Re: Renzi
Inviato: 13/07/2017, 16:54
REPUBBLICA ITALIANA : ULTIMO ATTO
SUICIDIO IN DIRETTA DI UN ASPIRANTE DUCE
Un libro che comprerò mai, e che non leggerò mai anche se me lo regalano.
La resa dei conti di Renzi in 'Avanti': "Io tradito da chi aiutai"
E' uscito in libreria 'Avanti', il libro dell'ex premier. Dopo le anticipazioni di vari giornali, l'Espresso l'ha letto integralmente. Ecco il Matteo segreto. Dagli attacchi a De Bortoli ai retroscena su Roberto Speranza che gli chiede di andare a Palazzo Chigi al posto di Letta: "Rilancia tu il paese andando a governare". "Ma Enrico aveva il broncio, mi consegnò solo un fogliaccio scritto a mano". Da questo brano emergono l'anima del politico e il tormento umano: «Di quei giorni ricordo gli ostaggi liberati»
DI MARCO DAMILANO
12 luglio 2017
"Diciamolo subito: questa è una storia strana...". È l'incipit di Avanti, il libro di Matteo Renzi pubblicato da Feltrinelli, da oggi in libreria, anticipato a capitoli da tutti i giornali, che L'Espresso ha letto in versione integrale. Avrebbe potuto essere lo stesso di Gabriel Garcia Marquez in "Cent'anni di solitudine": «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio...»
Il plotone di esecuzione per Renzi si materializza «un freddo pomeriggio a Palazzo Chigi», il 7 dicembre 2016, quando il protagonista alza la cornetta e chiede uno scotch. "Mi immagino i collaboratori sussurrare preoccupati: «Che fa adesso? Si butta sull'alcol?» Invece è lo scotch marrone per fare gli scatoloni. Renzi ha perso e se ne va e come in un lungo flash back parte il racconto dei mille giorni di governo.
Firenze dove «a me le cose vanno bene, anzi benone». Roberto Speranza capogruppo del Pd che nel 2014 gli chiede di andare a Palazzo Chigi al posto di Letta: «Matteo, così non andiamo da nessuna parte. Hai vinto le primarie, rilancia tu il paese, andando a governare».
La telefonata di Napolitano con l'invito a cena al Quirinale. Letta quando si era candidato anni prima alle primarie aveva preso «la miseria dell'11 per cento dei voti», ricorda Renzi, gli stessi di Civati. Però Enrico «entra in modalità broncio» perché «ci sono intere carriere costruite sul vittimismo anziché sui risultati».
Il momento solenne del passaggio di consegne: «Letta mi riceve nell'ufficio e mi consegna un foglio scritto a mano in tutta fretta, con alcuni punti appena abbozzati. È un fogliaccio che sembra la brutta copia di qualcosa. L'ho tenuto con me per mille giorni, nel cassetto alla destra della scrivania. E quando ho lasciato Palazzo Chigi me lo sono portato via, per ricordarmi sempre come non si lasciano le cose».
In 240 pagine la storia di Matteo premier. Gli amici da difendere, Boschi, Lotti, Carrai, i nemici, in testa Ferruccio de Bortoli, «non è oro quel che luccica», la rivendicazione orgogliosa della diversità: «So che sono altro, sono altrove”. Sì, ma dove? E soprattutto: in quale direzione?
Eccone un brano
di Matteo Renzi da 'Avanti' (Feltrinelli)
"Quello di cui abbiamo bisogno è portare il Pd di più in mezzo alla gente. E far sì che i cittadini si avvicinino alla politica dalla parte dei contenuti, non dalla parte degli slogan. Voglio ascoltare, certo. Ma abbiamo anche molto da raccontare. Vogliamo costruire insieme il programma, ma senza trasformare questo viaggio in una semplice campagna d’ascolto. Abbiamo un sacco di cose da dire e da condividere. E ho la stessa voglia di partire che mi accompagnava quando – scout della branca Rover/Scolte – preparavo lo zaino rileggendo puntualmente prima di ogni route una poesia bellissima di Eugenio Montale, Prima del viaggio, che inizia così: “Prima del viaggio si scrutano gli orari, / le coincidenze, le soste, le pernottazioni / e le prenotazioni” e finisce con: “E ora, che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / che è una stoltezza dirselo”.
Un imprevisto è la sola speranza. E l’imprevisto sono i rapporti umani.
Questa è la vera grande ricchezza del fare politica. Il momento più intenso, a livello emotivo, dei mille giorni è stato il 26 maggio 2014, il giorno dopo le elezioni europee del 2014. Ma non per la ragione che tutti possono immaginare. Certo, nessun partito in Italia aveva mai superato il 40% dei voti dai tempi della Democrazia cristiana di Amintore Fanfani, nel 1958: una grande responsabilità, segno di un consenso diffuso, difficile da replicare ma tutto sommato simile – anche geograficamente – a quello che avremmo riscosso in occasione del referendum.
Ma l’emozione di quel giorno deriva da un’altra vicenda, totalmente diversa.
In quel periodo, insieme all’autorità delegata ai servizi segreti, Marco Minniti, e ai dirigenti dell’intelligence, sto seguendo personalmente il recupero di un cooperante italiano che da mesi è nelle mani degli estremisti islamici. Abbiamo segnali poco chiari su quello che sta per accadere con la formazione del sedicente Stato islamico. Le truppe irachene controllano ancora Mosul, ma di lì a qualche settimana subiranno una catastrofica sconfitta. Quanti civili in fuga, quante donne violentate, quanti uomini uccisi, quante vite spezzate!
Ma prima di tutto questo, riusciamo a recuperare Federico Motka, con la consueta straordinaria gestione dell’emergenza da parte dell’unità di crisi della Farnesina. In questo genere di situazioni l’Italia eccelle per la professionalità di chi si occupa del supporto psicologico al rapito, dei rapporti con la famiglia, del recupero, della collaborazione con le agenzie d’intelligence di tutto il mondo. Si tratta, tuttavia, di un tema molto spinoso, anche nel rapporto con i nostri partner internazionali: Germania e Italia hanno una maggiore flessibilità rispetto a Gran Bretagna e Stati Uniti nella trattativa con i sequestratori, per questo le nostre iniziative possono generare tensioni con i paesi amici. Ma certe iniziative salvano vite e, a volte, non solo quelle dei rapiti.
La comunicazione della liberazione alla famiglia, una volta sicuri al cento per cento della riuscita dell’operazione, tocca a me. Marco Minniti mi dà il segnale convenuto. Alzo la cornetta e chiamo la mamma di Federico. È la prima volta che la sento di persona, ma i ragazzi dell’unità di crisi e del team dell’Agenzia per i servizi esterni le sono stati accanto quotidianamente, così come hanno fatto con le altre famiglie nelle stesse condizioni. Sono quasi le venti.
“Signora, sono Matteo Renzi. Le posso dare finalmente la notizia che aspetta da un anno: Federico in questo momento è libero. È su un nostro aereo. Lo stiamo riportando in Italia. Veniamo a prenderla, tra qualche ora lei potrà riabbracciarlo.” Non riuscirò mai, dico mai, a restituire l’emozione di una donna a cui viene ridato il proprio figlio.
Fare politica consente un solo lusso, un unico e gigantesco lusso: quello di vivere emozioni e rapporti umani inesprimibili. Di quel 26 maggio 2014, molto più dello strepitoso risultato elettorale ricordo il grido soffocato della mamma di Federico. Lo sento ancora risuonare. Come sento ancora i singhiozzi e i silenzi delle madri che non hanno avuto la possibilità di riabbracciare i loro figli. Penso a quelle che poi sono state chiamate “mamme Erasmus”, che hanno ricevuto una telefonata tremenda, dopo che le loro giovanissime figlie erano rimaste uccise in un incidente stradale spaventoso all’altezza di Tarragona. Ero insieme a loro a Barcellona, ad aspettare le salme. Puoi solo stare in silenzio, accanto al dolore di un altro. Accanto a persone che non avevi mai incontrato e che non incontrerai mai più, ma per cui oggi sei lo stato. Uno stato che si fa prossimo alle famiglie, che fa sentire la propria compassione, la propria capacità di soffrire insieme.
Questa è la dimensione umana della politica. Per me fa la differenza. Mi spinge a impegnarmi, muovermi, lavorare. Qualcuno pensa che dovrei calmarmi un po’, magari fermarmi. Ma il problema non è se sto fermo io. Il problema è se sta fermo il paese. L’Italia non può stare ferma. Nessun italiano (o quasi) vuole restare fermo. Solo i politici – non tutti per fortuna – hanno interesse a lasciare il più possibile le cose come stanno. Solo quelli che si godono le rendite di posizione preferiscono che l’Italia resti com’è. Chi vuole correre avanti, chi non si accontenta, chi ha bisogno di migliorare la sua situazione finisce ostaggio di questi interessi. Io dico no.
Per questo, anche per questo, ho scritto questo libro. Per invitare, coinvolgere, entusiasmare. Perché ho capito di essere depositario dei sogni di una parte degli italiani – e non per quello che sono io, ma per una serie di circostanze. Perché penso che un politico abbia il dovere di andare oltre i 140 caratteri di un tweet per esprimere compiutamente le proprie idee. Perché sono convinto che, anche senza violare le regole deontologiche, chi ha svolto un servizio per le istituzioni debba essere trasparente e sviscerare punto perpunto gli argomenti che hanno segnato la sua esperienza o – più banalmente – rispondere alle critiche che gli sono state rivolte.
Quello che soprattutto vorrei condividere è l’unicità dell’avventura vissuta con il gruppo di persone con cui ho lavorato negli ultimi anni. Siamo lontani anni luce dai circoli autoreferenziali, dai salotti aristocratici, dai poteri forti (che spesso sono tali solo nelle definizioni). Siamo persone semplici, senza vitalizio ma con grande vitalità. Quando leggo di alcuni colleghi che avrebbero fratelli assunti con lauti stipendi in società pubbliche, mi inorgoglisco pensando a mio fratello Samuele, che si è laureato in Medicina con il massimo dei voti e ha deciso di andarsene da Firenze, prima, e dall’Italia, poi, per non essere considerato “il fratello di”. Oggi lavora in Canada, come oncologo pediatrico, senza che nessuno possa dirgli nulla. Si è costruito tutto da solo. Non ha avuto mai una mano da parte mia. E hanno ragione i miei genitori quando dicono che è lui, Samuele, il figlio di cui vanno orgogliosi.
Hanno detto che sono l’uomo delle lobby, io che sono un boy-scout di provincia… Ancora oggi mi domando come faccia la gente a volermi ancora bene nonostante i vergognosi talk show che da tre anni dipingono di me un’immagine che alla fine non sopporto nemmeno io.
Mi dicono in tanti: Matteo, fai vedere che sei diverso da come appari. Diglielo che vuoi cambiare il tuo carattere. Ma a me non interessano le apparenze, non voglio improvvisamente giocare a fare quello simpatico, cercare di lanciare un’operazione di immagine.
Le falsità allucinanti che ti piovono addosso quando sei fuori da tutto sono come le lodi sperticate di cui ti ricoprono quando sei al potere: non tolgono e non aggiungono nulla alla verità della tua persona, alla verità di ciò che sei. Ho pestato tanti piedi, troppi piedi per non immaginarmi che avrebbero fatto ditutto per farmela pagare. Ma ho la libertà di guardare al futuro senza padrini e senza padroni. Anzi. C’è una parola che pochi utilizzano in politica. È la parola “riconoscenza”. Quelli bravi, quelli esperti, quelli di lungo corso te la spiegano con facilità: la riconoscenza è un valore che non ti devi aspettare quando ti impegni in politica. Cancella dalla mente che qualcuno ti dica grazie per avergli offerto qualche incarico di responsabilità. Nessun politico ti ringrazierà di quello che hai fatto per lui: penserà sempre che tutto ciò che ha avuto sia stato solo merito suo. Ho sempre giudicato barbaro questo concetto. Gli obiettivi si raggiungono insieme. E quando qualche volta mi è capitato di scegliere una persona, anziché un’altra, mi sono guadagnato l’odio perpetuo dell’escluso, ma difficilmente la gratitudine di chi ho proposto.
Dai massimi vertici di Bruxelles agli assessori comunali di piccoli paesini, mi è capitato talvolta di selezionare talenti. Mi è successo di fare scelte che hanno segnato il destino personale di numerosi politici. I tanti che mi accusano di aver scelto le persone in base al requisito della lealtà personale dovrebbero riconoscere che sono invece frequenti i casi in cui coloro che abbiamo scelto, nei momenti di difficoltà, ci sono poi stati tutt’altro che vicini. Bene – cioè, veramente è un peccato, ma è la vita. L’importante è che facciano bene, non che ringrazino. Mi auguro che siano felici e che si comportino rettamente seguendo sempre ciò che serve all’interesse pubblico, non ciò che conta per la loro carriera. Non provo verso di loro nessun sentimento di rancore, nessun desiderio di rivincita. Sono un uomo felice, forte e fortunato. Ho ricevuto più di quello che ho dato e sono sempre dell’idea che si debba ringraziare per quel che si è avuto, non vivere di bronci e di rimpianti.
Quando persone che hanno fatto parte della meravigliosa esperienza dei mille giorni – dopo aver condiviso tutto, anche i dettagli – prendono le distanze da ciò che abbiamo fatto insieme, non stanno facendo del male a me, ma a loro, alla loro credibilità, alla loro coerenza, alla loro affidabilità per il futuro. Più che la riconoscenza mi interessa il riconoscimento di ciò che abbiamo fatto: che si prenda atto che qualcosa è cambiato. Il fatto che uno come me – senza dover render conto a nessuno se non ai propri sostenitori, commoventi nella loro tenacia – sia arrivato alla guida del paese dimostra che l’Italia è la terra dove tutto è possibile.
Ai ragazzi che incontravo da presidente del Consiglio in carica ho ripetuto più volte: “Se ce l’ho fatta io, ce la può fare chiunque di voi”. Loro si mettevano a ridere. Ma io ero serio. E lo sono tuttora: se il paese più istituzionalmente gerontocratico si permette di dare le chiavi del palazzo per tre anni a un under-40 venuto dal nulla significa che tutto è veramente possibile. Bisogna crederci, però. Avere l’ardire di provarci. Non lasciare che i professionisti del “si è sempre fatto così” abbiano ancora la meglio. Tutto può cambiare, io ci credo ancora. Anzi, dopo quello che ho visto, ci credo ancora di più. Non ci interessa cambiare l’immagine per gratificare il nostro ego. Noi vogliamo cambiare l’Italia per i nostri figli. E questa Italia la cambieremo. Andando avanti, insieme" © Riproduzione riservata 12 luglio 2017
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
SUICIDIO IN DIRETTA DI UN ASPIRANTE DUCE
Un libro che comprerò mai, e che non leggerò mai anche se me lo regalano.
La resa dei conti di Renzi in 'Avanti': "Io tradito da chi aiutai"
E' uscito in libreria 'Avanti', il libro dell'ex premier. Dopo le anticipazioni di vari giornali, l'Espresso l'ha letto integralmente. Ecco il Matteo segreto. Dagli attacchi a De Bortoli ai retroscena su Roberto Speranza che gli chiede di andare a Palazzo Chigi al posto di Letta: "Rilancia tu il paese andando a governare". "Ma Enrico aveva il broncio, mi consegnò solo un fogliaccio scritto a mano". Da questo brano emergono l'anima del politico e il tormento umano: «Di quei giorni ricordo gli ostaggi liberati»
DI MARCO DAMILANO
12 luglio 2017
"Diciamolo subito: questa è una storia strana...". È l'incipit di Avanti, il libro di Matteo Renzi pubblicato da Feltrinelli, da oggi in libreria, anticipato a capitoli da tutti i giornali, che L'Espresso ha letto in versione integrale. Avrebbe potuto essere lo stesso di Gabriel Garcia Marquez in "Cent'anni di solitudine": «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio...»
Il plotone di esecuzione per Renzi si materializza «un freddo pomeriggio a Palazzo Chigi», il 7 dicembre 2016, quando il protagonista alza la cornetta e chiede uno scotch. "Mi immagino i collaboratori sussurrare preoccupati: «Che fa adesso? Si butta sull'alcol?» Invece è lo scotch marrone per fare gli scatoloni. Renzi ha perso e se ne va e come in un lungo flash back parte il racconto dei mille giorni di governo.
Firenze dove «a me le cose vanno bene, anzi benone». Roberto Speranza capogruppo del Pd che nel 2014 gli chiede di andare a Palazzo Chigi al posto di Letta: «Matteo, così non andiamo da nessuna parte. Hai vinto le primarie, rilancia tu il paese, andando a governare».
La telefonata di Napolitano con l'invito a cena al Quirinale. Letta quando si era candidato anni prima alle primarie aveva preso «la miseria dell'11 per cento dei voti», ricorda Renzi, gli stessi di Civati. Però Enrico «entra in modalità broncio» perché «ci sono intere carriere costruite sul vittimismo anziché sui risultati».
Il momento solenne del passaggio di consegne: «Letta mi riceve nell'ufficio e mi consegna un foglio scritto a mano in tutta fretta, con alcuni punti appena abbozzati. È un fogliaccio che sembra la brutta copia di qualcosa. L'ho tenuto con me per mille giorni, nel cassetto alla destra della scrivania. E quando ho lasciato Palazzo Chigi me lo sono portato via, per ricordarmi sempre come non si lasciano le cose».
In 240 pagine la storia di Matteo premier. Gli amici da difendere, Boschi, Lotti, Carrai, i nemici, in testa Ferruccio de Bortoli, «non è oro quel che luccica», la rivendicazione orgogliosa della diversità: «So che sono altro, sono altrove”. Sì, ma dove? E soprattutto: in quale direzione?
Eccone un brano
di Matteo Renzi da 'Avanti' (Feltrinelli)
"Quello di cui abbiamo bisogno è portare il Pd di più in mezzo alla gente. E far sì che i cittadini si avvicinino alla politica dalla parte dei contenuti, non dalla parte degli slogan. Voglio ascoltare, certo. Ma abbiamo anche molto da raccontare. Vogliamo costruire insieme il programma, ma senza trasformare questo viaggio in una semplice campagna d’ascolto. Abbiamo un sacco di cose da dire e da condividere. E ho la stessa voglia di partire che mi accompagnava quando – scout della branca Rover/Scolte – preparavo lo zaino rileggendo puntualmente prima di ogni route una poesia bellissima di Eugenio Montale, Prima del viaggio, che inizia così: “Prima del viaggio si scrutano gli orari, / le coincidenze, le soste, le pernottazioni / e le prenotazioni” e finisce con: “E ora, che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / che è una stoltezza dirselo”.
Un imprevisto è la sola speranza. E l’imprevisto sono i rapporti umani.
Questa è la vera grande ricchezza del fare politica. Il momento più intenso, a livello emotivo, dei mille giorni è stato il 26 maggio 2014, il giorno dopo le elezioni europee del 2014. Ma non per la ragione che tutti possono immaginare. Certo, nessun partito in Italia aveva mai superato il 40% dei voti dai tempi della Democrazia cristiana di Amintore Fanfani, nel 1958: una grande responsabilità, segno di un consenso diffuso, difficile da replicare ma tutto sommato simile – anche geograficamente – a quello che avremmo riscosso in occasione del referendum.
Ma l’emozione di quel giorno deriva da un’altra vicenda, totalmente diversa.
In quel periodo, insieme all’autorità delegata ai servizi segreti, Marco Minniti, e ai dirigenti dell’intelligence, sto seguendo personalmente il recupero di un cooperante italiano che da mesi è nelle mani degli estremisti islamici. Abbiamo segnali poco chiari su quello che sta per accadere con la formazione del sedicente Stato islamico. Le truppe irachene controllano ancora Mosul, ma di lì a qualche settimana subiranno una catastrofica sconfitta. Quanti civili in fuga, quante donne violentate, quanti uomini uccisi, quante vite spezzate!
Ma prima di tutto questo, riusciamo a recuperare Federico Motka, con la consueta straordinaria gestione dell’emergenza da parte dell’unità di crisi della Farnesina. In questo genere di situazioni l’Italia eccelle per la professionalità di chi si occupa del supporto psicologico al rapito, dei rapporti con la famiglia, del recupero, della collaborazione con le agenzie d’intelligence di tutto il mondo. Si tratta, tuttavia, di un tema molto spinoso, anche nel rapporto con i nostri partner internazionali: Germania e Italia hanno una maggiore flessibilità rispetto a Gran Bretagna e Stati Uniti nella trattativa con i sequestratori, per questo le nostre iniziative possono generare tensioni con i paesi amici. Ma certe iniziative salvano vite e, a volte, non solo quelle dei rapiti.
La comunicazione della liberazione alla famiglia, una volta sicuri al cento per cento della riuscita dell’operazione, tocca a me. Marco Minniti mi dà il segnale convenuto. Alzo la cornetta e chiamo la mamma di Federico. È la prima volta che la sento di persona, ma i ragazzi dell’unità di crisi e del team dell’Agenzia per i servizi esterni le sono stati accanto quotidianamente, così come hanno fatto con le altre famiglie nelle stesse condizioni. Sono quasi le venti.
“Signora, sono Matteo Renzi. Le posso dare finalmente la notizia che aspetta da un anno: Federico in questo momento è libero. È su un nostro aereo. Lo stiamo riportando in Italia. Veniamo a prenderla, tra qualche ora lei potrà riabbracciarlo.” Non riuscirò mai, dico mai, a restituire l’emozione di una donna a cui viene ridato il proprio figlio.
Fare politica consente un solo lusso, un unico e gigantesco lusso: quello di vivere emozioni e rapporti umani inesprimibili. Di quel 26 maggio 2014, molto più dello strepitoso risultato elettorale ricordo il grido soffocato della mamma di Federico. Lo sento ancora risuonare. Come sento ancora i singhiozzi e i silenzi delle madri che non hanno avuto la possibilità di riabbracciare i loro figli. Penso a quelle che poi sono state chiamate “mamme Erasmus”, che hanno ricevuto una telefonata tremenda, dopo che le loro giovanissime figlie erano rimaste uccise in un incidente stradale spaventoso all’altezza di Tarragona. Ero insieme a loro a Barcellona, ad aspettare le salme. Puoi solo stare in silenzio, accanto al dolore di un altro. Accanto a persone che non avevi mai incontrato e che non incontrerai mai più, ma per cui oggi sei lo stato. Uno stato che si fa prossimo alle famiglie, che fa sentire la propria compassione, la propria capacità di soffrire insieme.
Questa è la dimensione umana della politica. Per me fa la differenza. Mi spinge a impegnarmi, muovermi, lavorare. Qualcuno pensa che dovrei calmarmi un po’, magari fermarmi. Ma il problema non è se sto fermo io. Il problema è se sta fermo il paese. L’Italia non può stare ferma. Nessun italiano (o quasi) vuole restare fermo. Solo i politici – non tutti per fortuna – hanno interesse a lasciare il più possibile le cose come stanno. Solo quelli che si godono le rendite di posizione preferiscono che l’Italia resti com’è. Chi vuole correre avanti, chi non si accontenta, chi ha bisogno di migliorare la sua situazione finisce ostaggio di questi interessi. Io dico no.
Per questo, anche per questo, ho scritto questo libro. Per invitare, coinvolgere, entusiasmare. Perché ho capito di essere depositario dei sogni di una parte degli italiani – e non per quello che sono io, ma per una serie di circostanze. Perché penso che un politico abbia il dovere di andare oltre i 140 caratteri di un tweet per esprimere compiutamente le proprie idee. Perché sono convinto che, anche senza violare le regole deontologiche, chi ha svolto un servizio per le istituzioni debba essere trasparente e sviscerare punto perpunto gli argomenti che hanno segnato la sua esperienza o – più banalmente – rispondere alle critiche che gli sono state rivolte.
Quello che soprattutto vorrei condividere è l’unicità dell’avventura vissuta con il gruppo di persone con cui ho lavorato negli ultimi anni. Siamo lontani anni luce dai circoli autoreferenziali, dai salotti aristocratici, dai poteri forti (che spesso sono tali solo nelle definizioni). Siamo persone semplici, senza vitalizio ma con grande vitalità. Quando leggo di alcuni colleghi che avrebbero fratelli assunti con lauti stipendi in società pubbliche, mi inorgoglisco pensando a mio fratello Samuele, che si è laureato in Medicina con il massimo dei voti e ha deciso di andarsene da Firenze, prima, e dall’Italia, poi, per non essere considerato “il fratello di”. Oggi lavora in Canada, come oncologo pediatrico, senza che nessuno possa dirgli nulla. Si è costruito tutto da solo. Non ha avuto mai una mano da parte mia. E hanno ragione i miei genitori quando dicono che è lui, Samuele, il figlio di cui vanno orgogliosi.
Hanno detto che sono l’uomo delle lobby, io che sono un boy-scout di provincia… Ancora oggi mi domando come faccia la gente a volermi ancora bene nonostante i vergognosi talk show che da tre anni dipingono di me un’immagine che alla fine non sopporto nemmeno io.
Mi dicono in tanti: Matteo, fai vedere che sei diverso da come appari. Diglielo che vuoi cambiare il tuo carattere. Ma a me non interessano le apparenze, non voglio improvvisamente giocare a fare quello simpatico, cercare di lanciare un’operazione di immagine.
Le falsità allucinanti che ti piovono addosso quando sei fuori da tutto sono come le lodi sperticate di cui ti ricoprono quando sei al potere: non tolgono e non aggiungono nulla alla verità della tua persona, alla verità di ciò che sei. Ho pestato tanti piedi, troppi piedi per non immaginarmi che avrebbero fatto ditutto per farmela pagare. Ma ho la libertà di guardare al futuro senza padrini e senza padroni. Anzi. C’è una parola che pochi utilizzano in politica. È la parola “riconoscenza”. Quelli bravi, quelli esperti, quelli di lungo corso te la spiegano con facilità: la riconoscenza è un valore che non ti devi aspettare quando ti impegni in politica. Cancella dalla mente che qualcuno ti dica grazie per avergli offerto qualche incarico di responsabilità. Nessun politico ti ringrazierà di quello che hai fatto per lui: penserà sempre che tutto ciò che ha avuto sia stato solo merito suo. Ho sempre giudicato barbaro questo concetto. Gli obiettivi si raggiungono insieme. E quando qualche volta mi è capitato di scegliere una persona, anziché un’altra, mi sono guadagnato l’odio perpetuo dell’escluso, ma difficilmente la gratitudine di chi ho proposto.
Dai massimi vertici di Bruxelles agli assessori comunali di piccoli paesini, mi è capitato talvolta di selezionare talenti. Mi è successo di fare scelte che hanno segnato il destino personale di numerosi politici. I tanti che mi accusano di aver scelto le persone in base al requisito della lealtà personale dovrebbero riconoscere che sono invece frequenti i casi in cui coloro che abbiamo scelto, nei momenti di difficoltà, ci sono poi stati tutt’altro che vicini. Bene – cioè, veramente è un peccato, ma è la vita. L’importante è che facciano bene, non che ringrazino. Mi auguro che siano felici e che si comportino rettamente seguendo sempre ciò che serve all’interesse pubblico, non ciò che conta per la loro carriera. Non provo verso di loro nessun sentimento di rancore, nessun desiderio di rivincita. Sono un uomo felice, forte e fortunato. Ho ricevuto più di quello che ho dato e sono sempre dell’idea che si debba ringraziare per quel che si è avuto, non vivere di bronci e di rimpianti.
Quando persone che hanno fatto parte della meravigliosa esperienza dei mille giorni – dopo aver condiviso tutto, anche i dettagli – prendono le distanze da ciò che abbiamo fatto insieme, non stanno facendo del male a me, ma a loro, alla loro credibilità, alla loro coerenza, alla loro affidabilità per il futuro. Più che la riconoscenza mi interessa il riconoscimento di ciò che abbiamo fatto: che si prenda atto che qualcosa è cambiato. Il fatto che uno come me – senza dover render conto a nessuno se non ai propri sostenitori, commoventi nella loro tenacia – sia arrivato alla guida del paese dimostra che l’Italia è la terra dove tutto è possibile.
Ai ragazzi che incontravo da presidente del Consiglio in carica ho ripetuto più volte: “Se ce l’ho fatta io, ce la può fare chiunque di voi”. Loro si mettevano a ridere. Ma io ero serio. E lo sono tuttora: se il paese più istituzionalmente gerontocratico si permette di dare le chiavi del palazzo per tre anni a un under-40 venuto dal nulla significa che tutto è veramente possibile. Bisogna crederci, però. Avere l’ardire di provarci. Non lasciare che i professionisti del “si è sempre fatto così” abbiano ancora la meglio. Tutto può cambiare, io ci credo ancora. Anzi, dopo quello che ho visto, ci credo ancora di più. Non ci interessa cambiare l’immagine per gratificare il nostro ego. Noi vogliamo cambiare l’Italia per i nostri figli. E questa Italia la cambieremo. Andando avanti, insieme" © Riproduzione riservata 12 luglio 2017
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO