"Se finisce il commercio, inizia la guerra", parole e musica di Jack Ma
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International Business Times (IT)
Alessandro Martorana Un'ora fa
Se termina il commercio, scoppia la guerra. Una guerra commerciale, ma sempre guerra. Questa non è un'astrusa previsione di qualche analista tendente al catastrofismo, bensì dell'idea di Jack Ma, il 33° uomo più ricco del mondo, che a quanto pare non è un grande fan delle strategie anti-globalizzazione di Donald Trump.
Mentre si trovava a Melbourne per l'inaugurazione della sede di Alibaba per l'Australia e la Nuova Zelanda, Ma ha espresso con molta chiarezza i propri timori in merito alle idee di Trump: "Sono tutti preoccupati per le guerre commerciali. Se il commercio finisce, scoppia la guerra".
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Sia con le parole durante la campagna elettorale che con i fatti nel corso di queste sue prime settimane alla Casa Bianca, Donald Trump è stato molto esplicito sulle sue intenzioni di favorire un "nazionalismo commerciale" per gli Stati Uniti: ad esempio, uno dei suoi primi atti come presidente è stato quello di cancellare l'accordo commerciale trans-pacifico che era stato negoziato da Barack Obama.
Un aspetto particolarmente interessante delle dichiarazioni del secondo uomo più ricco della Cina è il fatto che Ma non abbia parlato solamente del contesto economico, ma abbia anche dato dei giudizi più "filosofici", per così dire: "Commercio significa commercio di valori. Dobbiamo attivamente provare che il commercio aiuta le persone a comunicare", ha affermato il fondatore e presidente di Alibaba, secondo quanto riportato da Business Insider Australia.
Ad inizio gennaio, quando il neo-presidente doveva ancora insediarsi al 1600 di Pennsylvania Avenue, la coppia di imprenditori si era incontrata nella Trump Tower: davanti alle telecamere, i due si erano detti soddisfatti del colloquio, con Ma che si era persino spinto fino alla promessa di un milione di posti di lavoro nelle piccole aziende statunitensi. Apparentemente qualcosa dev'essere cambiato da quell'incontro dello scorso 10 gennaio, se l'imprenditore cinese si è sentito in dovere di lanciare degli "avvertimenti" diretti verso la sponda opposta dell'Oceano Pacifico.
Peraltro, paradossalmente non è detto che sarebbe Pechino a rimetterci nel caso di un maggior protezionismo statunitense. Nelle scorse settimane Zhang Yansheng, capo economista presso il think tank governativo del Centro della Cina per lo Sviluppo Economico e Internazionale, ha spiegato come il paese potrebbe cavarsela anche sotto la nuova politica imposta da Trump, dal momento che dal 2015 i consumi domestici rappresentano ormai i due terzi del prodotto interno lordo del colosso asiatico.
"La Cina è riuscita a ridurre la sua dipendenza dalle esportazioni in maniera efficace, grazie ad un tempestivo passaggio verso la domanda domestica proprio quando la domanda dal mercato globale è calata rispetto ai picchi raggiunti negli anni precedenti", ha affermato Zhang.
Alibaba non è comunque la prima azienda ad esprimere timori o contrarietà per le mosse di Donald Trump: nei giorni scorsi abbiamo ad esempio parlato delle forti reazioni che le politiche sull'immigrazione del neo-presidente stanno scatenando nella Silicon Valley. A quanto pare, non si tratta soltanto di dichiarazioni di facciata ma dell'espressione di un desiderio di dare battaglia.
97 grandi aziende statunitensi (tra le quali colossi tech come Apple, Facebook, Google, Intel, Microsoft, Netflix, PayPal, Twitter, Uber ed Airbnb) hanno infatti presentato presso la US Court of Appeals for the 9th Circuit un amicus curiae (un documento mirato ad offrire volontariamente informazioni su un caso) in opposizione all'ordine esecutivo di Trump che impedisce l'accesso nel paese alle persone provenienti da alcuni paesi.
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Secondo una bozza del documento ottenuta dal Washington Post, il testo pone all'attenzione della corte il grande contributo dato dall'immigrazione all'economia statunitense: "Gli immigrati o i loro figli hanno fondato oltre 200 delle aziende Fortune 500, il che include Apple, Kraft, Ford, General Electric, AT&T, Google, McDonald’s, Boeing, and Disney. Insieme, queste aziende generano un fatturato annuo di 4,2 trilioni e danno lavoro a milioni di americani. Tra il 2006 ed il 2010, gli immigrati hanno aperto il 28% di tutte le nuove aziende negli Stati Uniti".
Nell'amicus si mette in risalto come l'ordine di Trump crei una grande incertezza su quali altri paesi potrebbero essere in futuro aggiunti senza preavviso tra quelli della "lista nera". Inoltre, nel documento si sostiene come il provvedimento sia illegale in quanto in violazione delle leggi anti-discriminazione emanate nel 1965.
Video Alan Friedman al TG 1
Trump all'attacco
http://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ ... spartandhp