Dove va l'America?
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Re: Dove va l'America?
I GIORNI DEL KAOS
INTERPRETAZIONE DI QUANTO STA ACCADENDO
La Stampa 13.11.16
La protesta sfila nel cuore di New York: cambieremo il Paese
In migliaia hanno manifestato pacificamente a Manhattan fino alla Trump Tower contro le discriminazioni e al grido “not my president”
di Paolo Mastrolilli
Il piano è semplice», spiega Sewarge, col volto nascosto sotto la maschera nera degli anarchici: «Boicottare l’America, e far fallire Trump». Mezzogiorno è passato da poco, quando Union Square si affolla di persone, cartelli e slogan.
L’artista Levee ha creato un muro del pianto alla fermata della metropolitana, dove tutti sono invitati ad appiccicare messaggi di protesta. Nella piazza c’è ancora il mercato biologico, dove trovi cavolfiori o mele organiche, e il fantasma di Abbie Hoffman, che negli Anni Sessanta aveva inventato la «controcultura» da queste parti. Adesso si replica, contro Trump. Con una marcia lungo la Fifth Avenue per arrivare sotto la sua torre, dove il presidente eletto sta costruendo la nuova amministrazione. Una delle 37 proteste avvenute in altrettante città, con qualche violenza. Lui ha prima attaccato via Twitter i «manifestanti professionisti», che vogliono mettere in discussione il risultato legittimo delle elezioni, ma poi ha elogiato «la loro passione», perché andare contro il Primo emendamento della Costituzione sulla libertà di espressione non è un bel modo di cominciare la presidenza.
Robert Thom, 26 anni, è un militante del gruppo Socialist Alternative che ha organizzato la marcia: «Siamo qui per far sentire la nostra voce, e cominciare un movimento per contrastare Trump». Ma la sua elezione è stata legale? «Sì». E allora cosa sperate di ottenere? «Il fatto che sia stata legale dimostra proprio quanto sia corrotto il nostro sistema politico. Dobbiamo cambiarlo, e possiamo riuscirci, se formiamo un movimento nazionale di resistenza civile». Ma tu se andato a votare martedì? «Sì». E posso chiedere per chi? «Jill Stein». Ma lo sai che se tutti quelli come te avessero votato per Clinton, oggi non ci sarebbe un presidente Trump contro cui protestare? «Io rifiuto questo argomento. Allora potrei risponderti che se Sanders fosse stato il candidato democratico, noi avremmo vinto. Niente, ora c’è Trump, e dobbiamo fermarlo».
Poco distante Emily Rems, direttrice del magazine femminista «Bust», sventola una bandiera con su scritto «Don’t grab my pussy», un riferimento all’audio in cui Donald aveva detto che il suo status di star televisiva gli consentiva di prendere le donne come voleva: «Sono qui per difendere i diritti delle donne. Non contesto la legalità della sua elezione, ma devo difendermi». Con lei c’è Logan Delfuego, artista, che affonda il colpo: «Non sono un accademico, ma vedo molte somiglianze con Mussolini. Piccoli pezzi di m... insicuri, che per darsi un tono devono atteggiarsi a fare i duri, possibilmente appoggiandosi ad altri amici che sono duri davvero: Hitler nel caso di Mussolini, Putin in quello di Trump». Alle spalle di Logan, infatti, c’è un cartello che dipinge il nuovo presidente americano come un poppante con la bandiera rossa in mano, alzato verso il cielo dal capo del Cremlino in divisa militare. Ma se l’elezione di Trump è legale, cosa sperate di cambiare con questa marcia? «Hai presente - risponde Logan - gli Anni Sessanta? C’era la guerra in Vietnam, Nixon alla Casa Bianca, e tutto sembrava immutabile. Eppure le proteste, la controcultura, poco alla volta scardinarono il sistema. Il Presidente fu costretto dal fronte interno a terminare la guerra, e poi crollò con il Watergate. Ecco, è quello che sta cominciando qui, contro Trump». Ma tu martedì sei andato a votare? «No, perché tanto non serve a niente».
Quando il corteo comincia a muoversi, mi trovo al fianco di un ragazzo di nome Ethan, che ha appena ricevuto un volantino dal socialista Thom. Mi strizza l’occhio e dice: «Questi sono scemi. Ancora col socialismo? Ma dove pensano di andare? Si credono che l’America voglia questa roba?». Sorpreso, gli chiedo che è, e cosa ci fa in mezzo alla folla: «Io sono un elettore democratico che ha votato Hillary. Avevo deciso di farlo prima ancora che si candidasse, e quindi sono qui a manifestare il mio disprezzo per Trump. Questi però sono scemi, e con loro non vinceremo mai».
Solidarietà e armonia, dunque, regnano sovrane. L’anarchico Sewarge mi spiega perché pensa che boicottare le aziende americane sia la soluzione a tutti i problemi: «In questo Paese c’è ancora lo schiavismo. Dobbiamo abbatterlo inceppando il sistema».
La marcia risale la Fifth Avenue, davanti alle vetrine di Saks, già addobbate per il Natale opulento di New York. Jonathan mostra un cartello con su scritto «Jews Reject Trump», gli ebrei rifiutano Trump, e dice: «Sono contro la sua filosofia, la sua ideologia, la sua politica, le sue proposte, e il modo in cui ha diviso l’America. Accetto la sua elezione, ma farò tutto il possibile per ostacolarlo». Karen, vicino a lui, lo corregge: «No, no, io non accetto la sua elezione. È un bigotto autoritario e non possiamo lasciargli guidare il Paese».
Quando arriviamo davanti alla Trump Tower, sulla 56esima Strada, la polizia ci ferma dietro una barricata. Il regista Michael Moore riesce ad arrivare all’ingresso, per lasciare un biglietto al portiere: «Vorrei vederlo, quando ha tempo». Donald risponde via Twitter: «Siamo uniti, vinceremo, vinceremo». Logan si fa una risata: «Sì, domani. Non ha capito che questa roba durerà fino a quando sarà alla Casa Bianca. Il Sessantotto è tornato».
INTERPRETAZIONE DI QUANTO STA ACCADENDO
La Stampa 13.11.16
La protesta sfila nel cuore di New York: cambieremo il Paese
In migliaia hanno manifestato pacificamente a Manhattan fino alla Trump Tower contro le discriminazioni e al grido “not my president”
di Paolo Mastrolilli
Il piano è semplice», spiega Sewarge, col volto nascosto sotto la maschera nera degli anarchici: «Boicottare l’America, e far fallire Trump». Mezzogiorno è passato da poco, quando Union Square si affolla di persone, cartelli e slogan.
L’artista Levee ha creato un muro del pianto alla fermata della metropolitana, dove tutti sono invitati ad appiccicare messaggi di protesta. Nella piazza c’è ancora il mercato biologico, dove trovi cavolfiori o mele organiche, e il fantasma di Abbie Hoffman, che negli Anni Sessanta aveva inventato la «controcultura» da queste parti. Adesso si replica, contro Trump. Con una marcia lungo la Fifth Avenue per arrivare sotto la sua torre, dove il presidente eletto sta costruendo la nuova amministrazione. Una delle 37 proteste avvenute in altrettante città, con qualche violenza. Lui ha prima attaccato via Twitter i «manifestanti professionisti», che vogliono mettere in discussione il risultato legittimo delle elezioni, ma poi ha elogiato «la loro passione», perché andare contro il Primo emendamento della Costituzione sulla libertà di espressione non è un bel modo di cominciare la presidenza.
Robert Thom, 26 anni, è un militante del gruppo Socialist Alternative che ha organizzato la marcia: «Siamo qui per far sentire la nostra voce, e cominciare un movimento per contrastare Trump». Ma la sua elezione è stata legale? «Sì». E allora cosa sperate di ottenere? «Il fatto che sia stata legale dimostra proprio quanto sia corrotto il nostro sistema politico. Dobbiamo cambiarlo, e possiamo riuscirci, se formiamo un movimento nazionale di resistenza civile». Ma tu se andato a votare martedì? «Sì». E posso chiedere per chi? «Jill Stein». Ma lo sai che se tutti quelli come te avessero votato per Clinton, oggi non ci sarebbe un presidente Trump contro cui protestare? «Io rifiuto questo argomento. Allora potrei risponderti che se Sanders fosse stato il candidato democratico, noi avremmo vinto. Niente, ora c’è Trump, e dobbiamo fermarlo».
Poco distante Emily Rems, direttrice del magazine femminista «Bust», sventola una bandiera con su scritto «Don’t grab my pussy», un riferimento all’audio in cui Donald aveva detto che il suo status di star televisiva gli consentiva di prendere le donne come voleva: «Sono qui per difendere i diritti delle donne. Non contesto la legalità della sua elezione, ma devo difendermi». Con lei c’è Logan Delfuego, artista, che affonda il colpo: «Non sono un accademico, ma vedo molte somiglianze con Mussolini. Piccoli pezzi di m... insicuri, che per darsi un tono devono atteggiarsi a fare i duri, possibilmente appoggiandosi ad altri amici che sono duri davvero: Hitler nel caso di Mussolini, Putin in quello di Trump». Alle spalle di Logan, infatti, c’è un cartello che dipinge il nuovo presidente americano come un poppante con la bandiera rossa in mano, alzato verso il cielo dal capo del Cremlino in divisa militare. Ma se l’elezione di Trump è legale, cosa sperate di cambiare con questa marcia? «Hai presente - risponde Logan - gli Anni Sessanta? C’era la guerra in Vietnam, Nixon alla Casa Bianca, e tutto sembrava immutabile. Eppure le proteste, la controcultura, poco alla volta scardinarono il sistema. Il Presidente fu costretto dal fronte interno a terminare la guerra, e poi crollò con il Watergate. Ecco, è quello che sta cominciando qui, contro Trump». Ma tu martedì sei andato a votare? «No, perché tanto non serve a niente».
Quando il corteo comincia a muoversi, mi trovo al fianco di un ragazzo di nome Ethan, che ha appena ricevuto un volantino dal socialista Thom. Mi strizza l’occhio e dice: «Questi sono scemi. Ancora col socialismo? Ma dove pensano di andare? Si credono che l’America voglia questa roba?». Sorpreso, gli chiedo che è, e cosa ci fa in mezzo alla folla: «Io sono un elettore democratico che ha votato Hillary. Avevo deciso di farlo prima ancora che si candidasse, e quindi sono qui a manifestare il mio disprezzo per Trump. Questi però sono scemi, e con loro non vinceremo mai».
Solidarietà e armonia, dunque, regnano sovrane. L’anarchico Sewarge mi spiega perché pensa che boicottare le aziende americane sia la soluzione a tutti i problemi: «In questo Paese c’è ancora lo schiavismo. Dobbiamo abbatterlo inceppando il sistema».
La marcia risale la Fifth Avenue, davanti alle vetrine di Saks, già addobbate per il Natale opulento di New York. Jonathan mostra un cartello con su scritto «Jews Reject Trump», gli ebrei rifiutano Trump, e dice: «Sono contro la sua filosofia, la sua ideologia, la sua politica, le sue proposte, e il modo in cui ha diviso l’America. Accetto la sua elezione, ma farò tutto il possibile per ostacolarlo». Karen, vicino a lui, lo corregge: «No, no, io non accetto la sua elezione. È un bigotto autoritario e non possiamo lasciargli guidare il Paese».
Quando arriviamo davanti alla Trump Tower, sulla 56esima Strada, la polizia ci ferma dietro una barricata. Il regista Michael Moore riesce ad arrivare all’ingresso, per lasciare un biglietto al portiere: «Vorrei vederlo, quando ha tempo». Donald risponde via Twitter: «Siamo uniti, vinceremo, vinceremo». Logan si fa una risata: «Sì, domani. Non ha capito che questa roba durerà fino a quando sarà alla Casa Bianca. Il Sessantotto è tornato».
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Re: Dove va l'America?
TRUMPISTI
MENTRE BERLUSCONI INSISTE NEL FARSI PASSARE PER "MODERATO", I SUOI GIANNIZZERI CI DANNO DENTRO A TUTTA MANETTA.
Trump mantiene la promessa
"Via 3 milioni di clandestini"
Trump conferma la costruzione della barriera anti immigrati al confine col Messico: "Parti di muro, altre di recinzione"
di Sergio Rame
^^^^^^^
Trump mantiene la promessa: "Via subito 3 milioni di clandestini"
Trump conferma la costruzione della barriera anti immigrati al confine col Messico: "Parti di muro, altre di recinzione"
Sergio Rame - Dom, 13/11/2016 - 18:19
commenta
Donald Trump non si tira indietro. Adesso che è stato eletto presidente degli Stati Uniti è pronto a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.
Banche libere e meno tasse: torna la deregulation
A partire dalle espulsioni degli immigrati irregolari. "Quello che faremo - ha spiegato in un'intervista con 60 Minutes di Cbs - è buttare fuori dal Paese o incarcerare le persone che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga". Il provvedimento colpirà "due o tre milioni" di immigrati che risiedono clandestinamente negli Stati Uniti.
Durante la campagna elettorale contro la candidata democratica Hillary Clinton, Trump ha più molte volte promesso la costruzione di un muro alla frontiera messicana per ostacolare l'immigrazione. Adesso è già pronto a passare alle vie di fatto. Nell'intervista con 60 Minutes ha, infatti, confermato l'intenzione di fortificare la barriera anti immigrati. Edificata in prima battuta nel 1994 durante la presidenza di Bill Clinton (guarda la gallery), la barriera sarà rafforzata con alcune parti in muratura e altre in recinzione. "In alcune aree il muro è più appropriato - ha spiegato il neo inquilino della Casa Bianca - sono molto bravo in questo, vale a dire nelle costruzioni, ci possono essere alcune recinzioni".
E, se da una parte ferma l'ingresso a nuovi immigrati, dall'altra si propone di cacciare tutti i clandestini che oggi si trovano sul suolo americano. Ne espellerà "probabilmente due milioni, possibilmente anche tre milioni". Si tratta di stranieri "con precedenti penali". "Ciò che faremo - ha spiegato nella sua prima apparizione televisiva dopo la vittoria alle elezioni - è prendere le persone che sono criminali e quelle che hanno precedenti penali, membri di gang, trafficanti di droga, probabilmente due milioni, possibilmente anche tre milioni, e li cacceremo dal Paese o li metteremo in carcere".
MENTRE BERLUSCONI INSISTE NEL FARSI PASSARE PER "MODERATO", I SUOI GIANNIZZERI CI DANNO DENTRO A TUTTA MANETTA.
Trump mantiene la promessa
"Via 3 milioni di clandestini"
Trump conferma la costruzione della barriera anti immigrati al confine col Messico: "Parti di muro, altre di recinzione"
di Sergio Rame
^^^^^^^
Trump mantiene la promessa: "Via subito 3 milioni di clandestini"
Trump conferma la costruzione della barriera anti immigrati al confine col Messico: "Parti di muro, altre di recinzione"
Sergio Rame - Dom, 13/11/2016 - 18:19
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Donald Trump non si tira indietro. Adesso che è stato eletto presidente degli Stati Uniti è pronto a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.
Banche libere e meno tasse: torna la deregulation
A partire dalle espulsioni degli immigrati irregolari. "Quello che faremo - ha spiegato in un'intervista con 60 Minutes di Cbs - è buttare fuori dal Paese o incarcerare le persone che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga". Il provvedimento colpirà "due o tre milioni" di immigrati che risiedono clandestinamente negli Stati Uniti.
Durante la campagna elettorale contro la candidata democratica Hillary Clinton, Trump ha più molte volte promesso la costruzione di un muro alla frontiera messicana per ostacolare l'immigrazione. Adesso è già pronto a passare alle vie di fatto. Nell'intervista con 60 Minutes ha, infatti, confermato l'intenzione di fortificare la barriera anti immigrati. Edificata in prima battuta nel 1994 durante la presidenza di Bill Clinton (guarda la gallery), la barriera sarà rafforzata con alcune parti in muratura e altre in recinzione. "In alcune aree il muro è più appropriato - ha spiegato il neo inquilino della Casa Bianca - sono molto bravo in questo, vale a dire nelle costruzioni, ci possono essere alcune recinzioni".
E, se da una parte ferma l'ingresso a nuovi immigrati, dall'altra si propone di cacciare tutti i clandestini che oggi si trovano sul suolo americano. Ne espellerà "probabilmente due milioni, possibilmente anche tre milioni". Si tratta di stranieri "con precedenti penali". "Ciò che faremo - ha spiegato nella sua prima apparizione televisiva dopo la vittoria alle elezioni - è prendere le persone che sono criminali e quelle che hanno precedenti penali, membri di gang, trafficanti di droga, probabilmente due milioni, possibilmente anche tre milioni, e li cacceremo dal Paese o li metteremo in carcere".
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I GIORNI DEL KAOS
INTERPRETAZIONE DI QUANTO STA ACCADENDO
13 NOV 2016 14:07
A FARI SPENTI NELLA TRUMPONOMICS/1
- REICHLIN: ''IL PRESIDENTE ELETTO HA PROMESSO DI SPENDERE UN TRILIONE (MILLE MILIARDI) IN INFRASTRUTTURE, E DI TAGLIARE 440 MILIARDI DI TASSE ALL'ANNO, IL DOPPIO DI REAGAN. È IMPROBABILE CHE IL CONGRESSO A MAGGIORANZA REPUBBLICANO GLI PERMETTERÀ UNA SIMILE SPESA. AL MASSIMO DARà L'OK AL TAGLIO DELLE TASSE, CHE ARRICCHIRÀ POCHI E CREERÀ UN DEFICIT DA 5,3 TRILIONI''
Lucrezia Reichlin per il ''Corriere della Sera''
La vittoria di Trump genera incognite su tutti i piani, da quello economico a quello geopolitico.
Su un aspetto del suo programma economico, quello delle politiche di bilancio, sembra però che ciò che Trump vuole fare sia più vicino ai programmi dell' ala progressista del partito democratico che alla tradizionale posizione conservatrice. Ma le cose non stanno così.
Trump ha dichiarato di volere spendere un trilione di dollari (mille miliardi) in infrastrutture per stimolare la crescita. Ed è vero che, con questa proposta, l' outsider, inviso alle élite politiche e intellettuali, sembra paradossalmente sposare una visione keynesiana della politica economica, vicina al "nuovo consenso" oggi creatosi tra accademici e esperti, incluso il Fondo Monetario Internazionale.
"Nuovo consenso" perché rivaluta lo strumento di spesa pubblica finanziata a debito ai fini della stabilizzazione dell' attività economica. Jason Furman, il capo del consiglio economico di Obama, per esempio, scrive recentemente che quest' ultima è uno strumento con il debito ed è uno strumento potente per far fronte alla bassa crescita associata a tassi di interesse e inflazione vicini allo zero che caratterizza le economie avanzate di oggi.
Una bella differenza di vedute rispetto al consenso precedente, nato tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, secondo cui la spesa pubblica finanziata a debito ha effetti incerti sull' attività economica o addirittura negativi poiché, causando un aumento dei tassi d' interesse, disincentiva la spesa privata.
Keynes è di nuovo popolare. Ma ha conquistato anche Trump? Dopo otto anni di quantitative easing e con i tassi di interesse vicini allo zero c' è certamente meno fiducia sulla efficacia della politica monetaria e in molti ormai pensiamo che lo strumento fiscale debba essere usato in coordinamento con essa. Ma andiamo a vedere meglio il programma del presidente eletto. Corrisponde a questa visione?
Il Comitato per la responsabilità di bilancio calcola che nei prossimi dieci anni la Trump-economics implicherà un deficit di 5,3 trilioni di dollari spiegato da 5,8 trilioni di diminuzione delle tasse e da 1,20 di diminuzione della spesa primaria. Un deficit elevato quindi, ma generato da un piano molto più reaganiano che keynesiano.
Infatti, da quello che si capisce dalla discordante informazione della campagna e dalle dichiarazioni recenti, il trilione di investimento in infrastrutture non sarà spesa pubblica ma in parte generato da partnership pubblico-privato e alimentato da crediti all' imposta.
Molti ritengono questo irrealistico, un messaggio elettorale con poca sostanza. Il credito d' imposta rende più profittevoli i progetti esistenti, ma non è sufficiente a stimolare investimenti nelle aree più povere dove la redditività è più bassa. Se ne deduce che per arrivare a spendere un trilione si dovrà mobilitare la spesa pubblica e in quel caso il deficit supererà i 6 trilioni. Difficile immaginare che un Congresso e un Senato a maggioranza repubblicana possano approvare una misura del genere.
È molto probabile, invece, che quello che resterà delle roboanti dichiarazioni elettorali sarà un massiccio taglio alle tasse il cui costo si stima essere di circa 440 miliardi annui, più del doppio dei tagli fiscali di Reagan del 1981, più del quadruplo di quello di George Bush del 2001. Ma questo non ha niente a che fare con il nuovo consenso sugli effetti keynesiani della politica fiscale.
I tagli di Reagan e Bush, come quelli di Trump, sono giustificati da fantasiose stime sui loro effetti di stimolo all' offerta (incentivi alle imprese), non dal loro potenziale effetto di sostegno alla domanda di consumo e investimento. Ricordiamo che quando, all' epoca di Reagan, quegli effetti di offerta si rivelarono essere molto minori delle aspettative e generarono deficit invece della attesa crescita, la politica economica cominciò ad enfatizzare sempre più la disciplina di bilancio fino a introdurre negli anni seguenti un tetto legale al debito pubblico.
Per questo non bisogna confondere il piano di Trump con un nuovo keynesismo. È il suo contrario. Ed è possibile che, come nel passato, il deficit che genererà porterà ad una maggiore enfasi sul consolidamento fiscale, una stretta sui conti pubblici a scapito della spesa che avrebbe dovuto agevolare la crescita.
Nonostante quindi il «nuovo consenso» tra economisti e esperti indichi la necessità di combinare politiche attive di stabilizzazione attraverso il bilancio pubblico con quelle monetarie effettuate dalle banche centrali, si va nel senso opposto: negli Usa per via della svolta conservatrice e in Europa, per i vincoli del patto di Stabilità. La conseguenza è che le banche centrali continueranno ad avere il monopolio delle politiche di stimolo all' economia. Questo avverrà nonostante sia ormai chiaro che la politica monetaria da sola non ce la può fare, specialmente quando i tassi d' interesse sono a zero, i bilanci delle banche centrali già gonfi e, quindi, di fronte a possibili avvenimenti avversi, gli strumenti d' intervento limitati.
In un dibattito politico che si è involuto in battaglie demagogiche, chi oggi chiede giustamente misure aggressive per la crescita e crede di essere stato ascoltat o, è destinato ad essere deluso .
INTERPRETAZIONE DI QUANTO STA ACCADENDO
13 NOV 2016 14:07
A FARI SPENTI NELLA TRUMPONOMICS/1
- REICHLIN: ''IL PRESIDENTE ELETTO HA PROMESSO DI SPENDERE UN TRILIONE (MILLE MILIARDI) IN INFRASTRUTTURE, E DI TAGLIARE 440 MILIARDI DI TASSE ALL'ANNO, IL DOPPIO DI REAGAN. È IMPROBABILE CHE IL CONGRESSO A MAGGIORANZA REPUBBLICANO GLI PERMETTERÀ UNA SIMILE SPESA. AL MASSIMO DARà L'OK AL TAGLIO DELLE TASSE, CHE ARRICCHIRÀ POCHI E CREERÀ UN DEFICIT DA 5,3 TRILIONI''
Lucrezia Reichlin per il ''Corriere della Sera''
La vittoria di Trump genera incognite su tutti i piani, da quello economico a quello geopolitico.
Su un aspetto del suo programma economico, quello delle politiche di bilancio, sembra però che ciò che Trump vuole fare sia più vicino ai programmi dell' ala progressista del partito democratico che alla tradizionale posizione conservatrice. Ma le cose non stanno così.
Trump ha dichiarato di volere spendere un trilione di dollari (mille miliardi) in infrastrutture per stimolare la crescita. Ed è vero che, con questa proposta, l' outsider, inviso alle élite politiche e intellettuali, sembra paradossalmente sposare una visione keynesiana della politica economica, vicina al "nuovo consenso" oggi creatosi tra accademici e esperti, incluso il Fondo Monetario Internazionale.
"Nuovo consenso" perché rivaluta lo strumento di spesa pubblica finanziata a debito ai fini della stabilizzazione dell' attività economica. Jason Furman, il capo del consiglio economico di Obama, per esempio, scrive recentemente che quest' ultima è uno strumento con il debito ed è uno strumento potente per far fronte alla bassa crescita associata a tassi di interesse e inflazione vicini allo zero che caratterizza le economie avanzate di oggi.
Una bella differenza di vedute rispetto al consenso precedente, nato tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, secondo cui la spesa pubblica finanziata a debito ha effetti incerti sull' attività economica o addirittura negativi poiché, causando un aumento dei tassi d' interesse, disincentiva la spesa privata.
Keynes è di nuovo popolare. Ma ha conquistato anche Trump? Dopo otto anni di quantitative easing e con i tassi di interesse vicini allo zero c' è certamente meno fiducia sulla efficacia della politica monetaria e in molti ormai pensiamo che lo strumento fiscale debba essere usato in coordinamento con essa. Ma andiamo a vedere meglio il programma del presidente eletto. Corrisponde a questa visione?
Il Comitato per la responsabilità di bilancio calcola che nei prossimi dieci anni la Trump-economics implicherà un deficit di 5,3 trilioni di dollari spiegato da 5,8 trilioni di diminuzione delle tasse e da 1,20 di diminuzione della spesa primaria. Un deficit elevato quindi, ma generato da un piano molto più reaganiano che keynesiano.
Infatti, da quello che si capisce dalla discordante informazione della campagna e dalle dichiarazioni recenti, il trilione di investimento in infrastrutture non sarà spesa pubblica ma in parte generato da partnership pubblico-privato e alimentato da crediti all' imposta.
Molti ritengono questo irrealistico, un messaggio elettorale con poca sostanza. Il credito d' imposta rende più profittevoli i progetti esistenti, ma non è sufficiente a stimolare investimenti nelle aree più povere dove la redditività è più bassa. Se ne deduce che per arrivare a spendere un trilione si dovrà mobilitare la spesa pubblica e in quel caso il deficit supererà i 6 trilioni. Difficile immaginare che un Congresso e un Senato a maggioranza repubblicana possano approvare una misura del genere.
È molto probabile, invece, che quello che resterà delle roboanti dichiarazioni elettorali sarà un massiccio taglio alle tasse il cui costo si stima essere di circa 440 miliardi annui, più del doppio dei tagli fiscali di Reagan del 1981, più del quadruplo di quello di George Bush del 2001. Ma questo non ha niente a che fare con il nuovo consenso sugli effetti keynesiani della politica fiscale.
I tagli di Reagan e Bush, come quelli di Trump, sono giustificati da fantasiose stime sui loro effetti di stimolo all' offerta (incentivi alle imprese), non dal loro potenziale effetto di sostegno alla domanda di consumo e investimento. Ricordiamo che quando, all' epoca di Reagan, quegli effetti di offerta si rivelarono essere molto minori delle aspettative e generarono deficit invece della attesa crescita, la politica economica cominciò ad enfatizzare sempre più la disciplina di bilancio fino a introdurre negli anni seguenti un tetto legale al debito pubblico.
Per questo non bisogna confondere il piano di Trump con un nuovo keynesismo. È il suo contrario. Ed è possibile che, come nel passato, il deficit che genererà porterà ad una maggiore enfasi sul consolidamento fiscale, una stretta sui conti pubblici a scapito della spesa che avrebbe dovuto agevolare la crescita.
Nonostante quindi il «nuovo consenso» tra economisti e esperti indichi la necessità di combinare politiche attive di stabilizzazione attraverso il bilancio pubblico con quelle monetarie effettuate dalle banche centrali, si va nel senso opposto: negli Usa per via della svolta conservatrice e in Europa, per i vincoli del patto di Stabilità. La conseguenza è che le banche centrali continueranno ad avere il monopolio delle politiche di stimolo all' economia. Questo avverrà nonostante sia ormai chiaro che la politica monetaria da sola non ce la può fare, specialmente quando i tassi d' interesse sono a zero, i bilanci delle banche centrali già gonfi e, quindi, di fronte a possibili avvenimenti avversi, gli strumenti d' intervento limitati.
In un dibattito politico che si è involuto in battaglie demagogiche, chi oggi chiede giustamente misure aggressive per la crescita e crede di essere stato ascoltat o, è destinato ad essere deluso .
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Re: Dove va l'America?
I GIORNI DEL KAOS
INTERPRETAZIONE DI QUANTO STA ACCADENDO
13 NOV 2016 17:24
1. MASSIMO FINI: ''FORZA DONALD, LIBERACI DALLA NATO! SCIOGLIAMO L'INUTILE ALLEANZA CHE TIENE NOI EUROPEI SOTTO IL CONTROLLO MILITARE, POLITICO, CULTURALE AMERICANO''
2. LA RUSSIA GIÀ SI E' APPROFITTATA DELLA DEBOLEZZA DELLA NATO IN CRIMEA ED EST UCRAINA, E NON C'È RISCHIO CHE SI METTA A SGANCIARE BOMBE ATOMICHE IN GIRO PER L'EUROPA
3. PER SOPRAVVIVERE, L'EUROPA DEVE ESSERE EUROPA UNITA, NEUTRALE, ARMATA, NUCLEARE E AUTARCHICA. UNITA POLITICAMENTE, ARMATA E NUCLEARE PER DIFENDERSI. AUTARCHICA CON UN PO' DI PROTEZIONISMO, PER PARARE GLI EFFETTI PIÙ DEVASTANTI DELLA GLOBALIZZAZIONE
4. IL SUCCESSO DI TRUMP NON È LA SCONFITTA DEI POLITICI, CHE MENTONO PER LAVORO, MA DEGLI INTELLETTUALI CHE SI ACCODANO AL POTENTE DI TURNO. L'INTELLETTUALE NON CERCA IL CONSENSO, È LIBERO DI DIRE CIÒ CHE PENSA. SE SI FA SERVO È DOPPIAMENTE COLPEVOLE
Estratti dall'articolo di Massimo Fini per ''il Fatto Quotidiano''
Uno dei passi più interessanti del discorso di Donald Trump è laddove il prossimo presidente americano prospetta la possibile dissoluzione della Nato se i Paesi europei che ne sono membri "non pagheranno molto di più per sostenerla". Se i Paesi di quella che ormai un po' anacronisticamente viene chiamata Europa Ovest avessero un minimo di coscienza di sé non prenderebbero l' affermazione di Trump come una minaccia (pagate di più) bensì come una formidabile opportunità (sciogliamo la Nato). Di questa Alleanza totalmente sperequata gli Stati Uniti sono infatti gli assoluti padroni, anche se, per salvare le apparenze, il segretario generale dell' Organizzazione è a rotazione (attualmente è il norvegese Jens Stoltenberg).
In realtà la Nato, da quando esiste (il Patto fu firmato nel 1949), è stata lo strumento con cui gli americani hanno tenuto in stato di minorità l' Europa, militarmente, politicamente, economicamente e dai e ridai anche culturalmente. L' Alleanza ha avuto un senso per noi europei finché è esistita l' Unione Sovietica (non è un caso che il Patto sia stato siglato all' inizio della "guerra fredda") perché gli Stati Uniti erano gli unici ad avere il deterrente atomico per dissuadere "l' orso russo" dal tentare avventure militari in Europa Ovest. Ma dal crollo dell' Urss la situazione, con tutta evidenza, è profondamente cambiata.
Non è che la Russia, soprattutto dopo l' avvento di Putin che l' ha riportata al rango di grande potenza, sia del tutto rassicurante e non approfitti della situazione per appropriarsi di alcuni territori europei peraltro a lei limitrofi e russofoni (Crimea e addentellati ucraini), ma è del tutto inimmaginabile che si metta a sganciare atomiche sui Paesi europei.
[L]a Nato (...) è da più di un quarto di secolo che si è trasformata in uno strumento offensivo.
Nel 1999 fu attaccata la Serbia di Milosevic che non costituiva alcuna minaccia per un qualsiasi membro della Nato. La Nato intervenne per risolvere, del tutto arbitrariamente, una questione interna di quello Stato. Lo stesso discorso si può fare sostanzialmente per l' Iraq (...) e la Libia.
L' unico intervento ex articolo 5, cioè difensivo, è stato quello contro l' Afghanistan perché, dopo l' attacco alle Torri Gemelle, si pensava, peraltro sbagliando bersaglio, che i Talebani ne fossero alle spalle.
(...)
La dissoluzione della Nato, se Trump parla con lingua dritta, sarebbe per l' Europa l' occasione per riacquistare, almeno parzialmente, un' indipendenza perduta all' indomani della Seconda guerra mondiale.
La mia formula per l' Europa, a partire dal 1990, è questa: un' Europa unita, neutrale, armata, nucleare e autarchica. Unita politicamente, cosa che oggi non è ma che dovrà necessariamente diventare perché nessun singolo Paese può resistere, da solo, contro le grandi Potenze, sia quelle storiche, Stati Uniti e Russia, sia quelle cosiddette "emergenti", Cina e India.
Armata e nucleare non per aggredire nessuno, ma per poterci difendere autonomamente da eventuali minacce, senza dover ricorrere a pelose protezioni altrui. (...)
Neutrale per avere una giusta equidistanza fra Stati Uniti e Russia. Autarchica, attraverso un limitato protezionismo, per parare gli effetti più devastanti della globalizzazione.
Ritornando al discorso di Trump, sulla Nato e sul rapporto con gli altri Stati, mi pare che il prossimo inquilino della Casa Bianca abbia compreso che il ruolo centrale dell' America nella scacchiera del mondo è finito così come quello di 'gendarme' dell' ordine planetario.
(...)
Questo è ciò che io spero dal magnate tanto maltrattato. Anche se, conoscendo i miei polli, so che almeno in Italia quasi tutti gli intellettuali e gli opinionisti che gli sono stati avversi, in poco tempo, sia con svolte plateali o più probabilmente con circonvoluzioni algoritmiche che lascino la porta aperta a rapidi ritorni, diventeranno "trumpisti".
In ogni caso il successo di Trump (...) è anche una rivolta contro l' altezzoso senso di superiorità degli intellettuali che va di pari passo al loro eterno accodarsi ai poteri di turno. Ritengo, e in questo caso penso soprattutto all' Italia, che gli intellettuali siano più responsabili dei politici. Perché per il politico la menzogna, le mezze verità, l' ambiguità sono uno strumento del mestiere visto che, in democrazia, il suo primo obiettivo è procacciarsi il consenso. L' intellettuale invece è libero di dire ciò che pensa. E quindi se si fa servo è doppiamente colpevole.
INTERPRETAZIONE DI QUANTO STA ACCADENDO
13 NOV 2016 17:24
1. MASSIMO FINI: ''FORZA DONALD, LIBERACI DALLA NATO! SCIOGLIAMO L'INUTILE ALLEANZA CHE TIENE NOI EUROPEI SOTTO IL CONTROLLO MILITARE, POLITICO, CULTURALE AMERICANO''
2. LA RUSSIA GIÀ SI E' APPROFITTATA DELLA DEBOLEZZA DELLA NATO IN CRIMEA ED EST UCRAINA, E NON C'È RISCHIO CHE SI METTA A SGANCIARE BOMBE ATOMICHE IN GIRO PER L'EUROPA
3. PER SOPRAVVIVERE, L'EUROPA DEVE ESSERE EUROPA UNITA, NEUTRALE, ARMATA, NUCLEARE E AUTARCHICA. UNITA POLITICAMENTE, ARMATA E NUCLEARE PER DIFENDERSI. AUTARCHICA CON UN PO' DI PROTEZIONISMO, PER PARARE GLI EFFETTI PIÙ DEVASTANTI DELLA GLOBALIZZAZIONE
4. IL SUCCESSO DI TRUMP NON È LA SCONFITTA DEI POLITICI, CHE MENTONO PER LAVORO, MA DEGLI INTELLETTUALI CHE SI ACCODANO AL POTENTE DI TURNO. L'INTELLETTUALE NON CERCA IL CONSENSO, È LIBERO DI DIRE CIÒ CHE PENSA. SE SI FA SERVO È DOPPIAMENTE COLPEVOLE
Estratti dall'articolo di Massimo Fini per ''il Fatto Quotidiano''
Uno dei passi più interessanti del discorso di Donald Trump è laddove il prossimo presidente americano prospetta la possibile dissoluzione della Nato se i Paesi europei che ne sono membri "non pagheranno molto di più per sostenerla". Se i Paesi di quella che ormai un po' anacronisticamente viene chiamata Europa Ovest avessero un minimo di coscienza di sé non prenderebbero l' affermazione di Trump come una minaccia (pagate di più) bensì come una formidabile opportunità (sciogliamo la Nato). Di questa Alleanza totalmente sperequata gli Stati Uniti sono infatti gli assoluti padroni, anche se, per salvare le apparenze, il segretario generale dell' Organizzazione è a rotazione (attualmente è il norvegese Jens Stoltenberg).
In realtà la Nato, da quando esiste (il Patto fu firmato nel 1949), è stata lo strumento con cui gli americani hanno tenuto in stato di minorità l' Europa, militarmente, politicamente, economicamente e dai e ridai anche culturalmente. L' Alleanza ha avuto un senso per noi europei finché è esistita l' Unione Sovietica (non è un caso che il Patto sia stato siglato all' inizio della "guerra fredda") perché gli Stati Uniti erano gli unici ad avere il deterrente atomico per dissuadere "l' orso russo" dal tentare avventure militari in Europa Ovest. Ma dal crollo dell' Urss la situazione, con tutta evidenza, è profondamente cambiata.
Non è che la Russia, soprattutto dopo l' avvento di Putin che l' ha riportata al rango di grande potenza, sia del tutto rassicurante e non approfitti della situazione per appropriarsi di alcuni territori europei peraltro a lei limitrofi e russofoni (Crimea e addentellati ucraini), ma è del tutto inimmaginabile che si metta a sganciare atomiche sui Paesi europei.
[L]a Nato (...) è da più di un quarto di secolo che si è trasformata in uno strumento offensivo.
Nel 1999 fu attaccata la Serbia di Milosevic che non costituiva alcuna minaccia per un qualsiasi membro della Nato. La Nato intervenne per risolvere, del tutto arbitrariamente, una questione interna di quello Stato. Lo stesso discorso si può fare sostanzialmente per l' Iraq (...) e la Libia.
L' unico intervento ex articolo 5, cioè difensivo, è stato quello contro l' Afghanistan perché, dopo l' attacco alle Torri Gemelle, si pensava, peraltro sbagliando bersaglio, che i Talebani ne fossero alle spalle.
(...)
La dissoluzione della Nato, se Trump parla con lingua dritta, sarebbe per l' Europa l' occasione per riacquistare, almeno parzialmente, un' indipendenza perduta all' indomani della Seconda guerra mondiale.
La mia formula per l' Europa, a partire dal 1990, è questa: un' Europa unita, neutrale, armata, nucleare e autarchica. Unita politicamente, cosa che oggi non è ma che dovrà necessariamente diventare perché nessun singolo Paese può resistere, da solo, contro le grandi Potenze, sia quelle storiche, Stati Uniti e Russia, sia quelle cosiddette "emergenti", Cina e India.
Armata e nucleare non per aggredire nessuno, ma per poterci difendere autonomamente da eventuali minacce, senza dover ricorrere a pelose protezioni altrui. (...)
Neutrale per avere una giusta equidistanza fra Stati Uniti e Russia. Autarchica, attraverso un limitato protezionismo, per parare gli effetti più devastanti della globalizzazione.
Ritornando al discorso di Trump, sulla Nato e sul rapporto con gli altri Stati, mi pare che il prossimo inquilino della Casa Bianca abbia compreso che il ruolo centrale dell' America nella scacchiera del mondo è finito così come quello di 'gendarme' dell' ordine planetario.
(...)
Questo è ciò che io spero dal magnate tanto maltrattato. Anche se, conoscendo i miei polli, so che almeno in Italia quasi tutti gli intellettuali e gli opinionisti che gli sono stati avversi, in poco tempo, sia con svolte plateali o più probabilmente con circonvoluzioni algoritmiche che lascino la porta aperta a rapidi ritorni, diventeranno "trumpisti".
In ogni caso il successo di Trump (...) è anche una rivolta contro l' altezzoso senso di superiorità degli intellettuali che va di pari passo al loro eterno accodarsi ai poteri di turno. Ritengo, e in questo caso penso soprattutto all' Italia, che gli intellettuali siano più responsabili dei politici. Perché per il politico la menzogna, le mezze verità, l' ambiguità sono uno strumento del mestiere visto che, in democrazia, il suo primo obiettivo è procacciarsi il consenso. L' intellettuale invece è libero di dire ciò che pensa. E quindi se si fa servo è doppiamente colpevole.
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Re: Dove va l'America?
TRUMPATE
“Via dagli Stati Uniti tre milioni di clandestini
Costruiremo il muro al confine con il Messico”
Il presidente eletto in una intervista alla Cbs: “Frontiera? In parte barriera, in parte recinzione”
Repubblicani costretti ad inchinarsi al successo del tycoon. Ma è battaglia per le poltrone che contano
Elezioni USA 2016
Donald Trump conferma la linea dura sull’immigrazione, promettendo di costruire un muro al confine con il Messico e di cacciare 2-3 milioni di clandestini. Queste posizioni, fulcro della sua campagna elettorale, sono state ribadite in un’intervista alla Cbs. “Quello che faremo è buttare fuori dal Paese o incarcerare gli immigrati irregolari che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga“. In tutto, “probabilmente due milioni, forse addirittura tre milioni di persone”. Per quanto riguarda i migranti che non hanno problemi con la legge, il tycoon ha esposto il suo programma: prima il confine verrà reso “sicuro“, poi si comincerà a “fare una stima” di quanti irregolari sono rimasti
“Via dagli Stati Uniti tre milioni di clandestini
Costruiremo il muro al confine con il Messico”
Il presidente eletto in una intervista alla Cbs: “Frontiera? In parte barriera, in parte recinzione”
Repubblicani costretti ad inchinarsi al successo del tycoon. Ma è battaglia per le poltrone che contano
Elezioni USA 2016
Donald Trump conferma la linea dura sull’immigrazione, promettendo di costruire un muro al confine con il Messico e di cacciare 2-3 milioni di clandestini. Queste posizioni, fulcro della sua campagna elettorale, sono state ribadite in un’intervista alla Cbs. “Quello che faremo è buttare fuori dal Paese o incarcerare gli immigrati irregolari che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga“. In tutto, “probabilmente due milioni, forse addirittura tre milioni di persone”. Per quanto riguarda i migranti che non hanno problemi con la legge, il tycoon ha esposto il suo programma: prima il confine verrà reso “sicuro“, poi si comincerà a “fare una stima” di quanti irregolari sono rimasti
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Re: Dove va l'America?
IlFattoQuotidiano.it / Elezioni USA 2016
Trump conferma: “Muro al confine con il Messico e via 2-3 milioni di clandestini”
Elezioni USA 2016
"Quello che faremo è buttare fuori dal Paese o incarcerare gli immigrati irregolari che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga", ha detto il nuovo presidente in un'intervista alla Cbs. Poi ha ribadito l'idea di rendere più "sicure" le frontiere: "Sono molto bravo nelle costruzioni"
di F. Q. | 13 novembre 2016
COMMENTI
Donald Trump conferma la linea dura sull’immigrazione, promettendo di costruire un muro al confine con il Messico e di cacciare 2-3 milioni di clandestini con precedenti penali. Queste posizioni, che sono state il fulcro della sua campagna elettorale, sono state ribadite in un’intervista all’emittente televisiva Cbs. “Quello che faremo è buttare fuori dal Paese o incarcerare gli immigrati irregolari che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga“. Secondo le stime del nuovo presidente degli Stati Uniti, si tratterebbe “probabilmente di due milioni, forse addirittura tre milioni di persone”. Trump, nel corso dell’intervista alla trasmissione ‘60 Minutes‘, ha ribadito più volte: “Stiamo per cacciarli dal nostro Paese, sono qui illegalmente”. Per quanto riguarda i clandestini che invece non hanno problemi con la legge, il tycoon ha esposto il suo programma: prima il confine verrà reso “sicuro“, poi si comincerà a “fare una stima” di quanti immigrati irregolari sono rimasti negli Stati Uniti.
La sicurezza dei confini è infatti l’altro tema forte dell’intervista. Alla domanda se ha davvero intenzione di costruire un muro lungo il confine Stati Uniti-Messico, una proposta che era al centro della sua campagna, Trump ha risposto: “Sì“. Il governo messicano ha pubblicamente ricordato che il Messico non pagherà nulla per il muro. E Newt Gingrich, nello staff del team di transizione, aveva detto che il muro è stato solo “un grande stratagemma elettorale”. Invece Trump ha confermato: lungo una parte del confine sarà costruita una barriera, il resto potrebbe essere “una recinzione, in conformità con quanto i repubblicani avevano proposto al Congresso“. Secondo il presidente eletto, “prima di individuare tutti i clandestini, è molto importante garantire la sicurezza dei nostri confini. Per alcune aree la costruzione di un muro è la soluzione più appropriata”. Poi la battuta finale: “Sono molto bravo in questo, nelle costruzioni”.
Già in un’intervista rilasciata al Wall Street Journal, Trump aveva dichiarato che una delle sue priorità fin da subito era il controllo delle frontiere contro lo spaccio di droga e i migranti illegali. Tuttavia, se non stupiscono più di tanto le sue dichiarazioni riguardo l’immigrazione, più pesanti sono quelle riguardanti il muro al confine con il Messico. Il nuovo presidente aveva già promesso di costruirlo e farlo pagare ai messicani. Ma il piano sembrava irrealizzabile per due ragioni: i costi economici, circa 40 miliardi di dollari, che il governo messicano ha già detto di non voler sostenere; e i costi umanitari, visto che si tratterebbe di alzare una barriera non solo nei confronti dei migranti economici ma anche di quelli che fuggono da violenze e persecuzioni. In più, subito dopo la vittoria alle elezioni, i rapporti con il presidente del Messico, Enrique Pena Nieto, sembravano essersi distesi. In una telefonata a Trump era stato concordato un incontro prima dell’inizio del mandato, il 20 gennaio prossimo. Il capo di Stato aveva scelto una linea moderata e via Twitter si era complimentato con gli Stati Uniti per il “processo elettorale”. Un messaggio estremamente cauto: “Il Messico e gli Stati Uniti sono amici, partner e alleati che dovrebbero continuare a collaborare per la competitività e lo sviluppo del Nord America”. Più profetico forse è stato il vice ministro dell’Interno, Humberto Roque Villanueva, che aveva commentato: “Le espulsioni di migranti messicani senza documenti dagli Stati Uniti potrebbero iniziare ad aumentare quando il presidente eletto Donald Trump assumerà l’incarico”.
di F. Q. | 13 novembre 2016
Trump conferma: “Muro al confine con il Messico e via 2-3 milioni di clandestini”
Elezioni USA 2016
"Quello che faremo è buttare fuori dal Paese o incarcerare gli immigrati irregolari che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga", ha detto il nuovo presidente in un'intervista alla Cbs. Poi ha ribadito l'idea di rendere più "sicure" le frontiere: "Sono molto bravo nelle costruzioni"
di F. Q. | 13 novembre 2016
COMMENTI
Donald Trump conferma la linea dura sull’immigrazione, promettendo di costruire un muro al confine con il Messico e di cacciare 2-3 milioni di clandestini con precedenti penali. Queste posizioni, che sono state il fulcro della sua campagna elettorale, sono state ribadite in un’intervista all’emittente televisiva Cbs. “Quello che faremo è buttare fuori dal Paese o incarcerare gli immigrati irregolari che sono criminali o hanno precedenti criminali, membri di gang, trafficanti di droga“. Secondo le stime del nuovo presidente degli Stati Uniti, si tratterebbe “probabilmente di due milioni, forse addirittura tre milioni di persone”. Trump, nel corso dell’intervista alla trasmissione ‘60 Minutes‘, ha ribadito più volte: “Stiamo per cacciarli dal nostro Paese, sono qui illegalmente”. Per quanto riguarda i clandestini che invece non hanno problemi con la legge, il tycoon ha esposto il suo programma: prima il confine verrà reso “sicuro“, poi si comincerà a “fare una stima” di quanti immigrati irregolari sono rimasti negli Stati Uniti.
La sicurezza dei confini è infatti l’altro tema forte dell’intervista. Alla domanda se ha davvero intenzione di costruire un muro lungo il confine Stati Uniti-Messico, una proposta che era al centro della sua campagna, Trump ha risposto: “Sì“. Il governo messicano ha pubblicamente ricordato che il Messico non pagherà nulla per il muro. E Newt Gingrich, nello staff del team di transizione, aveva detto che il muro è stato solo “un grande stratagemma elettorale”. Invece Trump ha confermato: lungo una parte del confine sarà costruita una barriera, il resto potrebbe essere “una recinzione, in conformità con quanto i repubblicani avevano proposto al Congresso“. Secondo il presidente eletto, “prima di individuare tutti i clandestini, è molto importante garantire la sicurezza dei nostri confini. Per alcune aree la costruzione di un muro è la soluzione più appropriata”. Poi la battuta finale: “Sono molto bravo in questo, nelle costruzioni”.
Già in un’intervista rilasciata al Wall Street Journal, Trump aveva dichiarato che una delle sue priorità fin da subito era il controllo delle frontiere contro lo spaccio di droga e i migranti illegali. Tuttavia, se non stupiscono più di tanto le sue dichiarazioni riguardo l’immigrazione, più pesanti sono quelle riguardanti il muro al confine con il Messico. Il nuovo presidente aveva già promesso di costruirlo e farlo pagare ai messicani. Ma il piano sembrava irrealizzabile per due ragioni: i costi economici, circa 40 miliardi di dollari, che il governo messicano ha già detto di non voler sostenere; e i costi umanitari, visto che si tratterebbe di alzare una barriera non solo nei confronti dei migranti economici ma anche di quelli che fuggono da violenze e persecuzioni. In più, subito dopo la vittoria alle elezioni, i rapporti con il presidente del Messico, Enrique Pena Nieto, sembravano essersi distesi. In una telefonata a Trump era stato concordato un incontro prima dell’inizio del mandato, il 20 gennaio prossimo. Il capo di Stato aveva scelto una linea moderata e via Twitter si era complimentato con gli Stati Uniti per il “processo elettorale”. Un messaggio estremamente cauto: “Il Messico e gli Stati Uniti sono amici, partner e alleati che dovrebbero continuare a collaborare per la competitività e lo sviluppo del Nord America”. Più profetico forse è stato il vice ministro dell’Interno, Humberto Roque Villanueva, che aveva commentato: “Le espulsioni di migranti messicani senza documenti dagli Stati Uniti potrebbero iniziare ad aumentare quando il presidente eletto Donald Trump assumerà l’incarico”.
di F. Q. | 13 novembre 2016
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Re: Dove va l'America?
ANTI TRUMP
Trump presidente Usa, con il cavolo che mi sento trumpiano!
Mondo
di Gianluigi Paragone | 13 novembre 2016
COMMENTI
Più informazioni su: Brexit, Donald Trump, Elezioni Usa 2016, Mediterraneo
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Gianluigi Paragone
Giornalista, conduttore televisivo
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Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare.
Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie.
La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.
Stiamo facendo di tutto per scrollarci di dosso le catene tedesche e vogliamo già indossare di nuovo la giubba americana? E perché? La crisi europea si sta producendo perché i cittadini non hanno più voglia di essere qualcosa d’altro rispetto a quello che sono. L’elemento centrale della disgregazione eurocratica è il senso di identità, il senso di appartenenza. La nostra cultura è ancora pregna di civiltà mediterranea, cioè di un luogo stupendo dove il tempo si è evoluto in storia e la storia è diventata adulta.
Quel mediterraneo è il nostro orgoglio, il nostro punto d’appoggio dove ripartire, è il nostro fulcro dove piazzare la leva e scardinare quanto di stupido questa eurofollia ha materializzato con l’aiuto di imbroglioni travestiti da analisti, esperti o, peggio, da sognatori. L’Europa non sarà mai la nostra casa fintanto che non torna a Canossa, cioè nel suo mar Mediterraneo, crocevia di imbroglioni e geni.
Lo scrivo da troppo tempo per poter adesso crogiolarmi nella vittoria di uno che resta lontano anni luce da me. Spero per gli americani che faccia quel bene che ha promesso loro (ho dei dubbi…) ma Trump non è un modello che posso permettermi per ricostruire. Avevamo bisogno del superbowl elettorale per intuire che il ceto medio è in profonda difficoltà? Avevamo bisogno del successo del candidato repubblicano per certificare l’arroganza dell’establishment? O che la gente si è rotta dei politici? Stiamo freschi se così fosse. La crisi del ceto medio è colpa del modello di sviluppo esportato dagli americani, un modello a debito.
Noi non siamo gli americani; meno male, aggiungo. Noi siamo qua, in un’altra parte del globo che è un mondo a parte. Un mondo che resta centrale. Che guarda alla sponda americana ma non può fare a meno di escludere il Nordafrica o quel Medio Oriente i cui codici fanno parte della nostra storia (Palermo, Venezia, Ravenna…). E non può fare a meno di intrecciare alleanze con la Russia, più vicina di quanto pensiamo. Noi insomma dovremmo imparare a ributtare lo sguardo su noi stessi. La vittoria di Trump è una occasione d’oro perché indebolisce i burocrati di Bruxelles, la Merkel, toglie alla Francia gauchista quell’alleato stupido che ha incasinato il Maghreb, Libia in testa. Trump rafforza l’asse naturale con la Gran Bretagna così che i britannici post Brexit avranno un mercato privilegiato da opporre ai ricattini di Juncker. Insomma, Trump è il perfetto inciampo che può rimettere in ordine le caselle. E’ quell’impazzimento della politica che rende possibile persino l’impossibile rovesciamento della prima legge dell’entropia.
Ma da qui a definirci trumpiani no.
di Gianluigi Paragone | 13 novembre 2016
Trump presidente Usa, con il cavolo che mi sento trumpiano!
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di Gianluigi Paragone | 13 novembre 2016
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Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare.
Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie.
La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.
Stiamo facendo di tutto per scrollarci di dosso le catene tedesche e vogliamo già indossare di nuovo la giubba americana? E perché? La crisi europea si sta producendo perché i cittadini non hanno più voglia di essere qualcosa d’altro rispetto a quello che sono. L’elemento centrale della disgregazione eurocratica è il senso di identità, il senso di appartenenza. La nostra cultura è ancora pregna di civiltà mediterranea, cioè di un luogo stupendo dove il tempo si è evoluto in storia e la storia è diventata adulta.
Quel mediterraneo è il nostro orgoglio, il nostro punto d’appoggio dove ripartire, è il nostro fulcro dove piazzare la leva e scardinare quanto di stupido questa eurofollia ha materializzato con l’aiuto di imbroglioni travestiti da analisti, esperti o, peggio, da sognatori. L’Europa non sarà mai la nostra casa fintanto che non torna a Canossa, cioè nel suo mar Mediterraneo, crocevia di imbroglioni e geni.
Lo scrivo da troppo tempo per poter adesso crogiolarmi nella vittoria di uno che resta lontano anni luce da me. Spero per gli americani che faccia quel bene che ha promesso loro (ho dei dubbi…) ma Trump non è un modello che posso permettermi per ricostruire. Avevamo bisogno del superbowl elettorale per intuire che il ceto medio è in profonda difficoltà? Avevamo bisogno del successo del candidato repubblicano per certificare l’arroganza dell’establishment? O che la gente si è rotta dei politici? Stiamo freschi se così fosse. La crisi del ceto medio è colpa del modello di sviluppo esportato dagli americani, un modello a debito.
Noi non siamo gli americani; meno male, aggiungo. Noi siamo qua, in un’altra parte del globo che è un mondo a parte. Un mondo che resta centrale. Che guarda alla sponda americana ma non può fare a meno di escludere il Nordafrica o quel Medio Oriente i cui codici fanno parte della nostra storia (Palermo, Venezia, Ravenna…). E non può fare a meno di intrecciare alleanze con la Russia, più vicina di quanto pensiamo. Noi insomma dovremmo imparare a ributtare lo sguardo su noi stessi. La vittoria di Trump è una occasione d’oro perché indebolisce i burocrati di Bruxelles, la Merkel, toglie alla Francia gauchista quell’alleato stupido che ha incasinato il Maghreb, Libia in testa. Trump rafforza l’asse naturale con la Gran Bretagna così che i britannici post Brexit avranno un mercato privilegiato da opporre ai ricattini di Juncker. Insomma, Trump è il perfetto inciampo che può rimettere in ordine le caselle. E’ quell’impazzimento della politica che rende possibile persino l’impossibile rovesciamento della prima legge dell’entropia.
Ma da qui a definirci trumpiani no.
di Gianluigi Paragone | 13 novembre 2016
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Re: Dove va l'America?
SE NON SON MATTI NON LI VOGLIAMO
LIBRE news
Appello eversivo ai grandi elettori: negate il voto a Trump
Scritto il 14/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
I grandi elettori non sono obbligati a convalidare per forza l’elezione popolare di Trump, il 19 dicembre: questo il “golpe parlamentare” a cui mira “Change.org”, che sull’onda delle oceaniche proteste di piazza in alcune grandi città come New York ha già ottenuto due milioni di firme per sostenere la sua petizione eversiva. Obiettivo: annullare il risultato delle elezioni e ribaltarlo, consegnando la vittoria a Hillary Clinton. «Negare a Trump l’incarico che ha ottenuto, come esorta a fare “Change.org”, rasenterebbe l’insurrezione: forse darebbe il via ad un’agitazione nazionale e allo spargimento di sangue nelle strade», scrive un osservatore indipendente come Stephen Lendman su “Global Research”, l’osservatorio canadese per i diritti politici fondato dal professor Michel Chossudovsky. La situazione è dunque pericolosissima: da un lato l’establishment sta lottando per paralizzare Trump dall’interno, imponendogli i suoi per gli incarichi-chiave, e dall’altro spinge apertamente perché sia cestinato il voto elettorale, rifiutando di riconoscere la vittoria di Trump, cioè della democrazia. A rischio la tenuta del sistema civile, negli Usa?«“Change.org” è un’impresa a scopo di lucro, non una Ong, e svia i suoi sostenitori usando il dominio “org” invece di quello “com”, come dovrebbe fare», scrive Lendman nella sua analisi, tradotta e ripresa da “Come Don Chisciotte”. Questa organizzazione tutt’altro che trasparente «fa affari facendo firmare petizioni alle persone, vendendo nel contempo spazi pubblicitari e dati personali per incrementare i profitti». E ora ha già raccolto quasi due milioni di firmatari, che chiedono al collegio elettorale americano «di far diventare presidentessa la dea della guerra, truffatrice e spergiura Hillary, annullando l’elezione di Trump». Continua Lendman: «La democrazia in America è pura fantasia, e “Change.org” vuole danneggiarla più di quanto non sia già danneggiata». Ecco quello che chiede: “Il 19 dicembre gli elettori del collegio elettorale esprimeranno le loro preferenze, e se voteranno tutti nel modo in cui hanno votato gli Sstati che rappresentano, Donald Trump vincerà. Tuttavia – aggiunge il testo – possono votare per Hillary, se vogliono: perfino negli Stati in cui questo non è permesso, il loro voto verrebbe comunque contato». I trasgressori “pagherebbero semplicemente una piccola sanzione, sanzione che i sostenitori della Clinton saranno sicuramente lieti di pagare!”.Per cui, “Change.org” chiede ai grandi elettori di “ignorare i voti dei loro Stati ed esprimere la loro preferenza per il Segretario Clinton”. La falsa Ong «dice che Trump non è adatto a fare il presidente, al contrario di Hillary, citando una vasta gamma ragioni espresse dalla propaganda anti-Trump». Lendman cita, al riguardo, la “National Archives and Records Administration”: durante la storia degli Stati Uniti, “più del 99% degli elettori ha votato come promesso”, ovvero per il vincitore del voto popolare negli Stati che rappresentano. “Non ci sono clausole costituzionali o leggi federali che chiedono agli elettori di votare in accordo col voto popolare, solo alcuni Stati hanno richieste simili”. Di fatto, però, solo il Nebraska e il Maine non seguono la regola “il vincente si prende tutto”. «Se nessun candidato riceve la maggioranza dei voti degli elettori – precisa Lendman – i membri della Camera dei Rappresentanti scelgono il presidente fra i tre candidati che hanno ricevuto più voti, e in questo caso ogni Stato ottiene un voto». E oggi, sbarrare a Trump la via della Casa Bianca significherebbe gettare l’America nel caos, sull’orlo di un’insurrezione fuori controllo.«Trump non sarà un presidente del popolo», secondo Lendman, anche perché «nessuno dei precedenti leader della storia americana lo è stato: non lo sono stati né Washington, né Jefferson, né Lincoln, né i due Roosevelt; solo John F. Kennedy ci è andato vicino, ma è stato assassinato dalla Cia per aver fatto la cosa giusta». Per Lendam, comunque, chi punta sulla sedizione sarà sconfitto: «Trump si insedierà il 20 gennaio come 45° presidente degli Stati Uniti». Non sarà il miglior presidente possibile, ma intanto «ha salvato il mondo dal possibile flagello di una guerra nucleare», conflitto suicida «che Hillary avrebbe scatenato nel caso lo avesse sconfitto». Lendman crede nella svolta in politica estera annunciata da Trump: «Il suo desiderio di relazioni migliori con la Russia è il segnale più promettente di relazioni geopolitiche americane possibilmente migliori di quelle che abbiamo adesso col partito della guerra al comando. E Hillary, suo membro di spicco in qualità di first lady, senatrice americana, segretario di Stato e due volte aspirante presidente, ora è politicamente morta: che rimanga tale!».
Un’ultima domanda: «Chi ha pagato “Change.org” per far circolare questa petizione: la Convention nazionale democratica o gli organizzatori della campagna di Hillary Clinton?».
LIBRE news
Appello eversivo ai grandi elettori: negate il voto a Trump
Scritto il 14/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
I grandi elettori non sono obbligati a convalidare per forza l’elezione popolare di Trump, il 19 dicembre: questo il “golpe parlamentare” a cui mira “Change.org”, che sull’onda delle oceaniche proteste di piazza in alcune grandi città come New York ha già ottenuto due milioni di firme per sostenere la sua petizione eversiva. Obiettivo: annullare il risultato delle elezioni e ribaltarlo, consegnando la vittoria a Hillary Clinton. «Negare a Trump l’incarico che ha ottenuto, come esorta a fare “Change.org”, rasenterebbe l’insurrezione: forse darebbe il via ad un’agitazione nazionale e allo spargimento di sangue nelle strade», scrive un osservatore indipendente come Stephen Lendman su “Global Research”, l’osservatorio canadese per i diritti politici fondato dal professor Michel Chossudovsky. La situazione è dunque pericolosissima: da un lato l’establishment sta lottando per paralizzare Trump dall’interno, imponendogli i suoi per gli incarichi-chiave, e dall’altro spinge apertamente perché sia cestinato il voto elettorale, rifiutando di riconoscere la vittoria di Trump, cioè della democrazia. A rischio la tenuta del sistema civile, negli Usa?«“Change.org” è un’impresa a scopo di lucro, non una Ong, e svia i suoi sostenitori usando il dominio “org” invece di quello “com”, come dovrebbe fare», scrive Lendman nella sua analisi, tradotta e ripresa da “Come Don Chisciotte”. Questa organizzazione tutt’altro che trasparente «fa affari facendo firmare petizioni alle persone, vendendo nel contempo spazi pubblicitari e dati personali per incrementare i profitti». E ora ha già raccolto quasi due milioni di firmatari, che chiedono al collegio elettorale americano «di far diventare presidentessa la dea della guerra, truffatrice e spergiura Hillary, annullando l’elezione di Trump». Continua Lendman: «La democrazia in America è pura fantasia, e “Change.org” vuole danneggiarla più di quanto non sia già danneggiata». Ecco quello che chiede: “Il 19 dicembre gli elettori del collegio elettorale esprimeranno le loro preferenze, e se voteranno tutti nel modo in cui hanno votato gli Sstati che rappresentano, Donald Trump vincerà. Tuttavia – aggiunge il testo – possono votare per Hillary, se vogliono: perfino negli Stati in cui questo non è permesso, il loro voto verrebbe comunque contato». I trasgressori “pagherebbero semplicemente una piccola sanzione, sanzione che i sostenitori della Clinton saranno sicuramente lieti di pagare!”.Per cui, “Change.org” chiede ai grandi elettori di “ignorare i voti dei loro Stati ed esprimere la loro preferenza per il Segretario Clinton”. La falsa Ong «dice che Trump non è adatto a fare il presidente, al contrario di Hillary, citando una vasta gamma ragioni espresse dalla propaganda anti-Trump». Lendman cita, al riguardo, la “National Archives and Records Administration”: durante la storia degli Stati Uniti, “più del 99% degli elettori ha votato come promesso”, ovvero per il vincitore del voto popolare negli Stati che rappresentano. “Non ci sono clausole costituzionali o leggi federali che chiedono agli elettori di votare in accordo col voto popolare, solo alcuni Stati hanno richieste simili”. Di fatto, però, solo il Nebraska e il Maine non seguono la regola “il vincente si prende tutto”. «Se nessun candidato riceve la maggioranza dei voti degli elettori – precisa Lendman – i membri della Camera dei Rappresentanti scelgono il presidente fra i tre candidati che hanno ricevuto più voti, e in questo caso ogni Stato ottiene un voto». E oggi, sbarrare a Trump la via della Casa Bianca significherebbe gettare l’America nel caos, sull’orlo di un’insurrezione fuori controllo.«Trump non sarà un presidente del popolo», secondo Lendman, anche perché «nessuno dei precedenti leader della storia americana lo è stato: non lo sono stati né Washington, né Jefferson, né Lincoln, né i due Roosevelt; solo John F. Kennedy ci è andato vicino, ma è stato assassinato dalla Cia per aver fatto la cosa giusta». Per Lendam, comunque, chi punta sulla sedizione sarà sconfitto: «Trump si insedierà il 20 gennaio come 45° presidente degli Stati Uniti». Non sarà il miglior presidente possibile, ma intanto «ha salvato il mondo dal possibile flagello di una guerra nucleare», conflitto suicida «che Hillary avrebbe scatenato nel caso lo avesse sconfitto». Lendman crede nella svolta in politica estera annunciata da Trump: «Il suo desiderio di relazioni migliori con la Russia è il segnale più promettente di relazioni geopolitiche americane possibilmente migliori di quelle che abbiamo adesso col partito della guerra al comando. E Hillary, suo membro di spicco in qualità di first lady, senatrice americana, segretario di Stato e due volte aspirante presidente, ora è politicamente morta: che rimanga tale!».
Un’ultima domanda: «Chi ha pagato “Change.org” per far circolare questa petizione: la Convention nazionale democratica o gli organizzatori della campagna di Hillary Clinton?».
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Re: Dove va l'America?
IL MALESSERE CHE ATTANAGLIA IL MONDO, OGGI, STA ESPLODENDO NEGLI USA.
NOI SIAMO ALLA FINESTRA ED ASSISTIAMO AD UN KRIMINAL TANGO, CHE PRIMA O POI INTERESSERA' ANCHE NOI, PERCHE' LE ATTUALI ELITE EUROPEE SONO STATE MESSE LI DA CHI DIRIGE L'ORCHESTRA OLTRE ATLANTICO.
LIBRE news
Proteste al soldo dell’1%, per deporre Trump (o ucciderlo)
Scritto il 14/11/16 • nella Categoria: idee Condividi
Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo.
Milioni di americani in piazza contro di lui?
Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto.
I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente?
Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità.
Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media.
Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali.
Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine».
E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.
Per Craig Roberts, la colossale manipolazione in corso per tentare di “scippare” a Trump la vittoria è pericolosa, perché mina la tenuta democratica degli Stati Uniti – paese su cui pesano ombre gigantesche, dal coinvolgimento di settori dell’intelligence negli omicidi eccellenti della storia (i Kennedy, Martin Luther King) alle “inspiegabili” falle nella sicurezza in occasione di tutti i grandi attentati, dall’11 Settembre in poi.
Tradotto: Donald Trump – chiunque sia davvero, politicamente – non può non sapere di essere in serio pericolo: potrebbe essere travolto dalle proteste o ricattato dagli organizzatori della “rivolta”, affinché accetti di “prendere a bordo” gli uomini-chiave di Hillary.
E’ per loro, in ogni caso, che i manifestanti anti-Trump lavorano: alla guida della rivolta ci sono «teppisti prezzolati, pagati dall’oligarchia», proprio come «Washington e il German Marshall Fund pagarono gli studenti di Kiev per contestare il governo ucraino democraticamente eletto al fine di preparare il colpo di Stato».
L’organizzazione “Change.org”, secondo Craig Roberts «sta distruggendo la reputazione di tutti i progressisti facendo circolare una petizione per chiedere all’Electoral College di annullare le elezioni».
Tutto già visto nel 2014 a Kiev, dove «la paga era abbastanza buona da attirare persone che non erano nemmeno ucraine ma erano pagate per protestare come se lo fossero».
Ci risiamo? Per la “Cnn”, moltissimi americani rifiutano di accettare la vittoria di Trump, e così hanno riempito le strade in non meno di 25 città statunitensi, dall’oggi al domani.
«Spero che nessuno creda veramente che proteste simultanee in 25 città siano un evento spontaneo», sottolinea Craig Roberts nel suo blog, in un post ripreso da “Megachip”.
«Gli stessi slogan e gli stessi simboli, la notte stessa dopo le elezioni? Quali interessi stanno servendo?
E, come sempre si chiedevano gli antichi romani, “cui prodest”?
C’è solo una risposta: l’oligarchia e solo l’oligarchia ne trae beneficio».
La lettura di Roberts: «Trump è una minaccia per l’oligarchia, perché intende fermare la svendita all’estero dei posti di lavoro americani.
Questa svendita, santificata come “libero mercato” dagli economisti-spazzatura neoliberisti, è una delle ragioni principali del peggioramento nel XXI secolo della distribuzione del reddito negli Usa».
In altre parole, «i soldi che erano pagati come salario e stipendi per la classe media a impiegati dell’industria manifatturiera americana e ai diplomati, sono stati dirottati nelle tasche dell’Uno Percento.
Quando le corporation americane spostano la loro produzione di merci e servizi venduti agli americani, nei paesi asiatici come la Cina e l’India, il loro costo in stipendi crolla.
I soldi prima pagati come reddito per la classe media diventano invece bonus per gli executive, dividendi e profitti sui capitali per gli azionisti».
Risultato: «La scala per la mobilità verso l’alto che ha fatto dell’America la terra delle opportunità è stata smantellata per il solo obiettivo di rendere multimiliardaria una manciata di persone».
Inotre, Trump è «una minaccia per l’oligarchia», anche perché «vuole relazioni pacifiche con la Russia».
Tutto si spiega: «Per rimpiazzare la tanto profittevole “minaccia sovietica”, l’oligarchia e i loro agenti neocon hanno lavorato incessantemente per creare la “minaccia russa” demonizzando la Russia».
Craig Roberts sa di cosa parla: era al governo con Reagan, di cui è stato viceministro del Tesoro.
«Abituato a molti decenni di profitti in eccesso dalla profittevole Guerra Fredda, il complesso militare-securitario si arrabbiò quando il presidente Reagan mise fine alla Guerra Fredda.
Prima che queste idrovore di contribuenti americani riuscissero a prolungare la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica collassò come risultato del colpo di Stato della destra contro il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov».
Al che, continua Craig Roberts, «il complesso militare-securitario e i suoi agenti neocon e sionisti cucinarono allora la “guerra al terrore” per continuare a far fluire i soldi all’Uno Percento.
Ma per quanto duramente lavorassero i media “presstitute” per creare la paura del “pericolo musulmano”, persino gli americani indifferenti sapevano che i musulmani non possiedono migliaia di missili intercontinentali con testate termonucleari capaci di distruggere gli interi Stati Uniti in pochi minuti».
Non ce l’avevano, i musulmani, «l’Armata Rossa capace di invadere l’Europa in un paio di giorni».
Di fatto, i musulmani non avevano neppure bisogno di armate: «I rifugiati dalle guerre scatenate da Washington stanno invadendo l’Europa».
Caduta l’Urss, comunque, «la scusa per il trilione di dollari annuale per il complesso militare-industriale non c’era più.
Così l’oligarchia creò il “nuovo Hitler” in Russia.
Hillary fu il principale agente dell’oligarchia per surriscaldare la nuova Guerra Fredda.
Hillary è lo strumento, arricchito dall’oligarchia, il cui lavoro da presidente sarebbe stato quello di proteggere e aumentare il budget da un trilione di dollari al complesso militare-securitario.
Con Hillary alla Casa Bianca, il saccheggio dei contribuenti americani, in nome dell’opulenza dell’Uno Percento, sarebbe andato avanti senza ostacoli.
Ma se Trump mette fine alla “minaccia russa”, la rendita dell’oligarchia si prende un bel colpo».
Inoltre, le proteste contro Trump sono sospette anche per un altro motivo: «Al contrario di Hillary, Obama e George W. Bush, Donald Trump non ha fatto a pezzi e disperso milioni di persone in sette nazioni, mandando milioni di rifugiati delle guerre dell’oligarchia a invadere l’Europa».
Trump ha fatto fortuna «senza vendere l’influenza del governo degli Usa ad agenti stranieri, come invece hanno fatto Bill e Hillary».
E allora, perché stanno protestando i contestatori? «Sono stati ingaggiati per protestare.
Così come i contestatori di Maidan a Kiev erano ingaggiati per protestare dalle Ong finanziate dagli Usa e dalla Germania».
In Ucraina, gli Usa riuscirono a infiltrare i loro agenti nel nuovo governo ucraino, così come ha confermato Victoria Nuland, una neocon piazzata al Dipartimento di Stato da Hillary Clinton col proposito di creare un conflitto con la Russia.
Dunque, conclude Paul Craig Roberts, l’esplosione della protesta anti-Trump dimostra che l’oligarchia lo teme davvero, anche se «alcuni pensano che Trump sia uno stratagemma dell’oligarchia».
Non ha senso: visto l’investimento su Hillary, per gli oligarchi era preferibile «vincere con la propria piattaforma», anziché «installare un presidente con una piattaforma opposta e poi cercare di rivoltarselo», anche perché «un’altra svendita aumenterebbe la rabbia del popolo».
La dura verità, però, è che «Trump ha vinto la presidenza, ma l’oligarchia è ancora al potere», e questo «rende difficile ogni riforma».
Aggiunge Craig Roberts: Marx comprese dall’esperienza storica un drammatico insegnamento che poi Lenin e Stalin impararono da lui.
E cioè: «Il cambiamento non può avere successo se la classe dirigente scalzata è lasciata intatta dopo una rivoluzione contro di essa».
Lo dimostra il Sud America: «Ogni rivoluzione degli indigeni ha lasciato senza fastidi la classe dirigente, e ogni rivoluzione è stata sconfitta dalla collusione tra la classe dirigente e Washington», che «ha cospirato con le élite tradizionali per rimuovere i presidenti eletti», come accaduto in Honduras «moltissime volte».
Di recente, Washington «ha aiutato le élite a rimuovere le presidentesse dell’Argentina e del Brasile».
I presidenti del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia «sono a mezz’aria e probabilmente non sopravvivranno».
In più, l’oligarchia «è determinata a mettere le mani su Julian Assange», il fondatore di Wikileaks.
«A tal fine Washington intende abbattere il governo dell’Ecuador che, a scorno di Washington, ha dato a Julian Assange asilo politico».
Ancora più cruento lo scontro in Venezuela, dove – secondo Craig Roberts – il presidente socialista Hugo Chavez è stato addirittura assassinato.
Il suo errore? Aver graziato i golpisti che avevano cospirato contro di lui.
«Secondo Marx, Lenin e Stalin, questo è il classico errore per un rivoluzionario: contare sulla buona volontà da parte della classe dirigente scalzata è il modo più sicuro per lasciar sconfiggere la rivoluzione».
Secondo Craig Roberts, l’America Latina si è dimostrata incapace di capire questa lezione: le rivoluzioni non possono essere concilianti.
Donald Trump? «E’ un uomo d’affari.
L’oligarchia gli può permettere l’aura del successo in cambio di nessun cambiamento reale».
Intendiamoci: «Trump non è perfetto. Potrebbe fallire da solo.
Ma noi lo sosterremo sui suoi due punti del suo programma più importanti: ridurre le tensioni tra le due maggiori potenze nucleari e bloccare la politica di Washington che permette al globalismo di distruggere le prospettive economiche degli americani», insiste Craig Roberts.
«La combinazione di un’economia svuotata dal globalismo ed immigrazione è un incubo.
Che Trump lo abbia capito è una ragione per sostenerlo».
E per temere per la sua incolumità: «Una volta che il presidente Trump sarà delegittimato, sarà facile per l’oligarchia assassinarlo, a meno che l’oligarchia possa nominare e controllare il suo governo».
Per ora, comunque, «Trump è il primo candidato per un assassinio».
NOI SIAMO ALLA FINESTRA ED ASSISTIAMO AD UN KRIMINAL TANGO, CHE PRIMA O POI INTERESSERA' ANCHE NOI, PERCHE' LE ATTUALI ELITE EUROPEE SONO STATE MESSE LI DA CHI DIRIGE L'ORCHESTRA OLTRE ATLANTICO.
LIBRE news
Proteste al soldo dell’1%, per deporre Trump (o ucciderlo)
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Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo.
Milioni di americani in piazza contro di lui?
Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto.
I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente?
Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità.
Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media.
Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali.
Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine».
E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.
Per Craig Roberts, la colossale manipolazione in corso per tentare di “scippare” a Trump la vittoria è pericolosa, perché mina la tenuta democratica degli Stati Uniti – paese su cui pesano ombre gigantesche, dal coinvolgimento di settori dell’intelligence negli omicidi eccellenti della storia (i Kennedy, Martin Luther King) alle “inspiegabili” falle nella sicurezza in occasione di tutti i grandi attentati, dall’11 Settembre in poi.
Tradotto: Donald Trump – chiunque sia davvero, politicamente – non può non sapere di essere in serio pericolo: potrebbe essere travolto dalle proteste o ricattato dagli organizzatori della “rivolta”, affinché accetti di “prendere a bordo” gli uomini-chiave di Hillary.
E’ per loro, in ogni caso, che i manifestanti anti-Trump lavorano: alla guida della rivolta ci sono «teppisti prezzolati, pagati dall’oligarchia», proprio come «Washington e il German Marshall Fund pagarono gli studenti di Kiev per contestare il governo ucraino democraticamente eletto al fine di preparare il colpo di Stato».
L’organizzazione “Change.org”, secondo Craig Roberts «sta distruggendo la reputazione di tutti i progressisti facendo circolare una petizione per chiedere all’Electoral College di annullare le elezioni».
Tutto già visto nel 2014 a Kiev, dove «la paga era abbastanza buona da attirare persone che non erano nemmeno ucraine ma erano pagate per protestare come se lo fossero».
Ci risiamo? Per la “Cnn”, moltissimi americani rifiutano di accettare la vittoria di Trump, e così hanno riempito le strade in non meno di 25 città statunitensi, dall’oggi al domani.
«Spero che nessuno creda veramente che proteste simultanee in 25 città siano un evento spontaneo», sottolinea Craig Roberts nel suo blog, in un post ripreso da “Megachip”.
«Gli stessi slogan e gli stessi simboli, la notte stessa dopo le elezioni? Quali interessi stanno servendo?
E, come sempre si chiedevano gli antichi romani, “cui prodest”?
C’è solo una risposta: l’oligarchia e solo l’oligarchia ne trae beneficio».
La lettura di Roberts: «Trump è una minaccia per l’oligarchia, perché intende fermare la svendita all’estero dei posti di lavoro americani.
Questa svendita, santificata come “libero mercato” dagli economisti-spazzatura neoliberisti, è una delle ragioni principali del peggioramento nel XXI secolo della distribuzione del reddito negli Usa».
In altre parole, «i soldi che erano pagati come salario e stipendi per la classe media a impiegati dell’industria manifatturiera americana e ai diplomati, sono stati dirottati nelle tasche dell’Uno Percento.
Quando le corporation americane spostano la loro produzione di merci e servizi venduti agli americani, nei paesi asiatici come la Cina e l’India, il loro costo in stipendi crolla.
I soldi prima pagati come reddito per la classe media diventano invece bonus per gli executive, dividendi e profitti sui capitali per gli azionisti».
Risultato: «La scala per la mobilità verso l’alto che ha fatto dell’America la terra delle opportunità è stata smantellata per il solo obiettivo di rendere multimiliardaria una manciata di persone».
Inotre, Trump è «una minaccia per l’oligarchia», anche perché «vuole relazioni pacifiche con la Russia».
Tutto si spiega: «Per rimpiazzare la tanto profittevole “minaccia sovietica”, l’oligarchia e i loro agenti neocon hanno lavorato incessantemente per creare la “minaccia russa” demonizzando la Russia».
Craig Roberts sa di cosa parla: era al governo con Reagan, di cui è stato viceministro del Tesoro.
«Abituato a molti decenni di profitti in eccesso dalla profittevole Guerra Fredda, il complesso militare-securitario si arrabbiò quando il presidente Reagan mise fine alla Guerra Fredda.
Prima che queste idrovore di contribuenti americani riuscissero a prolungare la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica collassò come risultato del colpo di Stato della destra contro il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov».
Al che, continua Craig Roberts, «il complesso militare-securitario e i suoi agenti neocon e sionisti cucinarono allora la “guerra al terrore” per continuare a far fluire i soldi all’Uno Percento.
Ma per quanto duramente lavorassero i media “presstitute” per creare la paura del “pericolo musulmano”, persino gli americani indifferenti sapevano che i musulmani non possiedono migliaia di missili intercontinentali con testate termonucleari capaci di distruggere gli interi Stati Uniti in pochi minuti».
Non ce l’avevano, i musulmani, «l’Armata Rossa capace di invadere l’Europa in un paio di giorni».
Di fatto, i musulmani non avevano neppure bisogno di armate: «I rifugiati dalle guerre scatenate da Washington stanno invadendo l’Europa».
Caduta l’Urss, comunque, «la scusa per il trilione di dollari annuale per il complesso militare-industriale non c’era più.
Così l’oligarchia creò il “nuovo Hitler” in Russia.
Hillary fu il principale agente dell’oligarchia per surriscaldare la nuova Guerra Fredda.
Hillary è lo strumento, arricchito dall’oligarchia, il cui lavoro da presidente sarebbe stato quello di proteggere e aumentare il budget da un trilione di dollari al complesso militare-securitario.
Con Hillary alla Casa Bianca, il saccheggio dei contribuenti americani, in nome dell’opulenza dell’Uno Percento, sarebbe andato avanti senza ostacoli.
Ma se Trump mette fine alla “minaccia russa”, la rendita dell’oligarchia si prende un bel colpo».
Inoltre, le proteste contro Trump sono sospette anche per un altro motivo: «Al contrario di Hillary, Obama e George W. Bush, Donald Trump non ha fatto a pezzi e disperso milioni di persone in sette nazioni, mandando milioni di rifugiati delle guerre dell’oligarchia a invadere l’Europa».
Trump ha fatto fortuna «senza vendere l’influenza del governo degli Usa ad agenti stranieri, come invece hanno fatto Bill e Hillary».
E allora, perché stanno protestando i contestatori? «Sono stati ingaggiati per protestare.
Così come i contestatori di Maidan a Kiev erano ingaggiati per protestare dalle Ong finanziate dagli Usa e dalla Germania».
In Ucraina, gli Usa riuscirono a infiltrare i loro agenti nel nuovo governo ucraino, così come ha confermato Victoria Nuland, una neocon piazzata al Dipartimento di Stato da Hillary Clinton col proposito di creare un conflitto con la Russia.
Dunque, conclude Paul Craig Roberts, l’esplosione della protesta anti-Trump dimostra che l’oligarchia lo teme davvero, anche se «alcuni pensano che Trump sia uno stratagemma dell’oligarchia».
Non ha senso: visto l’investimento su Hillary, per gli oligarchi era preferibile «vincere con la propria piattaforma», anziché «installare un presidente con una piattaforma opposta e poi cercare di rivoltarselo», anche perché «un’altra svendita aumenterebbe la rabbia del popolo».
La dura verità, però, è che «Trump ha vinto la presidenza, ma l’oligarchia è ancora al potere», e questo «rende difficile ogni riforma».
Aggiunge Craig Roberts: Marx comprese dall’esperienza storica un drammatico insegnamento che poi Lenin e Stalin impararono da lui.
E cioè: «Il cambiamento non può avere successo se la classe dirigente scalzata è lasciata intatta dopo una rivoluzione contro di essa».
Lo dimostra il Sud America: «Ogni rivoluzione degli indigeni ha lasciato senza fastidi la classe dirigente, e ogni rivoluzione è stata sconfitta dalla collusione tra la classe dirigente e Washington», che «ha cospirato con le élite tradizionali per rimuovere i presidenti eletti», come accaduto in Honduras «moltissime volte».
Di recente, Washington «ha aiutato le élite a rimuovere le presidentesse dell’Argentina e del Brasile».
I presidenti del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia «sono a mezz’aria e probabilmente non sopravvivranno».
In più, l’oligarchia «è determinata a mettere le mani su Julian Assange», il fondatore di Wikileaks.
«A tal fine Washington intende abbattere il governo dell’Ecuador che, a scorno di Washington, ha dato a Julian Assange asilo politico».
Ancora più cruento lo scontro in Venezuela, dove – secondo Craig Roberts – il presidente socialista Hugo Chavez è stato addirittura assassinato.
Il suo errore? Aver graziato i golpisti che avevano cospirato contro di lui.
«Secondo Marx, Lenin e Stalin, questo è il classico errore per un rivoluzionario: contare sulla buona volontà da parte della classe dirigente scalzata è il modo più sicuro per lasciar sconfiggere la rivoluzione».
Secondo Craig Roberts, l’America Latina si è dimostrata incapace di capire questa lezione: le rivoluzioni non possono essere concilianti.
Donald Trump? «E’ un uomo d’affari.
L’oligarchia gli può permettere l’aura del successo in cambio di nessun cambiamento reale».
Intendiamoci: «Trump non è perfetto. Potrebbe fallire da solo.
Ma noi lo sosterremo sui suoi due punti del suo programma più importanti: ridurre le tensioni tra le due maggiori potenze nucleari e bloccare la politica di Washington che permette al globalismo di distruggere le prospettive economiche degli americani», insiste Craig Roberts.
«La combinazione di un’economia svuotata dal globalismo ed immigrazione è un incubo.
Che Trump lo abbia capito è una ragione per sostenerlo».
E per temere per la sua incolumità: «Una volta che il presidente Trump sarà delegittimato, sarà facile per l’oligarchia assassinarlo, a meno che l’oligarchia possa nominare e controllare il suo governo».
Per ora, comunque, «Trump è il primo candidato per un assassinio».
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Re: Dove va l'America?
LIBRE news
Nuovo 11 Settembre, prima che Trump possa insediarsi?
Scritto il 16/11/16 • nella Categoria: idee Condividi
Nuovo 11 Settembre, se Trump non cede ai neocon? Già all’indomani del voto americano, a lanciare l’allarme è Massimo Mazzucco, autore di clamorosi documentari sugli opachi retroscena degli attentati contro le Twin Towers. Il pericolo, oggi? Evidente: l’oligarchia al potere ha perso la sua pedina di fiducia, Hillary Clinton, ma in compenso può contare su una maggioranza parlamentare “bulgara” dei repubblicani, tra cui si annidano molti insidiosi neocon, mentre Obama è sulla via del congedo e Donald Trump non controlla ancora le leve del comando. Due mesi ad alto rischio, per Mazzucco, da qui all’insediamento ufficiale, il 20 gennaio 2017. Riuscirà ad arrivarci, Trump? O invece la situazione precipiterà del caos, grazie all’ennesimo “provvidenziale” maxi-attentato, destinato a rimettere in sella gli uomini del potere-ombra che controlla e manipola la sicurezza? La minaccia è reale, insiste Mazzucco, anche perché il Deep State – Washington e Wall Street, Pentagono e intelligence – ha capito inequivocabilmente che l’americano medio è in rivolta: votando Trump e licenziando Hillary, ha voluto bocciare i santuari del potere imperiale, militare e finanziario.«Quando vinse Barack Obama scrivemmo che il segnale primario di quell’elezione era che l’America fosse finalmente pronta ad eleggere un nero alla Casa Bianca», ricorda Mazzucco sul blog “Luogo Comune”. Sembrava «un grande passo evolutivo, nella breve storia di questa nazione, indipendentemente da ciò che poi il nuovo presidente sarebbe o non sarebbe riuscito a fare». Otto anni dopo, la situazione è perfettamente speculare: «La vittoria odierna di Trump può essere letta con gli stessi parametri: ci dice sostanzialmente che l’America di oggi si ribella ad un sistema politico ormai palesemente marcio, indipendentemente da quello che poi farà o non farà Donald Trump dall’ufficio ovale della Casa Bianca». Quella di oggi, infatti, «non è tanto una vittoria di Trump, quanto piuttosto la sconfitta di un enorme apparato di gestione del potere, il cui strumento principale sono in media asserviti, e il cui scopo ultimo è quello di permettere ad una oligarchia di controllare un’intera nazione tramite il velo ingannevole della “democrazia”». Tutto questo «sembra vacillare di fronte ad una reazione di tipo istintivo e irrazionale nella parte più “ignorante”», il famoso “contadino dell’Oklahoma”, «che ha capito con la pancia che il sistema lo stava ingannando, e sempre con la pancia ha scelto di combatterlo con l’unica arma che aveva a disposizione: il candidato “antisistema”».Questo risultato travolgente, continua Mazzucco, è stato paradossalmente aiutato da una candidata, Hillary Clinton, che «è riuscita a concentrare sulla propria persona tutto il peggio dell’attuale sistema politico: corruzione, arroganza, prevaricazione, menzogna reiterata, prepotenza e collusione», il tutto «perpetrato pacchianamente alla luce del sole». Chiarita la psicologia dell’elettore, resta oscura l’altra faccia dell’America: già si sapeva che, nel caso di una vittoria di Trump, «il sistema politico si sarebbe immediatamente messo in moto per cercare di metabolizzalo e farlo diventare uno di loro. Già ci sono riusciti in parte, mettendogli accanto il fintamente pacato Mike Pence». E se questo non dovesse bastare, aggiunge Mazzucco, «potete stare certi che entro pochi mesi (e probabilmente prima ancora dell’insediamento effettivo del 20 gennaio) l’America si troverà a fronteggiare un evento di tipo “terroristico” molto simile a quello dell’11 Settembre». Per eventuali “golpisti”, infatti, l’occasione sembra favorevole: abbiamo davanti «due mesi di assoluto vuoto politico».Da qui in avanti, «Obama non ha più nemmeno l’autorità per incollare un francobollo, mentre lo stesso Parlamento si prepara a cedere la maggioranza assoluta al partito repubblicano». E con una “supermajority” come questa, c’è poco da scherzare: i repubblicani controllano contemporaneamente la presidenza e i due bracci del Parlamento, quindi possono far passare speditamente tutte le leggi che vogliono, senza dover temere una reale resistenza da parte dell’opposizione. «Non saranno certo i neoconservatori del complesso militare-industriale a farsi sfuggire l’occasione per lanciare definitivamente il loro sogno di “nuovo secolo americano” già dall’alba del 21 di gennaio prossimo». Gli uomini del Pnac, il disegno di supremazia imperiale a suon di bombe, emersero attorno a George W. Bush – Paul Wolfowitz, Donald Rumsfeld, Condoleezza Rice, Dick Cheney – ma non sono affatto scomparsi. «Teneteli d’occhio da vicino, i vari Bolton, Cheney, Rowe e tutti gli altri della vecchia guardia neocons, perchè qualunque cosa esca dalle loro bocche nelle prossime ore – profetizza Mazzucco – sarà destinato ad avverarsi, probabilmente in tempi molto brevi».
Nuovo 11 Settembre, prima che Trump possa insediarsi?
Scritto il 16/11/16 • nella Categoria: idee Condividi
Nuovo 11 Settembre, se Trump non cede ai neocon? Già all’indomani del voto americano, a lanciare l’allarme è Massimo Mazzucco, autore di clamorosi documentari sugli opachi retroscena degli attentati contro le Twin Towers. Il pericolo, oggi? Evidente: l’oligarchia al potere ha perso la sua pedina di fiducia, Hillary Clinton, ma in compenso può contare su una maggioranza parlamentare “bulgara” dei repubblicani, tra cui si annidano molti insidiosi neocon, mentre Obama è sulla via del congedo e Donald Trump non controlla ancora le leve del comando. Due mesi ad alto rischio, per Mazzucco, da qui all’insediamento ufficiale, il 20 gennaio 2017. Riuscirà ad arrivarci, Trump? O invece la situazione precipiterà del caos, grazie all’ennesimo “provvidenziale” maxi-attentato, destinato a rimettere in sella gli uomini del potere-ombra che controlla e manipola la sicurezza? La minaccia è reale, insiste Mazzucco, anche perché il Deep State – Washington e Wall Street, Pentagono e intelligence – ha capito inequivocabilmente che l’americano medio è in rivolta: votando Trump e licenziando Hillary, ha voluto bocciare i santuari del potere imperiale, militare e finanziario.«Quando vinse Barack Obama scrivemmo che il segnale primario di quell’elezione era che l’America fosse finalmente pronta ad eleggere un nero alla Casa Bianca», ricorda Mazzucco sul blog “Luogo Comune”. Sembrava «un grande passo evolutivo, nella breve storia di questa nazione, indipendentemente da ciò che poi il nuovo presidente sarebbe o non sarebbe riuscito a fare». Otto anni dopo, la situazione è perfettamente speculare: «La vittoria odierna di Trump può essere letta con gli stessi parametri: ci dice sostanzialmente che l’America di oggi si ribella ad un sistema politico ormai palesemente marcio, indipendentemente da quello che poi farà o non farà Donald Trump dall’ufficio ovale della Casa Bianca». Quella di oggi, infatti, «non è tanto una vittoria di Trump, quanto piuttosto la sconfitta di un enorme apparato di gestione del potere, il cui strumento principale sono in media asserviti, e il cui scopo ultimo è quello di permettere ad una oligarchia di controllare un’intera nazione tramite il velo ingannevole della “democrazia”». Tutto questo «sembra vacillare di fronte ad una reazione di tipo istintivo e irrazionale nella parte più “ignorante”», il famoso “contadino dell’Oklahoma”, «che ha capito con la pancia che il sistema lo stava ingannando, e sempre con la pancia ha scelto di combatterlo con l’unica arma che aveva a disposizione: il candidato “antisistema”».Questo risultato travolgente, continua Mazzucco, è stato paradossalmente aiutato da una candidata, Hillary Clinton, che «è riuscita a concentrare sulla propria persona tutto il peggio dell’attuale sistema politico: corruzione, arroganza, prevaricazione, menzogna reiterata, prepotenza e collusione», il tutto «perpetrato pacchianamente alla luce del sole». Chiarita la psicologia dell’elettore, resta oscura l’altra faccia dell’America: già si sapeva che, nel caso di una vittoria di Trump, «il sistema politico si sarebbe immediatamente messo in moto per cercare di metabolizzalo e farlo diventare uno di loro. Già ci sono riusciti in parte, mettendogli accanto il fintamente pacato Mike Pence». E se questo non dovesse bastare, aggiunge Mazzucco, «potete stare certi che entro pochi mesi (e probabilmente prima ancora dell’insediamento effettivo del 20 gennaio) l’America si troverà a fronteggiare un evento di tipo “terroristico” molto simile a quello dell’11 Settembre». Per eventuali “golpisti”, infatti, l’occasione sembra favorevole: abbiamo davanti «due mesi di assoluto vuoto politico».Da qui in avanti, «Obama non ha più nemmeno l’autorità per incollare un francobollo, mentre lo stesso Parlamento si prepara a cedere la maggioranza assoluta al partito repubblicano». E con una “supermajority” come questa, c’è poco da scherzare: i repubblicani controllano contemporaneamente la presidenza e i due bracci del Parlamento, quindi possono far passare speditamente tutte le leggi che vogliono, senza dover temere una reale resistenza da parte dell’opposizione. «Non saranno certo i neoconservatori del complesso militare-industriale a farsi sfuggire l’occasione per lanciare definitivamente il loro sogno di “nuovo secolo americano” già dall’alba del 21 di gennaio prossimo». Gli uomini del Pnac, il disegno di supremazia imperiale a suon di bombe, emersero attorno a George W. Bush – Paul Wolfowitz, Donald Rumsfeld, Condoleezza Rice, Dick Cheney – ma non sono affatto scomparsi. «Teneteli d’occhio da vicino, i vari Bolton, Cheney, Rowe e tutti gli altri della vecchia guardia neocons, perchè qualunque cosa esca dalle loro bocche nelle prossime ore – profetizza Mazzucco – sarà destinato ad avverarsi, probabilmente in tempi molto brevi».
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