La vicenda FIAT

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soloo42000
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Re: La vicenda FIAT

Messaggio da soloo42000 »

Ti ricordi "l'altro censore"?

Massimalisti, estremisti, radicali, nostalgici, velleitari, faziosi.
La accuse piu` assurde.

E infatti il PD fara` esattamente la fine dell'altro forum.
Cadra` nel oblio o nel ridicolo, speriamo nell'oblio.

soloo42000
Amadeus

Re: La vicenda FIAT

Messaggio da Amadeus »

ansa.it

MILANO -"Il vero problema della Fiat non sono i lavoratori, l'Italia o la crisi (che sicuramente esiste): il vero problema sono i suoi azionisti di riferimento e il suo amministratore delegato. Sono loro che stanno facendo le scelte sbagliate". Lo afferma Diego della Valle attaccando Sergio Marchionne e il presidente di Fiat, John Elkann.

"E' bene - ha aggiunto - che questi 'furbetti cosmopoliti' sappiano che gli imprenditori italiani seri, che vivono veramente di concorrenza e competitività, che rispettano i propri lavoratori e sono orgogliosi di essere italiani, non vogliono in nessun modo essere accomunati a persone come loro".

BONANNI, MERCATO AL LUMICINO, SPERIAMO RIPARTA - Il mercato dell'auto è "al lumicino, la speranza è che riprenda vivacità per riottenere una produzione capace di riassorbire tutte le persone che lavorano nel settore". Così il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, sulla Fiat e Fabbrica Italia. "Marchionne ha detto a me e agli altri sindacalisti che adesso si soprassiede - precisa Bonanni a margine di un convegno della Cisl all'università Cattolica a Milano - perché il mercato va molto giù: bisogna aspettare che il mercato sia più vivace. D'altronde - aggiunge - è una condizione che riguarda tante case automobilistiche nel mondo".

Bonanni ineguagliabilmente supino :mrgreen:
shiloh
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Re: La vicenda FIAT

Messaggio da shiloh »


Della Valle attacca Marchionne:
«Inadeguato, lui il problema Fiat»


Durissimo attacco di Della Valle all'ad della Fiat e a Elkann.

Definiti "furbetti cosmopoliti", non risparmia loro critiche sulla gestione dell'azienda.

L'a.d. Fiat, Sergio Marchionne, è «inadeguato», e costituisce insieme agli azionisti «il vero problema» della casa torinese,
perché
«stanno facendo le scelte sbagliate o, peggio ancora, le scelte più convenienti per loro e i loro obiettivi, senza minimamente curarsi degli interessi e delle necessità del Paese».

Diego Della Valle attacca duramente Marchionne e il presidente John Elkann.

«Continua questo ridicolo e purtroppo tragico teatrino degli annunci ad effetto da parte della Fiat, del suo inadeguato Amministratore Delegato e in subordine del Presidente - afferma Della Valle - Assistiamo infatti da alcuni anni a frequentissime conferenze stampa nelle quali,

da parte di questi Signori, viene detto tutto e poi il contrario di tutto,

purché sia garantito l'effetto mediatico, che sembra essere la cosa più importante da ottenere,
al di là della qualità e della coerenza delle cose che si dicono.»

Con il comunicato riguardante 'Fabbrica Italia',
ritenuta superata per le mutate condizioni di mercato,

«Marchionne e Company hanno superato ogni aspettativa riuscendo,
con alcune righe,
a cancellare importanti impegni che avevano preso nelle sedi opportune nei confronti dei loro dipendenti, del Governo e quindi del Paese».


«Ma si rendono conto
- domanda polemicamente Della Valle -
questi supponenti Signori dello stato d'animo che possono avere oggi le migliaia di lavoratori della Fiat e i loro familiari di fronte alle pesanti parole da loro pronunciate e alle prospettive che queste fanno presagire?

Il vero problema della Fiat non sono i lavoratori, l'Italia o la crisi (che sicuramente esiste):
il vero problema sono i suoi azionisti di riferimento e il suo Amministratore Delegato.


Sono loro che stanno facendo le scelte sbagliate o, peggio ancora, le scelte più convenienti per loro e i loro obiettivi,
senza minimamente curarsi degli interessi e delle necessità del Paese.

Paese che alla Fiat ha dato tanto, tantissimo, sicuramente troppo. Pertanto non cerchino nessun capro espiatorio, perché sarà solo loro la responsabilità di quello che faranno e di tutte le conseguenze che ne deriveranno».

E chiude:
È bene comunque che questi furbetti cosmopoliti sappiano che gli imprenditori italiani seri,
che vivono veramente di concorrenza e competitività,
che rispettano i propri lavoratori e sono orgogliosi di essere italiani,
non vogliono in nessun modo essere accomunati a persone come loro».

http://www.unita.it/economia/della-vall ... t-1.446116
shiloh
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Re: La vicenda FIAT

Messaggio da shiloh »

soloo42000 ha scritto:Ti ricordi "l'altro censore"?

Massimalisti, estremisti, radicali, nostalgici, velleitari, faziosi.
La accuse piu` assurde.

E infatti il PD fara` esattamente la fine dell'altro forum.
Cadra` nel oblio o nel ridicolo, speriamo nell'oblio.

soloo42000

e come si fa a dimenticare un arrogante,esaltato energumeno che ti ha fatto buttare via anni e anni di forum e migliaia di messaggi ???

comunque caro capitano,
giusto per togliermi un sassolino dalla scarpa,
ho postato anche nel vecchio forum l'articolo con l'intervista a Dalla Valle,
facendo seguire questa precisazione:

"psssssssssssssssssssssssssss....nel caso l'amministratore del forum non ne fosse al corrente,
gli faccio presente che Dalla Valle....non è della FIOM."



ovviamente verrà cancellata entro poche ore se non minuti...ma sai la soddisfazione.

:mrgreen:
mariok

Re: La vicenda FIAT

Messaggio da mariok »

Io sono dell'idea che occorrerebbe una legge in base alla quale gli impianti abbandonati da un'azienda vengano requisiti ed affidati ad una gestione commissariale che tenti in ogni modo, anche attraverso l'affitto a titolo gratuito ad altra impresa, di assicurarne la continuità produttiva.

QUELLO DI CUI DISCUTERE

Il futuro sostenibile (o no) dell'auto

I l ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, invoca chiarezza sui destini della Fiat dopo la revoca del piano Fabbrica Italia.
Il ministro del Welfare, Elsa Fornero, è pronta a incontrare l'amministratore delegato Sergio Marchionne per capire dove l'azienda andrà a parare. Questa ripresa di attenzione del governo sulla principale impresa industriale italiana può spingere l'azione politica e imprenditoriale oltre la polemica innescata l'altro ieri da Diego Della Valle contro Marchionne e John Elkann e la loro scelta di ridurre la presenza della Fiat nel Paese. Al di là delle «baruffe del capitale» c'è, se si è capaci di farla, la politica industriale.
Le parole di Passera e Fornero, dunque, possono rivelarsi positive. Purché alla fine non vada com'è andata con l'incontro che si svolse a palazzo Chigi dopo l'intervista di Marchionne al Corriere nella quale già si prospettava con chiarezza quanto è stato ora reso ufficiale. Al termine di quella riunione il premier Mario Monti ribadì il diritto della Fiat ad allocare come e dove credeva i propri investimenti. Ora il punto non è quello di limitare il diritto dell'azienda e dei suoi azionisti principali di condursi come meglio ritengono nel rispetto della legge (dettaglio che nella storia del capitalismo italiano non è scontato). Tranne qualche estremista, nessuno pretende limitazioni siffatte. Il punto è se il governo ritiene una priorità, al di là del caso Fiat, la salvaguardia e lo sviluppo della base industriale del Paese e se, all'interno di questa priorità, l'industria automobilistica abbia ancora un ruolo o se l'abbia perduto. Questo doppio punto non è scontato nella cultura del professor Monti e di una buona parte dell'intellighentzia montiana.
Certo, fuori dal governo, fa cadere le braccia ascoltare i politici di destra e di centro che scoprono il caso Fiat essenzialmente dopo le dichiarazioni di Della Valle. Se il signor Tod's non avesse fatto quelle affermazioni dal tono eccessivo, avrebbero continuato a dire che i problemi della Fiat nascevano dalla Fiom e che il transatlantico Marchionne era il campione indiscutibile della modernità? Di una modernità presa così, vuoto per pieno, con marinettiana fiducia. Marchionne ha salvato la Chrysler. Per questo è stato giustamente lodato. L'ha fatto con i soldi del governo Usa che, oltre ai prestiti, si è accollato circa 2 miliardi di dollari di perdite nella liquidazione della vecchia Chrysler. Iniziativa privata e soldi pubblici, dunque. Ottimo. Ma in Italia non si mangia con i successi di Detroit. Passera ha ricordato l'esistenza degli azionisti della Fiat. Giusto. Ma più dei dividendi conta l'impatto del lavoro Fiat nell'economia e nelle competenze del Paese.
La nota ufficiale su Fabbrica Italia precipita in un profondo imbarazzo i sindacati moderati - Cisl, Uil e Fismic - che avevano scommesso al buio sull'azienda e sul governo Berlusconi, che la sosteneva, pensando di lucrare vantaggi nella concorrenza con il sindacato «rosso», dove certo non si capisce mai bene se il no sia sempre e comunque l'inevitabile manifestazione di un'opposizione rivoluzionaria o se sia trattabile a seconda delle situazioni di potere locale o ancora se sia talvolta dettato da analisi più serie di altre, pronto a diventare un sì alla correzione del quadro. Neanche il Pd, che pure non lesina accenti critici da tempo, può chiamarsi fuori. Ha mai approfondito seriamente la questione? Seriamente vuol dire con i bilanci vivisezionati in una mano e con il verbo delle relazioni sindacali alla tedesca nell'altra. Stretto tra il riformismo superficiale di tanti suoi liberal, che trovano nel rottamatore Matteo Renzi l'ultimo seguace marchionnesco, e il timore di farsi nemici a sinistra, anche il Pd è rimasto al di qua del minimo necessario a prendere per le corna il toro della Fiat.
La politica industriale non si fa con i volantini o con le battute nei talk show televisivi. Richiede studio, indipendenza di giudizio, competenze e fantasia. Fabbrica Italia è partita con il ministero dello Sviluppo economico affidato a interim a Silvio Berlusconi e poi assegnato a Paolo Romani. Distrazione e incompetenza. Ora abbiamo un ex banchiere che ha anche guidato grandi imprese. Da Corrado Passera il Paese non si attende miracoli, ma verità e tentativi professionali di sbrogliare la matassa. Nel caso specifico, non avrebbe senso finanziare la Fiat a fondo perduto con altri denari pubblici. Questi soldi non ci sono e, se ci fossero, non andrebbero usati come ha fatto l'America di Obama con la Chrysler fallita che scontava 10 anni di ritardo sulle tecnologie. Non ha senso nemmeno fare troppi incontri e aprire tavoli di trattativa se non si hanno idee su cui far convergere le parti. L'Italia e la Fiat non hanno bisogno di riti e di parole. E tuttavia questo Paese rappresenta pur sempre un mercato e un giacimento di know how motoristico. E come dimostra il successo del Quarto Capitalismo, quello delle multinazionali tascabili, la voglia di lavorare non manca se le leadership sono credibili.
Prima dell'estate, tramite la banca Lazard, la Volkswagen aveva fatto sapere discretamente a Torino di essere pronta a trattare il marchio Alfa Romeo, che da vent'anni la Fiat non riesce a valorizzare, e uno dei grandi stabilimenti italiani del gruppo. E' curioso: in un paese che invoca sempre gli investimenti esteri, la notizia non ha destato interesse. Nemmeno nei sindacati. Eppure, converrebbe al Paese avere due produttori invece di uno. La Fiat, legittimamente, può respingere l'offerta. E magari riservarsi di vendere quel marchio o altri, se e quando lo ritenga utile senza il badwill (avviamento negativo) di stabilimenti in aggiunta, perché, a quel punto, gli stabilimenti sarebbero già stati chiusi. Ma il governo, dopo aver accertato la sussistenza dell'interesse tedesco, potrebbe creare le condizioni che rendano positivo per tutti un simile scambio. La politica industriale moderna è anche questo. Se poi Ferdinand Piech ritirasse le sue disponibilità perché girano troppe mazzette o c'è troppo estremismo sindacale, il governo lo potrà sempre riferire al Parlamento per spronarlo ad approvare la legge anticorruzione e ad attuare gli articoli 39 e 40 della Costituzione sulla regolamentazione dei sindacati e del diritto di sciopero.

Massimo Mucchetti
16 settembre 2012 | 10:44

http://www.corriere.it/economia/12_sett ... 52c7.shtml
mariok

Re: La vicenda FIAT

Messaggio da mariok »

Queste "belle" analisi senza costrutto le trovo ormai insopportabili.

Che Marchionne non ha nessuna intenzione di investire in Italia si è capito da tempo. E' inutile che ce lo rispieghino per l'ennesima volta. Ma possibile che nessuno sia in grado di esprimere uno straccio di idea sul che fare?



Quei ministri usciti da un libro di Calvino – Luciano Gallino (La Repubblica)

16/9/2012

Sentite le dichiarazioni di Marchionne, Passera ha detto che vuole «capirne le implicazioni ». Dunque, per lui, un dirigente che ha promesso 20 miliardi di investimento, ne ha effettuato uno, e poi dichiara che degli altri 19 non se ne parla proprio, è stato poco chiaro.

Bisogna capire meglio cosa vuol dire. D’altra parte Passera ha assicurato all’ad che «non è pensabile che la politica si sostituisca alle (sue) scelte imprenditoriali e di investimento ». Quanto alla ministra Fornero, ha fornito alcune date disponibili per incontrarlo. «Non ho il potere di convocare l’amministratore delegato di una grande azienda», ha fatto sapere. Però anche lei vuole «approfondire con Marchionne cosa ha in mente per i suoi piani di investimento per l’occupazione ».
Dinanzi a una simile remissività dei ministri e dello stesso presidente del Consiglio, e alle difficoltà che denunciano nel comprendere l’ad della Fiat, c’è da chiedersi se hanno capito, loro, il nocciolo della questione: sono in gioco, entro pochi mesi, decine di migliaia di posti di lavoro. Se lo capissero, la telefonata da fare sarebbe di questo tipo: «Dottor Marchionne, il governo considera gravissime le sue dichiarazioni circa le produzioni Fiat in Italia. Pertanto la aspettiamo domattina alle 8 precise a palazzo Chigi. Dovrà spiegarci con dati e cifre solide come la sua società intende operare nel prossimo futuro in questo Paese. Il governo non tollererà informazioni ambigue né generiche espressioni di intenti».
A parte ministri che non capiscono e telefonate che non si faranno, Marchionne ha pure dei sostenitori. C’è la crisi, essi rammentano, che comprime le vendite di auto. I salari lordi, tasse e contributi inclusi, in Italia sono molto alti. La produttività dei nostri operai è scarsa. In realtà le cose non stanno così. D’accordo che la crisi ha ridotto le vendite di auto in Europa di oltre un quarto, rispetto ai 16,8 milioni di vetture del 2007. Ma ciò non spiega perché l’Italia, che ha nel gruppo Fiat l’unico produttore di autoveicoli, sia ormai soltanto il settimo produttore europeo, dopo essere stata a lungo il secondo o il terzo. Nel 2011, quella che fu una grande potenza automobilistica ha prodotto meno di 0,8 milioni di autoveicoli (vetture più veicoli commerciali leggeri). La sola Polonia ha superato di parecchio tale cifra. Poi ci sono, a crescere, la Repubblica Ceca, con 1,2 milioni di unità; il Regno Unito (1,5 milioni); la Francia (2,3); la Spagna (2,4); infine la Germania, con 6,3 milioni in totale. Per questi Paesi sembra che la crisi sia un’altra
cosa.
Del pari inconsistenti sono le altre affermazioni per cui in Italia non conviene produrre auto. Nello stesso settore, i salari lordi dei lavoratori dell’auto sono più alti in Francia, e più alti ancora lo sono nel Regno Unito e in Germania. Quanto alla produttività, basta accostare i dati in modo appropriato. Evitando – ad esempio – di comparare stabilimenti esteri dove si lavora sei giorni la settimana tutti i mesi, tipo quello polacco di Tichy, con Mirafiori, dove da anni si lavora qualche giorno al mese. Si scopre così che la produttività per ora effettivamente lavorata in Italia è analoga a quella di molti impianti stranieri.
In tale quadro di ministri simili al cavaliere di Calvino, inesistenti per quanto attiene alla questione Fiat (ma anche, duole dire, per altri casi recenti), e di commentatori sovente poco o male informati, spiccano le critiche di un imprenditore, Diego Della Valle, alle due massime cariche di Fiat, l’Ad Marchionne e il presidente Elkann. Ha detto, in soldoni, che la colpa di quello che sta accadendo alla società del Lingotto è tutta loro. Pare difficile dargli torto. Se un’impresa si ritrova in basso nelle classifiche europee, dopo essere stata per decenni in prima fila, chiunque mastichi un poco di questioni industriali e manageriali non può fare a meno di pensare che il suo massimo dirigente, al governo di essa ormai dal lontano 2004, qualche responsabilità ce l’abbia. Siano queste da cercare nell’ambito delle competenze – Marchionne non è un uomo dell’industria, viene dalla finanza – oppure di un disegno volto a trasferire il peso produttivo dell’impresa verso altri lidi per i più diversi motivi.
Semmai si potrebbe obbiettare a Della Valle che al punto in cui siamo arrivati le critiche dovrebbero venir rivolte in maggior misura agli azionisti, in primo luogo alla famiglia che controlla finanziariamente la Fiat, più qualche altro grosso azionista che sta dalla sua parte, che non al dirigente di vertice. L’Ad in carica potrebbe essere congedato anche domani. Ma questo non cambierebbe di per sé la posizione dei maggiori azionisti, i quali ormai da lungo tempo mostrano, non con quello che dicono bensì con le scelte che compiono, di considerare l’industria dell’auto come un intralcio alla loro ricerca di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono.

http://www.soggettopoliticonuovo.it/201 ... epubblica/
camillobenso
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Re: La vicenda FIAT

Messaggio da camillobenso »

La Fiat di Marchionne sbarca nei Balcani: entra in scena ‘Fabbrica Serbia’
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 18 settembre 2012Commenti (4)



Li vedi sfilare a fine turno sull’unico ponte che collega la fabbrica alla città. Polo bianca, pantaloni grigi, facce serie. Giovani in stragrande maggioranza, tanti ragazzi che dimostrano vent’anni o poco più. Alle loro spalle, sulla parete dello stabilimento, incombe una scritta a caratteri cubitali, visibile a centinaia di metri di distanza: “Mi smo ono sto stvaramo”. Che vuol dire, tradotto dal serbo: “Noi siamo quello che facciamo”. E loro fanno, eccome se fanno. Gli operai dello stabilimento Fiat di Kragujevac, 140 chilometri a sud di Belgrado, stanno in fabbrica dieci ore al giorno, per quattro giorni la settimana. Quaranta ore in tutto, con altre otto di straordinario, che da queste parti, almeno per adesso, è diventata una faticosa consuetudine. Non basta. Perché il caporeparto, spesso e volentieri, chiede di lavorare un giorno in più, giusto qualche ora per fissare un pezzo mal riuscito o per dare una sistemata alle macchine. Un’extra pagato? Magari. Tutto gratis. “Ma come si fa a dire di no al capo, che è anche un amico? ”, taglia corto un operaio, uno dei pochi che accettano di scambiare qualche parola.

È vero, alla Fiat di Kragujevac non si usa dire di no. Perché in Serbia un lavoratore su quattro proprio non riesce a trovare un posto. E allora, con la disoccupazione al 25 per cento, l’inflazione al 10 e le casse dello Stato ormai allo stremo, la scritta sui muri della fabbrica (Noi siamo quello che facciamo) finisce per diventare un monito anche per chi sta fuori. Voi non siete niente perché non fate niente. E chi sta dentro la fabbrica non vuole certo tornare quello che era prima, una nullità, uno dei tanti che si arrangiano con il lavoro nero. Meglio chinare la testa, allora. Ubbidire ai capi e tacere con gli estranei.

Vanno così le cose a Kragujevac, Serbia profonda, la nuova frontiera della Fiat predicata e realizzata da Sergio Marchionne. Stipendi da 300-350 euro al mese, turni di lavoro massacranti, straordinari pagati solo in parte. Prendere o lasciare. Ma un’alternativa, un’alternativa vera, nessuno sa dove trovarla. E allora bisogna prendere, bisogna accettare l’offerta targata Italia. Anzi, targata Fiat Automobiles Serbia, in sigla Fas, la società controllata al 66,6 per cento da Torino e per il resto dal governo di Belgrado. A Kragujevac lavorano circa 2.000 dipendenti: 1.700 operai, il resto sono dirigenti e amministrativi.


Lo stabilimento funziona a pieno regime solo da qualche settimana, ad oltre quattro anni di distanza dall’accordo che nel 2008 consegnò (gratis) a Marchionne fabbrica e terreni dove sorgeva la Zastava, storica azienda motoristica che fin dal 1954, ai tempi della Jugoslavia di Tito, ha prodotto auto su licenza della casa di Torino. Esce da qui la 500L, l’unico modello davvero nuovo che i manager del Lingotto sono riusciti a mettere sul mercato nel 2012. “Almeno 30 mila vetture entro la fine dell’anno”, questi gli obiettivi di produzione dichiarati dai vertici della Fiat per l’impianto di Kragujevac. Obiettivi quantomeno ambiziosi. Anche perché le auto, dopo averle fabbricate bisognerebbe pure venderle. E di questi tempi, un po’ in tutta Europa, le aziende del settore fanno una gran fatica a convincere i potenziali clienti.

Ecco perché non si trova un analista disposto a scommettere sull’immediato mirabolante successo della versione large della 500, una monovolume che dovrà conquistare spazio in un segmento di mercato già presidiato da rivali come la Citroën C3 Picasso, la Opel Meriva e la Hyundai ix20. Anche ai più ottimisti tra i tifosi di Torino sembra improbabile che la 500L sia sufficiente, da sola, a garantire la sopravvivenza del modernissimo stabilimento di Kragujevac. “Siamo in grado di produrre tra 120 mila e 180 mila auto l’anno, tutto dipende dalla domanda di mercato”, ha dichiarato il numero uno di Fiat Serbia, Antonio Cesare Ferrara, in una recente intervista all’agenzia di stampa Tanjug. Già, tutto dipende dal mercato. Anche Marchionne se la cavava così quando raccontava dei 20 miliardi di investimenti del fantomatico piano “Fabbrica Italia”. Poi s’è visto com’è andata a finire. Parole al vento.

In Serbia, invece, fonti del governo di Belgrado e anche del gruppo italiano nei mesi scorsi hanno accreditato l’ipotesi che Kragujevac possa arrivare a produrre oltre 200 mila auto l’anno. Tante, tantissime, se si pensa che quest’anno i quattro impianti italiani della Fiat non arriveranno, messi insieme, a 500 mila vetture, con la storica fabbrica di Mirafiori (quasi) ferma a quota 50 mila, forse anche meno. La domanda, a questo punto, è la seguente. Perché mai Marchionne dovrebbe accontentarsi di far viaggiare a mezzo servizio uno stabilimento nuovo di zecca, moderno ed efficiente a poche centinaia di chilometri dalla frontiera italiana? E per di più con tanto di manodopera qualificata e con un costo del lavoro pari a meno di un quinto rispetto a quello degli operai del Belpaese?

Le possibili risposte sono due. La prima: la 500L si rivela un clamoroso successo planetario, travolge le dirette concorrenti sul mercato e arriva a sfiorare i livelli di vendita delle best seller del gruppo, Punto e Panda. Tutto è possibile, certo, ma al momento un boom di queste dimensioni sembra davvero improbabile. Ipotesi numero due: la 500 in versione large serve giusto per il rodaggio della fabbrica serba. Il bello (si fa per dire) viene dopo. Quando Marchionne, accantonato una volta per tutte il bluff di Fabbrica Italia, annuncerà nuovi tagli negli stabilimenti italiani. Colpa del crollo delle vendite, si dirà, che rende insostenibili i costi di produzione nella Penisola.

L’alternativa? Eccola: si chiama Kragujevac. Da queste parti la Fiat ha già accumulato due anni di ritardo rispetto ai piani di partenza e non può più permettersi battute a vuoto. Il governo serbo, da parte sua, ha fatto ponti d’oro all’investitore straniero. Ha regalato terreni e stabilimento (peraltro ridotto quasi in macerie dai bombardamenti della Nato del 1999), ha istituito una zona franca, ha garantito esenzioni fiscali e contributive, ha investito decine di milioni di euro nel progetto promettendo, in aggiunta, nuove strade e ferrovie. Solo che nel frattempo Belgrado ha finito i soldi e pure il governo è cambiato. Con le elezioni del maggio scorso ha perso il posto Boris Tadic, il presidente che insieme al ministro dell’Economia Mladjan Dinkic, era stato il principale sponsor di Marchionne. Adesso comandano Tomislav Nikolic (presidente) e Ivica Dacic (primo ministro), due vecchie volpi della politica locale, nazionalisti un tempo vicini a Slobodan Milosevic. Così a Belgrado non si parla quasi più di entrare nella Ue e la stella polare del nuovo governo è Vladimir Putin, che si è affrettato a promettere appoggio politico e, soprattutto, soldi a palate.

Anche Marchionne è stato costretto a fare i conti con la coppia Nikolic-Dacic. Il piatto piange. Il capo della Fiat reclamava 90 milioni cash a suo tempo promessi da Belgrado.Nessuno scontro. L’accordo è arrivato a tempo di record. Il governo si impegnato a pagare in due rate. La prima, 50 milioni, entro la fine dell’anno. Il resto nel 2013. Marchionne, che ha incontrato Nikolic a Kragujevac il 4 settembre scorso, a quanto pare si fida. O finge di farlo. Del resto il capo del Lingotto sa bene che i serbi a questo punto non possono tirarsi indietro. La perdita dei posti di lavoro promessi dalla Fiat sarebbe una catastrofe politica per il nuovo esecutivo. Marchionne, grande pokerista, ancora una volta può giocare le carte migliori. E a Belgrado non c’è neppure bisogno di bluffare. Il piano “Fabbrica Serbia” ormai è realtà.

di Lorenzo Galeazzi e Vittorio Malagutti

da Il Fatto Quotidiano del 18 settembre 2012
camillobenso
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Re: La vicenda FIAT

Messaggio da camillobenso »

E mo' questi de' Moody's ariveno adesso pe' vede nero?

Noi so' quattro anni che lo scrivemo, a parti' da : ...quando le fabbriche chiuderanno....


LE PREVISIONI DI MERCATO
Auto: Moody's vede nero anche per il 2013
«Sotto pressione Fiat, Renault e Psa»

Atteso un calo delle vendite a causa della debolezza del mercato italiano. «Allineare la produzione alla domanda»

MILANO- La ripresa del mercato dell'auto in Europa - se ci sarà- non si verificherà prima del 2014. L'anno prossimo sarà un'altra stagione difficile per l'industria: secondo le previsioni di Moody's contenute all'interno del «Global Automotive Outlook» le vendite caleranno ancora del 3% nel 2013. Mentre a livello globale è atteso un aumento del 2,9%, comunque inferiore rispetto a quanto anticipato nei mesi precedenti, a causa del rallentamento della Cina.
PESA LA CRISI DELL'EUROZONA- A incidere negativamente sul bilancio è il protrarsi della debolezza economica nei paesi del sud dell'Europa, «specialmente in Italia» spiegano nell'«outlook». Situazione delicata che non riguarda solo Fiat, ma tutti i costruttori generalisti inclusi Renault e Psa Peugeot-Citroen, i cui margini di guadagno «restano sotto pressione a causa dell'eccesso di capacità produttiva e della bassa domanda di auto». Perché le vetture oltre a produrle poi si devono vendere. Secondo l'agenzia di rating più costruttori avvieranno azioni di risanamento per affrontare la crisi affrontando il nodo degli impianti con l'obiettivo di «riportare la produzione in linea con la domanda arrivando a un livello di impiego delle fabbriche del 90%. Una crisi che inizierebbe a coinvolgere anche le case tedesche che praticano forti sconti sul mercato interno, con picchi del 35% su alcune utilitarie e berline. Perché piuttosto che lasciarle parcheggiate nei piazzali le auto, è meglio darle via a colpi di «fuori tutto». E un 2013 «difficile» arriverebbe dopo un anno di già forte sofferenza: in agosto le immatricolazioni europee scenderanno attorno all'8%, portando a 11 i mesi consecutivi all'insegna del rosso. Che vuol dire tornare ai numeri degli anni novanta.

TUTTI I FOCOLAI DELLA CRISI-Se la retromarcia della Fiat su «Fabbrica Italia» ha scatenato reazioni di ogni genere, in Francia l'annunciata chiusura dello stabilimento di Aulnay da parte di Psa e il taglio di 8 mila dipendenti è una delle grane più difficili da risolvere per il governo Hollande. Problemi simili in Germania, alla Opel: a Russelsheim e Kaiserslautern prosegue la «settimana corta» per 9 mila dipendenti. E ci sono seri dubbi sul futuro del sito di Bochum. Secondo il Wall Street Journal, poi, anche lo stabilimento della Ford di Genk, in Belgio, sarebbe in bilico. Tornando in Italia, Federauto, l'associazione dei concessionari italiani «chiede al governo di far conoscere i propri piani per il settore auto, che dà lavoro a 220 mila persone». «E' paradossale che l'esecutivo voglia sapere come mai il settore vada male - sottolinea il prsidente Filippo Pavan Bernacchi -dopo aver varato una serie di disicentivi con aumenti di IVA, IPT, accise, pedaggi, bolli, RC, il varo del superbollo per le supercar».

MEGLIO GIAPPONESI E AMERICANI- Nell'analisi di Moody's migliorano invece i giapponesi, dopo i minimi storici raggiunti all'indomani del terremoto dell'11 marzo 2011. Stabile la situazione negli Usa, anche se -avverte il rapporto- il rallentamento dell'economia americana e l'aumento delle perdite in Europa potrebbero erodere i margini di profitto.

Daniele Sparisci
corriere_motori
17 settembre 2012 | 21:12
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://motori.corriere.it/attualita/12_ ... 5e27.shtml
soloo42000
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Re: La vicenda FIAT

Messaggio da soloo42000 »

So' dei ggeni, veri scienziati.

E` sorprendente come "i mercati" tollerino l'incompetenza e l'intempestivita` di queste analisi.

Ma come?
Mentre l'incendio divampa tu mi dici che rischiamo di bruciarci tutti?
Ma non dovevi dirlo anni fa in modo che non lo facessimo divampare l'incendio?
O che almeno ci allontanassimo dal pericolo?
Ma le tue sono "analisi" o tardive grida di "allarme"?

Se fossi imprenditore queste domande me le farei, dato che ci sono in gioco i miei "sordi".

Poi tutti questi stabilimenti che chiudono.

Ma lo capiscono o no, politici e imprenditori, che "senza sordi la ggente la machina nu' la cambia"?
Io vado in giro con una Nissan Maxima del 1997.
Meccanica ancora perfetta, consuma un po' di benza.
Che dovrei fare secondo loro, buttare 20000 euro per una macchina nuova
per poi stare in coda a 30 all'ora a Milano e consumare come con la vecchia?

Niente soldi/diritti, niente futuro, niente consumi, niente fatturato, niente lavoro, niente tasse.
Miseria sociale e morte della politica.

Quando i benpensanti saranno diventati precari cinesi pure loro, allora forse le cose cambieranno.
Fino ad allora sara` dura.


soloo42000
Amadeus

Re: La vicenda FIAT

Messaggio da Amadeus »

Marchionne: "Manterrò Fiat in Italia
con i guadagni fatti all'estero"
Parla l'ad: "Risponderò al governo, ma ognuno faccia la sua parte". E replica alle critiche: "In giro vedo troppi maestri d'automobile improvvisati. Non si investe in un mercato tramortito dalla crisi, ma io non mollo e sono qui. Non dipingetemi come l'uomo nero"
di EZIO MAURO
Sergio Marchionne, in poche righe di comunicato lei ha seminato il panico sul futuro della Fiat in Italia, poi se n'è andato in America senza spiegare niente. Qui ci si interroga sul destino di stabilimenti, famiglie, comunità di lavoro, città. Cosa sta succedendo, e che cosa ha in mente?
"Sta succedendo esattamente quello che avevamo detto alla Consob un anno fa. Ho dovuto ripeterlo perché attorno a Fabbrica Italia si stava montando una panna del tutto impropria, utilizzando il nome della Fiat per ragioni solo politiche: a destra e a sinistra, perché noi siamo comunque l'unica realtà industriale che può dare un senso allo sviluppo per questo Paese. Capisco tutto, ma quando vedo che veniamo usati come parafulmine, non ci sto, e preferisco dire la verità".

E qual è la verità, il blocco degli investimenti in Italia dando tutta la colpa alla crisi?
"No, questa è semplicemente una sciocchezza. Abbiamo appena investito circa un miliardo per la Maserati in Bertone (una fabbrica rilevata da noi nel 2009 che non aveva prodotto vetture dal 2006), altri 800 milioni per Pomigliano: le sembra poco?".

La sua verità, allora?
"Semplice. La Fiat sta accumulando perdite per 700 milioni in Europa, e sta reggendo a questa perdita con i successi al'estero, Stati Uniti e Paesi emergenti. Queste sono le uniche due cose che contano. Se vogliamo confrontarci dobbiamo partire da qui: non si scappa".

La paura è che stia scappando lei, dottor Marchionne. Bassi investimenti in Italia, zero prodotti nuovi. Non è così che muore un'azienda che ha più di cent'anni di vita?
"Mi risponda lei: se la sentirebbe di investire in un mercato tramortito dalla crisi, se avesse la certezza non soltanto di non guadagnare un euro ma addirittura - badi bene - di non recuperare i soldi investiti? Con nuovi modelli lanciati oggi spareremmo nell'acqua: un bel risultato. E questa sarebbe una strategia manageriale responsabile nei confronti dell'azienda, dei lavoratori, degli azionisti e del Paese? Non scherziamo".

Ma i suoi concorrenti sono europei come la Fiat, operano sullo stesso mercato, eppure non hanno alzato le braccia. Tutti incoscienti e irresponsabili, anche quando guadagnano quote di mercato a vostro danno?
"Senta, perché non guardiamo le cifre che parlano da sole, molto meglio della propaganda? Lei le conosce? In Italia l'automobile è precipitata in un buco di mercato senza precedenti, un mercato colato a picco nel vero senso della parola, ritornato ai livelli degli anni Sessanta. Sa cosa vuol dire? Che abbiamo perso di colpo quarant'anni. E si capisce, se uno è capace di guardarsi attorno. Il Paese soltanto un anno fa era fallito, lo avevamo perduto. Solo l'intervento di un attore credibile ha saputo riprendere l'Italia dal baratro in cui era finita e risollevarla. Ce lo siamo dimenticato? E qualcuno vorrebbe che la Fiat, in mezzo a questa tempesta, si comportasse tranquillamente come prima, quando c'era il sole? O è un'imbecillità, pensare questo, o è una prepotenza, fuori dalla logica".

Ma lei guida la Fiat dal 2004. Molti, come Diego Della Valle, dicono che è colpa sua. Cosa risponde?
"Che tutti parlano a cento all'ora, perché la Fiat è un bersaglio grosso, più delle scarpe di alta qualità e alto prezzo che compravo anch'io fino a qualche tempo fa: adesso non più. Ci sarebbe da domandarsi chi ha dato la cattedra a molti maestri d'automobile improvvisati. Ma significherebbe starnazzare nel pollaio più provinciale che c'è, davanti ad una crisi che ci sfida tutti a livello mondiale. Finché attaccano me, comunque, nessun problema. Ma lascino
stare la Fiat, per rispetto e per favore".

È normale che il Paese si preoccupi davanti al rischio che la Fiat vada via dall'Italia, che lei scelga l'America, che si perda la sapienza del lavoro nell'automobile. Perché lei non ha risposto a queste paure?
"Se vuol dire che potevamo comunicare meglio, possiamo discuterne. Ma la sostanza non cambia".

Ma lei dopo cent'anni di storia intrecciata tra la Fiat, Torino e l'Italia, con creazione di lavoro e di ricchezza ma anche con un forte sostegno dello Stato, non sente oggi un dovere di responsabilità nazionale?
"Scusi, se il quadro è quello che le ho fatto, e certamente lo è, si immagina cosa farebbe qualunque imprenditore al mio posto? Cosa farebbe uno straniero, in particolare un americano, un uomo d'azienda con cultura anglosassone? Dovreste rispondervi da soli ".

Qui sta la sua responsabilità nei confronti del Paese?
"In questa situazione drammatica, io non ho parlato di esuberi, non ho proposto chiusure di stabilimenti, non ho mai detto che voglio andar via. Le assicuro che ci vuole una responsabilità molto elevata per fare queste scelte oggi".

Ma due anni fa lei aveva detto a Repubblica che le quattro lettere Fiat avrebbero
conservato il loro significato: ancora Fabbrica, sempre Italiana, per produrre Automobili, e tutto questo a Torino. Oggi se la sente di confermare?
"Siamo qui. Anzi, io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l'Italia. Non mollo, se è questo che vuole sapere".

Ma lei ha appena detto che Fabbrica Italia è superata. Questo significa che l'impegno di investire in quel progetto 20 miliardi non viene mantenuto. Non si sente in colpa?
"Quell'impegno era basato su cento cose, e la metà non ci sono più, per effetto della crisi. Lo capirebbe chiunque. Io allora puntavo su un mercato che reggeva, ed è crollato, su una riforma del mercato del lavoro, e ho più di 70 cause aperte dalla Fiom. Soprattutto, da allora ad oggi il mercato europeo ha perso due milioni di macchine. C'erano e non ci sono più. Tutto è cambiato, insomma. E io non sono capace di far finta di niente, magari per un quieto vivere che non mi interessa. Anche perché puoi nasconderli, ma i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco, siamo in quel momento. Io indico i nodi: parliamone".

Cala il mercato europeo, ma dentro quel mercato Fiat crolla molto più di altri. Perché?
"Perché il mercato italiano per noi è assolutamente preponderante, pesa più di quello degli altri Paesi messi insieme: e il mercato italiano e spagnolo sono quelli che hanno perduto di più. Non è un'equazione troppo difficile".

Ma gli altri produttori europei continuano a sfornare modelli. Fiat è ferma, vuota e assente. Non è anche così che si lascia andare a picco il mercato?
"Se io avessi lanciato adesso dei nuovi modelli avrebbero fatto la stessa fine della nuova Panda di Pomigliano: la miglior Panda nella storia, 800 milioni di investimento, e il mercato non la prende, perché il mercato non c'è. Provi a pensare: se quell'investimento io lo avessi moltiplicato per quattro, se cioè avessi pensato in grande, diciamo così, la Fiat sarebbe fallita entro il 2012 e adesso saremmo qui a parlare d'altro. Io dovrei andarmene in giro col cappello in mano, chiedendo soldi non so a chi: agli azionisti, al governo, ad un altro convertendo".

Ma la rinuncia a nuovi modelli non è una resa, una rinuncia al mestiere e a stare sul mercato?
"Con un modello nuovo, nelle condizioni di oggi, magari avrei venduto trentamila macchine di più, glielo concedo. Ma magari, mi conceda lei, avrei perso due miliardi di più".

Il rischio è di disperdere un know how, una sapienza del lavoro, un universo dell'indotto, un marchio storico. Non ci pensa?
"Le rispondo così: lei non può saperlo, ma nei piani strategici del 2004 la Peugeot aveva considerato la Fiat fallita, e aveva programmato la conquista delle sue quote di mercato, come se la nostra azienda non ci fosse più. Fallita, cancellata, capito? Oggi la situazione è completamente diversa. Bisogna solo capire in che mondo viviamo. C'è un rapporto di Morgan Stanley secondo cui nello scorso decennio General Motors ha pompato 12 miliardi di euro in Europa, a fondo praticamente perduto".

Questo cosa vuol dire? Che tutte le colpe sono del mercato e non vostre?
"Lasci stare le colpe, parliamo di numeri. Vuol dire che il mercato non c'è. In Italia siamo sotto un milione e 400 mila automobili vendute, ciò significa che ne abbiamo perse un milione e centomila in cinque anni".

E come vede l'anno prossimo?
"Male, molto male. D'altra parte la gente non ha più potere d'acquisto, magari ha perso il lavoro, i risparmi se ne sono andati, non ha prospettive per il futuro. Ci rendiamo conto? L'auto nuova è proprio l'ultima cosa, non ci pensano nemmeno, si tengono la vecchia ben stretta. È un meccanismo che si può capire ".

È anche colpa degli incentivi, che hanno spinto a comprare senza necessità?
"Sono stati una droga, non c'è dubbio".

Ma ne avete beneficiato largamente anche voi, non ricorda?
"Ne abbiamo beneficiato tutti, noi, i francesi, i tedeschi. Ho sempre pensato che la droga avrebbe tramortito il mercato. Pensi che vendevamo un "Cubo" a metano a meno di 5 mila euro, 4.990: drogato al massimo".

Sono i famosi aiuti di Stato all'automobile, di cui oggi non dovreste dimenticarvi, non le pare?
"Già l'ultima volta ho detto di no. Vedevo crearsi una bolla che gonfiava d'aria i tubi del mercato, per poi farli saltare prima o poi. Semplicemente si posticipava una crisi, una difficoltà e un problema, invece di affrontarli".

Ecco, oggi la paura è proprio questa: che una Fiat americana non affronti il problema della produzione automobilistica in Italia, e non contrasti la crisi. Cosa risponde?
"Io gestisco un'azienda che fa 4 milioni e 100 mila vetture all'anno. La scorsa settimana sono andato a Las Vegas per un incontro con i concessionari: tra novità e restyling gli abbiamo fatto vedere 66 vetture. Si rende conto? È il segno di un'espansione commerciale fantastica di un'azienda globale. Che va giudicata in termini globali. Chi cresce a questi ritmi negli Usa e anche in America Latina, forse sa fare automobili, forse capisce il mercato".

E l'Italia? Lei non può ignorarla.
"Ma lei non può pensare alla Fiat come a un'azienda soltanto italiana. Sarebbe in ritardo di dieci anni. La Fiat non è più un'azienda solo italiana, opera nel mondo, con le regole del mondo. Per essere chiari: se io sviluppo un'auto in America e poi la vendo in Europa guadagnandoci, per me è uguale, e deve essere uguale".

Se non fosse per quel problema della responsabilità nazionale, nei confronti del Paese e di chi lavora, non crede?
"E qui lei dovrebbe già aver capito la mia strategia. Gliela dico in una formula: cerco di assecondare la ripresa del mercato Usa sfruttandola al massimo per acquisire quella sicurezza finanziaria che mi consenta di proteggere la presenza Fiat in Italia e in Europa in questo momento drammatico. Fare diversamente, sarebbe una follia".

Siete specializzati in utilitarie: non c'è l'idea di un'auto per la crisi?
"I modelli non invecchiano bene. Io posso lanciare la migliore automobile in un momento di mercato tragico come quello attuale, senza ottenere risultati: ma due anni dopo, quando magari le condizioni di mercato cambiano, quel modello è vecchio, e i soldi del mio investimento non li riprendo mai più".

Però state per lanciare la 500L, prodotta in Serbia. Quanto ci punta la Fiat?
"L'ho presentata agli americani lunedì scorso, l'accoglienza è stata fantastica, su quel mercato sono tranquillo perché andrà benissimo. E questo ci aiuterà. Ma se dovessi puntare solo sui risultati europei, non ce la farei mai e poi mai. E le aggiungo una cosa: io venderò la 500L a 14.500 euro. La Citroen ha deciso di vendere la C3 Picasso, che è un competitor, a meno di diecimila, per smaltire le giacenze. È una quota che sta sotto il mio costo variabile. Questo le dice come sta oggi il mercato in Europa".

Come spiega agli americani il successo a Detroit e il disastro a Torino?
"Quando spiego, loro fanno due conti e mi dicono cosa farebbero: chiusura di due stabilimenti per togliere sovracapacità dal sistema europeo".

E lei?
"I conti li so fare anch'io. Se mi comporto diversamente, ci sarà una ragione".

Cosa vuol dire?
"Che non parlo di eccedenze, non parlo di chiusure, dico solo che non c'è mercato per fare attività commerciale garantendo continuità finanziaria all'azienda".

E quando vede un cambio di mercato?
"Fino al 2014 non vedo niente. Per questo investire nel 2012 sarebbe micidiale. Salvo che qualcuno mi dica che per noi le regole non valgono. Ma deve mettermelo per scritto. Perché quando siamo entrati in Europa, non sono solo saltate le frontiere, è saltata anche l'abitudine di fare un po' di svalutazione nei momenti di crisi. Ora questo lusso non c'è più, e finché Monti e Draghi hanno le mani sul timone, per fortuna dall'euro non usciremo. E allora, dobbiamo rispettare le regole".

Sembra un discorso riferito al governo. La stanno cercando e vogliono chiarimenti: li vedrà?
"Se mi cercano li vedrò, certo. Immagino che incontrerò Passera, Fornero. Ma poi?".

Le chiederanno garanzie per la Fiat in Italia e vorranno sapere qual è il suo disegno strategico. Cosa dirà?
"Sopravvivere alla tempesta con l'aiuto di quella parte dell'azienda che va bene in America del Nord e del Sud, per sostenere l'Italia, mi pare sia un discorso strategico".

Lei dunque s'impegna?
"Mi impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell'Italia. Io la mia parte la faccio, non sono parole. Quest'anno la Fiat guadagnerà più di 3 miliardi e mezzo a livello operativo, tutti da fuori Italia, netti di quasi 700 milioni che perderà nel nostro Paese. È la prova di quel che le ho detto".

Ma anche Romiti sostiene che lei ha colpe precise, ha letto?
"Mi dispiace, ma il mondo Fiat che abbiamo creato noi non è più quello di Romiti. E anche la parola cosmopolita non è una bestemmia, come sembra intendere qualcuno. È l'unica salvezza che abbiamo. Ancora una cosa: io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente che mio padre era un maresciallo dei carabinieri".

Cosa intende dire?
"Che non sono l'uomo nero".

Col sindacato sì, sembra aver dichiarato una guerra ideologica alla Fiom, da anni Sessanta.
"Storie. Io voglio una riforma del lavoro, che ci porti al passo degli altri Paesi. Se la Fiat vuole essere partner di Chrysler, deve essere affidabile. Lo so che la Fiat di Valletta aveva asili e colonie, ma si muoveva in un mondo protetto dalla competizione, dazi e confini, che sono tutti saltati. Noi siamo in ballo, il gran ballo della globalizzazione: non è detto che mi piaccia ma come dicono in America il dentifricio è fuori, e rimetterlo nel tubetto non si può più".

Ma lei si rende conto che il lavoro oggi è il primo problema del-l'Italia?
"Sì, da qui la mia responsabilità nei confronti del Paese, che va di pari passo con quella nei confronti dei miei azionisti. Ma "repubblica fondata sul lavoro" vuol dire anche essere competitivi, creare occupazione attraverso sfide e competizioni. Questa cultura da noi manca".

Il professor Penati oggi su Repubblica, cercando di capire la sua strategia, le ha chiesto di essere coerente e di vendere le partecipazioni editoriali, per dimostrare che la crisi colpisce tutti i settori in crisi e non penalizza solo l'automobile. Può rispondere?
"Proprio a me venite a chiedere dei salotti buoni? Non li ho mai frequentati. E quando abbiamo avuto bisogno di qualcosa da loro, ho visto solo buchi nell'acqua".


(18 settembre 2012)
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