.... NELLA VALLE DEI MORTI VIVENTI
Pinterest
0
Email
Traversata nel deserto
Toc toc, c'è qualcuno al Nazareno?
Rintronato dalla sconfitta epocale, il partito è come una statua rotta. «E ci vorrà un anno solo per numerare i pezzi». Nel frattempo ci si domanda: mi si nota di più se resto all'opposizione, o se partecipo a un governo?
di Susanna Turco
13 aprile 2018
11
Facebook
Twitter
Pinterest
Google
Email
http://espresso.repubblica.it/palazzo/2 ... =HEF_RULLO
Venghino, signori, non perdano lo spettacolo. Alla più travolgente débâcle della storia del Pd, che fatalmente coincide con la più monumentale sconfitta della sinistra negli ultimi settant’anni, si aggiunge in queste settimane una emozionante battaglia interna sul da dirsi e il da farsi - ci si spacca persino sull’ipotesi di fare un referendum tra gli iscritti, o di ridiscutere la linea il martedì piuttosto che il sabato. Cose alle quali, nel bene e nel male, la striminzita era renziana aveva disabituato. Sullo sfondo la tentazione ultima: andare oltre il Pd. Partito «devastato», «andato in pezzi», «incidentato come un motociclista» - le metafore cambiano a seconda dell’orizzonte fenomenologico del parlamentare interpellato. Comunque, a sconfitta fuori questione, ci si domanda anzitutto se sia più disdicevole restare all’opposizione o partecipare a un governo. Eccolo, l’orizzonte politico, la visione del mondo, lo stare tra la gente. Nonostante tutto, il partito resta avviticchiato alla colonna sonora azzeccata a suo tempo da Veltroni, quando i milioni di votanti erano 12 (oggi sono 6): «Mi fido di te, quanto sei disposto a perdere?». Un elettore su due, è la risposta, drammaticamente provvisoria.
Più segretari che iscritti
Nei giorni del primo giro di consultazioni al Quirinale, dette anche «modello Bersani» per l’intrinseca probabilità di successo (si ricordi il glorioso «preincarico» che l’allora segretario ricevette nel 2013 da Napolitano), nel partito del Nazareno si sta concentratissimi sul toto nomi per la prossima segreteria. Dice: ma che c’entra? C’entra. Anzi c’è una serie di nomi candidabili. Tra cui Maurizio Martina, il reggente, il volto del renzismo sconfitto, l’uomo pescato dal quasi anonimato dopo il referendum costituzionale e che fino a pochi mesi fa risultava irriconoscibile persino al barista di fronte alla sede nazionale del Pd («ma ora le cose sono cambiate», si afferma volenterosi nella ridotta renziana). C’è Debora Serracchiani, già veltroniana, franceschiniana e rottamatrice ante litteram che ha preferito il Parlamento alla ricandidatura in Friuli e poi, visto il successo anche là, ha offerto le dimissioni da segretaria regionale con la solita perfetta sincronia che è tra le principali sue doti. C’è Matteo Richetti, renziano dell’ora zero, già recuperato per il terzo tempo, il quale indomito ha voluto ricominciare dal palcoscenico dell’Acquario romano, laddove nel 2013 il Pd poté comodamente mandare in tecnicolor la diretta della propria sconfitta (auguri). Ci sono anche altri, figurarsi. Ad esempio Graziano Delrio, che ha la dote eccelsa di essere l’unico a mettere d’accordo il Giglio magico (non piace né a Boschi, né a Lotti): peccato continui a dire di no, come gli hanno raccomandato di fare anche i figli («saggio consiglio», è la reazione più diffusa). «Ma tutti questi che si candidano, vogliono davvero fare i segretari?», è la domanda verace che circola tra i quadri residui del partito. Macché, certo che no. È uno stile da vita spericolata, alla Vasco: «Ognuno con il suo viaggio, ognuno diverso, ognuno in fondo perso dietro i fatti suoi».
Effetto lumache
Ma allora cosa c’entra la guida del Pd? Poiché Renzi si è dimesso, è apparentemente contendibile anche la linea del partito. In realtà, come spiegano, non è affatto detto che sia così, visto che lui continua ad avere la maggioranza, in posti come il Senato o l’Assemblea nazionale del Pd, e visto pure che «elezioni e congresso sono due cose diverse». Ma poiché, come le lumache, i democratici tendono naturalmente a raggrupparsi nei posti più protetti dal vento, queste maggioranze potrebbero cambiare nelle prossime settimane, anche senza un nuovo congresso. È già successo all’epoca del passaggio tra Bersani e Renzi, e innumeri volte prima. Così, adesso, ciascuna sfumatura di candidato segretario incarna una risposta leggermente diversa alla domanda: partecipiamo o no a un governo, alla fine?
Non vedo l’ora
I renziani di stretta osservanza seguono la pista con più sicurezza del loro mentore: «Non vedo l’ora che giuri un governo Salvini-Di Maio», scrive su Facebook Andrea Marcucci, il renziano che ha preso il posto di Zanda come presidente dei senatori Pd. Ovviamente il presupposto è che presto sia chiaro che quel governo non va da nessuna parte. Ma sarà davvero così? E ce l’ha Renzi il tempo di aspettare? Non lo sa neanche lui.
Non auspico
La faccenda è talmente ambigua, che si riflette pure nella linea di Maurizio Martina. Capofila di un linguaggio da Enciclica papale. Il reggente del Pd dice che il partito anche dall’opposizione può fare tante cose diverse, mica è congelato: «Non auspico un governo M5S Lega, dico che l’esito elettorale ci consegna una funzione, stare all’opposizione. Ma questo non significa isolarci o metterci nel freezer».
Non mi auguro
Ecco perché dal «non auspico», si arriva presto al «non mi auguro», che sta però dall’altra parte del fiume - dalla parte che si sporcherebbe le mani per fare un governo, eccome. «Non mi auguro che Lega e Cinque Stelle facciano il governo. Un esecutivo populista-sovranista non è una prospettiva positiva per il Paese. Io in realtà non vedo l’ora che falliscano». Con queste parole Walter Verini, veltroniano, spiega come una parte del Pd sarebbe pronta a rientrare il gioco. È la linea governista, quella che va da Dario Franceschini ad Andrea Orlando passando per gli altri big non renziani e che sarebbe più pronta a raccogliere i solleciti del Quirinale per scendere dall’Aventino.
Sette per cento
È il teorema utilizzato da Renzi per chiarire che il governo coi Cinque stelle non si può fare. «Ci vorrebbe praticamente tutto il Pd, Il 93 per cento dei gruppi. E diciamo che almeno il 7 per cento sta con me, questo almeno potete concedermelo?». Non pochi però ipotizzano per Renzi un futuro a stampo socialista. Craxiano, anche quanto a percentuali. Un partito piccolo, agile: da 7 per cento appunto.
Statua, o astronave
Ma il partito? Metafora di un deputato Pd, al battesimo della legislatura: «È un partito devastato interiormente. È come una statua rotta. Ci vorrà un anno per numerare i vari pezzetti, capire cosa è rimasto. Dopodiché si deciderà se con quei pezzi ci si vuol rifare la statua o una astronave».
© Riproduzione riservata