I regolamenti del Mercato comune sono stati fatti da PERSONE intelligenti, e prevedono clausole di salvaguardia, scappatoie da usare ne1 momenti di difficoltà. Quanto poi all’inefficienza della pubblica amministrazione, non bisogna esagerare. Nel 1945-46, allora sì, la situazione dei ministeri era disastrosa, anche per effetto delle epurazioni. Eppure si è rapidamente compiuta un’imponente opera di ricostruzione delle ferrovie. Quindi, quando qualcuno ha voluto fare, le cose sono state fatte.
Se l’attuale linea di politica economica non verrà modificata, vi saranno ripercussioni sul quadro politico? E’ compatibile questa politica economica, con uno stabile spostamento a sinistra degli equilibri governativi?
Non mi sento completamente in grado di rispondere a questa domanda. Il mio compito di intellettuale, così come io l’intendo, è quello di indicare un modello alternativo e di dimostrare che si tratta di un modello possibile. Sul resto mi è difficile addentrarmi. Posso dire solo questo. Che, dopo un periodo di restaurazione sociale e dell’assetto dell’economia, la sinistra venga ricacciata all’opposizione mi sembra un’ipotesi da prendere in seria considerazione. Vi è tuttavia, un’ipotesi che mi preoccupa ancora di più: quella di una Sinistra subalterna che, per andare o restare al governo, rimette al passo le forze del lavoro senza ottenere sostanziali trasformazioni economiche. Vorrei aggiungere che, se per miracolo qualche risultato si dovesse raggiungere, ma andasse nel senso di un avvicinamento della nostra situazione a quella, poniamo, della Germania, non è questo il destino che augurerei al mio paese. Si tratta, infatti, di una situazione in cui i lavoratori, pur godendo di un certo benessere, sono in una posizione fortemente subalterna. Non credo, in altri termini, che il risanamento della bilancia dei pagamenti e un riassetto dell’economia, senza l’introduzione di veri elementi di socialismo, sia qualcosa che vale, un traguardo degno di essere indicato alla società italiana. Se ci mettessimo su questa strada, tradiremmo per la seconda volta gli ideali della Resistenza. Non vorrei apparire retorico. Ma tradiremmo l’ideale di costruire un mondo in cui il progresso sociale e CIVILE non rappresenti un sottoprodotto dello sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito.
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Note:
(1) F. Caffè, La crisi del welfare state come riedizione del «crollismo»; in Id., In difesa del welfare state, Rosenberg & Sellier, Torino 1986, p. 19.
(2) J. M. KEYNES, Introduzione ai Cambridge ECONOMIE Handbooks, in Id., COLLECTED Writings, 12, p. 856. Cfr. anche A. Simonazzi, Economia politica: «tecnica di pensiero» o tecniche di aggiustamento?, in «Il Mulino», marzo-aprile 1982.
(3) F. Caffè, Introduzione a In difesa del welfare state cit., p. 10.
(4) Alle proposte avanzate da KEYNES nel novembre 1939 e riformulate qualche mese più tardi in How to Pay for the War (Macmillan, LONDON 1940) Caffè dà il massimo risalto nelle sue Lezioni di politica economica, il cui nono capitolo è significativamente intitolato L’applicazione delle politiche keynesiane: dal finanziamento del secondo conflitto mondiale agli impegni pubblici per il pieno impiego. Cfr. F. Caffè, Lezioni di politica economica, Boringhieri, Torino 1978, pp. 168-9
(5) Keynes, per dirne una, abbraccia il protezionismo negli anni trenta; si piega nel dopoguerra al liberoscambismo americano, adoperandosi tuttavia per una soluzione che lasci spazio alle politiche di piena occupazione; individua dapprima tale soluzione nella predisposizione di una fonte di liquidità per i paesi in disavanzo (L’International CLEARING Union); reagisce infine al mancato accoglimento della sua proposta affidando la salvaguardia della piena occupazione alla modificabilità dei tassi di cambio e alla possibilità di imporre restrizioni alla libertà di movimento dei capitali. Cfr. Simonazzi, Economia politica cit., p. 225. Per un’ampia analisi delle posizioni assunte in diversi momenti da Keynes in tema di relazioni economiche internazionali cfr. L. M. Milone, Libero scambio, protezionismo e cooperazione internazionale nel pensiero di Keynes, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993.
(6) Impedire che la piena occupazione si traduca in un eccessivo aumento dei salari monetari e dei prezzi rappresenta, scrive Keynes nel 1943, «uno dei principali compiti con cui dovrà misurarsi la nostra ARTE di governo». Note by Lord Keynes, in «Economic Journal», december 1944, riprodotta in J. M. Keynes, COLLECTED Writings, 26, pp. 39-40.
(7) Di Fuà e Steve – entrambi presenti a questo Convegno, anche se solo Steve come relatore – voglio ricordare i lucidi interventi alla Conferenza economica nazionale per il «PIANO del lavoro» della Cgil. Cfr. Il PIANO del lavoro. Resoconto integrale della Conferenza economica nazionale della CGIL e un’appendice. Roma 18-20 febbraio 1950, Stab. Tip. Uesisa, Roma, pp. 131-7 e 215-9. Di Steve si veda anche il notevolissimo articolo Politica finanziaria e sviluppo dell’economia italiana, in «Moneta e credito», secondo trimestre, 1950.
(8) Cfr. S. Steve, Politica fiscale keynesiana e inflazione, in «Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali», febbraio 1977, p. 98.
(9) F. A. Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1979.
(10) M. Kalecki, Tre metodi per la piena occupazione, in Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione cit., p. 73.
(11) R. F. Kahn, Memorandum of evidence submitted to the Radcliffe Committee (1958), in Id., Selected Essays on Employment and Growth, Cambridge UNIVERSITY Press, Cambridge 1972, p. 133.
(12) Ibid., p. 136.
(13) F. A. Burchardt, Le CAUSE della disoccupazione, in Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione cit., p. 66.
(14) F. Caffè, Teoria economica e politica economica in Italia, in «Civiltà delle macchine», settembre-dicembre 1976, p. 67.
(15) F. Caffè, KEYNES oggi, in Id., L’economia contemporanea. I protagonisti e altri saggi, Edizioni Studium, Roma 1981, p. 87.
(16) Burchardt e altri, L’economia della piena occupazione cit., p. 254.
(17) F. Caffè, E’ consentito discutere di protezionismo economico? (1977), in Id., La solitudine del riformista, a cura di N. Acocella e M. Franzini, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 240.
(18) Cfr. in particolare F. Caffè, Vecchi e nuovi trasferimenti anormali dei capitali (1966), in Id., Teorie e problemi di politica sociale, Laterza, Bari 1970, p. 105.
(19) Cfr. F. Caffè, Umanesimo del welfare (1986), in Id., La solitudine cit., pp. 258-9.
(20) Cfr. J. Tobin, A Proposal for INTERNATIONAL Monetary Reform (1978), in Id., Essays in ECONOMICS. Theory and Policy, The MIT Press, CAMBRIDGE (Mass.)-London 1982, pp. 488-94.
(21) Cfr. F. Caffè, Sguardi su un mondo economico in trasformazione (1957), in F. Caffè, Saggi critici di economia, De LUCA, Roma 1958. Ho richiamato l’attenzione su questo saggio in un ricordo di Federico Caffè pubblicato sul «Manifesto» del 16 aprile 1988. Da tale testo ho attinto liberamente nella stesura dei punti 5 e 6.
(22) Cfr. su ciò M. de Cecco, Gli economisti italiani e l’adesione dell’Italia al Mec, in Aa.Vv., Scelte politiche e teorie economiche in Italia 1945-1978, a cura di G. Lunghini, Einaudi, Torino 1981, pp. 245-57.
(23) Cfr. F. Caffè, Il mito della deflazione, in «Cronache sociali», 13 luglio 1949. Si veda anche, sulla stessa rivista, il successivo articolo Bilancio di una politica (settembre-ottobre 1949, 16-17 e 18).
(24) F. Caffè, La strategia dell’allarmismo economico (1972) in Id., Un’economia in ritardo, Boringhieri, Torino 1976, pp. 48 segg.
(25) F. Caffè, Dal falso miracolo alla falsa «agonia», in «Il punto di riferimento», maggio-giugno 1975, pp. 27-9.
(26) F. Caffè, Un’economia in ritardo cit., p. 7.
(27) Si vedano gli articoli riprodotti in Caffè, La solutine cit., pp. 80-2, 81-9, 143-5, 146-9, 150-1, 155-8, 163-5, 168-82 e 225-9.
(28) Caffè ha, fra l’altro, curato una raccolta di scritti ti Del Vecchio: Antologia degli scritti di Gustavo Del Vecchio nel centenario della nascita (1883-1983), introduzione e cura di F. Caffè, Collana di pubblicazioni dell’Istituto di Politica economica e finanziaria della Facoltà di economia e commercio dell’Università di ROMA, Angeli, Milano 1983.
(29) G. Del Vecchio, Economia generale, Utet Torino 1961, p. 741. Cfr. anche F. Caffè, Economia senza profeti. Contributi di bibliografia economica, Nuova Universale Studium, ROMA 1977, pp. 10-1.
(30) P. Sraffa, Produzione di MERCI a mezzo di merci, Einaudi, T orino 1960, p. V.
(31) F. Caffè, Morte di un GRANDE economista. La solitudine insidiata di Sraffa, in «Il Mamfesto», 7 settembre 1983; ristampato in Caffè, La solitudine cit., pp. 23-5.
(32) F. Vianello, Sraffa dopo Sraffa. Correggere o rifondare la teoria economica, in «Il Manifesto», 14 settembre 1983.
(33) F. Caffè, Una precisazione, in «Il Manifesto», 14 settembre 1983.
(34) Caffè, Introduzione a In difesa del welfare state cit., p. 10.
(35) Cfr. Caffè, La crisi del welfare state cit., p.18.
(36) Cfr. A. O. Hirschman, Lo stato sociale in difficoltà crisi sistemica o mal di crescita?, in Id., L’economia politica come scienza morale e sociale, Liguori, NAPOLI 1987, pp. 135-40.
(37) Caffè, La crisi del welfare state cit., p. 20.
(38) Ibid., p. 24.
(39) Caffè, Umanesimo del welfare cit., p. 255.
(40) Caffè, La crisi del welfare state cit., p. 18.
(41) Caffè, Umanesimo del welfare cit.
(42) Cfr. F. Vianello, Umanesimo del welfare: qualche riflessione, in Aa.Vv., In difesa del welfare state, a cura di G. M. Rey e G. C. Romagnoli, Angeli, Milano 1993, pp. 107-17 (in particolare p. 112).
(43) Caffè, Introduzione a In difesa del welfare state cit., p. 7.
(44) All’incontro con Caffè partecipò anche ANTONIO Lettieri, cui è dovuta una parte delle domande. Solo mia è invece la trascrizione delle risposte.
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Re: IL MODELLO SOCIALE EUROPEO
oggi 18.07.19 il governo del popolo è formalmente in crisi.
ormai siamo alla gestione ordinaria solo ordinaria.
l origine della crisi del governo è molteplice.
uno degli aspetti fondamentali della crisi di questo governo è il continuismo con le politiche neoliberiste
dei governi precedenti di destra e di centro destra del pd.
questo breve intervento del dott. GATTI dimostra la mancanza di una politica economica di questo governo.
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IL DECRETO CRESCITA E' LEGGE
di Renato Gatti
La nuova legge approvata definitivamente il 27 di questo mese, letto con un’ottica di classe, si sostanzia in numerose agevolazioni fiscali per le imprese. Alcune, le principali, sono riproposte dopo essere state inopportunamente cancellate (agevolazioni 4.0 e mini Ires), altre sono nuovi bonus e provvedimenti di supporto a nuove assunzioni (contratti di espansione).
Senza entrare nei dettagli tecnici, mi pare che il ragionamento del governo giallo-verde, ed in questo non diverso da quello dei precedenti governi, sia il seguente:
il nostro PIL non cresce, esso è l’unico ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, il sistema produttivo stenta a mantenere i livelli produttivi e di occupazione, le ore di cassa integrazione aumentano, il tavolo delle crisi presso il ministero dello sviluppo economico è pieno di situazioni pesanti la cui prospettiva di soluzione è preoccupante, i dati sull’occupazione non sono incoraggianti; insomma l’impresa Italia annaspa.
Il governo non ha alcuna volontà di avventurarsi in una politica industriale di medio-lungo termine. Non dico di azzardare un programma quinquennale del tipo primi anni ‘60, ma neppure di elaborare un orizzonte verso il quale convergere da indicare al capitale ignavo, addormentato nella tesaurizzazione, senza alcun senso propositivo o sociale.
Non resta che regalare soldi alle imprese, talora senza condizionalità, talora legandoli a utilizzi ritenuti auspicabili. Prevale quindi il senso comune per il quale la riduzione delle imposte gravanti sulle imprese sia l’unica strada percorribile per una politica economica. “Così non avranno più alibi per non investire” era uno slogan di qualche anno fa. Il governo dell’economia si traduce quindi in una sottomissione svirilizzata del governo al capitale, cui si fanno regali con la speranza che essi siano ben accetti ed utilizzati a favore in primis del capitale stesso e per “sgocciolamento” a favore di tutti i cittadini, anche quelli non capitalisti.
Ammesso ma non concesso che la strada indicata dai governi finora succedutisi sia l’unica strada percorribile, rimane fermo che le agevolazioni, i regali fatti alle imprese, sono fatti con i soldi pubblici, con i soldi della collettività, ed in particolare della collettività che paga le imposte e le tasse. Vista l’origine del gettito fiscale che deriva soprattutto dall’iva e dall’irpef e in misura minore da ires e imposte sostitutive, si può concludere che le masse di contribuenti non capitalisti finanziano le imprese.
Voglio subito chiarire che sono favorevole al fatto che si finanzino le imprese, sarei addirittura favorevole a diminuire ulteriormente le imposte e tasse in particolare quelle che colpiscono i fattori della produzione; ciò che invece vorrei che tutti realizzassero è il fatto che la minor fiscalità a favore delle imprese non debba consistere in un regalo (che poi non rimane nelle imprese ma va al capitale) ma fosse contabilizzate come un investimento della collettività nelle imprese beneficiarie delle agevolazioni. Così com’è adesso, col meccanismo che sintetizzo come “un trasferimento di fondi dai contribuenti non capitalisti alle imprese che quindi riversano i benefici al capitale” si sta attuando una forma di sfruttamento tramite fiscalità.
Se al contrario le agevolazioni invece di essere regali fossero date come partecipazione dello stato nelle imprese non ci sarebbe alcuno sfruttamento e si creerebbe un modello sociale ispirato alla Costituzione, alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e i sacrifici fatti dai contribuenti non capitalisti rimarrebbero all’interno delle imprese ad incrementarne la produttività. Non avremmo poi il dramma di aver dato soldi alle imprese che delocalizzano senza poterci riprendere le agevolazioni concesse; potremmo entrare nelle decisioni aziendali essendone soci, e nella peggior ipotesi di un trasferimento non perderemmo il capitale investito.
Tali partecipazioni poi (una novella IRI) avrebbero come destinazione il compito di affrontare la rivoluzione 4.0, da una parte appoggiandola con nuovi fondi a disposizione, dall’altra finanziando un reddito di cittadinanza per quei riflessi sull’occupazione che quella rivoluzione potesse generare.
Infine per chi volesse approfondire rinvio al documento della sezione economia e lavoro della rieunione programmatica di Rimini organizzata da Socialismo XXI secolo.
ormai siamo alla gestione ordinaria solo ordinaria.
l origine della crisi del governo è molteplice.
uno degli aspetti fondamentali della crisi di questo governo è il continuismo con le politiche neoliberiste
dei governi precedenti di destra e di centro destra del pd.
questo breve intervento del dott. GATTI dimostra la mancanza di una politica economica di questo governo.
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IL DECRETO CRESCITA E' LEGGE
di Renato Gatti
La nuova legge approvata definitivamente il 27 di questo mese, letto con un’ottica di classe, si sostanzia in numerose agevolazioni fiscali per le imprese. Alcune, le principali, sono riproposte dopo essere state inopportunamente cancellate (agevolazioni 4.0 e mini Ires), altre sono nuovi bonus e provvedimenti di supporto a nuove assunzioni (contratti di espansione).
Senza entrare nei dettagli tecnici, mi pare che il ragionamento del governo giallo-verde, ed in questo non diverso da quello dei precedenti governi, sia il seguente:
il nostro PIL non cresce, esso è l’unico ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, il sistema produttivo stenta a mantenere i livelli produttivi e di occupazione, le ore di cassa integrazione aumentano, il tavolo delle crisi presso il ministero dello sviluppo economico è pieno di situazioni pesanti la cui prospettiva di soluzione è preoccupante, i dati sull’occupazione non sono incoraggianti; insomma l’impresa Italia annaspa.
Il governo non ha alcuna volontà di avventurarsi in una politica industriale di medio-lungo termine. Non dico di azzardare un programma quinquennale del tipo primi anni ‘60, ma neppure di elaborare un orizzonte verso il quale convergere da indicare al capitale ignavo, addormentato nella tesaurizzazione, senza alcun senso propositivo o sociale.
Non resta che regalare soldi alle imprese, talora senza condizionalità, talora legandoli a utilizzi ritenuti auspicabili. Prevale quindi il senso comune per il quale la riduzione delle imposte gravanti sulle imprese sia l’unica strada percorribile per una politica economica. “Così non avranno più alibi per non investire” era uno slogan di qualche anno fa. Il governo dell’economia si traduce quindi in una sottomissione svirilizzata del governo al capitale, cui si fanno regali con la speranza che essi siano ben accetti ed utilizzati a favore in primis del capitale stesso e per “sgocciolamento” a favore di tutti i cittadini, anche quelli non capitalisti.
Ammesso ma non concesso che la strada indicata dai governi finora succedutisi sia l’unica strada percorribile, rimane fermo che le agevolazioni, i regali fatti alle imprese, sono fatti con i soldi pubblici, con i soldi della collettività, ed in particolare della collettività che paga le imposte e le tasse. Vista l’origine del gettito fiscale che deriva soprattutto dall’iva e dall’irpef e in misura minore da ires e imposte sostitutive, si può concludere che le masse di contribuenti non capitalisti finanziano le imprese.
Voglio subito chiarire che sono favorevole al fatto che si finanzino le imprese, sarei addirittura favorevole a diminuire ulteriormente le imposte e tasse in particolare quelle che colpiscono i fattori della produzione; ciò che invece vorrei che tutti realizzassero è il fatto che la minor fiscalità a favore delle imprese non debba consistere in un regalo (che poi non rimane nelle imprese ma va al capitale) ma fosse contabilizzate come un investimento della collettività nelle imprese beneficiarie delle agevolazioni. Così com’è adesso, col meccanismo che sintetizzo come “un trasferimento di fondi dai contribuenti non capitalisti alle imprese che quindi riversano i benefici al capitale” si sta attuando una forma di sfruttamento tramite fiscalità.
Se al contrario le agevolazioni invece di essere regali fossero date come partecipazione dello stato nelle imprese non ci sarebbe alcuno sfruttamento e si creerebbe un modello sociale ispirato alla Costituzione, alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e i sacrifici fatti dai contribuenti non capitalisti rimarrebbero all’interno delle imprese ad incrementarne la produttività. Non avremmo poi il dramma di aver dato soldi alle imprese che delocalizzano senza poterci riprendere le agevolazioni concesse; potremmo entrare nelle decisioni aziendali essendone soci, e nella peggior ipotesi di un trasferimento non perderemmo il capitale investito.
Tali partecipazioni poi (una novella IRI) avrebbero come destinazione il compito di affrontare la rivoluzione 4.0, da una parte appoggiandola con nuovi fondi a disposizione, dall’altra finanziando un reddito di cittadinanza per quei riflessi sull’occupazione che quella rivoluzione potesse generare.
Infine per chi volesse approfondire rinvio al documento della sezione economia e lavoro della rieunione programmatica di Rimini organizzata da Socialismo XXI secolo.
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