Economia italiana: le contraddizione del 2015
– di Andrea Fumagalli e Roberto Romano
L’anno 2015 si è chiuso tra le roboanti dichiarazioni del premier Renzi sul buono stato di salute dell’economia italiana. Non si perde occasione ed evento mondano (l’apertura di un nuovo tratto autostradale, la ristrutturazione di alcune domus a Pompei, la collocazione del titolo Ferrari in borsa a Milano, la conferenza stampa di fine d’anno…) per affermare che la ripresa economica è partita, che la disoccupazione è in calo e l’occupazione in crescita. Ma le cose stanno veramente così? L’economa italiana soffre di parecchie malattie strutturali: la precarietà, l’assenza di managerialità nelle imprese, la scarsa propensione all’innovazione, la dipendenza dai poteri tecnologici e finanziari esteri, l’arretratezza del capitalismo familiare nostrano e del sistema di welfare. Eppure, nessuno di questi nodi viene affrontato. Non sarà con la retorica propagandista di governo che si riuscirà a venirne a capo.
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Due notizie economiche di diversa fonte hanno caratterizzato gli ultimi giorni del 2015.
Il Center for Economics Business and Research (Gran Bretagna) ha affermato che l’Italia uscirà dall’élite dei Paesi industrializzati (G8) ().
Piazza Affari si avvia a chiudere il 2015 aggiudicandosi il titolo di listino azionario migliore tra le borse europee principali. Il Ftse Mib ha guadagnato il +13% circa, rispetto a +9% di Francoforte e Parigi e il +4,5% circa dell’indice di riferimento dell’azionario europeo, Euro Stoxx, che ha fatto +4,4% ().
Sembrano notizie tra loro contradditorie ma non lo sono. Cerchiamo di spiegare il perché, partendo dalla constatazione iniziale che si tratta comunque, come al solito, di informazioni incomplete e distorte.
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Partiamo dalla prima notizia. Il primo ministro Renzi, nella conferenza stampa di fine d’anno, fa sfoggio dei risultati economici che il governo ha ottenuto nel 2015, alla faccia dei supposti gufi, come oramai in modo reiterato chiama coloro che non si allineano alla sua demagogica retorica: Pil in crescita dello 0.8%, l’occupazione in aumenta di 300.000 unità di lavoro (200.000 secondo Confindustria e, comunque, senza dire che per il 90% si tratta di contratti precari: Il Sole 24 ore riporta che l’incremento delle assunzione con contratto a tempo indeterminato puro è pari nel periodo gennaio – settembre 2015 a 26.000 unità rispetto al periodo precedente. I contratti a tutele crescenti, anche se chiamati indeterminati, sono comunque precari…), calo delle tasse (senza mai far riferimento all’evasione fiscale), sviluppo delle infrastrutture. Dichiara Renzi: “Non solo abbiamo confermato il taglio dell’Irap e la copertura degli 80 euro, ma abbiamo anche eliminato le tasse sulla prima casa, le tasse agricole e gli 80 euro sono anche per tutte le forze dell’ordine. L’economia torna su, le tasse vanno giù”.
Mentre scivoliamo ai margini dei paesi che contano, raccontiamo al paese che stiamo risalendo.
Sono almeno 20 anni che l’Italia non riesce ad avvicinare i Paesi europei per crescita economica, produzione e intensità tecnologica degli investimenti. Lo slogan “meno tasse – più sviluppo” ha distrutto la politica economica, fiscale e compromesso lo stato sociale, senza considerare gli effetti negativi sulla crescita economica.
Renzi si guarda bene dal snocciolare i dati reali sulla struttura produttiva italiana.
Probabilmente Taddei, il responsabile economico del Pd e che dovrebbe approfondire meglio alcune analisi economiche in materia di sviluppo, specializzazione produttiva e dinamica di struttura e processi di valorizzazone, non lo ritiene glamour, anche perché sarebbe costretto ad ammettere che la recente storia economica del paese non è stata eclatante. Altro che ingegno made in Italy. Proviamo solo a mettere in fila i dati più importanti tra il 1990 e il 2014: minore crescita del PIL rispetto all’area euro per 17 punti percentuali, che diventano 23 punti nei confronti della Germania. Inoltre, la fetta più importante di minore crescita, meno 10 punti, è concentrata proprio tra il 2007-14. Nel bene e nel male tutti i governi nazionali hanno fatto peggio di quelli europei.
Tutta colpa del fiscal compact?
Non solo. Sarebbe una spiegazione parziale. L’Europa ha imposto delle politiche che hanno esacerbato le debolezze dei paesi strutturalmente più deboli, ma le politiche europee potevano essere declinate diversamente e, quindi, fare minori danni. Il
vero problema sono le deficienze della struttura produttiva italiana, soprattutto dal lato dell’offerta e una dinamica della domanda troppo contenuta a causa dei bassi e intermittenti redditi, unitamente alla crescente polarizzazione nella distribuzione degli stessi redditi.
Ci limitiamo a due aspetti principali, tra i numerosi che potrebbero essere considerati: la precarietà e la spesa in ricerca e sviluppo.
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Diversamente da quanto avvenuto nell’ambito dei maggiori paesi industrializzati, a partire dagli anni Novanta e in tempi più recenti in una significativa schiera di Paesi nord europei, l’Italia registra un deficit di efficienza.
Ma, contrariamente a quanto si possa pensare, tale situazione non deriva da una presunta rigidità del mercato del lavoro e da fattori di natura burocratica-istituzionale.
È vero che la burocrazia italiana svolge la funzione di un vincolo che contribuisce a rallentare le performance del sistema economico, anche se al contempo incentiva lo sviluppo di attività economiche informali. Paradossalmente il lavoro nero e l’elusione fiscale agiscono come strumento di compensazione, seppur in modo del tutto distorsivo, alla crescente ineguaglianza nella distribuzione del reddito.
L’inefficienza più marcata arriva dalla scarsa produttività del sistema economico italiano. Ci riferiamo in questo caso a quella produttività della cooperazione sociale insita nello sfruttamento delle economie di apprendimento e di rete che consente una specializzazione produttiva e tecnologica nei settori a più elevato valore aggiunto. Non si tratta solo di produttività materiale, piuttosto di produttività sociale, non misurabile in modo diretto in quanto tendenzialmente immateriale. Ma la cui “misura” è in qualche modo riconducibile alla dinamica delle convenzioni finanziarie che animano gli stessi mercati finanziari.
Non è la rigidità del lavoro ad essere la causa della scarsa produttività. Semmai è il suo opposto: l’eccessiva flessibilità del lavoro, il suo divenire sempre più precario, incide negativamente sull’efficienza e la produttività di una prestazione lavorativa che richiede maggior stabilità e capacità di approfondimento. I processi dinamici di apprendimento e di rete richiedono infatti continuità lavorativa e soprattutto una rete di sicurezza sociale, leggi continuità di reddito (oggi inesistente) per permettere quella flessibilità necessaria alla continua innovazione e formazione per evitare che si trasformi in precarietà.
Si apre così un circolo vizioso che innerva negativamente anche le potenzialità comunque presenti sul piano della preparazione educativa e culturale delle nuove generazioni, che vengono sempre più sacrificate. Da questo punto di vista, l’inefficienza si coniuga ad un elevato spreco della capacità valoriale insita nel lavoro cognitivo (spesso costretto a emigrare all’estero).
L’incremento della precarietà incide negativamente sulla produttività del sistema economico. Ma non solo. Poiché la precarietà spinge verso il basso i salari e poiché a minori salari corrisponde una minore produttività, il diffondersi della precarietà e, soprattutto, la sua istituzionalizzazione grazie al Jobs Act, è doppiamente perniciosa: pesa negativamente sull’ammodernamento dell’industria italiana non favorendo specializzazioni produttive a più alta intensità tecnologica e cognitiva, da un lato, e deprime la domanda di consumo, dall’altro. Il paradosso dell’Italia, pervicacemente perseguito da tutti i governi e particolarmente dal governo Renzi, sta nel fatto che chi di precarietà ferisce, di precarietà perisce: il capitalismo italiano, infatti, lungi dal tendere verso un moderno capitalismo fondato sul sapere e saper fare e, quindi, cognitivo, rimane un capitalismo familiare, reazionario e Stato-assistito.
Inoltre, tale circolo vizioso intacca anche la specializzazione tecnologica dell’Italia, con il rischio di diventare un vincolo strutturale per la bilancia commerciale.
Pensiamo alla ricerca e sviluppo. Il più delle volte utilizziamo il rapporto spesa in ricerca e sviluppo/Pil.
È un indicatore che condanna il paese all’impoverimento progressivo con il suo misero 1,1%, ma c’è di peggio. Tutti i Paesi hanno rafforzato e aumentato la spesa in ricerca e sviluppo tra il 1990 e il 2014: Germania più 10%, Spagna più 50%, UE più 13%. Il governo può dire tutto quello che vuole su cultura e ricerca, ma una crescita del 5% della spesa in R&S è fisiologicamente inutile per competere con gli altri paesi, soprattutto quando è proprio la spesa in R&S delle imprese a essere distantissima da quella delle imprese europee. Non è solo colpa loro. Alla fine producono, scarpe, maglioni, cucine, meccanica povera e assemblano beni e servizi provenienti dall’estero. In un sistema produttivo povero, con un valore aggiunto per addetto pari a un terzo di quello medio delle imprese tedesche, gli investimenti delle imprese italiane spesso si traducono in importazioni, cioè una riduzione di reddito e lavoro, ma almeno potrebbero migliorare la situazione delle produzioni “povere”. Ma nemmeno questo risultato è stato raggiunto. Mentre gli investimenti in macchinari sono cresciuti di oltre il 50% nei paesi europei tra il 1990 e il 2014, con l’avvertenza che sono positivi nella misura in cui sono realizzati nel luogo d’origine, l’Italia segna un modesto 12%, con una intensità tecnologica degli stessi identica a quella del 1987. Il mondo capitalistico (dagli Usa alla Cina) si muove sempre più verso le produzione a più alta intensità cognitiva, ovvero i settori che sono a più alto valore aggiunto. Per questo siamo già usciti dai paesi che contano e, purtroppo, stiamo uscendo anche dai paesi che meritano almeno di essere ascoltati.
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In un simile contesto, a suffragare la tesi che tutto va bene e che l’Italia potrebbe avviarsi a diventare la locomotiva d’Europa se non fosse frenata dall’insistenza tedesca e della commissione europea per l’austerity e restii a concederci quella flessibilità nei conti pubblici che meriteremmo (ma la Grecia, no), si aggiunge anche la notizia della splendida performance della borsa italiana, fresca di primato nel 2015 per la crescita dell’indice azionario FTSE MIB.
Il dato è incontrovertibile, ma come tutti i dati deve essere letto nel giusto contesto.
Se analizziamo la dinamica delle principali borse internazionali dopo che hanno raggiunto i valori più bassi in seguito prima alla crisi dei subprime e poi dei debiti sovrani europei, la performance della borsa italiana è la peggiore. Dal giugno 2012 (2068 punti), l’indice Eurostoxx50, una media ponderata delle diverse borse europee, ha cominciato una ascesa che lo ha portato al massimo di 3816 punti nell’aprile 2015 (+ 84,5%), per poi calare a 3.088 nell’ottobre 2015 (in pieno scoppio della bolla cinese) e risalire ai valori attuali di 3.450 punti. Wall Street e Tokio hanno fatto ancora meglio, recuperando completamente le perdite durante gli anni di crisi e raggiungendo nuovi massimi storici, nonostante le turbolenze internazionali e l’instabilità generata dal rallentamento economico dei paesi Brics (Cina in testa, Brasile e Russia in recessione).
Nel medesimo periodo, la borsa italiana è passata da 14.274 punti agli attuali 21.418, dopo aver toccato un massimo a luglio 2015 pari 23.538. Si tratta di un incremento del 64% che si riduce a fine anno a un più modesto + 50%, valori ben inferiori a quelli fatti registrare dalle principali borse.
L’accelerazione nel 2015 ha quindi consentito alla borsa italiana di recuperare in parte lo svantaggio accumulato negli anni precedenti; cioè ha inseguito il ciclo delle borse senza mai diventare un player internazionale.
Infine, il fatto che il picco di borsa si raggiunga nel 2015 può essere spiegato dall’effetto Expo sui titoli finanziari interessati dall’evento e quotati nella piccola borsa italiana, a vantaggio delle imprese immobiliari e della logistica. Ferrovie Nord Milano, ad esempio, aveva una quotazione a settembre 2013 pari a 0,21 euro per azione; raggiunge il suo massimo nel giugno 2015, a inizio Expo, triplicando il valore delle azoni (0,67 euro per azione). Terminato l’effetto Expo, la quotazione si riduce, rimando comunque superiore ai 50 centesimi per azione.
Si conferma così che Expo ha svolto un’azione di traino finanziario per pochi “eletti”, non per il sistema economico nazionale o lombardo. Alla fine Expo espone e non produce beni e servizi! , senza peraltro avere una positiva caduta occupazionale e un effetto sui redditi (anche perchè buona parte del lavoro utilizzato per Expo era non retribuito).
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Dulcis in fundo, vogliamo rimarcare come il 2015 abbia visto una congiuntura particolarmente favorevole per le economie europee e in particolare per l’Italia, grazie soprattutto a fattori del tutto indipendenti dalla nostra volontà. Sono fattori straordinari e non riproducibili.
In primo luogo, il calo del prezzo delle materie prime ha inciso pesantemente sulla riduzione dei costi di produzione, in secondo luogo, la generosa politica di Quantitative Easing della Bce ha iniettato liquidità in grande abbondanza, infine, il deprezzamento dell’Euro soprattutto nella prima metà dell’anno ha consentito un aumento dell’export europeo, di cui però non tutti i paesi (e l’Italia tra questi) hanno beneficiato, almeno quanto avrebbero potuto. Si tratta di tre condizioni che avrebbero dovuto favorire una ripresa economica di un qualsiasi paese economicamente strutturato.
Ma non per l’Italia, il cui tasso di crescita del Pil 2015 (se viene confermato il + 0,8%) risulterà il più basso d’Europa. Tecnicamente nel I semestre 2015 termina la recessione ma sicuramente non comincia la ripresa economica. E non ci sarà nessuna retorica politica del governo a negare l’evidenza di questi fatti.
http://effimera.org/economia-italiana-l ... to-romano/