IL LAVORO
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Re: IL LAVORO
INCHIESTA
Addio al lavoro: l’industria non c’è più
Negli ultimi 25 anni Fiat, Eni e Telecom hanno perso due terzi dei dipendenti in Italia. Come loro, tutti gli altri big. E dopo è rimasto solo il vuoto
DI LUCA PIANA
19 ottobre 2016
Leggi in:
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
Addio al lavoro: l’industria non c’è più
Negli ultimi 25 anni Fiat, Eni e Telecom hanno perso due terzi dei dipendenti in Italia. Come loro, tutti gli altri big. E dopo è rimasto solo il vuoto
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Re: IL LAVORO
NEL MONDO DEL CIGNO NERO
Foodora, le due promoter cacciate via WhatsApp
‘Motivo? Aver partecipato a un incontro pubblico’
Dopo una riunione con i fattorini sui problemi contrattuali, hanno saputo della sospensione del cococo
con l’azienda che porta cibo a domicilio. La società: “Rispettiamo le norme. Aumenteremo i compensi”
foodora-pp-990
Lavoro & Precari
“Di fatto sì, siamo state licenziate al telefono per aver partecipato ad un incontro pubblico”. Hanno deciso di parlare, Ilaria e Ambra, le due promoter di Foodora che si sono viste sospendere il contratto con una chiamata sul cellulare di pochi minuti e una notifica su WhatsApp. E hanno deciso di raccontare la loro storia ilfattoquotidiano.it dopo settimane di silenzio assoluto: “Abbiamo deciso col nostro avvocato di non rilasciare dichiarazioni nei giorni scorsi”. Avvocato? “Sì, perché nel frattempo ci siamo mosse per vie legali: è l’unica cosa che potevamo fare per veder rispettati i nostri diritti” di Valerio Valentini
Foodora, le due promoter cacciate via WhatsApp
‘Motivo? Aver partecipato a un incontro pubblico’
Dopo una riunione con i fattorini sui problemi contrattuali, hanno saputo della sospensione del cococo
con l’azienda che porta cibo a domicilio. La società: “Rispettiamo le norme. Aumenteremo i compensi”
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“Di fatto sì, siamo state licenziate al telefono per aver partecipato ad un incontro pubblico”. Hanno deciso di parlare, Ilaria e Ambra, le due promoter di Foodora che si sono viste sospendere il contratto con una chiamata sul cellulare di pochi minuti e una notifica su WhatsApp. E hanno deciso di raccontare la loro storia ilfattoquotidiano.it dopo settimane di silenzio assoluto: “Abbiamo deciso col nostro avvocato di non rilasciare dichiarazioni nei giorni scorsi”. Avvocato? “Sì, perché nel frattempo ci siamo mosse per vie legali: è l’unica cosa che potevamo fare per veder rispettati i nostri diritti” di Valerio Valentini
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Re: IL LAVORO
UncleTom ha scritto:NEL MONDO DEL CIGNO NERO
Foodora, le due promoter cacciate via WhatsApp
‘Motivo? Aver partecipato a un incontro pubblico’
Dopo una riunione con i fattorini sui problemi contrattuali, hanno saputo della sospensione del cococo
con l’azienda che porta cibo a domicilio. La società: “Rispettiamo le norme. Aumenteremo i compensi”
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“Di fatto sì, siamo state licenziate al telefono per aver partecipato ad un incontro pubblico”. Hanno deciso di parlare, Ilaria e Ambra, le due promoter di Foodora che si sono viste sospendere il contratto con una chiamata sul cellulare di pochi minuti e una notifica su WhatsApp. E hanno deciso di raccontare la loro storia ilfattoquotidiano.it dopo settimane di silenzio assoluto: “Abbiamo deciso col nostro avvocato di non rilasciare dichiarazioni nei giorni scorsi”. Avvocato? “Sì, perché nel frattempo ci siamo mosse per vie legali: è l’unica cosa che potevamo fare per veder rispettati i nostri diritti” di Valerio Valentini
Foodora, le promoter cacciate via WhatsApp: “Licenziate al telefono per aver partecipato a un incontro pubblico”
Lavoro & Precari
Prima una telefonata da parte del loro responsabile. Poi la rimozione dal gruppo e dalla app riservata ai collaboratori. Così Ambra e Ilaria, dopo una riunione in cui hanno incontrato fattorini in agitazione per le condizioni contrattuali, hanno saputo della sospensione del loro contratto di lavoro con l'azienda che distribuisce cibo a domicilio. E hanno deciso di reagire per vie legali. Il comunicato: "Rispettiamo le norme. Da novembre aumenteremo compensi e offriamo sconti per la manutenzione delle bici"
di Valerio Valentini | 21 ottobre 2016
COMMENTI (8)
Più informazioni su: Precari, Sciopero, Torino
“Di fatto sì, siamo state licenziate al telefono per aver partecipato ad un incontro pubblico”. Hanno deciso di parlare, Ilaria e Ambra, le due promoter di Foodora che si sono viste sospendere il contratto con una chiamata sul cellulare di pochi minuti e una notifica su WhatsApp. E hanno deciso di raccontare la loro storia ilfattoquotidiano.it dopo settimane di silenzio assoluto: “Abbiamo deciso col nostro avvocato di non rilasciare dichiarazioni nei giorni scorsi”. Avvocato? “Sì, perché nel frattempo ci siamo mosse per vie legali: è l’unica cosa che potevamo fare per veder rispettati i nostri diritti“.
A farsi portavoce delle due promoter è Ilaria, 29enne torinese laureata in antropologia ed esperta di cultura indiana. Con Foodora, l’azienda tedesca che si occupa della consegna di cibo a domicilio attraverso fattorini-ciclisti, collabora dal novembre del 2015. “La mia passione è la ricerca, ma per sopravvivere do ripetizioni e faccio la barista. Quello come promoter di Foodora – spiega – era insomma il terzo lavoro: precario, ma comunque utile per arrotondare”. Viene assunta con un cococo (contratto di collaborazione coordinata e continuativa): paga oraria lorda di 5,60 euro, “ma a volte con alcuni turni speciali si arrivava fino a 7 euro netti”. Il suo compito? Fare volantinaggio, pubblicizzare offerte e promozioni. “Quando andava bene, riuscivo a fare anche 90 ore al mese e pagarmi l’affitto”.
img-20161020-wa0000Il rapporto con l’azienda s’incrina a partire da settembre. I rider cominciano a discutere, in modo sempre più insistente, sulle richieste secondo loro inappropriate avanzate da Foodora ai collaboratori. E anche alcuni promoter si lasciano coinvolgere nel dibattito. “Il punto è che a noi sembrava che il nostro lavoro fosse di tipo subordinato, e dunque incompatibile col nostro contratto”. Alla prima riunione, giovedì 29 settembre, partecipa solo Ambra. “Il nostro responsabile – dice Ilaria – l’ha saputo subito: e ha pensato che oltre ad Ambra ci fossi anche io, visto che siamo le due più adulte nel gruppo delle promoter e che siamo molto legate tra noi”. Poi, la sera del 6 ottobre, le due amiche vanno insieme all’assemblea incriminata. “Ma assemblea è un termine che non rende bene l’idea”, ci tiene a precisare Ilaria. “Induce a pensare a qualcosa di ufficiale, rimanda a una logica prettamente sindacale che non è appropriata al caso. Di fatto, si è trattato piuttosto di un incontro libero, a cui abbiamo partecipato senza alcuna sigla di rappresentanza e senza neppure un logo di Foodora. Ci siamo semplicemente ritrovati in un luogo pubblico, aperto a tutti, nel cortile della Cavallerizza, uno spazio culturale nel centro di Torino”.
Di lì a poche ore, però, perderanno il lavoro. “Ambra era rimasta a dormire da me, quella notte. La mattina – racconta Ilaria – veniamo svegliate dal suo shyftplacellulare che squilla. È il nostro responsabile, che le comunica come da quel momento, stando ad una direttiva arrivata dal quartier generale di Milano, lei non faccia più parte di Foodora”. Mentre cercano di realizzare, scoprono che i loro due profili sono stati cancellati da Shyftplan, l’applicazione tramite la quale i collaboratori dell’azienda prenotano i loro turni di lavoro. Di lì a pochi minuti, l’ulteriore conferma: “Sì, è a quel punto che ci arriva la notifica della nostra rimozione dal gruppo WhatsApp delle promoter. Il tutto, tra l’altro, senza che io ricevessi alcuna comunicazione diretta. Ed è per questo motivo – continua Ilaria – che ho deciso di chiamare io il nostro responsabile”. L’esito della chiamata, però, è disastroso. “I toni si sono accesi, lui mi ha detto che in fondo era contento di essersi liberato di noi. E ha aggiunto che non avevamo alcun diritto di partecipare a quell’incontro pubblico, anche in virtù del fatto che le condizioni di noi promoter sono comunque migliori di quelle che vivono i rider”. Licenziamento via telefono, insomma. E quando si fa notare alle due ragazze che l’azienda ha già smentito questa ricostruzione, Ilaria reagisce: “Abbiamo le prove di quanto diciamo. E siamo pronte a mostrare gli screenshot della nostra rimozione dai gruppi”.
Immediata, a quel punto, matura nelle due ragazze l’idea di rivolgersi ad un avvocato. “Per ora – dicono – preferiamo non entrare nei dettagli della nostra iniziativa legale. Ma possiamo rivelare che contestiamo sia le nostre precedenti condizioni di lavoro, sia ovviamente le modalità del nostro licenziamento”. In ogni caso non puntano al reintegro. “Come potremmo tornare a collaborare con Foodora? Temiamo ripercussioni. E poi anche le nostre colleghe promoter non ci hanno mostrato una grande solidarietà”. Rancori personali? “No – spiega Ilaria – In parte capiamo la loro reazione. Sono tutte più giovani di noi due. Al contrario, dimostrazioni di vicinanza ci sono arrivate dai rider, che continuano a protestare e almeno un po’ sappiamo che lo fanno anche per noi”.
Nel frattempo Cgil, Cisl e Uil Torino hanno diffuso una nota congiunta in cui “appoggiano le iniziative di lotta delle lavoratrici e dei lavoratori di Foodora, ritenendo inaccettabili le condizioni imposte dall’azienda”, e chiedono “l’apertura di un tavolo di confronto vero, volto a migliorare le condizioni dei lavoratori di Foodora, affrontando il problema del cottimo, dell’introduzione di una paga oraria dignitosa, del superamento delle attuali modalità di controllo a distanza, del ‘capolarato digitale’, del riconoscimento delle spese di manutenzione di tutti gli strumenti di lavoro”.
L’azienda, che stando a quanto detto mercoledì dal ministro Maria Elena Boschi è ora oggetto di un’ispezione del ministero del Lavoro, ha diffuso un comunicato in cui si difende dalle critiche sottolineando che “sta operando nel pieno rispetto della vigente normativa” e “in aggiunta al compenso economico per le consegne dei rider versa regolarmente i contributi e i premi assicurativi, rispettivamente all’Inps e all’Inail, a copertura in caso di ricovero ospedaliero, maternità e infortuni sul lavoro, e i contributi previdenziali”. Tuttavia, aggiunge, dal primo novembre “allineerà il compenso per ordine in entrambe le città nelle quali è presente, incrementandolo a 4 euro lordi a consegna. Secondo il dato storico, i rider consegnano in media almeno 2 ordini ogni ora, pari ad un compenso medio di 8 euro lordi (7,20 euro netti) ogni ora, superiore rispetto allo schema remunerativo orario precedente (5,60 euro lordi all’ora)”. L’azienda ha inoltre “stipulato un’ulteriore assicurazione integrativa per tutti i danni a terze parti durante l’attività” e “sottoscritto alcune convenzioni per la manutenzione delle biciclette (50% di sconto sul listino presso le officine convenzionate) a beneficio dell’intera flotta”.
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Re: IL LAVORO
HAI VOGLIA A DIRE CHE NON SIAMO SOTTO IL FASCISMO!!!
LE NOTIZIE DOVREBBERO PRESCINDERE DALLA LOTTA POLITICA. ALMENO IN DEMOCRAZIA. MA DATO CHE DA UN PEZZO NON SIAMO PIU' IN DEMOCRAZIA GRAZIE AI MERLI CHE CREDONO ALLE GIGA BALLE DI MUSSOLONI, VA BENE COSI'.
E' ASSURDO CHE QUESTA NOTIZIA SIA RIPORTATA SOLO DA "IL GIORNALE". HO VERIFICATO. NEI QUOTIDIANI DI REGIME NON PASSA. (CORRIERE DELLA SERA - LA REPUBBLICA - STAMPA)
NON BASTA PRESUPPORRE CHE SI TRATTI SOLO DI LOTTA POLITICA.
In Finanziaria 640 milioni per tagliare 25mila bancari
Il governo concede soldi pubblici per aiutare gli istituti a ridurre gli addetti. Le priorità Monte Paschi e Etruria
Massimo Restelli - Sab, 22/10/2016 - 08:44
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Il governo Renzi si prepara a passare, tra le pieghe della legge Finanziaria, oltre 600 milioni alle banche italiane per aiutarle a fare scivolare verso la pensione altri 25mila addetti.
Se ne dovrebbe sapere di più lunedì o martedì, ma lo stanziamento complessivo si attesterebbe a 638 milioni, elargiti in ragione crescente tra il 2017 (100 milioni) e il 2018-2019 (200 milioni all'anno) per poi tornare a quota 100 nel 2020 e scalare a un «obolo» di 38 milioni nel 2021.
Nei piani la manovra, dietro cui resta un retrogusto politico visto l'approssimarsi del decisivo referendum costituzionale in agenda il 4 dicembre, costituirà l'innesco istituzionale all'atteso riassetto del settore. A partire dal difficile rilancio del Monte Paschi (che proprio lunedì dovrebbe annunciare 3mila tagli), alla vendita delle «nuove» Banca Etruria, Marche, CariChieti e CariFerrara (le prime tre dovrebbero finire ad Ubi Banca), e agli ulteriori esuberi attesi a Popolare Vicenza (1.500 la stima) e Veneto Banca (900).
L'aiuto pubblico alla «rottamazione» di cassieri e impiegati del back office rappresenta comunque una novità assoluta per l'intero settore. Fino a questo momento le banche avevano infatti provveduto alle ristrutturazioni da sole, alimentando l'ammortizzatore sociale del Fondo esuberi e chiedendo giornate di solidarietà ai dipendenti rimasti.
La ricetta ha funzionato per decenni: evitando da un lato ai loro colletti bianchi i disagi della cassa integrazione - cui sono invece costrette le tute blu della corporate Italia - e dall'altro proteggendo le banche dall'incalcolabile danno di immagine conseguente alla dichiarazione di un eventuale stato di crisi: il passo da qui alla fuga di depositi e correntisti sarebbe stato brevissimo.
Adesso, però, questo «patto armato» tra banche e sindacati non basta più a garantire i ritorni agli investitori e la pace sociale. A dimostrarlo sono gli 80 miliardi di sofferenze lorde che, malgrado le continue svalutazioni, continuano a inquinare i bilanci degli istituti di credito e una redditività ancora schiacciata ai minimi malgrado i ripetuti tagli ai costi decisi negli ultimi anni.
Non per nulla i nuovi 25mila esuberi potenziali attesi (questo il panel di quanti maturano i requisiti per il prepensionamento entro il 2023), si aggiungono ai 20mila già spesati nei piani di riassetto in essere nei principali gruppi creditizi e alle circa 40mila persone che hanno lasciato il settore nell'ultimo decennio. Senza contare che l'Fmi ha stimato in eccesso un terzo delle filiali europee: in Italia sarebbero, quindi, 9.800 sportelli su 29.500 per potenziali 65mila esuberi. Insomma il rischio di restare disoccupati per una parte dei 300mila bancari in servizio è ormai reale.
Da qui la decisione del governo di prelevare dalle casse dello Stato, e quindi dalle tasche di tutti noi contribuenti, appunto oltre 600 milioni di «aiuti». Il tutto impacchettato con astuzia tecnica per evitare le tagliole dell'Unione europea: la Finanziaria non prevederà infatti stanziamenti specifici per il credito ma per tutti i settori dotati di strumenti di sostegno al reddito e all'occupazione, come appunto le banche. E l'utilizzo del denaro sarà legato alle operazioni di fusione e agli esuberi concordati con i sindacati del settore Fabi, Fisac, First e Uilca.
«Se il governo finanzia il Fondo esuberi non aiuta le banche ma tutti i lavoratori bancari», sottolinea il leader della Fabi, Lando Maria Sileoni che rilancia: «Di fronte alla pessima gestione, anche fraudolenta, di alcune banche i lavoratori non possono e non debbono essere lasciati soli. Chi dovesse parlare di nuovo regalo alle banche sarebbe profondamente iniquo».
Sebbene il malloppo in gioco sia notevole, va detto che sono circa 200 i milioni versati ogni anno dal sistema bancario italiano, che vede nell'Abi di Antonio Patuelli la propria lobby istituzionale, nelle casse dello Stato come sostegno ai fondi per la Cassa integrazione senza però mai utilizzarla: si calcolano 10 miliardi dagli anni '60 ad oggi. «Non posso che attendermi che la legge di Stabilità preveda i 5-600 milioni di cui si parla per sostenere il Fondo del nostro settore, fermo restando la volontarietà degli esodi», sottolinea il capo della Fisac, Agostino Megale: «Perché è chiaro che chiunque pensasse a licenziamenti troverà lo sciopero generale».
COMMENTI
Dragon_Lord
Sab, 22/10/2016 - 09:19
COME POTETE PERMETTERE TUTTO CIO' ITALIANI, ANDATE A RIRTIRARE I CONTANTI DA TUTTE LE BANCHE COME FORMA DI PROTESTA, VI TRATTANO COME IDIOTI I POLITICI
canaletto
Sab, 22/10/2016 - 10:01
PERCHE DOBBIAMO PAGARE NOI LE FUORIUSCITE DEI BANCARI????? E AGLI ITALIANI SENZA LAVOR E SOLDI CHI CI PENSA?????? RENZI FAABUTTO
Leonida55
Sab, 22/10/2016 - 10:03
Ma dobbiamo pagare sempre noi i misfatti delle banche? Priorità a MPS e Etruria? Premiate chi ruba di più? E volete dire di essere dei Robin Hood? Si vergognerebbe di voi anche lo sceriffo di Nottingham, vi darebbe dei ladri, detto da lui poi!
unosolo
Sab, 22/10/2016 - 11:00
se mesi fa avessimo capito quella frase del PCM sfuggita a tutti sugli esuberi delle banche sia come filiali che come personale e poi la famosa mossa di vendere azioni delle POSTE ITALIANE allora oggi avremmo accoppiato le due cose e la conclusione ? licenziamenti per vendere il pacchetto PT a qualche cordata magari Cinese , maledizione quanti raggiri se ci caschiamo sai quanti disoccupati creerebbe , dobbiamo solo vigilare tra le righe ,
LE NOTIZIE DOVREBBERO PRESCINDERE DALLA LOTTA POLITICA. ALMENO IN DEMOCRAZIA. MA DATO CHE DA UN PEZZO NON SIAMO PIU' IN DEMOCRAZIA GRAZIE AI MERLI CHE CREDONO ALLE GIGA BALLE DI MUSSOLONI, VA BENE COSI'.
E' ASSURDO CHE QUESTA NOTIZIA SIA RIPORTATA SOLO DA "IL GIORNALE". HO VERIFICATO. NEI QUOTIDIANI DI REGIME NON PASSA. (CORRIERE DELLA SERA - LA REPUBBLICA - STAMPA)
NON BASTA PRESUPPORRE CHE SI TRATTI SOLO DI LOTTA POLITICA.
In Finanziaria 640 milioni per tagliare 25mila bancari
Il governo concede soldi pubblici per aiutare gli istituti a ridurre gli addetti. Le priorità Monte Paschi e Etruria
Massimo Restelli - Sab, 22/10/2016 - 08:44
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Il governo Renzi si prepara a passare, tra le pieghe della legge Finanziaria, oltre 600 milioni alle banche italiane per aiutarle a fare scivolare verso la pensione altri 25mila addetti.
Se ne dovrebbe sapere di più lunedì o martedì, ma lo stanziamento complessivo si attesterebbe a 638 milioni, elargiti in ragione crescente tra il 2017 (100 milioni) e il 2018-2019 (200 milioni all'anno) per poi tornare a quota 100 nel 2020 e scalare a un «obolo» di 38 milioni nel 2021.
Nei piani la manovra, dietro cui resta un retrogusto politico visto l'approssimarsi del decisivo referendum costituzionale in agenda il 4 dicembre, costituirà l'innesco istituzionale all'atteso riassetto del settore. A partire dal difficile rilancio del Monte Paschi (che proprio lunedì dovrebbe annunciare 3mila tagli), alla vendita delle «nuove» Banca Etruria, Marche, CariChieti e CariFerrara (le prime tre dovrebbero finire ad Ubi Banca), e agli ulteriori esuberi attesi a Popolare Vicenza (1.500 la stima) e Veneto Banca (900).
L'aiuto pubblico alla «rottamazione» di cassieri e impiegati del back office rappresenta comunque una novità assoluta per l'intero settore. Fino a questo momento le banche avevano infatti provveduto alle ristrutturazioni da sole, alimentando l'ammortizzatore sociale del Fondo esuberi e chiedendo giornate di solidarietà ai dipendenti rimasti.
La ricetta ha funzionato per decenni: evitando da un lato ai loro colletti bianchi i disagi della cassa integrazione - cui sono invece costrette le tute blu della corporate Italia - e dall'altro proteggendo le banche dall'incalcolabile danno di immagine conseguente alla dichiarazione di un eventuale stato di crisi: il passo da qui alla fuga di depositi e correntisti sarebbe stato brevissimo.
Adesso, però, questo «patto armato» tra banche e sindacati non basta più a garantire i ritorni agli investitori e la pace sociale. A dimostrarlo sono gli 80 miliardi di sofferenze lorde che, malgrado le continue svalutazioni, continuano a inquinare i bilanci degli istituti di credito e una redditività ancora schiacciata ai minimi malgrado i ripetuti tagli ai costi decisi negli ultimi anni.
Non per nulla i nuovi 25mila esuberi potenziali attesi (questo il panel di quanti maturano i requisiti per il prepensionamento entro il 2023), si aggiungono ai 20mila già spesati nei piani di riassetto in essere nei principali gruppi creditizi e alle circa 40mila persone che hanno lasciato il settore nell'ultimo decennio. Senza contare che l'Fmi ha stimato in eccesso un terzo delle filiali europee: in Italia sarebbero, quindi, 9.800 sportelli su 29.500 per potenziali 65mila esuberi. Insomma il rischio di restare disoccupati per una parte dei 300mila bancari in servizio è ormai reale.
Da qui la decisione del governo di prelevare dalle casse dello Stato, e quindi dalle tasche di tutti noi contribuenti, appunto oltre 600 milioni di «aiuti». Il tutto impacchettato con astuzia tecnica per evitare le tagliole dell'Unione europea: la Finanziaria non prevederà infatti stanziamenti specifici per il credito ma per tutti i settori dotati di strumenti di sostegno al reddito e all'occupazione, come appunto le banche. E l'utilizzo del denaro sarà legato alle operazioni di fusione e agli esuberi concordati con i sindacati del settore Fabi, Fisac, First e Uilca.
«Se il governo finanzia il Fondo esuberi non aiuta le banche ma tutti i lavoratori bancari», sottolinea il leader della Fabi, Lando Maria Sileoni che rilancia: «Di fronte alla pessima gestione, anche fraudolenta, di alcune banche i lavoratori non possono e non debbono essere lasciati soli. Chi dovesse parlare di nuovo regalo alle banche sarebbe profondamente iniquo».
Sebbene il malloppo in gioco sia notevole, va detto che sono circa 200 i milioni versati ogni anno dal sistema bancario italiano, che vede nell'Abi di Antonio Patuelli la propria lobby istituzionale, nelle casse dello Stato come sostegno ai fondi per la Cassa integrazione senza però mai utilizzarla: si calcolano 10 miliardi dagli anni '60 ad oggi. «Non posso che attendermi che la legge di Stabilità preveda i 5-600 milioni di cui si parla per sostenere il Fondo del nostro settore, fermo restando la volontarietà degli esodi», sottolinea il capo della Fisac, Agostino Megale: «Perché è chiaro che chiunque pensasse a licenziamenti troverà lo sciopero generale».
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Dragon_Lord
Sab, 22/10/2016 - 09:19
COME POTETE PERMETTERE TUTTO CIO' ITALIANI, ANDATE A RIRTIRARE I CONTANTI DA TUTTE LE BANCHE COME FORMA DI PROTESTA, VI TRATTANO COME IDIOTI I POLITICI
canaletto
Sab, 22/10/2016 - 10:01
PERCHE DOBBIAMO PAGARE NOI LE FUORIUSCITE DEI BANCARI????? E AGLI ITALIANI SENZA LAVOR E SOLDI CHI CI PENSA?????? RENZI FAABUTTO
Leonida55
Sab, 22/10/2016 - 10:03
Ma dobbiamo pagare sempre noi i misfatti delle banche? Priorità a MPS e Etruria? Premiate chi ruba di più? E volete dire di essere dei Robin Hood? Si vergognerebbe di voi anche lo sceriffo di Nottingham, vi darebbe dei ladri, detto da lui poi!
unosolo
Sab, 22/10/2016 - 11:00
se mesi fa avessimo capito quella frase del PCM sfuggita a tutti sugli esuberi delle banche sia come filiali che come personale e poi la famosa mossa di vendere azioni delle POSTE ITALIANE allora oggi avremmo accoppiato le due cose e la conclusione ? licenziamenti per vendere il pacchetto PT a qualche cordata magari Cinese , maledizione quanti raggiri se ci caschiamo sai quanti disoccupati creerebbe , dobbiamo solo vigilare tra le righe ,
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Re: IL LAVORO
Lavoro & precari
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23 ottobre 2016 | di F. Q.
Il “vaffa” a Renzi del vigile del fuoco. “Dopo la fatica del terremoto continuiamo a prendere schiaffi dal governo”
“Il nostro lavoro è un lavoro sociale, Renzi si doveva assumere questa responsabilità, non ci deve abbracciare quando siamo sul campo in ginocchio per la fatica durante il terremoto lungo il suo percorso, Renzi doveva abbracciare i vigili del fuoco con il rinnovo di un contratto decente che valorizzi quella che è una struttura fondamentale dello Stato sociale”. A dirlo uno dei tanti Vigili del Fuco presente al corteo “No Renzi Day” del 22 ottobre a Roma, spiegando perché anche loro sono scesi in piazza e perché voteranno “No” al referendum costituzionale
VIDEO:
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/10/ ... no/569537/
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23 ottobre 2016 | di F. Q.
Il “vaffa” a Renzi del vigile del fuoco. “Dopo la fatica del terremoto continuiamo a prendere schiaffi dal governo”
“Il nostro lavoro è un lavoro sociale, Renzi si doveva assumere questa responsabilità, non ci deve abbracciare quando siamo sul campo in ginocchio per la fatica durante il terremoto lungo il suo percorso, Renzi doveva abbracciare i vigili del fuoco con il rinnovo di un contratto decente che valorizzi quella che è una struttura fondamentale dello Stato sociale”. A dirlo uno dei tanti Vigili del Fuco presente al corteo “No Renzi Day” del 22 ottobre a Roma, spiegando perché anche loro sono scesi in piazza e perché voteranno “No” al referendum costituzionale
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Re: IL LAVORO
La disoccupazione torna a salire: i numeri del fallimento di Renzi
Il mercato del lavoro non riparte, l'Italia non riparte. La "cura" Renzi non funziona. Dopo il calo di luglio e agosto, la disoccupazione torna a salire
Sergio Rame - Gio, 03/11/2016 - 10:47
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Il mercato del lavoro non riparte, l'Italia non riparte.
La "cura" Renzi non c'è stata. E, nel mese di settembre, il tasso di disoccupazione è tornato a salire all'11,7%. Un aumento di "appena" 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente che la dice lunga sullo stato di salute del Belpaese. Mentre il premier va in giro a raccontare la ripresa del sistema Italia, i fondamentali del nostro Paese vanno a picco. E anche sull'occupazione, che pure a settembre registra un balzo avanti di 45mila unità, non si riesce a decollare.
Nell'ultimo report pubblicato oggi, l'Istat stima una crescita dei disoccupati di almeno 60mila unità, che equivale a un balzo avanti del 2% dopo i cali registrati a luglio (-1,1%) e agosto (-0,1%). L'aumento interessa entrambe le componenti di genere e le diverse classi di età ad eccezione dei giovani di 15-24 anni. La maggiore partecipazione al mercato del lavoro nel mese di settembre, in termini sia di occupati sia di persone in cerca di lavoro, si associa alla diminuzione della stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,9%, pari a -127 mila). Il calo interessa donne e uomini e coinvolge tutte le classi di età. Il tasso di inattività scende al 34,8%, in calo di 0,3 punti percentuali.
Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi (occupati e disoccupati), scende a settembre al al 37,1%, in calo di 1,2 punti percentuali rispetto al mese precedente. L'Istat fa, però, notare che "dal calcolo del tasso di disoccupazione sono per definizione esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, nella maggior parte dei casi perchè impegnati negli studi". L'incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari al 9,8% (cioè poco meno di un giovane su 10 è disoccupato). Tale incidenza risulta in calo di 0,3 punti percentuali rispetto ad agosto. Il tasso di occupazione dei 15-24enni aumenta di 0,3 punti, mentre quello di inattività rimane invariato.
Il mercato del lavoro non riparte, l'Italia non riparte. La "cura" Renzi non funziona. Dopo il calo di luglio e agosto, la disoccupazione torna a salire
Sergio Rame - Gio, 03/11/2016 - 10:47
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Il mercato del lavoro non riparte, l'Italia non riparte.
La "cura" Renzi non c'è stata. E, nel mese di settembre, il tasso di disoccupazione è tornato a salire all'11,7%. Un aumento di "appena" 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente che la dice lunga sullo stato di salute del Belpaese. Mentre il premier va in giro a raccontare la ripresa del sistema Italia, i fondamentali del nostro Paese vanno a picco. E anche sull'occupazione, che pure a settembre registra un balzo avanti di 45mila unità, non si riesce a decollare.
Nell'ultimo report pubblicato oggi, l'Istat stima una crescita dei disoccupati di almeno 60mila unità, che equivale a un balzo avanti del 2% dopo i cali registrati a luglio (-1,1%) e agosto (-0,1%). L'aumento interessa entrambe le componenti di genere e le diverse classi di età ad eccezione dei giovani di 15-24 anni. La maggiore partecipazione al mercato del lavoro nel mese di settembre, in termini sia di occupati sia di persone in cerca di lavoro, si associa alla diminuzione della stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,9%, pari a -127 mila). Il calo interessa donne e uomini e coinvolge tutte le classi di età. Il tasso di inattività scende al 34,8%, in calo di 0,3 punti percentuali.
Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi (occupati e disoccupati), scende a settembre al al 37,1%, in calo di 1,2 punti percentuali rispetto al mese precedente. L'Istat fa, però, notare che "dal calcolo del tasso di disoccupazione sono per definizione esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, nella maggior parte dei casi perchè impegnati negli studi". L'incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari al 9,8% (cioè poco meno di un giovane su 10 è disoccupato). Tale incidenza risulta in calo di 0,3 punti percentuali rispetto ad agosto. Il tasso di occupazione dei 15-24enni aumenta di 0,3 punti, mentre quello di inattività rimane invariato.
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Re: IL LAVORO
IERI, SUI PRINCIPALI QUOTIDIANI ITALIANI, I SINDACATI HANNO COMPRATO UNA PAGINA INTERA PER PUBBLICIZZARE LO SCIOPERO
Poste, sciopero generale contro seconda fase di privatizzazione e taglio del personale. Manifestazioni in tutta Italia
Lavoro & Precari
Secondo i sindacati di categoria "sono a rischio almeno 20mila posti di lavoro sia nel settore postale che nel finanziario". A Cagliari e Torino dipendenti in corteo e a Palermo sono giunti 30 pullman da tutte le provincie siciliane. A Roma previsto presidio davanti al ministero dell'Economia
di F. Q. | 4 novembre 2016
COMMENTI (18)
511
Più informazioni su: Poste italiane, Sciopero Generale
Sciopero generale per i lavoratori di Poste italiane, che venerdì 4 novembre incrociano le braccia insieme ai dipendenti della scuola. I sindacati SlpCisl, SlcCgil, FailpCisal, ConfsalCom e UglCom lo hanno proclamato per protestare contro “i rischi di una ulteriore privatizzazione di Poste Italiane e sulle conseguenti ricadute occupazionali: sono a rischio almeno 20mila posti di lavoro sia nel settore postale che nel finanziario”. Sono previste manifestazioni in diverse città. A Roma ci sarà un presidio di fronte al ministero dell’Economia.
“Dopo lo sciopero del 23 maggio scorso in Lombardia, lo sciopero dell’Emilia Romagna, i conflitti di lavoro e gli scioperi degli straordinari in tutte le regioni, a sostegno delle ragioni che hanno portato a questi ultimi mesi di aspra conflittualità, le segreterie nazionali hanno chiesto la mobilitazione nazionale a tutti i dipendenti”, si legge in un volantino sindacale. “La decisione del consiglio dei ministri di quotare in Borsa un ulteriore 29,7% e del conferimento a Cassa Depositi e Prestiti del rimanente 35% del capitale, con l’uscita definitiva del Ministero dell’Economia dall’azionariato dell’azienda, muta completamente gli assetti societari e il controllo pubblico. Una decisione assunta a breve distanza dal primo collocamento azionario di oltre il 30% effettuato ad ottobre 2015″. Secondo le sigle la privatizzazione ha “il solo fine di fare cassa e recuperare qualche miliardo di euro per lenire il debito pubblico, ma non tiene in considerazione il ruolo sociale svolto da Poste Italiane sull’intero territorio. Già ora si assiste ai reiterati interventi di chiusura degli Uffici Postali nelle zone più disagiate e al recapito della corrispondenza a giorni alterni, scelta contestata recentemente dal Parlamento Europeo, compromettendo qualità del servizio offerto e la garanzia del servizio universale”, sottolineano i sindacati polemizzando con una delle scelte del piano industriale della società.
Cagliari, oltre 5oo dipendenti in piazza – Oltre 750 tagli, chiusura di uffici nelle zone più disagiate con limitazioni nel recapito della corrispondenza. In Sardegna il piano di privatizzazione aziendale avrà conseguenze più gravi che nelle altre regioni. A Cagliari sono arrivati, da tutta la Regione, oltre 500 manifestanti. I lavoratori in sciopero chiedono, in particolare, il ritiro del decreto sulla privatizzazione. “Questo provvedimento – ha dichiarato il segretario regionale di Slp-Cisl, Timoteo Baralla – deve avvenire al più presto: il 51% deve restare in mano pubblica, al Tesoro“. Nell’isola, ha aggiunto, “pagheremmo un prezzo altissimo anche per i grandi problemi che riguardano il trasporto e i collegamenti nell’interno”. Secondo Antonello Zedda (Slc-Cgil), “questa privatizzazione è stata programmata in modo sotterraneo, senza dibattito pubblico. Le istituzioni devono capire che la ricaduta sarà molto pesante e che saranno colpiti i cittadini più deboli”. Sinora, secondo fonti sindacali, l’adesione allo sciopero in Sardegna è stata dell’80%: per oggi saranno garantiti solo i servizi relativi a telegrammi, raccomandate e assicurate. I manifestanti hanno protestato sotto il palazzo del Consiglio regionale, ed i rappresentanti sindacali ricevuti dai capigruppo.
Palermo e Torino, cortei “contro la privatizzazione” – Una trentina, secondo gli organizzatori, i pullman arrivati a Palermo da tutte le province oltre ai lavoratori arrivati con mezzi propri. Secondo i sindacati, infatti, “salteranno le attività poco redditizie: dagli uffici postali nei piccoli Comuni al recapito nei piccoli centri”. Sul tappeto anche altre criticità: dalla “disorganizzazione per la quale assai spesso gli utenti ricevono la posta in ritardo ai ritardi ingiustificati nella trasformazione da part time a full time di mille ragazzi”. In Sicilia i dipendenti delle Poste sono oltre 10mila, 140mila in tutta Italia. Manifestano anche i lavoratori postali a Torino, davanti alla sede del Consiglio regionale del Piemonte. L’adesione – secondo i sindacati – è del 60% e sono chiusi moltissimi dei 1.350 uffici postali presenti su tutto il territorio regionale.
“Il Comune e la Città metropolitana di Palermo sono a fianco dei lavoratori di Poste Italiane oggi in sciopero. La scelta dell’azienda di ridurre drasticamente il servizio di recapito della corrispondenza nella nostra città è del tutto incomprensibile. Palermo è l’unica fra i grandi Comuni senza la consegna giornaliera con un taglio del servizio che ne danneggia pesantemente la qualità oltre che determinare gravissime ripercussioni occupazionali”. A dirlo è il sindaco del capoluogo siciliano, Leoluca Orlando.
Liguria, sospeso Consiglio regionale e il presidente incontra i dipendenti – Il governatore ligure Giovanni Toti ha deciso di incontrare una delegazione dei lavoratori di Poste, in sciopero a Genova. Questa mattina i dipendenti genovesi sono scesi in piazza, oltre 400 persone in un corteo che ha attraversato le vie della città e che si concluderà davanti alla Prefettura. I sindacati sono preoccupati per le ricadute occupazionali, in particolare per le province di Genova e Savona.
Poste, sciopero generale contro seconda fase di privatizzazione e taglio del personale. Manifestazioni in tutta Italia
Lavoro & Precari
Secondo i sindacati di categoria "sono a rischio almeno 20mila posti di lavoro sia nel settore postale che nel finanziario". A Cagliari e Torino dipendenti in corteo e a Palermo sono giunti 30 pullman da tutte le provincie siciliane. A Roma previsto presidio davanti al ministero dell'Economia
di F. Q. | 4 novembre 2016
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Sciopero generale per i lavoratori di Poste italiane, che venerdì 4 novembre incrociano le braccia insieme ai dipendenti della scuola. I sindacati SlpCisl, SlcCgil, FailpCisal, ConfsalCom e UglCom lo hanno proclamato per protestare contro “i rischi di una ulteriore privatizzazione di Poste Italiane e sulle conseguenti ricadute occupazionali: sono a rischio almeno 20mila posti di lavoro sia nel settore postale che nel finanziario”. Sono previste manifestazioni in diverse città. A Roma ci sarà un presidio di fronte al ministero dell’Economia.
“Dopo lo sciopero del 23 maggio scorso in Lombardia, lo sciopero dell’Emilia Romagna, i conflitti di lavoro e gli scioperi degli straordinari in tutte le regioni, a sostegno delle ragioni che hanno portato a questi ultimi mesi di aspra conflittualità, le segreterie nazionali hanno chiesto la mobilitazione nazionale a tutti i dipendenti”, si legge in un volantino sindacale. “La decisione del consiglio dei ministri di quotare in Borsa un ulteriore 29,7% e del conferimento a Cassa Depositi e Prestiti del rimanente 35% del capitale, con l’uscita definitiva del Ministero dell’Economia dall’azionariato dell’azienda, muta completamente gli assetti societari e il controllo pubblico. Una decisione assunta a breve distanza dal primo collocamento azionario di oltre il 30% effettuato ad ottobre 2015″. Secondo le sigle la privatizzazione ha “il solo fine di fare cassa e recuperare qualche miliardo di euro per lenire il debito pubblico, ma non tiene in considerazione il ruolo sociale svolto da Poste Italiane sull’intero territorio. Già ora si assiste ai reiterati interventi di chiusura degli Uffici Postali nelle zone più disagiate e al recapito della corrispondenza a giorni alterni, scelta contestata recentemente dal Parlamento Europeo, compromettendo qualità del servizio offerto e la garanzia del servizio universale”, sottolineano i sindacati polemizzando con una delle scelte del piano industriale della società.
Cagliari, oltre 5oo dipendenti in piazza – Oltre 750 tagli, chiusura di uffici nelle zone più disagiate con limitazioni nel recapito della corrispondenza. In Sardegna il piano di privatizzazione aziendale avrà conseguenze più gravi che nelle altre regioni. A Cagliari sono arrivati, da tutta la Regione, oltre 500 manifestanti. I lavoratori in sciopero chiedono, in particolare, il ritiro del decreto sulla privatizzazione. “Questo provvedimento – ha dichiarato il segretario regionale di Slp-Cisl, Timoteo Baralla – deve avvenire al più presto: il 51% deve restare in mano pubblica, al Tesoro“. Nell’isola, ha aggiunto, “pagheremmo un prezzo altissimo anche per i grandi problemi che riguardano il trasporto e i collegamenti nell’interno”. Secondo Antonello Zedda (Slc-Cgil), “questa privatizzazione è stata programmata in modo sotterraneo, senza dibattito pubblico. Le istituzioni devono capire che la ricaduta sarà molto pesante e che saranno colpiti i cittadini più deboli”. Sinora, secondo fonti sindacali, l’adesione allo sciopero in Sardegna è stata dell’80%: per oggi saranno garantiti solo i servizi relativi a telegrammi, raccomandate e assicurate. I manifestanti hanno protestato sotto il palazzo del Consiglio regionale, ed i rappresentanti sindacali ricevuti dai capigruppo.
Palermo e Torino, cortei “contro la privatizzazione” – Una trentina, secondo gli organizzatori, i pullman arrivati a Palermo da tutte le province oltre ai lavoratori arrivati con mezzi propri. Secondo i sindacati, infatti, “salteranno le attività poco redditizie: dagli uffici postali nei piccoli Comuni al recapito nei piccoli centri”. Sul tappeto anche altre criticità: dalla “disorganizzazione per la quale assai spesso gli utenti ricevono la posta in ritardo ai ritardi ingiustificati nella trasformazione da part time a full time di mille ragazzi”. In Sicilia i dipendenti delle Poste sono oltre 10mila, 140mila in tutta Italia. Manifestano anche i lavoratori postali a Torino, davanti alla sede del Consiglio regionale del Piemonte. L’adesione – secondo i sindacati – è del 60% e sono chiusi moltissimi dei 1.350 uffici postali presenti su tutto il territorio regionale.
“Il Comune e la Città metropolitana di Palermo sono a fianco dei lavoratori di Poste Italiane oggi in sciopero. La scelta dell’azienda di ridurre drasticamente il servizio di recapito della corrispondenza nella nostra città è del tutto incomprensibile. Palermo è l’unica fra i grandi Comuni senza la consegna giornaliera con un taglio del servizio che ne danneggia pesantemente la qualità oltre che determinare gravissime ripercussioni occupazionali”. A dirlo è il sindaco del capoluogo siciliano, Leoluca Orlando.
Liguria, sospeso Consiglio regionale e il presidente incontra i dipendenti – Il governatore ligure Giovanni Toti ha deciso di incontrare una delegazione dei lavoratori di Poste, in sciopero a Genova. Questa mattina i dipendenti genovesi sono scesi in piazza, oltre 400 persone in un corteo che ha attraversato le vie della città e che si concluderà davanti alla Prefettura. I sindacati sono preoccupati per le ricadute occupazionali, in particolare per le province di Genova e Savona.
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Re: IL LAVORO
Il segretario della Fiom Maurizio Landini, ospite al XXI congresso di Magistratura democratica, ha tenuto un lungo discorso in cui, parlando della globalizzazione e della frantumazione dell’unità dei lavoratori in giro per il mondo, ha citato Karl Marx: “Cosa vuol dire oggi PROLETARI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI ?ha detto il sindacalista rivolto alla platea dei magistrati. “Oggi le persone, soprattutto i lavoratori, si sentono da sole ad affrontare le cose e non credono più che ci sia una prospettiva collettiva che permetta di risolvere il tuo problema”. Poi, ricordando che sabato 5 novembre anche la Fiom è stata invitata da Papa Francesco all’incontro delle associazioni che lottano contro le diseguaglianze, lancia un atto d’accusa contro il suo stesso sindacato, la Cgil: “Se in questi anni abbiamo fatto anche degli arretramenti, è anche perché noi non siamo riusciti a unificare tutto il mondo del lavoro”.
Sarebbe ora che a livello mondiale i sindacati dei lavoratori mettessero all'ordine del giorno il comandamento di Marx " Proletari di tutto il mondo unitevi", solo così si potrebbe contrastare in un mondo globalizzato la sfida per il futuro.
Sarebbe ora che a livello mondiale i sindacati dei lavoratori mettessero all'ordine del giorno il comandamento di Marx " Proletari di tutto il mondo unitevi", solo così si potrebbe contrastare in un mondo globalizzato la sfida per il futuro.
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Re: IL LAVORO
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: IL LAVORO
Pomodoro, i motivi della crisi: tra disorganizzazione del settore e prezzi stracciati, così muore l’oro rosso
Lavoro & Precari
Prima vittima: il pelato, prodotto tipico proprio del Sud. Lo racconta il dossier 'Spolpati, la crisi dell’industria del pomodoro tra sfruttamento e insostenibilità', terzo rapporto della campagna #FilieraSporca, promossa dalle associazioni ‘daSud’ e ‘Terra!’, curato da Fabio Ciconte e Stefano Liberti e presentato oggi alla Camera dei Deputati. Oltre alla denuncia anche le possibili soluzioni
di Luisiana Gaita | 17 novembre 2016
COMMENTI (7)
Disorganizzazione del settore, aste on-line al ribasso, contratti senza alcun valore vincolante tra le rappresentanze delle organizzazioni di produttori e quelle degli industriali nel Sud Italia. Sono queste alcune delle cause che hanno trascinato il pomodoro, uno dei simboli del made in Italy, in una profonda crisi. Prima vittima: il pelato, prodotto tipico proprio del Sud. Lo racconta il dossier Spolpati, la crisi dell’industria del pomodoro tra sfruttamento e insostenibilità, terzo rapporto della campagna #FilieraSporca, promossa dalle associazioni ‘daSud’ e ‘Terra!’, curato da Fabio Ciconte e Stefano Liberti e presentato oggi alla Camera dei Deputati. In un’indagine durata cinque mesi, concentrati per lo più nel distretto Sud, quello che presenta le maggiori criticità ma anche le maggiori potenzialità, confrontandosi con tutti gli attori della filiera e seguendola dal campo allo scaffale del supermercato, il team di ‘Terra!’ ha individuato i principali elementi di disfunzione, ma anche possibili soluzioni che renderebbero il sistema più virtuoso. “La prima cosa da evidenziare è la differenza il distretto Nord e il distretto Sud – spiega a ilfattoquotidiano.it Fabio Ciconte, direttore di ‘Terra!’ – dove le organizzazioni di produttori puntano a intercettare i fondi europei, senza alcun ruolo nella pianificazione agricola e dove non hanno saputo organizzarsi per fare da contraltare alla Grande distribuzione organizzata, lasciando a quest’ultima il potere di imporre prezzi al ribasso”.
I NUMERI E LA CRISI – Ogni anno nel nostro Paese vengono prodotti circa 5 milioni di tonnellate di pomodori su un’estensione di poco superiore ai 70mila ettari, principalmente nelle province di Foggia, Caserta e Potenza (distretto Sud) e Parma, Piacenza e Ferrara (distretto Nord). L’Italia è il terzo trasformatore mondiale di pomodoro, dietro a Stati Uniti e Cina e rappresenta circa il 50% della produzione europea. Il fatturato dell’industria del pomodoro si aggira sui 3 miliardi di euro. Eppure, nonostante questi numeri, il pomodoro italiano è in crisi: ogni anno diminuiscono i prezzi della materia prima e del prodotto trasformato. “I produttori – si spiega nel rapporto – lamentano scarsi introiti e riducono le superfici coltivate; gli industriali sostengono di vendere spesso a prezzi più bassi di quelli di produzione”.
IL PECCATO ORIGINALE – Tradizionalmente, il pomodoro era coltivato nella regione dell’agro-nocerino-sarnese. Verso la fine degli anni ‘80, l’erosione dei terreni in seguito a un’urbanizzazione selvaggia e una virosi che ha distrutto i raccolti, hanno spinto i produttori del napoletano a cercare nuovi appezzamenti. È così che il pomodoro ha cominciato a essere coltivato massicciamente nella Capitanata, in provincia di Foggia, oggi principale area di produzione del distretto Sud. Il pomodoro raccolto in Puglia viene trasportato alle industrie di trasformazione che, a parte alcune eccezioni, si trovano quasi tutte in Campania. “Dalla metà di luglio fino alla fine di settembre – scrivono gli autori del dossier – l’autostrada Napoli-Bari è un via vai di camion pieni che salgono verso la Campania e camion vuoti che scendono per caricare in Puglia”. È uno dei risultati dell’incapacità degli attori della filiera di trovare una sede al cosiddetto distretto Sud, formalmente creato nel 2014, mentre in realtà “lo scontro tra gli operatori del foggiano e quelli dell’agro-nocerino-sarnese ha per il momento portato allo stallo di quest’istituzione”.
LE ORGANIZZAZIONI DI CARTA – Non solo. Questa ‘distanza’ ha facilitato anche un altro fenomeno che riguarda le organizzazioni dei produttori. “Nella maggior parte dei casi – si legge nel rapporto – non sono controllate da reali produttori ma da ex commercianti che svolgono un ruolo di intermediazione tra la parte agricola e quella industriale”. Gran parte delle organizzazioni che trattano il pomodoro nel Sud Italia servono principalmente a intercettare i fondi europei dei cosiddetti ‘piani operativi’, mentre non hanno alcun ruolo nella pianificazione agricola (semina e raccolta), né nella logistica dei trasporti. La differenza con il Nord è nei numeri. Nel distretto Sud su 30mila ettari di terreno coltivabile, ci sono 84 impianti di trasformazione e 39 organizzazioni di produttori, mentre nel distretto che ha sede a Parma su 40mila ettari, ci sono 26 impianti e operano appena 14 organizzazioni. Proprio la mancanza di razionalità della filiera del Sud sta causando la cresi del pomodoro pelato “espulso da un mercato che richiede prodotti semplici e veloci da cucinare e da un distretto produttivo incapace di fare sistema e valorizzare le proprie eccellenze”.
IL RACCOLTO DELLA DISCORDIA – Nel settore del pomodoro, in cui i braccianti impiegati nella raccolta a mano (che rappresenta il 15% del totale) sono per la quasi totalità stranieri (cittadini dell’Africa sub-sahariana, rumeni o bulgari), il cosiddetto “caporalato” è l’unico mezzo di reclutamento della manodopera. Pagati a cottimo a seconda dei cassoni che riescono a riempire, questi lavoratori devono versare parte del loro guadagno ai capisquadra. “L’approvazione in via definitiva della legge contro il caporalato – scrivono gli autori – rappresenta un passo avanti nel superamento di questo sistema, ma è urgente mettere in piedi un meccanismo alternativo di incontro tra richiesta e offerta di manodopera nelle principali aree agricole di raccolta”. C’è da dire che la raccolta a mano diminuisce di anno in anno, perché pur pagata a cottimo e compiuta in condizioni di sfruttamento, risulta economicamente sconveniente rispetto a quella meccanica. Così oggi al Nord la raccolta è interamente meccanizzata, mentre al Sud è all’85 per cento.
IL CONTRATTO IMMAGINARIO E LE ASTE AL RIBASSO – Altro elemento disfunzionale della filiera è il contratto concluso ogni anno tra le rappresentanze delle organizzazioni di produttori e quelle degli industriali nel Sud Italia non ha alcun valore vincolante. È un cosiddetto ‘prezzo di massima’. In caso di abbondanza di materia prima, il prezzo d’acquisto cala vertiginosamente, mentre sale quando c’è carenza. “Questo comporta l’impossibilità – spiega Ciconte – di fare previsioni e di attuare una seria programmazione di filiera: la parte agricola e quella industriale tendono a perseguire strategie opposte”. Diverso il caso del distretto Nord. Qui le Op sono reali aggregazioni di produttori e le industrie firmano con esse un contratto che tutti rispettano. Altro nodo critico della filiera sono le aste on-line che vengono lanciate da alcuni attori della Grande distribuzione organizzata, basate sul meccanismo del doppio ribasso. L’acquirente della Gdo manda una e-mail agli industriali chiedendo loro di fare un’offerta per una certa partita di prodotti. Basandosi sull’offerta più bassa, il gruppo della Gdo convoca poi un’altra asta on-line, della durata di poche ore, in cui i partecipanti sono chiamati a ribassare ulteriormente il prezzo di vendita. Il risultato è che spesso gli industriali vendono praticamente sotto costo.
LE RACCOMANDAZIONI – Per far fronte a queste anomalie il rapporto propone una serie di azioni di legge: l’innalzamento del minimo fatturato per costituire una organizzazione di produttori e l’obbligatorietà di avere la sede principale nella regione di produzione, ma anche la certezza di un contratto vincolante, come avviene nel Nord Italia e l’abolizione delle aste on-line con il doppio ribasso. Infine “una legge sulla trasparenza fondata sull’etichetta narrante, perché solo rendendo trasparente la filiera – conclude il rapporto – si potrà ridare vita a un’agricoltura in affanno e a un made in Italy sempre più ripiegato su se stesso”.
Lavoro & Precari
Prima vittima: il pelato, prodotto tipico proprio del Sud. Lo racconta il dossier 'Spolpati, la crisi dell’industria del pomodoro tra sfruttamento e insostenibilità', terzo rapporto della campagna #FilieraSporca, promossa dalle associazioni ‘daSud’ e ‘Terra!’, curato da Fabio Ciconte e Stefano Liberti e presentato oggi alla Camera dei Deputati. Oltre alla denuncia anche le possibili soluzioni
di Luisiana Gaita | 17 novembre 2016
COMMENTI (7)
Disorganizzazione del settore, aste on-line al ribasso, contratti senza alcun valore vincolante tra le rappresentanze delle organizzazioni di produttori e quelle degli industriali nel Sud Italia. Sono queste alcune delle cause che hanno trascinato il pomodoro, uno dei simboli del made in Italy, in una profonda crisi. Prima vittima: il pelato, prodotto tipico proprio del Sud. Lo racconta il dossier Spolpati, la crisi dell’industria del pomodoro tra sfruttamento e insostenibilità, terzo rapporto della campagna #FilieraSporca, promossa dalle associazioni ‘daSud’ e ‘Terra!’, curato da Fabio Ciconte e Stefano Liberti e presentato oggi alla Camera dei Deputati. In un’indagine durata cinque mesi, concentrati per lo più nel distretto Sud, quello che presenta le maggiori criticità ma anche le maggiori potenzialità, confrontandosi con tutti gli attori della filiera e seguendola dal campo allo scaffale del supermercato, il team di ‘Terra!’ ha individuato i principali elementi di disfunzione, ma anche possibili soluzioni che renderebbero il sistema più virtuoso. “La prima cosa da evidenziare è la differenza il distretto Nord e il distretto Sud – spiega a ilfattoquotidiano.it Fabio Ciconte, direttore di ‘Terra!’ – dove le organizzazioni di produttori puntano a intercettare i fondi europei, senza alcun ruolo nella pianificazione agricola e dove non hanno saputo organizzarsi per fare da contraltare alla Grande distribuzione organizzata, lasciando a quest’ultima il potere di imporre prezzi al ribasso”.
I NUMERI E LA CRISI – Ogni anno nel nostro Paese vengono prodotti circa 5 milioni di tonnellate di pomodori su un’estensione di poco superiore ai 70mila ettari, principalmente nelle province di Foggia, Caserta e Potenza (distretto Sud) e Parma, Piacenza e Ferrara (distretto Nord). L’Italia è il terzo trasformatore mondiale di pomodoro, dietro a Stati Uniti e Cina e rappresenta circa il 50% della produzione europea. Il fatturato dell’industria del pomodoro si aggira sui 3 miliardi di euro. Eppure, nonostante questi numeri, il pomodoro italiano è in crisi: ogni anno diminuiscono i prezzi della materia prima e del prodotto trasformato. “I produttori – si spiega nel rapporto – lamentano scarsi introiti e riducono le superfici coltivate; gli industriali sostengono di vendere spesso a prezzi più bassi di quelli di produzione”.
IL PECCATO ORIGINALE – Tradizionalmente, il pomodoro era coltivato nella regione dell’agro-nocerino-sarnese. Verso la fine degli anni ‘80, l’erosione dei terreni in seguito a un’urbanizzazione selvaggia e una virosi che ha distrutto i raccolti, hanno spinto i produttori del napoletano a cercare nuovi appezzamenti. È così che il pomodoro ha cominciato a essere coltivato massicciamente nella Capitanata, in provincia di Foggia, oggi principale area di produzione del distretto Sud. Il pomodoro raccolto in Puglia viene trasportato alle industrie di trasformazione che, a parte alcune eccezioni, si trovano quasi tutte in Campania. “Dalla metà di luglio fino alla fine di settembre – scrivono gli autori del dossier – l’autostrada Napoli-Bari è un via vai di camion pieni che salgono verso la Campania e camion vuoti che scendono per caricare in Puglia”. È uno dei risultati dell’incapacità degli attori della filiera di trovare una sede al cosiddetto distretto Sud, formalmente creato nel 2014, mentre in realtà “lo scontro tra gli operatori del foggiano e quelli dell’agro-nocerino-sarnese ha per il momento portato allo stallo di quest’istituzione”.
LE ORGANIZZAZIONI DI CARTA – Non solo. Questa ‘distanza’ ha facilitato anche un altro fenomeno che riguarda le organizzazioni dei produttori. “Nella maggior parte dei casi – si legge nel rapporto – non sono controllate da reali produttori ma da ex commercianti che svolgono un ruolo di intermediazione tra la parte agricola e quella industriale”. Gran parte delle organizzazioni che trattano il pomodoro nel Sud Italia servono principalmente a intercettare i fondi europei dei cosiddetti ‘piani operativi’, mentre non hanno alcun ruolo nella pianificazione agricola (semina e raccolta), né nella logistica dei trasporti. La differenza con il Nord è nei numeri. Nel distretto Sud su 30mila ettari di terreno coltivabile, ci sono 84 impianti di trasformazione e 39 organizzazioni di produttori, mentre nel distretto che ha sede a Parma su 40mila ettari, ci sono 26 impianti e operano appena 14 organizzazioni. Proprio la mancanza di razionalità della filiera del Sud sta causando la cresi del pomodoro pelato “espulso da un mercato che richiede prodotti semplici e veloci da cucinare e da un distretto produttivo incapace di fare sistema e valorizzare le proprie eccellenze”.
IL RACCOLTO DELLA DISCORDIA – Nel settore del pomodoro, in cui i braccianti impiegati nella raccolta a mano (che rappresenta il 15% del totale) sono per la quasi totalità stranieri (cittadini dell’Africa sub-sahariana, rumeni o bulgari), il cosiddetto “caporalato” è l’unico mezzo di reclutamento della manodopera. Pagati a cottimo a seconda dei cassoni che riescono a riempire, questi lavoratori devono versare parte del loro guadagno ai capisquadra. “L’approvazione in via definitiva della legge contro il caporalato – scrivono gli autori – rappresenta un passo avanti nel superamento di questo sistema, ma è urgente mettere in piedi un meccanismo alternativo di incontro tra richiesta e offerta di manodopera nelle principali aree agricole di raccolta”. C’è da dire che la raccolta a mano diminuisce di anno in anno, perché pur pagata a cottimo e compiuta in condizioni di sfruttamento, risulta economicamente sconveniente rispetto a quella meccanica. Così oggi al Nord la raccolta è interamente meccanizzata, mentre al Sud è all’85 per cento.
IL CONTRATTO IMMAGINARIO E LE ASTE AL RIBASSO – Altro elemento disfunzionale della filiera è il contratto concluso ogni anno tra le rappresentanze delle organizzazioni di produttori e quelle degli industriali nel Sud Italia non ha alcun valore vincolante. È un cosiddetto ‘prezzo di massima’. In caso di abbondanza di materia prima, il prezzo d’acquisto cala vertiginosamente, mentre sale quando c’è carenza. “Questo comporta l’impossibilità – spiega Ciconte – di fare previsioni e di attuare una seria programmazione di filiera: la parte agricola e quella industriale tendono a perseguire strategie opposte”. Diverso il caso del distretto Nord. Qui le Op sono reali aggregazioni di produttori e le industrie firmano con esse un contratto che tutti rispettano. Altro nodo critico della filiera sono le aste on-line che vengono lanciate da alcuni attori della Grande distribuzione organizzata, basate sul meccanismo del doppio ribasso. L’acquirente della Gdo manda una e-mail agli industriali chiedendo loro di fare un’offerta per una certa partita di prodotti. Basandosi sull’offerta più bassa, il gruppo della Gdo convoca poi un’altra asta on-line, della durata di poche ore, in cui i partecipanti sono chiamati a ribassare ulteriormente il prezzo di vendita. Il risultato è che spesso gli industriali vendono praticamente sotto costo.
LE RACCOMANDAZIONI – Per far fronte a queste anomalie il rapporto propone una serie di azioni di legge: l’innalzamento del minimo fatturato per costituire una organizzazione di produttori e l’obbligatorietà di avere la sede principale nella regione di produzione, ma anche la certezza di un contratto vincolante, come avviene nel Nord Italia e l’abolizione delle aste on-line con il doppio ribasso. Infine “una legge sulla trasparenza fondata sull’etichetta narrante, perché solo rendendo trasparente la filiera – conclude il rapporto – si potrà ridare vita a un’agricoltura in affanno e a un made in Italy sempre più ripiegato su se stesso”.
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