CRISI DI GOVERNO
-
- Messaggi: 2102
- Iscritto il: 21/02/2012, 22:29
Re: CRISI DI GOVERNO
Prendersi all'interno delle serpi ex pdl sarebbe un tradimento ancora più grande
Per me si deve tornare al voto
Per me si deve tornare al voto
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
Robert Harris, "Archangel"
Robert Harris, "Archangel"
-
- Messaggi: 822
- Iscritto il: 08/03/2012, 23:18
Re: CRISI DI GOVERNO
ecco il nuovo presidente del consiglio : prof. augusto graziani il piu grande economista vivente italiano.
dopo il governo tecnocratico e anticostituzionale del possessore di garage varesini dopo il nipotino
trombato dagli spagnoli e dal cavaliere si fa strada la nomina a presidente del consiglio del prof. augusto graziani.
-------------------------------------------------------------------------------------------------OMAGGIO AD AUGUSTO GRAZIANI
Augusto Graziani: la scienza moderna delle classi sociali
il manifesto, 4 maggio 2013
L’economista Augusto Graziani compie oggi ottant’anni. Un’occasione per riscoprire la modernità di un metodo di ricerca basato sull’analisi degli antagonismi tra e dentro le classi sociali. Un metodo che ha permesso a Graziani di anticipare gli snodi della attuale crisi europea.
di Emiliano Brancaccio
Augusto Graziani celebra oggi il suo ottantesimo compleanno. Nato a Napoli nel 1933, esponente di punta delle scuole italiane di pensiero economico critico, già senatore e accademico dei Lincei, nell’arco di quasi mezzo secolo di pubblicazioni Graziani si è cimentato con successo nella infaticabile opera di tessitura di una sottile trama logica, in grado di tenere coerentemente assieme ricerca teorica pura, didattica e divulgazione. Per questa sua missione gramsciana, riuscita a pochi altri ed oggi considerata impossibile dalla stragrande maggioranza degli economisti, Graziani ha saputo farsi apprezzare non solo da studenti e colleghi ma anche da un più ampio pubblico di estimatori, tra cui i lettori dei suoi editoriali pubblicati sul manifesto e su varie altre testate nazionali.
Come molti economisti della sua generazione, Graziani ha in più occasioni partecipato al dibattito sulla critica della teoria neoclassica dominante. La sua posizione sull’argomento è apparsa fin dall’inizio peculiare. A suo avviso, la sfida per la costruzione di un paradigma economico alternativo dovrebbe riguardare in primo luogo il metodo. La teoria neoclassica poggia sull’individualismo metodologico, un criterio di analisi della società che può essere rozzamente sintetizzato nella massima thatcheriana secondo cui la società non esiste, ed esistono solo uomini, donne e famiglie. Questa chiave di lettura della realtà asseconda il senso comune, ma proprio per questo pregiudica ogni possibilità di comprensione dei reali meccanismi di funzionamento del capitalismo, all’interno del quale i singoli individui contano solo in quanto componenti di gruppi, coalizioni, e classi sociali. Per Graziani, dunque, l’edificazione di una teoria del capitalismo scientificamente valida richiede in primo luogo il recupero e l’aggiornamento di un metodo di ricerca basato sullo studio degli antagonismi tra gruppi di interesse, e in ultima istanza tra le classi: vale a dire, quel metodo che era tipico degli economisti classici e di Marx, che lo stesso Keynes adoperò in molti suoi scritti, e che per lungo tempo è rimasto sommerso e dimenticato sotto il peso dell’approccio individualistico prevalente.
In epoche dominate dall’illusione del monadismo o da rigurgiti di ipocrisia interclassista, la scelta epistemologica di Graziani è stata senza dubbio scomoda, e ha rischiato più volte di condurlo all’emarginazione. Basti ricordare la critica che sull’Unità egli rivolse al modo in cui Achille Occhetto stava gestendo la nascita del PDS: un tentativo abborracciato di rappresentare indistintamente le classi e le culture politiche, evitando precisi riferimenti alla tutela degli interessi dei lavoratori subordinati (una critica lungimirante, che a fortiori potrebbe essere rivolta ai contenitori politici del tempo presente). Da un punto di vista strettamente scientifico, tuttavia, è interessante notare che quella scelta di metodo è stata in un certo senso premonitrice. Negli ultimi anni, infatti, gli studi sui conflitti tra gruppi sociali hanno fatto breccia tra le mura della stessa teoria dominante. Basti pensare a Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, i cui modelli macroeconomici non si basano sul comportamento dei singoli individui ma partono direttamente dall’analisi di aggregati sociali come i sindacati dei lavoratori e le grandi imprese dotate di potere di mercato. Tra l’approccio critico di Graziani e l’approccio prevalente di Blanchard resta però una differenza sostanziale. Per Blanchard l’esistenza di tali aggregati sociali rappresenta una “imperfezione” del mercato che, se rimossa, consentirebbe di ottenere un migliore impiego delle risorse produttive: ridurre il potere del sindacato, ad esempio, consentirebbe di comprimere i salari monetari e i prezzi e di aumentare quindi la domanda di merci, la produzione e l’occupazione. Per Graziani, invece, l’antagonismo tra gruppi sociali non costituisce una “imperfezione” ma rappresenta un fattore immanente al modo di produzione capitalistico. La lotta di classe c’è, insomma, anche qualora non ve ne sia più coscienza. Persino quando il sindacato viene ridotto a brandelli essa continua a produrre effetti, ad esempio cancellando gli ultimi scampoli di tutele legali dei singoli lavoratori. La conseguenza ultima è al limite un aumento dei profitti per occupato, non un aumento del numero complessivo di occupati. Del resto, ad avviso di Graziani non è certo liberando il capitale dai lacci e lacciuoli della legge che si può raggiungere l’agognato obiettivo di una piena e stabile occupazione dei lavoratori. Lo schiacciamento dei salari e dei diritti, infatti, non favorisce in quanto tale la domanda di merci e quindi non implica un aumento delle assunzioni. Per raggiungere il pieno impiego occorre in realtà una ben diversa azione collettiva, antagonistica rispetto alle logiche del capitale. A partire, afferma Graziani, da una estensione dell’intervento dello stato alla diretta gestione di alcuni processi produttivi, ben oltre la mera erogazione di spesa pubblica.
Una rinnovata analisi di classe non si presta tuttavia soltanto a esaminare il tipico conflitto tra capitale e lavoro. Essa consente anche di gettare uno sguardo smaliziato sugli antagonismi interni a ciascuna classe sociale, come quelli tra capitali grandi e capitali più piccoli, che possono poi sfociare in conflitti economici tra nazioni avanzate e nazioni meno sviluppate. Seguendo questo metodo Graziani ha scritto pagine illuminanti sulla storia economica e politica dell’Italia, e sul tema controverso della integrazione europea. Un aspetto cruciale della questione verte sulle trasformazioni dell’industria italiana avvenute nell’ultimo ventennio del secolo scorso. Il declino della grande industria privata e pubblica, la privatizzazione e la vendita di interi settori produttivi a gruppi stranieri, e la proliferazione di imprese di piccole dimensioni assai più disinvolte nella gestione della forza-lavoro, anziché accrescere l’efficienza dell’economia nazionale hanno di fatto provocato un suo progressivo indebolimento rispetto ai principali competitori esteri, in primis la Germania. Graziani indaga a fondo su queste divergenze, anticipando per molti versi il concetto di “mezzogiornificazione” europea coniato da Krugman: vale a dire, un dualismo che da caso speciale confinato ai rapporti tra Nord e Sud dell’Italia, diventa sintomatico degli antagonismi tra paesi centrali e paesi periferici di tutta l’Unione europea. Oltretutto, contrariamente alle opinioni prevalenti, la nascita della moneta unica europea non ha contribuito a ridurre tali divergenze ma ha finito per accentuarle. Una prova è fornita dalla persistenza di un’inflazione più alta in Italia e negli altri paesi periferici rispetto alla Germania e ai suoi satelliti. La fragilità del tessuto produttivo italiano, unita a una aggressiva politica di contenimento dei salari tedeschi, allargano la forbice tra i prezzi dei due paesi. L’adozione di una moneta comune impedisce di attenuare il divario tramite la svalutazione del cambio. L’implicazione è che l’Italia e gli altri paesi deboli sono destinati a importare troppo e ad accumulare disavanzi verso l’estero. Ci si trova così di fronte al dilemma dei nostri giorni. Nella totale evanescenza di iniziative per una riforma atta al ribilanciamento dei rapporti interni all’Unione, le opzioni sono soltanto due: o i paesi periferici frenano la tendenza a importare attraverso continue politiche di austerità, oppure la deflagrazione dell’euro diventa una possibilità concreta.
L’eventualità di un tracollo dell’euro, evocata da Graziani nei mesi in cui l’entusiasmo verso la moneta comune era alle stelle, suscitava il bonario scetticismo di numerosi colleghi. In un convegno tenutosi a Napoli nel 2003, Alberto Quadrio Curzio ed altri non nascosero una certa sorpresa di fronte all’insistenza con cui Graziani accennava al rischio di una disgregazione dell’Unione monetaria. Di fronte a tanto stupore Graziani replicò con un aneddoto malizioso. Egli invitò i colleghi a prelevare dai portafogli una banconota in euro, e li esortò a notare un dettaglio intrigante: il numero di serie di ogni biglietto reca chiaramente l’indicazione della singola nazione emittente (la lettera S vale per l’Italia, la X per la Germania, la U per la Spagna, la Y per la Grecia, e così via). Quindi fece notare che le ragioni di questa notazione non sono mai state chiarite dalla Banca centrale europea: «Può trattarsi di una semplice procedura tecnica; oppure, come alcuni sospettano, potrebbe trattarsi di una misura precauzionale, nel senso che, se un giorno l’Unione monetaria europea dovesse sciogliersi, si potrebbe stabilire con precisione l’origine di ogni biglietto e quindi l’obbligo di riconversione gravante su ciascuno dei paesi». Capitò così di vedere studenti e professori trarre un po’ goffamente le banconote dalle tasche. In un misto di incredulità e preoccupazione, tutti esaminarono i numeri di serie. Graziani aveva ragione: i biglietti sono formalmente attribuiti alla Bce, ma chiunque può agevolmente distinguere tra euro emessi dalla Banca d’Italia ed euro emessi dalla Bundesbank o dalla Banque de France. Fu una piccola rivelazione, la scoperta di un microscopico bug nell’algoritmo apparentemente irreversibile dell’Unione. Graziani osservò la platea con occhi più sottili del solito. Fu l’unico segnale lanciato dal suo corpo minuto, da sempre votato al più rigoroso understatement. Ricordando oggi quello sguardo, è inevitabile chiedersi se sia stato ancora una volta capace di intravedere il futuro.
Emiliano Brancaccio
( fonte il manifesto )
dopo il governo tecnocratico e anticostituzionale del possessore di garage varesini dopo il nipotino
trombato dagli spagnoli e dal cavaliere si fa strada la nomina a presidente del consiglio del prof. augusto graziani.
-------------------------------------------------------------------------------------------------OMAGGIO AD AUGUSTO GRAZIANI
Augusto Graziani: la scienza moderna delle classi sociali
il manifesto, 4 maggio 2013
L’economista Augusto Graziani compie oggi ottant’anni. Un’occasione per riscoprire la modernità di un metodo di ricerca basato sull’analisi degli antagonismi tra e dentro le classi sociali. Un metodo che ha permesso a Graziani di anticipare gli snodi della attuale crisi europea.
di Emiliano Brancaccio
Augusto Graziani celebra oggi il suo ottantesimo compleanno. Nato a Napoli nel 1933, esponente di punta delle scuole italiane di pensiero economico critico, già senatore e accademico dei Lincei, nell’arco di quasi mezzo secolo di pubblicazioni Graziani si è cimentato con successo nella infaticabile opera di tessitura di una sottile trama logica, in grado di tenere coerentemente assieme ricerca teorica pura, didattica e divulgazione. Per questa sua missione gramsciana, riuscita a pochi altri ed oggi considerata impossibile dalla stragrande maggioranza degli economisti, Graziani ha saputo farsi apprezzare non solo da studenti e colleghi ma anche da un più ampio pubblico di estimatori, tra cui i lettori dei suoi editoriali pubblicati sul manifesto e su varie altre testate nazionali.
Come molti economisti della sua generazione, Graziani ha in più occasioni partecipato al dibattito sulla critica della teoria neoclassica dominante. La sua posizione sull’argomento è apparsa fin dall’inizio peculiare. A suo avviso, la sfida per la costruzione di un paradigma economico alternativo dovrebbe riguardare in primo luogo il metodo. La teoria neoclassica poggia sull’individualismo metodologico, un criterio di analisi della società che può essere rozzamente sintetizzato nella massima thatcheriana secondo cui la società non esiste, ed esistono solo uomini, donne e famiglie. Questa chiave di lettura della realtà asseconda il senso comune, ma proprio per questo pregiudica ogni possibilità di comprensione dei reali meccanismi di funzionamento del capitalismo, all’interno del quale i singoli individui contano solo in quanto componenti di gruppi, coalizioni, e classi sociali. Per Graziani, dunque, l’edificazione di una teoria del capitalismo scientificamente valida richiede in primo luogo il recupero e l’aggiornamento di un metodo di ricerca basato sullo studio degli antagonismi tra gruppi di interesse, e in ultima istanza tra le classi: vale a dire, quel metodo che era tipico degli economisti classici e di Marx, che lo stesso Keynes adoperò in molti suoi scritti, e che per lungo tempo è rimasto sommerso e dimenticato sotto il peso dell’approccio individualistico prevalente.
In epoche dominate dall’illusione del monadismo o da rigurgiti di ipocrisia interclassista, la scelta epistemologica di Graziani è stata senza dubbio scomoda, e ha rischiato più volte di condurlo all’emarginazione. Basti ricordare la critica che sull’Unità egli rivolse al modo in cui Achille Occhetto stava gestendo la nascita del PDS: un tentativo abborracciato di rappresentare indistintamente le classi e le culture politiche, evitando precisi riferimenti alla tutela degli interessi dei lavoratori subordinati (una critica lungimirante, che a fortiori potrebbe essere rivolta ai contenitori politici del tempo presente). Da un punto di vista strettamente scientifico, tuttavia, è interessante notare che quella scelta di metodo è stata in un certo senso premonitrice. Negli ultimi anni, infatti, gli studi sui conflitti tra gruppi sociali hanno fatto breccia tra le mura della stessa teoria dominante. Basti pensare a Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, i cui modelli macroeconomici non si basano sul comportamento dei singoli individui ma partono direttamente dall’analisi di aggregati sociali come i sindacati dei lavoratori e le grandi imprese dotate di potere di mercato. Tra l’approccio critico di Graziani e l’approccio prevalente di Blanchard resta però una differenza sostanziale. Per Blanchard l’esistenza di tali aggregati sociali rappresenta una “imperfezione” del mercato che, se rimossa, consentirebbe di ottenere un migliore impiego delle risorse produttive: ridurre il potere del sindacato, ad esempio, consentirebbe di comprimere i salari monetari e i prezzi e di aumentare quindi la domanda di merci, la produzione e l’occupazione. Per Graziani, invece, l’antagonismo tra gruppi sociali non costituisce una “imperfezione” ma rappresenta un fattore immanente al modo di produzione capitalistico. La lotta di classe c’è, insomma, anche qualora non ve ne sia più coscienza. Persino quando il sindacato viene ridotto a brandelli essa continua a produrre effetti, ad esempio cancellando gli ultimi scampoli di tutele legali dei singoli lavoratori. La conseguenza ultima è al limite un aumento dei profitti per occupato, non un aumento del numero complessivo di occupati. Del resto, ad avviso di Graziani non è certo liberando il capitale dai lacci e lacciuoli della legge che si può raggiungere l’agognato obiettivo di una piena e stabile occupazione dei lavoratori. Lo schiacciamento dei salari e dei diritti, infatti, non favorisce in quanto tale la domanda di merci e quindi non implica un aumento delle assunzioni. Per raggiungere il pieno impiego occorre in realtà una ben diversa azione collettiva, antagonistica rispetto alle logiche del capitale. A partire, afferma Graziani, da una estensione dell’intervento dello stato alla diretta gestione di alcuni processi produttivi, ben oltre la mera erogazione di spesa pubblica.
Una rinnovata analisi di classe non si presta tuttavia soltanto a esaminare il tipico conflitto tra capitale e lavoro. Essa consente anche di gettare uno sguardo smaliziato sugli antagonismi interni a ciascuna classe sociale, come quelli tra capitali grandi e capitali più piccoli, che possono poi sfociare in conflitti economici tra nazioni avanzate e nazioni meno sviluppate. Seguendo questo metodo Graziani ha scritto pagine illuminanti sulla storia economica e politica dell’Italia, e sul tema controverso della integrazione europea. Un aspetto cruciale della questione verte sulle trasformazioni dell’industria italiana avvenute nell’ultimo ventennio del secolo scorso. Il declino della grande industria privata e pubblica, la privatizzazione e la vendita di interi settori produttivi a gruppi stranieri, e la proliferazione di imprese di piccole dimensioni assai più disinvolte nella gestione della forza-lavoro, anziché accrescere l’efficienza dell’economia nazionale hanno di fatto provocato un suo progressivo indebolimento rispetto ai principali competitori esteri, in primis la Germania. Graziani indaga a fondo su queste divergenze, anticipando per molti versi il concetto di “mezzogiornificazione” europea coniato da Krugman: vale a dire, un dualismo che da caso speciale confinato ai rapporti tra Nord e Sud dell’Italia, diventa sintomatico degli antagonismi tra paesi centrali e paesi periferici di tutta l’Unione europea. Oltretutto, contrariamente alle opinioni prevalenti, la nascita della moneta unica europea non ha contribuito a ridurre tali divergenze ma ha finito per accentuarle. Una prova è fornita dalla persistenza di un’inflazione più alta in Italia e negli altri paesi periferici rispetto alla Germania e ai suoi satelliti. La fragilità del tessuto produttivo italiano, unita a una aggressiva politica di contenimento dei salari tedeschi, allargano la forbice tra i prezzi dei due paesi. L’adozione di una moneta comune impedisce di attenuare il divario tramite la svalutazione del cambio. L’implicazione è che l’Italia e gli altri paesi deboli sono destinati a importare troppo e ad accumulare disavanzi verso l’estero. Ci si trova così di fronte al dilemma dei nostri giorni. Nella totale evanescenza di iniziative per una riforma atta al ribilanciamento dei rapporti interni all’Unione, le opzioni sono soltanto due: o i paesi periferici frenano la tendenza a importare attraverso continue politiche di austerità, oppure la deflagrazione dell’euro diventa una possibilità concreta.
L’eventualità di un tracollo dell’euro, evocata da Graziani nei mesi in cui l’entusiasmo verso la moneta comune era alle stelle, suscitava il bonario scetticismo di numerosi colleghi. In un convegno tenutosi a Napoli nel 2003, Alberto Quadrio Curzio ed altri non nascosero una certa sorpresa di fronte all’insistenza con cui Graziani accennava al rischio di una disgregazione dell’Unione monetaria. Di fronte a tanto stupore Graziani replicò con un aneddoto malizioso. Egli invitò i colleghi a prelevare dai portafogli una banconota in euro, e li esortò a notare un dettaglio intrigante: il numero di serie di ogni biglietto reca chiaramente l’indicazione della singola nazione emittente (la lettera S vale per l’Italia, la X per la Germania, la U per la Spagna, la Y per la Grecia, e così via). Quindi fece notare che le ragioni di questa notazione non sono mai state chiarite dalla Banca centrale europea: «Può trattarsi di una semplice procedura tecnica; oppure, come alcuni sospettano, potrebbe trattarsi di una misura precauzionale, nel senso che, se un giorno l’Unione monetaria europea dovesse sciogliersi, si potrebbe stabilire con precisione l’origine di ogni biglietto e quindi l’obbligo di riconversione gravante su ciascuno dei paesi». Capitò così di vedere studenti e professori trarre un po’ goffamente le banconote dalle tasche. In un misto di incredulità e preoccupazione, tutti esaminarono i numeri di serie. Graziani aveva ragione: i biglietti sono formalmente attribuiti alla Bce, ma chiunque può agevolmente distinguere tra euro emessi dalla Banca d’Italia ed euro emessi dalla Bundesbank o dalla Banque de France. Fu una piccola rivelazione, la scoperta di un microscopico bug nell’algoritmo apparentemente irreversibile dell’Unione. Graziani osservò la platea con occhi più sottili del solito. Fu l’unico segnale lanciato dal suo corpo minuto, da sempre votato al più rigoroso understatement. Ricordando oggi quello sguardo, è inevitabile chiedersi se sia stato ancora una volta capace di intravedere il futuro.
Emiliano Brancaccio
( fonte il manifesto )
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: CRISI DI GOVERNO
PALAZZO CHIGI
Lo sfogo di Letta: «Berlusconi ribalta la frittata
Gesto folle per coprire vicende personali»
Il presidente del Consiglio: la mancata copertura dell'Iva colpa delle dimissioni annunciate dai parlamentari Pdl
«Berlusconi per cercare di giustificare il gesto folle e irresponsabile di oggi, tutto finalizzato esclusivamente a coprire le sue vicende personali, tenta di rovesciare la frittata utilizzando l’alibi dell’Iva». Usa toni durissimi il premier Enrico Letta per commentare la decisione del Cavaliere di imprimere un’accelerazione alla crisi di governo intimando le dimissioni ai ministri del Pdl. Ufficialmente per prendere le distanze dal mancato rinvio dell’aumento dell’Iva, deciso venerdì in Consiglio dei ministri e votato anche dai cinque esponenti berlusconiani dell’esecutivo. In realtà, secondo il capo del governo, per motivi completamente diversi e legati, fa trasparire tra le righe di una nota affidata alle agenzie di stampa, alla vicenda della sua decadenza che già aveva provocato nei giorni scorsi l’annuncio delle dimissioni di massa dei parlamentari pidiellini. E proprio quel gesto, compiuto in concomitanza con il suo intervento alle Nazioni Unite - particolare questo considerato dalle parti di Palazzo Chigi uno sgarbo istituzionale studiato con malizia dal Cavaliere e dal suo inner circle -, è stato il vero freno al provvedimento sull’Iva. Letta lo ha voluto precisare subito, con un Tweet, a pochi minuti dalla diffusione della notizia dello showdown del Pdl (GUARDA). E perché non ci fossero dubbi lo ha pio ribadito con la nota ufficiale.
LA TELEFONATA DI ALFANO - Del forfait dei ministri berlusconiani il capo dell’esecutivo è venuto a conoscenza poco prima dell’annuncio. E’ stato Angelino Alfano, che del governo era il numero due, a metterlo al corrente con una telefonata prima che la notizia fosse ufficializzata. Fosse stato per Letta, la questione si sarebbe risolta, in un modo o nell’altro, in Parlamento, con quel «chiarimento davanti al Paese» e «lontano dalle stanze chiuse» che caratterizzavano le verifiche prima Repubblica, che aveva evocato nel suo ultimo giorno di permanenza a New Yor Il precipitare della situazione lo ha invece costretto a prendere subito posizione, con una nota dai toni a lui inusuali che esprime fino in fondo tutto il suo malumore.
IL RUOLO DI NAPOLITANO - Domenica pomeriggio Letta salirà al Quirinale per incontrare il Capo dello Stato. Napolitano sarà da poco rientrato dalla trasferta a Napoli che non ha subito modifiche di programma, nonostante l’escalation della crisi. E con lui farà di nuovo il punto della situazione e stabilirà una nuova road map, cercando magari di capire se davvero una nuova maggioranza può essere possibile. Premier e Presidente si sono già consultati al telefono e scambiati le prime impressioni. Quando si vedranno faccia a faccia valuteranno se ci sono i presupposti per tentare subito la nascita di un nuovo esecutivo, un governo di scopo che abbia come punti centrali del programma l’approvazione della legge di stabilità e il varo di una nuova legge elettorale. Senza la quale difficilmente Napolitano sarà propenso a indire nuove elezioni. Ma chi dovrà fare parte del nuovo governo e chi lo guiderà è però ancora tutto da stabilire.
28 settembre 2013 (modifica il 29 settembre 2013)
© RIPRODUZIONE RISERVATA«Berlusconi per cercare di giustificare il gesto folle e irresponsabile di oggi, tutto finalizzato esclusivamente a coprire le sue vicende personali, tenta di rovesciare la frittata utilizzando l'alibi dell'Iva». Usa toni durissimi il premier Enrico Letta per commentare la decisione del Cavaliere di imprimere un'accelerazione alla crisi di governo intimando le dimissioni ai ministri del Pdl. Ufficialmente per prendere le distanze dal mancato rinvio dell'aumento dell'Iva, deciso venerdì in Consiglio dei ministri e votato anche dai cinque esponenti berlusconiani dell'esecutivo. In realtà, secondo il capo del governo, per motivi completamente diversi e legati, fa trasparire tra le righe di una nota affidata alle agenzie di stampa, alla vicenda della sua decadenza che già aveva provocato nei giorni scorsi l'annuncio delle dimissioni di massa dei parlamentari pidiellini. E proprio quel gesto, compiuto in concomitanza con il suo intervento alle Nazioni Unite - particolare questo considerato dalle parti di Palazzo Chigi uno sgarbo istituzionale studiato con malizia dal Cavaliere e dal suo inner circle -, è stato il vero freno al provvedimento sull'Iva. Letta lo ha voluto precisare subito, con un Tweet, a pochi minuti dalla diffusione della notizia dello showdown del Pdl (GUARDA). E perché non ci fossero dubbi lo ha pio ribadito con la nota ufficiale.
LA TELEFONATA DI ALFANO - Del forfait dei ministri berlusconiani il capo dell'esecutivo è venuto a conoscenza poco prima dell'annuncio. E' stato Angelino Alfano, che del governo era il numero due, a metterlo al corrente con una telefonata prima che la notizia fosse ufficializzata. Fosse stato per Letta, la questione si sarebbe risolta, in un modo o nell'altro, in Parlamento, con quel «chiarimento davanti al Paese» e «lontano dalle stanze chiuse» che caratterizzavano le verifiche prima Repubblica, che aveva evocato nel suo ultimo giorno di permanenza a New Yor Il precipitare della situazione lo ha invece costretto a prendere subito posizione, con una nota dai toni a lui inusuali che esprime fino in fondo tutto il suo malumore.
IL RUOLO DI NAPOLITANO - Domenica pomeriggio Letta salirà al Quirinale per incontrare il Capo dello Stato. Napolitano sarà da poco rientrato dalla trasferta a Napoli che non ha subito modifiche di programma, nonostante l'escalation della crisi. E con lui farà di nuovo il punto della situazione e stabilirà una nuova road map, cercando magari di capire se davvero una nuova maggioranza può essere possibile. Premier e Presidente si sono già consultati al telefono e scambiati le prime impressioni. Quando si vedranno faccia a faccia valuteranno se ci sono i presupposti per tentare subito la nascita di un nuovo esecutivo, un governo di scopo che abbia come punti centrali del programma l'approvazione della legge di stabilità e il varo di una nuova legge elettorale. Senza la quale difficilmente Napolitano sarà propenso a indire nuove elezioni. Ma chi dovrà fare parte del nuovo governo e chi lo guiderà è però ancora tutto da stabilire.
28 settembre 2013 (modifica il 29 settembre 2013)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/13_sett ... 4aa3.shtml
Lo sfogo di Letta: «Berlusconi ribalta la frittata
Gesto folle per coprire vicende personali»
Il presidente del Consiglio: la mancata copertura dell'Iva colpa delle dimissioni annunciate dai parlamentari Pdl
«Berlusconi per cercare di giustificare il gesto folle e irresponsabile di oggi, tutto finalizzato esclusivamente a coprire le sue vicende personali, tenta di rovesciare la frittata utilizzando l’alibi dell’Iva». Usa toni durissimi il premier Enrico Letta per commentare la decisione del Cavaliere di imprimere un’accelerazione alla crisi di governo intimando le dimissioni ai ministri del Pdl. Ufficialmente per prendere le distanze dal mancato rinvio dell’aumento dell’Iva, deciso venerdì in Consiglio dei ministri e votato anche dai cinque esponenti berlusconiani dell’esecutivo. In realtà, secondo il capo del governo, per motivi completamente diversi e legati, fa trasparire tra le righe di una nota affidata alle agenzie di stampa, alla vicenda della sua decadenza che già aveva provocato nei giorni scorsi l’annuncio delle dimissioni di massa dei parlamentari pidiellini. E proprio quel gesto, compiuto in concomitanza con il suo intervento alle Nazioni Unite - particolare questo considerato dalle parti di Palazzo Chigi uno sgarbo istituzionale studiato con malizia dal Cavaliere e dal suo inner circle -, è stato il vero freno al provvedimento sull’Iva. Letta lo ha voluto precisare subito, con un Tweet, a pochi minuti dalla diffusione della notizia dello showdown del Pdl (GUARDA). E perché non ci fossero dubbi lo ha pio ribadito con la nota ufficiale.
LA TELEFONATA DI ALFANO - Del forfait dei ministri berlusconiani il capo dell’esecutivo è venuto a conoscenza poco prima dell’annuncio. E’ stato Angelino Alfano, che del governo era il numero due, a metterlo al corrente con una telefonata prima che la notizia fosse ufficializzata. Fosse stato per Letta, la questione si sarebbe risolta, in un modo o nell’altro, in Parlamento, con quel «chiarimento davanti al Paese» e «lontano dalle stanze chiuse» che caratterizzavano le verifiche prima Repubblica, che aveva evocato nel suo ultimo giorno di permanenza a New Yor Il precipitare della situazione lo ha invece costretto a prendere subito posizione, con una nota dai toni a lui inusuali che esprime fino in fondo tutto il suo malumore.
IL RUOLO DI NAPOLITANO - Domenica pomeriggio Letta salirà al Quirinale per incontrare il Capo dello Stato. Napolitano sarà da poco rientrato dalla trasferta a Napoli che non ha subito modifiche di programma, nonostante l’escalation della crisi. E con lui farà di nuovo il punto della situazione e stabilirà una nuova road map, cercando magari di capire se davvero una nuova maggioranza può essere possibile. Premier e Presidente si sono già consultati al telefono e scambiati le prime impressioni. Quando si vedranno faccia a faccia valuteranno se ci sono i presupposti per tentare subito la nascita di un nuovo esecutivo, un governo di scopo che abbia come punti centrali del programma l’approvazione della legge di stabilità e il varo di una nuova legge elettorale. Senza la quale difficilmente Napolitano sarà propenso a indire nuove elezioni. Ma chi dovrà fare parte del nuovo governo e chi lo guiderà è però ancora tutto da stabilire.
28 settembre 2013 (modifica il 29 settembre 2013)
© RIPRODUZIONE RISERVATA«Berlusconi per cercare di giustificare il gesto folle e irresponsabile di oggi, tutto finalizzato esclusivamente a coprire le sue vicende personali, tenta di rovesciare la frittata utilizzando l'alibi dell'Iva». Usa toni durissimi il premier Enrico Letta per commentare la decisione del Cavaliere di imprimere un'accelerazione alla crisi di governo intimando le dimissioni ai ministri del Pdl. Ufficialmente per prendere le distanze dal mancato rinvio dell'aumento dell'Iva, deciso venerdì in Consiglio dei ministri e votato anche dai cinque esponenti berlusconiani dell'esecutivo. In realtà, secondo il capo del governo, per motivi completamente diversi e legati, fa trasparire tra le righe di una nota affidata alle agenzie di stampa, alla vicenda della sua decadenza che già aveva provocato nei giorni scorsi l'annuncio delle dimissioni di massa dei parlamentari pidiellini. E proprio quel gesto, compiuto in concomitanza con il suo intervento alle Nazioni Unite - particolare questo considerato dalle parti di Palazzo Chigi uno sgarbo istituzionale studiato con malizia dal Cavaliere e dal suo inner circle -, è stato il vero freno al provvedimento sull'Iva. Letta lo ha voluto precisare subito, con un Tweet, a pochi minuti dalla diffusione della notizia dello showdown del Pdl (GUARDA). E perché non ci fossero dubbi lo ha pio ribadito con la nota ufficiale.
LA TELEFONATA DI ALFANO - Del forfait dei ministri berlusconiani il capo dell'esecutivo è venuto a conoscenza poco prima dell'annuncio. E' stato Angelino Alfano, che del governo era il numero due, a metterlo al corrente con una telefonata prima che la notizia fosse ufficializzata. Fosse stato per Letta, la questione si sarebbe risolta, in un modo o nell'altro, in Parlamento, con quel «chiarimento davanti al Paese» e «lontano dalle stanze chiuse» che caratterizzavano le verifiche prima Repubblica, che aveva evocato nel suo ultimo giorno di permanenza a New Yor Il precipitare della situazione lo ha invece costretto a prendere subito posizione, con una nota dai toni a lui inusuali che esprime fino in fondo tutto il suo malumore.
IL RUOLO DI NAPOLITANO - Domenica pomeriggio Letta salirà al Quirinale per incontrare il Capo dello Stato. Napolitano sarà da poco rientrato dalla trasferta a Napoli che non ha subito modifiche di programma, nonostante l'escalation della crisi. E con lui farà di nuovo il punto della situazione e stabilirà una nuova road map, cercando magari di capire se davvero una nuova maggioranza può essere possibile. Premier e Presidente si sono già consultati al telefono e scambiati le prime impressioni. Quando si vedranno faccia a faccia valuteranno se ci sono i presupposti per tentare subito la nascita di un nuovo esecutivo, un governo di scopo che abbia come punti centrali del programma l'approvazione della legge di stabilità e il varo di una nuova legge elettorale. Senza la quale difficilmente Napolitano sarà propenso a indire nuove elezioni. Ma chi dovrà fare parte del nuovo governo e chi lo guiderà è però ancora tutto da stabilire.
28 settembre 2013 (modifica il 29 settembre 2013)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/13_sett ... 4aa3.shtml
Re: CRISI DI GOVERNO
http://www.lastampa.it/2013/09/29/itali ... agina.html
POLITICA
29/09/2013 -
Il sogno del Grande centro
per sostenere un Letta-Bis
Più di 10 i possibili
transfughi del Pdl
ANDREA MALAGUTI
ROMA
Voglia di grande centro. Di Movimento Popolare. Magari si chiamerebbe proprio così. Un partito largo, trasversale, moderato, cattolico, che non si dimentichi dei liberali (pare ce ne siano ancora).
Un partito che abbia prima la forza di sostenere questa sgangherata diciassettesima legislatura («La più squallida della nostra storia», l’ha definita lucidamente il senatore Martino) e poi di sopravviverle, presentandosi al Paese come la calamita buonsensista del futuro.
Il nuovo centro che guarda a destra, pulito, modernamente antico, finalmente libero dall’ombra soffocante del Cavaliere. Un’altra cosa. Normale. Europea. Non è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno? Dibattito aperto. In ogni caso è questa l’idea per tenere in piedi il nascituro Letta-bis. Un progetto su cui si stanno impegnando da settimane quattro uomini su tutti: Pier Ferdinando Casini, costantemente in contatto con il primo ministro (e anche lui rientrante in queste ore da New York), il ministro di scelta Civica Mario Mauro, il suo leader politico Mario Monti e il ministro del Pdl Gaetano Quagliariello. Ci riescono? Nel loro taccuino ci sono i nomi di almeno quattordici senatori del Popolo delle Libertà che avrebbero già accettato l’invito. Bye bye Silvio. Naturalmente per il bene del Paese. «L’Italia sta attraversando una fase drammatica della sua vita politica. Una crisi senza precedenti. Fare crollare tutto sarebbe sbagliato. Mi auguro che i singoli partiti siano in grado di anteporre il senso dello Stato al proprio tornaconto personale».
Il senatore Salvatore Torrisi, uomo forte del centrodestra catanese, spiega anche che «è sempre più opportuno puntare sull’area del partito popolare». E se non è un addio al fu eterno Berlusconi - è ancora in grado di garantire poltrone, consenso e potere? - è qualcosa che gli somiglia molto. «Andarmene? Lasci perdere, ho già detto troppo». La fedeltà a un Capo antico è un valore apprezzabile, ma alla fine un uomo fa solo ciò che l’anima gli comanda. Non è così? I senatori siciliani e quelli calabresi, considerati a un passo dall’ultimo tango con Forza Italia, con la propria coscienza ci stanno facendo i conti. La storia li chiama altrove.
E la storia ha una sua forza inevitabile. Tanto che anche Casini e Monti hanno messo da parte i laceranti dissapori personali. Il grande tapis roulant della realpolitik li ha portati nel giro di un ba dalla rottura insanabile all’amore inevitabile. Il loro ormai non è più affetto, certo, solo dovere. Come una levatrice che pulisce un neonato con il lembo di un asciguamano. Fanno solo ciò che devono. Convinti che un inedito gruppo di 35-40 persone potrebbe consentire al prossimo governo di respirare non solo per pochi mesi (prioritaria la legge elettorale), ma di scavallare anche il 2015. Il progetto non incontrerebbe neppure l’ostilità della Lega Nord, che non può esimersi dal gridare «basta con questo esecutivo, tutti a casa», ma che non ha nessuna voglia di scoprire che cosa pensino oggi gli elettori del Carroccio. E, soprattutto, quanti ne siano rimasti.
Così, mentre si va verso una parlamentarizzazione della crisi, con Letta atteso domani dal Presidente della Repubblica, Montecitorio e Palazzo Madama ridisegnano rapidamente la geografia delle alleanze (quanti senatori del Movimento Cinque Stelle sono pronti a ribellarsi a Grillo che chiede a gran voce le urne?) e le gerarchie di potere all’intero dei singoli schieramenti.
Il Pdl sembra vicino all’implosione. Non è la prima volta. Il consueto sgraziato balletto di falchi (apparentemente vincitori del round) e colombe. Ma questa volta è impossibile non rilevare l’acutezza del disagio di alcuni uomini chiave come Fabrizio Cicchitto tenuto all’oscuro dell’ultima mossa del Capo.
«Prima di chiedere le dimissioni dei ministri sarebbe stata necessaria una discussione approfondita negli organismi dirigenti». Analogo il pensiero di un irrequieto Sacconi. E i ministri? In crisi personale e istituzionale, con Quagliariello che promette di dire pubblicamente quello che pensa solo stamattina. Così dal caos prende forma il Movimento Popolare. Renziani tendenza Montenzemolo, liberali, montiani puri, casiniani e santegidiani.
E il vero miracolo per loro sarebbe non solo quello di riprendere la guida del Paese, ma soprattutto di non sembrare un carillon a manovella in un negozio di videogiochi, uomini suppostamente rigorosi e perbene titolari di un’eleganza che non interessa più a nessuno. Un vecchio trucco o un nuovo orizzonte?
POLITICA
29/09/2013 -
Il sogno del Grande centro
per sostenere un Letta-Bis
Più di 10 i possibili
transfughi del Pdl
ANDREA MALAGUTI
ROMA
Voglia di grande centro. Di Movimento Popolare. Magari si chiamerebbe proprio così. Un partito largo, trasversale, moderato, cattolico, che non si dimentichi dei liberali (pare ce ne siano ancora).
Un partito che abbia prima la forza di sostenere questa sgangherata diciassettesima legislatura («La più squallida della nostra storia», l’ha definita lucidamente il senatore Martino) e poi di sopravviverle, presentandosi al Paese come la calamita buonsensista del futuro.
Il nuovo centro che guarda a destra, pulito, modernamente antico, finalmente libero dall’ombra soffocante del Cavaliere. Un’altra cosa. Normale. Europea. Non è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno? Dibattito aperto. In ogni caso è questa l’idea per tenere in piedi il nascituro Letta-bis. Un progetto su cui si stanno impegnando da settimane quattro uomini su tutti: Pier Ferdinando Casini, costantemente in contatto con il primo ministro (e anche lui rientrante in queste ore da New York), il ministro di scelta Civica Mario Mauro, il suo leader politico Mario Monti e il ministro del Pdl Gaetano Quagliariello. Ci riescono? Nel loro taccuino ci sono i nomi di almeno quattordici senatori del Popolo delle Libertà che avrebbero già accettato l’invito. Bye bye Silvio. Naturalmente per il bene del Paese. «L’Italia sta attraversando una fase drammatica della sua vita politica. Una crisi senza precedenti. Fare crollare tutto sarebbe sbagliato. Mi auguro che i singoli partiti siano in grado di anteporre il senso dello Stato al proprio tornaconto personale».
Il senatore Salvatore Torrisi, uomo forte del centrodestra catanese, spiega anche che «è sempre più opportuno puntare sull’area del partito popolare». E se non è un addio al fu eterno Berlusconi - è ancora in grado di garantire poltrone, consenso e potere? - è qualcosa che gli somiglia molto. «Andarmene? Lasci perdere, ho già detto troppo». La fedeltà a un Capo antico è un valore apprezzabile, ma alla fine un uomo fa solo ciò che l’anima gli comanda. Non è così? I senatori siciliani e quelli calabresi, considerati a un passo dall’ultimo tango con Forza Italia, con la propria coscienza ci stanno facendo i conti. La storia li chiama altrove.
E la storia ha una sua forza inevitabile. Tanto che anche Casini e Monti hanno messo da parte i laceranti dissapori personali. Il grande tapis roulant della realpolitik li ha portati nel giro di un ba dalla rottura insanabile all’amore inevitabile. Il loro ormai non è più affetto, certo, solo dovere. Come una levatrice che pulisce un neonato con il lembo di un asciguamano. Fanno solo ciò che devono. Convinti che un inedito gruppo di 35-40 persone potrebbe consentire al prossimo governo di respirare non solo per pochi mesi (prioritaria la legge elettorale), ma di scavallare anche il 2015. Il progetto non incontrerebbe neppure l’ostilità della Lega Nord, che non può esimersi dal gridare «basta con questo esecutivo, tutti a casa», ma che non ha nessuna voglia di scoprire che cosa pensino oggi gli elettori del Carroccio. E, soprattutto, quanti ne siano rimasti.
Così, mentre si va verso una parlamentarizzazione della crisi, con Letta atteso domani dal Presidente della Repubblica, Montecitorio e Palazzo Madama ridisegnano rapidamente la geografia delle alleanze (quanti senatori del Movimento Cinque Stelle sono pronti a ribellarsi a Grillo che chiede a gran voce le urne?) e le gerarchie di potere all’intero dei singoli schieramenti.
Il Pdl sembra vicino all’implosione. Non è la prima volta. Il consueto sgraziato balletto di falchi (apparentemente vincitori del round) e colombe. Ma questa volta è impossibile non rilevare l’acutezza del disagio di alcuni uomini chiave come Fabrizio Cicchitto tenuto all’oscuro dell’ultima mossa del Capo.
«Prima di chiedere le dimissioni dei ministri sarebbe stata necessaria una discussione approfondita negli organismi dirigenti». Analogo il pensiero di un irrequieto Sacconi. E i ministri? In crisi personale e istituzionale, con Quagliariello che promette di dire pubblicamente quello che pensa solo stamattina. Così dal caos prende forma il Movimento Popolare. Renziani tendenza Montenzemolo, liberali, montiani puri, casiniani e santegidiani.
E il vero miracolo per loro sarebbe non solo quello di riprendere la guida del Paese, ma soprattutto di non sembrare un carillon a manovella in un negozio di videogiochi, uomini suppostamente rigorosi e perbene titolari di un’eleganza che non interessa più a nessuno. Un vecchio trucco o un nuovo orizzonte?
-
- Messaggi: 2102
- Iscritto il: 21/02/2012, 22:29
Re: CRISI DI GOVERNO
Io Fassina non lo capisco proprio
Anche ammesso che raccatti qualche fuoriuscito della discarica (e già sarebbe grave) ma come pensa di poter reggere la maggioranza risicata nel senato?
Che fanno, gli dicono che poi saranno candidati col pd? Quelli?
Ahò...
Anche ammesso che raccatti qualche fuoriuscito della discarica (e già sarebbe grave) ma come pensa di poter reggere la maggioranza risicata nel senato?
Che fanno, gli dicono che poi saranno candidati col pd? Quelli?
Ahò...
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
Robert Harris, "Archangel"
Robert Harris, "Archangel"
-
- Messaggi: 2444
- Iscritto il: 24/02/2012, 18:16
Re: CRISI DI GOVERNO
Crisi governo, le tre ipotesi: Letta bis, esecutivo di scopo e ritorno alle urne
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 29 settembre 2013
A seguito delle dimissioni dei ministri Pdl, ecco i tre possibili scenari:
Via libera al Letta bis
Dopo l’incontro con il Capo dello Stato, Enrico Letta si presenta alle Camere per chiedere una nuova fiducia. La ottiene perché oltre al Pd e a Scelta Civica conquista anche i voti di alcuni dissidenti Pdl, del gruppo di Gal, di Sinistra Ecologia e Libertà e di alcuni transfughi del Movimento Cinque Stelle. Il governo quindi va avanti con un Letta-bis, nonostante la fine delle larghe intese.
Esecutivo di scopo
La prossima settimana, Letta chiede un voto di fiducia alle Camere. Non riesce ad ottenere la maggioranza dei voti alla Camera e al Senato. Torna così dal presidente Napolitano, che si mette alla ricerca di una nuova maggioranza. Il Quirinale affida l’incarico ad un nuovo premier con un programma ristretto, un governo di scopo che porti a termine legge di stabilità e riforma elettorale. Ottiene la fiducia, poi si torna al voto in primavera.
Ritorno alle urne
Il premier, a seguito delle dimissioni dei ministri Pdl, torna in Parlamento per chiedere una rinnovata fiducia. Non trova i voti necessari per restare in piedi. Letta sale nuovamente al Colle e rimette l’incarico nelle mani del Quirinale. Napolitano avvia un giro di consultazioni, alla ricerca di nuove possibili maggioranze. Capisce però che non esistono possibilità di fiducia per nessun esecutivo. Per questo è costretto a sciogliere le Camere e a indire nuove elezioni. In questo caso, considerando che serve subito un nuovo governo capace di approvare la legge di stabilità entro fine anno, si voterebbe già a novembre.
Da Il Fatto Quotidiano del 29 settembre 2013
Secondo me esiste anche un'altra ipotesi :
LE DIMISSIONI DI NAPOLITANO
Se non erro venendo a cadere il castello di carta costruito da Napolitano sarebbe logico aspettarsi le sue dimissioni per coerenza con quanto pattuito e dovute alle mancate promesse di Berlusconi. Questa soluzione certo non richiederebbe più tempo che affrontare nuove elezioni, le quali, con questa legge elettorale incostituzionale e con la presenza del M5S che non fa alleanze con nessuno, non porterebbe scenari nuovi e gestibili .
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 29 settembre 2013
A seguito delle dimissioni dei ministri Pdl, ecco i tre possibili scenari:
Via libera al Letta bis
Dopo l’incontro con il Capo dello Stato, Enrico Letta si presenta alle Camere per chiedere una nuova fiducia. La ottiene perché oltre al Pd e a Scelta Civica conquista anche i voti di alcuni dissidenti Pdl, del gruppo di Gal, di Sinistra Ecologia e Libertà e di alcuni transfughi del Movimento Cinque Stelle. Il governo quindi va avanti con un Letta-bis, nonostante la fine delle larghe intese.
Esecutivo di scopo
La prossima settimana, Letta chiede un voto di fiducia alle Camere. Non riesce ad ottenere la maggioranza dei voti alla Camera e al Senato. Torna così dal presidente Napolitano, che si mette alla ricerca di una nuova maggioranza. Il Quirinale affida l’incarico ad un nuovo premier con un programma ristretto, un governo di scopo che porti a termine legge di stabilità e riforma elettorale. Ottiene la fiducia, poi si torna al voto in primavera.
Ritorno alle urne
Il premier, a seguito delle dimissioni dei ministri Pdl, torna in Parlamento per chiedere una rinnovata fiducia. Non trova i voti necessari per restare in piedi. Letta sale nuovamente al Colle e rimette l’incarico nelle mani del Quirinale. Napolitano avvia un giro di consultazioni, alla ricerca di nuove possibili maggioranze. Capisce però che non esistono possibilità di fiducia per nessun esecutivo. Per questo è costretto a sciogliere le Camere e a indire nuove elezioni. In questo caso, considerando che serve subito un nuovo governo capace di approvare la legge di stabilità entro fine anno, si voterebbe già a novembre.
Da Il Fatto Quotidiano del 29 settembre 2013
Secondo me esiste anche un'altra ipotesi :
LE DIMISSIONI DI NAPOLITANO
Se non erro venendo a cadere il castello di carta costruito da Napolitano sarebbe logico aspettarsi le sue dimissioni per coerenza con quanto pattuito e dovute alle mancate promesse di Berlusconi. Questa soluzione certo non richiederebbe più tempo che affrontare nuove elezioni, le quali, con questa legge elettorale incostituzionale e con la presenza del M5S che non fa alleanze con nessuno, non porterebbe scenari nuovi e gestibili .
Re: CRISI DI GOVERNO
Secondo me, come ho scritto in altro post, c'è una quarta ipotesi (ipotesi Mario Sechi).
Che si ritrovi un accordo con il caimano per andare avanti. Bisogna vedere cosa sono in grado di offrirgli.
Un sasso Napolitano lo aveva lanciato da Napoli: una bella amnistia salva tutti.
Che si ritrovi un accordo con il caimano per andare avanti. Bisogna vedere cosa sono in grado di offrirgli.
Un sasso Napolitano lo aveva lanciato da Napoli: una bella amnistia salva tutti.
-
- Messaggi: 397
- Iscritto il: 24/02/2012, 21:23
Re: CRISI DI GOVERNO
Pdl nel caos, ministri contro Berlusconi
«Forza Italia in mano ad estremisti»
Lorenzin e Quagliariello verso l'addio a Forza Italia. Napolitano:«Voto se non ci saranno alternative»
http://www.corriere.it/politica/13_sett ... 11a7.shtml
«Forza Italia in mano ad estremisti»
Lorenzin e Quagliariello verso l'addio a Forza Italia. Napolitano:«Voto se non ci saranno alternative»
http://www.corriere.it/politica/13_sett ... 11a7.shtml
Re: CRISI DI GOVERNO
Io non mi farei illusioni. I berluscones, tranne forse qualche rarissima eccezione, rimarranno compatti per necessità.
Dove vanno? con Monti e Casini? Per sparire come Fini dalla scena politica?
Mi dispiace, ma abbiamo la conferma che il caimano è diabolico e sa quello che fa.
Dall'altra parte c'è un avventuriero come Grillo, che punta alle stessissime cose.
Quelli che non sanno che pesci prendere sono i Letta, Fassina & C. che si sono fatti ancora una volta incastrare.
Anche Vendola, ormai prossimo all'estinzione, straparla di maggioranze alternative che non sa nemmeno lui quali dovrebbero essere.
E' uno sbando completo, nel quale il caimano ci sguazza.
Dove vanno? con Monti e Casini? Per sparire come Fini dalla scena politica?
Mi dispiace, ma abbiamo la conferma che il caimano è diabolico e sa quello che fa.
Dall'altra parte c'è un avventuriero come Grillo, che punta alle stessissime cose.
Quelli che non sanno che pesci prendere sono i Letta, Fassina & C. che si sono fatti ancora una volta incastrare.
Anche Vendola, ormai prossimo all'estinzione, straparla di maggioranze alternative che non sa nemmeno lui quali dovrebbero essere.
E' uno sbando completo, nel quale il caimano ci sguazza.
-
- Messaggi: 2102
- Iscritto il: 21/02/2012, 22:29
Re: CRISI DI GOVERNO
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
Robert Harris, "Archangel"
Robert Harris, "Archangel"
Chi c’è in linea
Visitano il forum: Semrush [Bot] e 13 ospiti