IL LAVORO
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Re: IL LAVORO
Jobs Act, “la bocciatura del referendum sull’articolo 18
è un errore logico-giuridico e un paradossale boomerang politico”
L'intervento del giuslavorista Luigi Mariucci sul pronunciamento della Corte costituzionale,
che ha dichiarato inammissibile il primo dei tre quesiti proposti dalla Cgil.
"Nel 2003 fu ritenuto ammissibile un referendum che avrebbe esteso la tutela a tutte le imprese
a prescindere dalle dimensioni", ricorda.
Per questo "sul piano logico-giuridico la sentenza è fortemente discutibile"
di F. Q. | 12 gennaio 2017
Nel 2003 la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile un referendum che azzerava la soglia di applicazione
dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, a seguito del quale la reintegrazione in caso di licenziamento ingiustificato
si sarebbe applicata a ogni unità produttiva comprese quelle con un solo dipendente (sentenza n.41/2003).
Oggi invece la stessa Corte dichiara inammissibile un referendum che, a seguito di varie abrogazioni parziali,
avrebbe conservato la soglia dei 5 dipendenti, ora prevista per le imprese agricole. Se ne deduce che se la Cgil
avesse proposto un quesito referendario massimalista, con abrogazione totale della soglia, forse la Corte non avrebbe
potuto discostarsi da quanto deciso nel 2003. Si tratta di un singolare paradosso, inspiegabile sul piano logico-giuridico.
Infatti l’effetto manipolativo dei referendum che propongono abrogazioni parziali è da sempre scontato.
Basti pensare ai referendum elettorali o agli stessi referendum in materia sociale, come quello che si svolse nel 1995
in tema di rappresentanze sindacali aziendali che comportò un radicale cambiamento dell’art.19 dello Statuto dei lavoratori.
Non sta dunque nell’effetto “manipolativo” la questione di fondo. La ragione sostanziale va cercata altrove.
Infatti nel referendum del 2003, che avrebbe esteso a tutte le imprese a prescindere dalle dimensioni la tutela dell’art.18,
il quorum non fu raggiunto. Questa volta invece, dopo la straordinaria partecipazione al referendum costituzionale
del 4 dicembre, forse il quorum si raggiungeva. Si sarebbe comunque aperta nel paese una grande e salutare discussione
sulla natura e sulla funzione delle politiche del lavoro: abbassare le tutele, ridurre i diritti di chi lavora serve davvero a
incrementare occupazione e competitività? Si è persa purtroppo l’occasione.
Sul piano logico-giuridico la sentenza della Corte costituzionale è fortemente discutibile. Sul piano politico, non della
politica contingente ma di quella regola di fondo costituita dal “Salus Reipublicae suprema lex”, vale a dire dalla
salvaguardia dei valori costituzionali di fondo di cui la Corte costituzionale dovrebbe costituire un imprescindibile presidio,
si può dire che questa sentenza è semplicemente sbagliata. Impedire ai cittadini di pronunciarsi nel merito di singole
questioni cruciali, come quella delle politiche del lavoro, salvo poi alzare vani allarmi sulla crescita dell’astensionismo
elettorale e sulla abissale distanza tra politica e cittadini, consiste in un puro atto di autolesionismo.
Così si alimentano i populismi, invece che cercare di contrastarli con risposte razionali.
di Luigi Mariucci, già ordinario di Diritto del lavoro nella Università di Venezia-Ca’ Foscari
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... o/3312088/
è un errore logico-giuridico e un paradossale boomerang politico”
L'intervento del giuslavorista Luigi Mariucci sul pronunciamento della Corte costituzionale,
che ha dichiarato inammissibile il primo dei tre quesiti proposti dalla Cgil.
"Nel 2003 fu ritenuto ammissibile un referendum che avrebbe esteso la tutela a tutte le imprese
a prescindere dalle dimensioni", ricorda.
Per questo "sul piano logico-giuridico la sentenza è fortemente discutibile"
di F. Q. | 12 gennaio 2017
Nel 2003 la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile un referendum che azzerava la soglia di applicazione
dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, a seguito del quale la reintegrazione in caso di licenziamento ingiustificato
si sarebbe applicata a ogni unità produttiva comprese quelle con un solo dipendente (sentenza n.41/2003).
Oggi invece la stessa Corte dichiara inammissibile un referendum che, a seguito di varie abrogazioni parziali,
avrebbe conservato la soglia dei 5 dipendenti, ora prevista per le imprese agricole. Se ne deduce che se la Cgil
avesse proposto un quesito referendario massimalista, con abrogazione totale della soglia, forse la Corte non avrebbe
potuto discostarsi da quanto deciso nel 2003. Si tratta di un singolare paradosso, inspiegabile sul piano logico-giuridico.
Infatti l’effetto manipolativo dei referendum che propongono abrogazioni parziali è da sempre scontato.
Basti pensare ai referendum elettorali o agli stessi referendum in materia sociale, come quello che si svolse nel 1995
in tema di rappresentanze sindacali aziendali che comportò un radicale cambiamento dell’art.19 dello Statuto dei lavoratori.
Non sta dunque nell’effetto “manipolativo” la questione di fondo. La ragione sostanziale va cercata altrove.
Infatti nel referendum del 2003, che avrebbe esteso a tutte le imprese a prescindere dalle dimensioni la tutela dell’art.18,
il quorum non fu raggiunto. Questa volta invece, dopo la straordinaria partecipazione al referendum costituzionale
del 4 dicembre, forse il quorum si raggiungeva. Si sarebbe comunque aperta nel paese una grande e salutare discussione
sulla natura e sulla funzione delle politiche del lavoro: abbassare le tutele, ridurre i diritti di chi lavora serve davvero a
incrementare occupazione e competitività? Si è persa purtroppo l’occasione.
Sul piano logico-giuridico la sentenza della Corte costituzionale è fortemente discutibile. Sul piano politico, non della
politica contingente ma di quella regola di fondo costituita dal “Salus Reipublicae suprema lex”, vale a dire dalla
salvaguardia dei valori costituzionali di fondo di cui la Corte costituzionale dovrebbe costituire un imprescindibile presidio,
si può dire che questa sentenza è semplicemente sbagliata. Impedire ai cittadini di pronunciarsi nel merito di singole
questioni cruciali, come quella delle politiche del lavoro, salvo poi alzare vani allarmi sulla crescita dell’astensionismo
elettorale e sulla abissale distanza tra politica e cittadini, consiste in un puro atto di autolesionismo.
Così si alimentano i populismi, invece che cercare di contrastarli con risposte razionali.
di Luigi Mariucci, già ordinario di Diritto del lavoro nella Università di Venezia-Ca’ Foscari
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01 ... o/3312088/
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Re: IL LAVORO
QUANDO TUTTI I NODI VENGONO AL PETTINE
Tutti i nodi vengono al pettine.
Cosa vuol dire?
Tutte le cose brutte ma nascoste, le bugie, i vecchi rancori, prima o poi riaffiorano.
Da queste parti la Carrefour almeno da 1 anno rimane aperta 24 ore su 24.
Solo a Natale e Santo Stefano erano chiusi.
Da quando ha iniziato questa politica, gli altri supermercati hanno risposto aprendo anche alla domenica.
Adesso si comprende abbastanza chiaramente perché hanno fatto la scelta di un’apertura ininterrotta.
A quei tempi regnava ancora il premier cazzaro, che raccontava ai merli, che mancano mai, che tutto andava a gonfie vele.
Ma i merloni giganti italiani che si bevono tutto e di più, queste cose se le ricordano????
Lavoro, Carrefour chiude tre ipermercati e licenzia 500 dipendenti. Sindacati: “Sciopero il 27 e 28 gennaio”
di F. Q. | 21 gennaio 2017
Lavoro & Precari
Il gruppo, che è tra quelli in cui è prassi utilizzare lavoratori pagati a voucher, ha anche anticipato "una serie di esigenze organizzative che implicherebbero un ulteriore e grave peggioramento delle condizioni di lavoro", secondo Filcams Cgil, Fisascat Cisl e UILTuCS
di F. Q. | 21 gennaio 2017
•
Più informazioni su: Dipendenti, Esuberi, Supermercati
Il gruppo francese della grande distribuzione Carrefour chiude tre ipermercati a Borgomanero, Trofarello e Pontecagnano e dichiara 500 esuberi tra i dipendenti. Filcams Cgil, Fisascat Cisl e UILTuCS hanno risposto annunciando lo stato di agitazione e l’astensione dal lavoro per il 27 e il 28 gennaio, anche perché l’azienda – che è tra quelle in cui è prassi utilizzare lavoratori pagati a voucher – ha anticipato “una serie di esigenze organizzative che implicherebbero un ulteriore e grave peggioramento delle condizioni di lavoro”. Da alcuni mesi il gruppo tiene aperti molti supermercati 24 ore su 24.
“Le informazioni declinate dall’impresa sono risultate generiche e improvvisate”, continuano i sindacati. “Hanno portato ad evidenziare rilevanti problematiche sugli andamenti aziendali, quali il fatturato, il costo del lavoro e la redditività dell’anno. Gli ipermercati risultano particolarmente penalizzati”. Carrefour Italia dal canto suo “informa di aver annunciato, nell’ambito di un incontro con le parti sociali per la presentazione dei piani 2017 per le singole business units del Gruppo, un piano di riorganizzazione che coinvolge 32 punti vendita del formato Ipermercati”.
Tale riorganizzazione “prevede la chiusura di due punti vendita (Borgomanero, in provincia di Novara e Trofarello, in provincia di Torino) e una revisione del modello organizzativo di altri 30 ipermercati identificati sul territorio nazionale, di cui è stato dichiarato il relativo impatto occupazionale”. La decisione – si legge in una nota – “è motivata dalla perdurante difficoltà e dal calo di vendite registrato nel formato Ipermercati, generalizzato nel mercato italiano, che rende necessaria un’azione strutturale per recuperare un equilibrio economico sostenibile, quale unica opzione possibile”.
“L’ azienda – conclude la nota – è conscia della difficile situazione e delle ricadute che questo annuncio ha e dichiara fin d’ora la propria disponibilità a valutare il ricorso a strumenti in grado di minimizzare l’impatto di tale piano sui lavoratori coinvolti, sulle loro famiglie e sulle comunità locali. A tal fine, auspica una rapida ripresa del tavolo negoziale“.
Tutti i nodi vengono al pettine.
Cosa vuol dire?
Tutte le cose brutte ma nascoste, le bugie, i vecchi rancori, prima o poi riaffiorano.
Da queste parti la Carrefour almeno da 1 anno rimane aperta 24 ore su 24.
Solo a Natale e Santo Stefano erano chiusi.
Da quando ha iniziato questa politica, gli altri supermercati hanno risposto aprendo anche alla domenica.
Adesso si comprende abbastanza chiaramente perché hanno fatto la scelta di un’apertura ininterrotta.
A quei tempi regnava ancora il premier cazzaro, che raccontava ai merli, che mancano mai, che tutto andava a gonfie vele.
Ma i merloni giganti italiani che si bevono tutto e di più, queste cose se le ricordano????
Lavoro, Carrefour chiude tre ipermercati e licenzia 500 dipendenti. Sindacati: “Sciopero il 27 e 28 gennaio”
di F. Q. | 21 gennaio 2017
Lavoro & Precari
Il gruppo, che è tra quelli in cui è prassi utilizzare lavoratori pagati a voucher, ha anche anticipato "una serie di esigenze organizzative che implicherebbero un ulteriore e grave peggioramento delle condizioni di lavoro", secondo Filcams Cgil, Fisascat Cisl e UILTuCS
di F. Q. | 21 gennaio 2017
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Più informazioni su: Dipendenti, Esuberi, Supermercati
Il gruppo francese della grande distribuzione Carrefour chiude tre ipermercati a Borgomanero, Trofarello e Pontecagnano e dichiara 500 esuberi tra i dipendenti. Filcams Cgil, Fisascat Cisl e UILTuCS hanno risposto annunciando lo stato di agitazione e l’astensione dal lavoro per il 27 e il 28 gennaio, anche perché l’azienda – che è tra quelle in cui è prassi utilizzare lavoratori pagati a voucher – ha anticipato “una serie di esigenze organizzative che implicherebbero un ulteriore e grave peggioramento delle condizioni di lavoro”. Da alcuni mesi il gruppo tiene aperti molti supermercati 24 ore su 24.
“Le informazioni declinate dall’impresa sono risultate generiche e improvvisate”, continuano i sindacati. “Hanno portato ad evidenziare rilevanti problematiche sugli andamenti aziendali, quali il fatturato, il costo del lavoro e la redditività dell’anno. Gli ipermercati risultano particolarmente penalizzati”. Carrefour Italia dal canto suo “informa di aver annunciato, nell’ambito di un incontro con le parti sociali per la presentazione dei piani 2017 per le singole business units del Gruppo, un piano di riorganizzazione che coinvolge 32 punti vendita del formato Ipermercati”.
Tale riorganizzazione “prevede la chiusura di due punti vendita (Borgomanero, in provincia di Novara e Trofarello, in provincia di Torino) e una revisione del modello organizzativo di altri 30 ipermercati identificati sul territorio nazionale, di cui è stato dichiarato il relativo impatto occupazionale”. La decisione – si legge in una nota – “è motivata dalla perdurante difficoltà e dal calo di vendite registrato nel formato Ipermercati, generalizzato nel mercato italiano, che rende necessaria un’azione strutturale per recuperare un equilibrio economico sostenibile, quale unica opzione possibile”.
“L’ azienda – conclude la nota – è conscia della difficile situazione e delle ricadute che questo annuncio ha e dichiara fin d’ora la propria disponibilità a valutare il ricorso a strumenti in grado di minimizzare l’impatto di tale piano sui lavoratori coinvolti, sulle loro famiglie e sulle comunità locali. A tal fine, auspica una rapida ripresa del tavolo negoziale“.
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Re: IL LAVORO
A TUTTA BIRRA VERSO LA RIVOLTA
Pensioni, assegni da fame: quanto si perde sul reddito
Col calcolo contributivo si abbassano in modo drastico gli assegni delle pensioni. E le Casse provano a trovare soluzioni
Luca Romano - Lun, 23/01/2017 - 12:37
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Amare sorprese per i pensionati e per chi in futuro dovrà lasciare il lavoro.
Di fatto si va verso una pensione da fame. Con il sistema contributivo di fatto si rischia un taglio del 50 per cento del reddito. Un esempio su tutti: un professionista con un reddito di 20 mila euro, dopo 30 anni di carriera percepirà una pensione con un assegno annuo di 10mila euro. Di fatto l'allarme in questo momento arriva da diverse casse previdenziali come ad esmepio quelle di biologi, psicologi, agronomi e forestali, attuari e chimici, periti industriali e infermieri. In questi casi la pensione erogata, come ricorda Italia Oggi, è stata di circa 2.224,60 euro all'anno.
Circa 200 euro al mese. Un assegno che non ricorda nemmeno lontanamento quello della pensione sociale. L'allarme riguarda particolarmente sia le casse giovani che quelle 103, stessa situazione anche per quelle che da più tempo usano il contributivo. E così le casse provano a porre rimedio a questa situazione offrendo servizi aggiuntivi di welfare sia durante il periodo lavorativo che durante quello pensionistico. Per capire quali possano essere gli assegni del futuro ecco alcuni esempi. Prendiamo il caso di un professionista con un reddito medio lordo di 31 mila euro dopo 30 anni di lavoro. Nel caso di uno psicologo o di un biologo verrà corrisposto un assegno annuo di 10mila euro. Nel caso di un infermiere sempre 10mila euro, mentre di 11 mila euro annui con la gestione separata Inps. Insomma per ottenere un assegno più alto bisognerà lavorare più a lungo e versare più contributi.
Pensioni, assegni da fame: quanto si perde sul reddito
Col calcolo contributivo si abbassano in modo drastico gli assegni delle pensioni. E le Casse provano a trovare soluzioni
Luca Romano - Lun, 23/01/2017 - 12:37
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Amare sorprese per i pensionati e per chi in futuro dovrà lasciare il lavoro.
Di fatto si va verso una pensione da fame. Con il sistema contributivo di fatto si rischia un taglio del 50 per cento del reddito. Un esempio su tutti: un professionista con un reddito di 20 mila euro, dopo 30 anni di carriera percepirà una pensione con un assegno annuo di 10mila euro. Di fatto l'allarme in questo momento arriva da diverse casse previdenziali come ad esmepio quelle di biologi, psicologi, agronomi e forestali, attuari e chimici, periti industriali e infermieri. In questi casi la pensione erogata, come ricorda Italia Oggi, è stata di circa 2.224,60 euro all'anno.
Circa 200 euro al mese. Un assegno che non ricorda nemmeno lontanamento quello della pensione sociale. L'allarme riguarda particolarmente sia le casse giovani che quelle 103, stessa situazione anche per quelle che da più tempo usano il contributivo. E così le casse provano a porre rimedio a questa situazione offrendo servizi aggiuntivi di welfare sia durante il periodo lavorativo che durante quello pensionistico. Per capire quali possano essere gli assegni del futuro ecco alcuni esempi. Prendiamo il caso di un professionista con un reddito medio lordo di 31 mila euro dopo 30 anni di lavoro. Nel caso di uno psicologo o di un biologo verrà corrisposto un assegno annuo di 10mila euro. Nel caso di un infermiere sempre 10mila euro, mentre di 11 mila euro annui con la gestione separata Inps. Insomma per ottenere un assegno più alto bisognerà lavorare più a lungo e versare più contributi.
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Re: IL LAVORO
La disoccupazione giovanile ha sfondato la soglia del 40%
Il mercato del lavoro arranca. A dicembre la disoccupazione stabile al 12%. A preoccupare è soprattutto il tasso giovanile: non è mai stat così alto da quando è stato approvato il Jobs Act
Sergio Rame - Mar, 31/01/2017 - 10:48
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In termini assoluti, a dicembre, la disoccupazione risulta stabile. Ma è il dato che riguarda i giovani a preoccupare maggiormente il governo Gentiloni.
Il mese scorso il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi (occupati e disoccupati), è infatti tornata a sfondare la quota psicologica del 40%. Secondo il report mensile pubblicato dall'Istat, il tasso si attesterebbe al 40,1%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente.
Le politiche del lavoro di Matteo Renzi sono un fallimento. Ogni mese i dati dell'Istat certificano il flop del Jobs Act e l'incapacità del mercato del lavoro di riprendersi. A dicembre, per esempio, il tasso di senza lavoro è al 12%. Rispetto a novembre non è cresciuto nemmeno di un decimale. Immobile. Nel confronto con dicembre 2015, però, il tasso è salito di 0,4 punti percentuali. Meglio che niente. La stima dei disoccupati è in aumento su base mensile (+0,3%, pari a +9mila). La crescita è attribuibile alla componente femminile a fronte di un calo per quella maschile e si distribuisce tra le diverse classi di età ad eccezione dei 25-34enni. La stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni è in diminuzione nell'ultimo mese (-0,1%, pari a -15mila). Il calo interessa entrambe le componenti di genere e tutte le classi di età, a eccezione, degli ultracinquantenni. Il tasso di inattività è stabile al 34,8%.
A dicembre, poi, il tasso di disoccupazione giovanile è arrivata al 40,1%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente. Un dato allarmante perché sfonda una soglia psicologica, quella del 40%, per la prima volta da quando sono stati approvati il Jobs Act (marzo 2015) e i suoi decreti attuativi (settembre 2015). Come si evince dalle tabelle dell'Istat (guarda qui), a marzo 2015 il tasso era al 42,1%. Da allora il dato non aveva fatto altro che scendere fino ad aprile 2016, quando si toccò il 36,6%. Da allora, però, il tasso della disoccupazione giovanile non ha fatto altro che tornare su. Fino al mese scorso quando ha toccato il 40,1% (guarda qui).
Il mercato del lavoro arranca. A dicembre la disoccupazione stabile al 12%. A preoccupare è soprattutto il tasso giovanile: non è mai stat così alto da quando è stato approvato il Jobs Act
Sergio Rame - Mar, 31/01/2017 - 10:48
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In termini assoluti, a dicembre, la disoccupazione risulta stabile. Ma è il dato che riguarda i giovani a preoccupare maggiormente il governo Gentiloni.
Il mese scorso il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi (occupati e disoccupati), è infatti tornata a sfondare la quota psicologica del 40%. Secondo il report mensile pubblicato dall'Istat, il tasso si attesterebbe al 40,1%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente.
Le politiche del lavoro di Matteo Renzi sono un fallimento. Ogni mese i dati dell'Istat certificano il flop del Jobs Act e l'incapacità del mercato del lavoro di riprendersi. A dicembre, per esempio, il tasso di senza lavoro è al 12%. Rispetto a novembre non è cresciuto nemmeno di un decimale. Immobile. Nel confronto con dicembre 2015, però, il tasso è salito di 0,4 punti percentuali. Meglio che niente. La stima dei disoccupati è in aumento su base mensile (+0,3%, pari a +9mila). La crescita è attribuibile alla componente femminile a fronte di un calo per quella maschile e si distribuisce tra le diverse classi di età ad eccezione dei 25-34enni. La stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni è in diminuzione nell'ultimo mese (-0,1%, pari a -15mila). Il calo interessa entrambe le componenti di genere e tutte le classi di età, a eccezione, degli ultracinquantenni. Il tasso di inattività è stabile al 34,8%.
A dicembre, poi, il tasso di disoccupazione giovanile è arrivata al 40,1%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente. Un dato allarmante perché sfonda una soglia psicologica, quella del 40%, per la prima volta da quando sono stati approvati il Jobs Act (marzo 2015) e i suoi decreti attuativi (settembre 2015). Come si evince dalle tabelle dell'Istat (guarda qui), a marzo 2015 il tasso era al 42,1%. Da allora il dato non aveva fatto altro che scendere fino ad aprile 2016, quando si toccò il 36,6%. Da allora, però, il tasso della disoccupazione giovanile non ha fatto altro che tornare su. Fino al mese scorso quando ha toccato il 40,1% (guarda qui).
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Re: IL LAVORO
QUEL DIRITTO DI ESISTERE DA TROPPO TEMPO ELUSO
Disabili e lavoro, sindacati: “Troppe deroghe per andare incontro alle aziende. Così l’inserimento resta un miraggio”
Diritti
Le confederazioni di base di Roma e Firenze hanno scritto al presidente Sergio Mattarella perché si spenda per "una reale applicazione della legge 68/99" sull'integrazione lavorativa. "C'è una costante elusione da parte di imprese ma anche enti pubblici”. Sotto accusa alcune circolari del ministero del Lavoro, la mancata attuazione della Banca dati del collocamento mirato e i tempi lunghi per l'applicazione delle sanzioni
di Luisiana Gaita | 1 febbraio 2017
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A 18 anni dall’approvazione della legge che tutela l’occupazione dei lavoratori disabili, l’inserimento nelle aziende resta un obiettivo difficile da raggiungere. A denunciarlo solo le organizzazioni sindacali di base della Cub (Confederazione Unitaria di Base) di Roma e Firenze che di recente hanno scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiedendo un intervento “al fine di favorire una reale applicazione della legge 68/99 nei luoghi di lavoro pubblici e privati”. La norma c’è, dunque, ma secondo i sindacati nel tempo è stata svuotata da circolari, provvedimenti e deroghe che danno alle aziende la possibilità “di trovare mille escamotage pur di non rispettare le quote imposte dalla legge”, spiega a ilfattoquotidiano.it Antonio Amoroso, rappresentante sindacale della Cub di Roma, organizzazione dei lavoratori del settore pubblico e privato in diversi settori (trasporti, sanità, metalmeccanici, commercio, servizi). “Siamo costretti a verificare – spiega Amoroso – la costante elusione delle norme da parte di moltissime aziende e degli enti pubblici”. Sotto accusa, oltre alle circolari del Ministero del Lavoro, anche la mancata attuazione della ‘Banca dati del collocamento mirato’. Su questo e su altre questioni contestate ha risposto a ilfattoquotidiano.it il sottosegretario Franca Biondelli, sottolineando “l’attenzione e la sensibilità del governo sui temi della disabilità” e quanto fatto con “i provvedimenti fin qui assunti”. Che, per i sindacati, non sono però sufficienti a garantire il rispetto della legge.
CHE COSA DICE LA LEGGE – L’occupazione dei lavoratori disabili è disciplinata attraverso il cosiddetto ‘collocamento mirato’ introdotto dalla legge 68/1999 e confermato da successivi interventi legislativi. Il sistema si basa sull’obbligo per le aziende con almeno 15 dipendenti di assumere una certa quota di disabili e su convenzioni che consentono ai datori di lavoro di avvalersi di agevolazioni. La legge, inoltre, tutela anche le ‘categorie protette’: orfani e coniugi di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio, coniugi e figli di grandi invalidi di guerra, di servizio e di lavoro, profughi italiani rimpatriati. Dopo le modifiche del Jobs Act, dal 1 gennaio 2017 sono scattate alcune novità. L’obbligo per le aziende di assumere un lavoratore disabile scatta sempre dai 15 dipendenti, ma mentre prima partiva solo in caso di nuove assunzioni, ora chiunque abbia dai 15 ai 35 dipendenti deve assumere almeno un lavoratore disabile, due se in azienda ci sono dai 36 ai 50 dipendenti, mentre se si superano i 50 dipendenti c’è l’obbligo di riservare il 7% dei posti disponibili a favore dei disabili e l’1% a favore dei familiari degli invalidi e dei profughi rimpatriati.
SOSPENSIONI, ESONERI E VIA LIBERA AGLI ESCAMOTAGE – Sono diversi i fattori che impediscono una reale applicazione delle norme. La legge stessa, intanto, prevede alcune eccezioni per chi opera in particolari campi. Possono, ad esempio, sottrarre parte dei dipendenti dalla base di computo i partiti politici, le organizzazioni sindacali, i servizi di polizia e difesa nazionale, le aziende che operano in alcuni settori, come quelli del trasporto aereo, marittimo e terrestre e dell’autotrasporto privato per quanto riguarda il personale viaggiante. “L’opera di smantellamento delle norme e degli obblighi contenuti nella legge 68 – spiega Amoroso – è stata costante, con l’obiettivo di depotenziarne l’efficacia”. Secondo il sindacato non solo “nel silenzio generale il legislatore ha inserito inaccettabili deroghe, nei più disparati provvedimenti, per andare incontro a questa o quella lobby imprenditoriale”, ma anche il Ministero del Lavoro, nel corso degli anni “non ha favorito l’attuazione della norma”. In particolare Amoroso cita alcune circolari “da cancellare”. Si tratta della numero 2 del 2010 (articolo 8), con cui si garantisce l’esclusione totale dagli obblighi previsti dalla legge 68 per le aziende che assumono anche un solo lavoratore dalla mobilità e per l’intero periodo di fruizione dell’ammortizzatore sociale. “Una norma – spiega il sindacalista – che permette alle aziende con ‘scoperture’ astronomiche rispetto alle quote previste, di affrancarsi dagli obblighi di assunzione dei disabili e delle altre categorie protette, assumendo pochi dipendenti dalla mobilità, magari licenziati poco prima”. L’altra circolare è la 77 del 2001, che consente alle aziende di pulizia di escludere dal computo delle quote obbligatorie i lavoratori assorbiti da appalti conseguiti dopo la costituzione. In pratica la percentuale del 7% si calcola non su tutti i lavoratori, ma solo sull’organico iniziale. “Così grandi imprese di pulizia – continua il rappresentante della Cub di Roma – operano con migliaia di lavoratori, ma con ‘scoperture’ abissali rispetto alle quote obbligatorie”.
LA REPLICA DEL GOVERNO – Sulla questione delle due circolari, ilfattoquotidiano.it ha interpellato il sottosegretario al Welfare Franca Biondelli. Per quanto riguarda la circolare 77, la deputata del Pd fa sapere che “il Governo eredita una situazione difficile consolidatasi da oltre 15 anni per effetto di accordi di settore relativi ai servizi di pulizia”. In merito alla circolare 2 del 2010, invece, “il problema evidenziato è relativo non tanto alla circolare quanto alla norma di legge” che ha differenziato l’istituto della mobilità “non limitando territorialmente l’effetto delle sospensioni degli obblighi”. In pratica con la circolare si sarebbe solo osservato quanto previsto dal legislatore. La ratio era legata alla protezione fornita al lavoratore entrato in mobilità, il primo da riassumere da parte dell’impresa pur in presenza di scoperture. “Come governo – spiegano dalla segreteria del sottosegretario – ci siamo posti il problema di modificare la norma con il Jobs Act”, ma le modifiche avrebbero prodotto effetti solo una volta che, come previsto, dal 1 gennaio 2017 “l’istituto della mobilità avesse cessato di esistere”. Ma cosa accadrà nelle aziende che hanno messo i lavoratori in mobilità precedentemente? “Se non si abroga la norma – spiega Amoroso – un’impresa che ha assunto un lavoratore del 2016 può essere esonerata fino a 4 anni”. Tra l’altro non è chiara la disciplina che verrà attuata con la NASpI, la nuova indennità di disoccupazione.
I TEMPI DELLE SANZIONI – Un’altra questione riguarda i tempi delle sanzioni. L’obbligo di assunzione della persona disabile scatta dopo il 60° giorno dal determinarsi della scopertura, della quale il centro per l’impiego viene a conoscenza solo quando l’azienda invia il prospetto. Cosa che può avvenire oltre un anno dopo. A quel punto l’azienda ha 60 giorni di tempo: o seleziona direttamente il personale oppure, alla scadenza, il centro per l’impiego invia la lista dei nomi dei lavoratori da assumere, prendendole dalle liste di collocamento per i disabili. Le sanzioni a carico del datore di lavoro che non rispetta la legge sono state più che raddoppiate da un decreto legislativo correttivo del Jobs Act: si è passati da 62,77 a 153,20 euro per ogni giorno e per ogni lavoratore non assunto. “Solo che al fine di determinare l’importo della sanzione – spiega Amoroso – il numero di giorni di inadempienza non è sempre calcolato a partire dall’insorgenza dell’obbligo, ma alcuni ispettori fanno partire il conteggio dal rifiuto dell’avviamento obbligatorio”. Un’interpretazione della norma che, secondo il sindacato, disincentiva le aziende a rispettare gli obblighi, incitandole “ad aspettare di essere beccate”.
UNA QUESTIONE DI TRASPARENZA – Valutare gli effetti di questa politica è complicato anche per la scarsità delle informazioni disponibili. Anche se dal 2010 i datori di lavoro soggetti alle norme del collocamento mirato devono presentare un rapporto sull’assolvimento degli obblighi di legge. “È necessario – spiega Amoroso – che il prospetto informativo diventi obbligatorio per tutte le aziende e non solo se varia il numero di dipendenti, mentre a quelle inadempienti che hanno rapporti con la pubblica amministrazione dovrebbero essere sospese abilitazioni e concessioni”. Ad oggi, però, la ‘Banca dati del collocamento mirato’, prevista da un decreto attuativo del Jobs Act “resta solo sulla carta”. Il sottosegretario Biondelli rassicura: “Sta già iniziando a essere attuata e dai primi mesi del 2016 è stata inserita la specifica delle assunzioni tra le comunicazioni obbligatorie che il datore di lavoro deve effettuare in caso di ogni variazione del rapporto di lavoro”. Ma per l’attuazione vera e propria? “È stato redatto un decreto onnicomprensivo, di cui si stanno ultimando gli aspetti legati al disciplinare tecnico”.
Disabili e lavoro, sindacati: “Troppe deroghe per andare incontro alle aziende. Così l’inserimento resta un miraggio”
Diritti
Le confederazioni di base di Roma e Firenze hanno scritto al presidente Sergio Mattarella perché si spenda per "una reale applicazione della legge 68/99" sull'integrazione lavorativa. "C'è una costante elusione da parte di imprese ma anche enti pubblici”. Sotto accusa alcune circolari del ministero del Lavoro, la mancata attuazione della Banca dati del collocamento mirato e i tempi lunghi per l'applicazione delle sanzioni
di Luisiana Gaita | 1 febbraio 2017
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A 18 anni dall’approvazione della legge che tutela l’occupazione dei lavoratori disabili, l’inserimento nelle aziende resta un obiettivo difficile da raggiungere. A denunciarlo solo le organizzazioni sindacali di base della Cub (Confederazione Unitaria di Base) di Roma e Firenze che di recente hanno scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiedendo un intervento “al fine di favorire una reale applicazione della legge 68/99 nei luoghi di lavoro pubblici e privati”. La norma c’è, dunque, ma secondo i sindacati nel tempo è stata svuotata da circolari, provvedimenti e deroghe che danno alle aziende la possibilità “di trovare mille escamotage pur di non rispettare le quote imposte dalla legge”, spiega a ilfattoquotidiano.it Antonio Amoroso, rappresentante sindacale della Cub di Roma, organizzazione dei lavoratori del settore pubblico e privato in diversi settori (trasporti, sanità, metalmeccanici, commercio, servizi). “Siamo costretti a verificare – spiega Amoroso – la costante elusione delle norme da parte di moltissime aziende e degli enti pubblici”. Sotto accusa, oltre alle circolari del Ministero del Lavoro, anche la mancata attuazione della ‘Banca dati del collocamento mirato’. Su questo e su altre questioni contestate ha risposto a ilfattoquotidiano.it il sottosegretario Franca Biondelli, sottolineando “l’attenzione e la sensibilità del governo sui temi della disabilità” e quanto fatto con “i provvedimenti fin qui assunti”. Che, per i sindacati, non sono però sufficienti a garantire il rispetto della legge.
CHE COSA DICE LA LEGGE – L’occupazione dei lavoratori disabili è disciplinata attraverso il cosiddetto ‘collocamento mirato’ introdotto dalla legge 68/1999 e confermato da successivi interventi legislativi. Il sistema si basa sull’obbligo per le aziende con almeno 15 dipendenti di assumere una certa quota di disabili e su convenzioni che consentono ai datori di lavoro di avvalersi di agevolazioni. La legge, inoltre, tutela anche le ‘categorie protette’: orfani e coniugi di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio, coniugi e figli di grandi invalidi di guerra, di servizio e di lavoro, profughi italiani rimpatriati. Dopo le modifiche del Jobs Act, dal 1 gennaio 2017 sono scattate alcune novità. L’obbligo per le aziende di assumere un lavoratore disabile scatta sempre dai 15 dipendenti, ma mentre prima partiva solo in caso di nuove assunzioni, ora chiunque abbia dai 15 ai 35 dipendenti deve assumere almeno un lavoratore disabile, due se in azienda ci sono dai 36 ai 50 dipendenti, mentre se si superano i 50 dipendenti c’è l’obbligo di riservare il 7% dei posti disponibili a favore dei disabili e l’1% a favore dei familiari degli invalidi e dei profughi rimpatriati.
SOSPENSIONI, ESONERI E VIA LIBERA AGLI ESCAMOTAGE – Sono diversi i fattori che impediscono una reale applicazione delle norme. La legge stessa, intanto, prevede alcune eccezioni per chi opera in particolari campi. Possono, ad esempio, sottrarre parte dei dipendenti dalla base di computo i partiti politici, le organizzazioni sindacali, i servizi di polizia e difesa nazionale, le aziende che operano in alcuni settori, come quelli del trasporto aereo, marittimo e terrestre e dell’autotrasporto privato per quanto riguarda il personale viaggiante. “L’opera di smantellamento delle norme e degli obblighi contenuti nella legge 68 – spiega Amoroso – è stata costante, con l’obiettivo di depotenziarne l’efficacia”. Secondo il sindacato non solo “nel silenzio generale il legislatore ha inserito inaccettabili deroghe, nei più disparati provvedimenti, per andare incontro a questa o quella lobby imprenditoriale”, ma anche il Ministero del Lavoro, nel corso degli anni “non ha favorito l’attuazione della norma”. In particolare Amoroso cita alcune circolari “da cancellare”. Si tratta della numero 2 del 2010 (articolo 8), con cui si garantisce l’esclusione totale dagli obblighi previsti dalla legge 68 per le aziende che assumono anche un solo lavoratore dalla mobilità e per l’intero periodo di fruizione dell’ammortizzatore sociale. “Una norma – spiega il sindacalista – che permette alle aziende con ‘scoperture’ astronomiche rispetto alle quote previste, di affrancarsi dagli obblighi di assunzione dei disabili e delle altre categorie protette, assumendo pochi dipendenti dalla mobilità, magari licenziati poco prima”. L’altra circolare è la 77 del 2001, che consente alle aziende di pulizia di escludere dal computo delle quote obbligatorie i lavoratori assorbiti da appalti conseguiti dopo la costituzione. In pratica la percentuale del 7% si calcola non su tutti i lavoratori, ma solo sull’organico iniziale. “Così grandi imprese di pulizia – continua il rappresentante della Cub di Roma – operano con migliaia di lavoratori, ma con ‘scoperture’ abissali rispetto alle quote obbligatorie”.
LA REPLICA DEL GOVERNO – Sulla questione delle due circolari, ilfattoquotidiano.it ha interpellato il sottosegretario al Welfare Franca Biondelli. Per quanto riguarda la circolare 77, la deputata del Pd fa sapere che “il Governo eredita una situazione difficile consolidatasi da oltre 15 anni per effetto di accordi di settore relativi ai servizi di pulizia”. In merito alla circolare 2 del 2010, invece, “il problema evidenziato è relativo non tanto alla circolare quanto alla norma di legge” che ha differenziato l’istituto della mobilità “non limitando territorialmente l’effetto delle sospensioni degli obblighi”. In pratica con la circolare si sarebbe solo osservato quanto previsto dal legislatore. La ratio era legata alla protezione fornita al lavoratore entrato in mobilità, il primo da riassumere da parte dell’impresa pur in presenza di scoperture. “Come governo – spiegano dalla segreteria del sottosegretario – ci siamo posti il problema di modificare la norma con il Jobs Act”, ma le modifiche avrebbero prodotto effetti solo una volta che, come previsto, dal 1 gennaio 2017 “l’istituto della mobilità avesse cessato di esistere”. Ma cosa accadrà nelle aziende che hanno messo i lavoratori in mobilità precedentemente? “Se non si abroga la norma – spiega Amoroso – un’impresa che ha assunto un lavoratore del 2016 può essere esonerata fino a 4 anni”. Tra l’altro non è chiara la disciplina che verrà attuata con la NASpI, la nuova indennità di disoccupazione.
I TEMPI DELLE SANZIONI – Un’altra questione riguarda i tempi delle sanzioni. L’obbligo di assunzione della persona disabile scatta dopo il 60° giorno dal determinarsi della scopertura, della quale il centro per l’impiego viene a conoscenza solo quando l’azienda invia il prospetto. Cosa che può avvenire oltre un anno dopo. A quel punto l’azienda ha 60 giorni di tempo: o seleziona direttamente il personale oppure, alla scadenza, il centro per l’impiego invia la lista dei nomi dei lavoratori da assumere, prendendole dalle liste di collocamento per i disabili. Le sanzioni a carico del datore di lavoro che non rispetta la legge sono state più che raddoppiate da un decreto legislativo correttivo del Jobs Act: si è passati da 62,77 a 153,20 euro per ogni giorno e per ogni lavoratore non assunto. “Solo che al fine di determinare l’importo della sanzione – spiega Amoroso – il numero di giorni di inadempienza non è sempre calcolato a partire dall’insorgenza dell’obbligo, ma alcuni ispettori fanno partire il conteggio dal rifiuto dell’avviamento obbligatorio”. Un’interpretazione della norma che, secondo il sindacato, disincentiva le aziende a rispettare gli obblighi, incitandole “ad aspettare di essere beccate”.
UNA QUESTIONE DI TRASPARENZA – Valutare gli effetti di questa politica è complicato anche per la scarsità delle informazioni disponibili. Anche se dal 2010 i datori di lavoro soggetti alle norme del collocamento mirato devono presentare un rapporto sull’assolvimento degli obblighi di legge. “È necessario – spiega Amoroso – che il prospetto informativo diventi obbligatorio per tutte le aziende e non solo se varia il numero di dipendenti, mentre a quelle inadempienti che hanno rapporti con la pubblica amministrazione dovrebbero essere sospese abilitazioni e concessioni”. Ad oggi, però, la ‘Banca dati del collocamento mirato’, prevista da un decreto attuativo del Jobs Act “resta solo sulla carta”. Il sottosegretario Biondelli rassicura: “Sta già iniziando a essere attuata e dai primi mesi del 2016 è stata inserita la specifica delle assunzioni tra le comunicazioni obbligatorie che il datore di lavoro deve effettuare in caso di ogni variazione del rapporto di lavoro”. Ma per l’attuazione vera e propria? “È stato redatto un decreto onnicomprensivo, di cui si stanno ultimando gli aspetti legati al disciplinare tecnico”.
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Re: IL LAVORO
Pd come Lega e Forza Italia. La federazione romana in crisi: scatta il licenziamento per i 12 dipendenti
Costi della politica
Il tesoriere Cotticelli scrive al personale: "Situazione irreversibile". Ai sindacati: "Drastica riduzione delle entrate per la cancellazione del finanziamento pubblico". Voluta dal segretario Matteo Renzi
di Elisa Bini | 2 febbraio 2017
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Più informazioni su: Finanziamento ai Partiti, Matteo Renzi, PD, Roma
“La situazione economico finanziaria della federazione non è solo grave, ma soprattutto irreversibile”. Così il Tesoriere del Pd Roma, Carlo Cotticelli, inizia la lettera dove annuncia ai dipendenti della federazione romana il licenziamento. Non c’è alternativa secondo il tesoriere, anche perché da mesi i dipendenti non vedono lo stipendio e la procedura di licenziamento è utile per chiedere la cassa integrazione. Che sia anche questo il motivo dell’incontro avvenuto ieri tra il Viceministro Teresa Bellanova, che per il Ministero dello Sviluppo Economico segue i tavoli di crisi, e il Segretario Matteo Renzi al Nazareno? Certo la coincidenza è strana e Cotticelli assicura che la decisione è stata presa in accordo con il Tesoriere nazionale, Francesco Bonifazi.
Nella lettera allegata alla comunicazione si legge che alla base della crisi che ha colpito il Pd Roma c’è la legge sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, fortemente voluta proprio dai renziani, e la conseguente “drastica riduzione delle entrate presenti e future derivanti dalla contribuzione degli eletti all’Assemblea capitolina e degli assessori esclude la possibilità di attivare l’adozione di strumenti alternativi”. Certo, sono lontani i tempi in cui il Pd romano si muoveva nei larghi uffici di Via delle Sette Chiese alla Garbatella e dove non si badava a spese, ma a leggere bene il problema del Pd sono 4 dipendenti. Infatti, nel dettaglio delle figure in esubero risultano 5 impiegati in aspettativa non retribuita perché eletti in Parlamento o in Regione; 3 impiegati in aspettativa non retribuita per motivi personali e 4 impiegati in attività. Tutti assunti con il contratto nazionale dei metalmeccanici. Senza contare che i cinque eletti versano mensilmente alla federazione un contributo “volontario” di circa 1000 euro.
Se la misura del licenziamento non coglie di sorpresa i dipendenti, diventa invece un campanello d’allarme per gli impiegati del Nazareno. Già da mesi pende come una spada di Damocle sul collo dei dipendenti di Sant’Andrea delle Fratte l’eventualità dei contratti di solidarietà e con Renzi segretario a tempo pieno rischia di diventare una realtà.
“L’anno scorso – raccontano fonti interne al partito – ci siamo salvati grazie al 2 per mille che ha premiato il Pd, ma dopo le spese faraoniche per la promozione del Sì al referendum, non c’è da aspettarsi nulla di buono”. Insomma quello che succede al Pd Roma non è che l’anteprima di quello che potrebbe accadere ai colleghi del Pd Nazionale, che già oggi per ammortizzare i costi sono spostati in forze ai gruppi parlamentari e ai Ministeri, dove le istituzioni rimborsano il partito per il personale “prestato” ad altre amministrazioni.
Dopo l’abolizione del finanziamento pubblico, la situazione finanziaria sta attanagliando i partiti vecchio stile. Già Forza Italia e recentemente la Lega Nord hanno mandato a casa i propri dipendenti e liquidato le attività in perdita come giornali, radio e tv. Lo sa bene il tesoriere Francesco Bonifazi, chiamato fin dall’inizio a gestire il rilancio dello storico giornale fondato da Gramsci, L’Unità, che però non solo non è mai decollato, ma continua ad accumulare debiti. Nonostante sia finanziariamente un flop, pochi giorni fa, Matteo Renzi ha promesso che il Pd si impegnerà a ricapitalizzare il progetto.
A questo si aggiunge che da qui a poche settimane è probabile l’inizio di una nuova campagna elettorale che richiederà al partito una buona dose di quattrini, in grado di riportare il segretario Renzi al centro della scena politica, dopo la batosta referendaria. Con quali soldi non si sa, ma i dipendenti del Nazareno temono che siano proprio quelli dei loro stipendi.
Costi della politica
Il tesoriere Cotticelli scrive al personale: "Situazione irreversibile". Ai sindacati: "Drastica riduzione delle entrate per la cancellazione del finanziamento pubblico". Voluta dal segretario Matteo Renzi
di Elisa Bini | 2 febbraio 2017
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“La situazione economico finanziaria della federazione non è solo grave, ma soprattutto irreversibile”. Così il Tesoriere del Pd Roma, Carlo Cotticelli, inizia la lettera dove annuncia ai dipendenti della federazione romana il licenziamento. Non c’è alternativa secondo il tesoriere, anche perché da mesi i dipendenti non vedono lo stipendio e la procedura di licenziamento è utile per chiedere la cassa integrazione. Che sia anche questo il motivo dell’incontro avvenuto ieri tra il Viceministro Teresa Bellanova, che per il Ministero dello Sviluppo Economico segue i tavoli di crisi, e il Segretario Matteo Renzi al Nazareno? Certo la coincidenza è strana e Cotticelli assicura che la decisione è stata presa in accordo con il Tesoriere nazionale, Francesco Bonifazi.
Nella lettera allegata alla comunicazione si legge che alla base della crisi che ha colpito il Pd Roma c’è la legge sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, fortemente voluta proprio dai renziani, e la conseguente “drastica riduzione delle entrate presenti e future derivanti dalla contribuzione degli eletti all’Assemblea capitolina e degli assessori esclude la possibilità di attivare l’adozione di strumenti alternativi”. Certo, sono lontani i tempi in cui il Pd romano si muoveva nei larghi uffici di Via delle Sette Chiese alla Garbatella e dove non si badava a spese, ma a leggere bene il problema del Pd sono 4 dipendenti. Infatti, nel dettaglio delle figure in esubero risultano 5 impiegati in aspettativa non retribuita perché eletti in Parlamento o in Regione; 3 impiegati in aspettativa non retribuita per motivi personali e 4 impiegati in attività. Tutti assunti con il contratto nazionale dei metalmeccanici. Senza contare che i cinque eletti versano mensilmente alla federazione un contributo “volontario” di circa 1000 euro.
Se la misura del licenziamento non coglie di sorpresa i dipendenti, diventa invece un campanello d’allarme per gli impiegati del Nazareno. Già da mesi pende come una spada di Damocle sul collo dei dipendenti di Sant’Andrea delle Fratte l’eventualità dei contratti di solidarietà e con Renzi segretario a tempo pieno rischia di diventare una realtà.
“L’anno scorso – raccontano fonti interne al partito – ci siamo salvati grazie al 2 per mille che ha premiato il Pd, ma dopo le spese faraoniche per la promozione del Sì al referendum, non c’è da aspettarsi nulla di buono”. Insomma quello che succede al Pd Roma non è che l’anteprima di quello che potrebbe accadere ai colleghi del Pd Nazionale, che già oggi per ammortizzare i costi sono spostati in forze ai gruppi parlamentari e ai Ministeri, dove le istituzioni rimborsano il partito per il personale “prestato” ad altre amministrazioni.
Dopo l’abolizione del finanziamento pubblico, la situazione finanziaria sta attanagliando i partiti vecchio stile. Già Forza Italia e recentemente la Lega Nord hanno mandato a casa i propri dipendenti e liquidato le attività in perdita come giornali, radio e tv. Lo sa bene il tesoriere Francesco Bonifazi, chiamato fin dall’inizio a gestire il rilancio dello storico giornale fondato da Gramsci, L’Unità, che però non solo non è mai decollato, ma continua ad accumulare debiti. Nonostante sia finanziariamente un flop, pochi giorni fa, Matteo Renzi ha promesso che il Pd si impegnerà a ricapitalizzare il progetto.
A questo si aggiunge che da qui a poche settimane è probabile l’inizio di una nuova campagna elettorale che richiederà al partito una buona dose di quattrini, in grado di riportare il segretario Renzi al centro della scena politica, dopo la batosta referendaria. Con quali soldi non si sa, ma i dipendenti del Nazareno temono che siano proprio quelli dei loro stipendi.
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Re: IL LAVORO
Datajournalism
In casa con la famiglia e senza lavoro, identikit dei giovani italiani
Disoccupati. Sfiduciati. Senza rappresentanza politica. Due su tre vivono ancora con i genitori, che per molti fungono da vero e proprio ammortizzatore sociale. Ritratto di una generazione maltrattata
di Davide Mancino
09 febbraio 2017
12
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Da quando l’allora ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa coniò il termine, ormai dieci anni fa, non serve aspettare troppo perché periodicamente torni fuori la storia dei bamboccioni. Il punto di partenza della polemica è sempre lo stesso: i giovani che in Italia vivono con i loro genitori anche a una certa età sono molti, molti più che in tutto il resto d’Europa. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia europea di statistica (Eurostat) due 18-34enni sue tre contro una media europea che è poco sotto il 50 percento, mentre si arriva anche a uno su tre nel Regno Unito.
Fin qui i fatti: ma quando si tratta di capire le cause la questione diventa più complicata. Che sia perché le condizioni economiche non glielo consentono o perché, come suggerisce lo stereotipo, in fondo sono dei mammoni?
Certo è che per loro in nessun luogo del continente, a parte Grecia e forse Spagna, la situazione del lavoro appare così difficile come in Italia. Intanto siamo la nazione più anziana d’Europa, con la quota più ampia di over 65. Già questo implica contare meno in quanto a rappresentanza politica rispetto a gruppi sociali come i pensionati, per esempio, che riescono a essere più coesi nelle loro richieste (e sono la maggioranza all’interno del principale sindacato italiano, la Cgil). Al contrario, gli under 35 sono politicamente dispersi e tendono anche a votare meno, per cui i loro interessi sono peggio rappresentati.
Anche mettendo da parte la politica, a confrontare il lavoro dei giovani europei il dato che emerge con maggiore forza è l’enorme differenza in termini di chi un impiego ce l’ha e chi no. Non appena si scende al di sotto del Lazio o dell’Abruzzo, per non parlare delle Isole, l’occupazione cala a livelli che non si possono definire greci solo perché il paragone sarebbe scorretto. Ma per la Grecia stessa. In queste regioni lavora meno di un 25-34enne su due, mentre al Centro si supera spesso il 70 percento e nel nord-est anche l’80.
Se proviamo a guardare nel dettaglio chi sono, queste persone, la questione diventa evidente. Nel 2015 fra i 12,7 milioni di italiani fra 15 e 34 anni una parte significativa studia ancora. Subito dopo arriva il nocciolo del problema. In primo luogo gli 1,4 milioni di disoccupati, poi gli scoraggiati - cioè coloro che sono disposti a lavorare ma hanno smesso di cercare attivamente un impiego - e infine il gruppo di chi né cerca lavoro né è disposto a lavorare. Un gruppo composto, a quanto risulta dai dati Istat, in buona parte da donne e soprattutto nel meridione.
Fonte: Istat
Ma anche fra i 5 milioni di under 35 che un lavoro ce l’hanno, è importante capire esattamente chi fa cosa. Circa un milione sono lavoratori autonomi, mentre pochi di più i lavoratori a termine . I rimanenti, fra tutti, gli unici con contratto a tempo indeterminato che quanto meno consente un certo grado di stabilità.
D’altra parte va riconosciuto che l’uso dei contratti a termine per i giovani italiani non è tanto più frequente rispetto ai loro omologhi europei. In Francia e in Germania, secondo Eurostat, risulta appena più diffuso e lo è assai di più in Spagna. Soltanto nel Regno Unito il lavoro a tempo determinato non ha mai davvero preso piede: ma non c’è da sorprendersi troppo perché lì il lavoro è più flessibile anche per i contratti “normali”.
Fonte: Istat
Lavoro e autonomia sono legati in maniera evidente. Dove i giovani lavorano più di frequente tendono anche a uscire prima dalla famiglia di origine. In queste cose però a volte è difficile capire se viene prima l’uovo o la gallina, e una spiegazione alternativa potrebbe andare nel verso opposto: e cioè che i ragazzi italiani lavorano meno proprio perché restano in famiglia a lungo.
Uno studio del ricercatore Marco Tosi appena pubblicato sulla rivista Demographic Research riassume , fra l’altro, i risultati delle ultime ricerche sul tema. Vivere con i genitori anche in età non più giovanissima, spiega l’autore, è «una strategia per prevenire la povertà, soprattutto nelle classi sociali più povere e nelle famiglie che vivono in zone con elevata disoccupazione».
Questo effetto, continua Tosi, deriva da uno stato sociale debole e incapace di proteggere i più giovani. In più c’è la questione degli affitti, scarsamente disponibili, che «pospone la decisione di lasciare il nido familiare». Poi ci sono i genitori stessi, sui quali i giovani fanno estremo affidamento e che «esercitano un’influenza importante sulle scelte dei figli».
Ma al di là dell’aspetto economico ce n’è anche uno culturale. Difficile negare la fama degli italiani all’estero, in questo senso. E certo esiste una differenza importante: in Italia come in molti altri paesi del sud Europa il momento di lasciare la famiglia d’origine tende a coincidere con il matrimonio. Una convenzione sociale che oggi però cozza contro una società in rapido cambiamento.
In parte perché di lavoro per i giovani continua a non essercene, in parte perché comunque si mette su famiglia sempre più tardi e, al di là dei giudizi personali, questa tradizione pare destinata a rafforzarsi un po’ ovunque, piuttosto che scomparire. Almeno nell’immediato futuro.
Si ringraziano per la collaborazione Michele Boldrin , Andrea Moro, Thomas Manfredi e Marco Albertini per l’aiuto durante il lavoro di ricerca.
Per diagrammi vedi:
http://espresso.repubblica.it/inchieste ... =HEF_RULLO
In casa con la famiglia e senza lavoro, identikit dei giovani italiani
Disoccupati. Sfiduciati. Senza rappresentanza politica. Due su tre vivono ancora con i genitori, che per molti fungono da vero e proprio ammortizzatore sociale. Ritratto di una generazione maltrattata
di Davide Mancino
09 febbraio 2017
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Da quando l’allora ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa coniò il termine, ormai dieci anni fa, non serve aspettare troppo perché periodicamente torni fuori la storia dei bamboccioni. Il punto di partenza della polemica è sempre lo stesso: i giovani che in Italia vivono con i loro genitori anche a una certa età sono molti, molti più che in tutto il resto d’Europa. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia europea di statistica (Eurostat) due 18-34enni sue tre contro una media europea che è poco sotto il 50 percento, mentre si arriva anche a uno su tre nel Regno Unito.
Fin qui i fatti: ma quando si tratta di capire le cause la questione diventa più complicata. Che sia perché le condizioni economiche non glielo consentono o perché, come suggerisce lo stereotipo, in fondo sono dei mammoni?
Certo è che per loro in nessun luogo del continente, a parte Grecia e forse Spagna, la situazione del lavoro appare così difficile come in Italia. Intanto siamo la nazione più anziana d’Europa, con la quota più ampia di over 65. Già questo implica contare meno in quanto a rappresentanza politica rispetto a gruppi sociali come i pensionati, per esempio, che riescono a essere più coesi nelle loro richieste (e sono la maggioranza all’interno del principale sindacato italiano, la Cgil). Al contrario, gli under 35 sono politicamente dispersi e tendono anche a votare meno, per cui i loro interessi sono peggio rappresentati.
Anche mettendo da parte la politica, a confrontare il lavoro dei giovani europei il dato che emerge con maggiore forza è l’enorme differenza in termini di chi un impiego ce l’ha e chi no. Non appena si scende al di sotto del Lazio o dell’Abruzzo, per non parlare delle Isole, l’occupazione cala a livelli che non si possono definire greci solo perché il paragone sarebbe scorretto. Ma per la Grecia stessa. In queste regioni lavora meno di un 25-34enne su due, mentre al Centro si supera spesso il 70 percento e nel nord-est anche l’80.
Se proviamo a guardare nel dettaglio chi sono, queste persone, la questione diventa evidente. Nel 2015 fra i 12,7 milioni di italiani fra 15 e 34 anni una parte significativa studia ancora. Subito dopo arriva il nocciolo del problema. In primo luogo gli 1,4 milioni di disoccupati, poi gli scoraggiati - cioè coloro che sono disposti a lavorare ma hanno smesso di cercare attivamente un impiego - e infine il gruppo di chi né cerca lavoro né è disposto a lavorare. Un gruppo composto, a quanto risulta dai dati Istat, in buona parte da donne e soprattutto nel meridione.
Fonte: Istat
Ma anche fra i 5 milioni di under 35 che un lavoro ce l’hanno, è importante capire esattamente chi fa cosa. Circa un milione sono lavoratori autonomi, mentre pochi di più i lavoratori a termine . I rimanenti, fra tutti, gli unici con contratto a tempo indeterminato che quanto meno consente un certo grado di stabilità.
D’altra parte va riconosciuto che l’uso dei contratti a termine per i giovani italiani non è tanto più frequente rispetto ai loro omologhi europei. In Francia e in Germania, secondo Eurostat, risulta appena più diffuso e lo è assai di più in Spagna. Soltanto nel Regno Unito il lavoro a tempo determinato non ha mai davvero preso piede: ma non c’è da sorprendersi troppo perché lì il lavoro è più flessibile anche per i contratti “normali”.
Fonte: Istat
Lavoro e autonomia sono legati in maniera evidente. Dove i giovani lavorano più di frequente tendono anche a uscire prima dalla famiglia di origine. In queste cose però a volte è difficile capire se viene prima l’uovo o la gallina, e una spiegazione alternativa potrebbe andare nel verso opposto: e cioè che i ragazzi italiani lavorano meno proprio perché restano in famiglia a lungo.
Uno studio del ricercatore Marco Tosi appena pubblicato sulla rivista Demographic Research riassume , fra l’altro, i risultati delle ultime ricerche sul tema. Vivere con i genitori anche in età non più giovanissima, spiega l’autore, è «una strategia per prevenire la povertà, soprattutto nelle classi sociali più povere e nelle famiglie che vivono in zone con elevata disoccupazione».
Questo effetto, continua Tosi, deriva da uno stato sociale debole e incapace di proteggere i più giovani. In più c’è la questione degli affitti, scarsamente disponibili, che «pospone la decisione di lasciare il nido familiare». Poi ci sono i genitori stessi, sui quali i giovani fanno estremo affidamento e che «esercitano un’influenza importante sulle scelte dei figli».
Ma al di là dell’aspetto economico ce n’è anche uno culturale. Difficile negare la fama degli italiani all’estero, in questo senso. E certo esiste una differenza importante: in Italia come in molti altri paesi del sud Europa il momento di lasciare la famiglia d’origine tende a coincidere con il matrimonio. Una convenzione sociale che oggi però cozza contro una società in rapido cambiamento.
In parte perché di lavoro per i giovani continua a non essercene, in parte perché comunque si mette su famiglia sempre più tardi e, al di là dei giudizi personali, questa tradizione pare destinata a rafforzarsi un po’ ovunque, piuttosto che scomparire. Almeno nell’immediato futuro.
Si ringraziano per la collaborazione Michele Boldrin , Andrea Moro, Thomas Manfredi e Marco Albertini per l’aiuto durante il lavoro di ricerca.
Per diagrammi vedi:
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Re: IL LAVORO
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Robot e Industria 4.0, il lavoro del futuro verrà ancora svolto dagli uomini?
Flaminio de Castelmur per SpazioEconomia
Lo spettro dell’automazione si aggira per l’Europa. L’allarme è scattato la scorsa estate, quando i ricercatori di Bruegel, influente think-tank di Bruxelles, hanno calcolato che tra il 45 e il 60 per cento della forza lavoro europea rischia, nel corso dei prossimi decenni, di essere sostituita da robot governati da sofisticati algoritmi. Se fare un pilota digitale era più facile del previsto, ora però bisogna dirlo ai taxisti in rivolta perché sostituiti da un guidatore umano chiamato tramite smartphone oggi e da un algoritmo domani. Non solo: bisogna spiegare altrettanto a tutti gli altri interpreti in carne e ossa delle professioni che saranno travolte o trasformate da quella che il Boston Consulting Group definisce “Industria 4.0”: la quarta rivoluzione produttiva, seguita a quelle del motore a vapore, dell’elettricità e delle forme di automazione introdotte negli anni ’70.
Analizzare l’impatto dell’automazione su singole attività lavorative in un preciso contesto aiuta a meglio comprendere le voci che formano il saldo previsto in termini occupazionali. Nel rapporto Man and Machine in Industry 4.0, analizzando 40 “famiglie” occupazionali in 23 settori diversi dell’economia tedesca, gli analisti concludono che l’impatto dell’automazione sarà positivo, per 350 mila unità in un decennio. Ma se per gli scienziati dei dati e altre professioni legate all’informatica ci sarà un boom di poco inferiore al milione di nuovi posti di lavoro, quelli alla catena di montaggio e in altri settori della produzione vedranno una contrazione di oltre 600 mila lavoratori.
Quale sarà l’impatto sull’occupazione dell’Industria 4.0 se lo è chiesto anche l’autorevole Pew Research che ha girato la domanda a quasi duemila esperti, analisti e costruttori di prodotti tecnologici che hanno partecipato all’inchiesta intitolata Future of the internet. I risultati, resi noti in da poco, concordano su tre punti:
1) I robot e l’intelligenza artificiale permeeranno ogni aspetto della nostra vita nel 2025. La loro diffusione, in particolare, si farà sentire sul settore della salute, dei trasporti, della logistica, dei servizi ai consumatori e della manutenzione della casa;
2) La formazione scolastica e universitaria contemporanea non sono in grado di preparare adeguatamente le persone per le sfide del prossimo decennio e sarebbe bene cominciare a fare qualcosa in proposito;
3) I cambiamenti all’orizzonte saranno un’occasione per rivalutare alcune competenze, ma anche per ripensare il nostro concetto di lavoro. In futuro, insomma, ci sarà più spazio per modelli produttivi che daranno alle persone più tempo libero da trascorrere. La tecnologia, dunque, ci libererà sempre di più dalla fatica della quotidianità e il risultato sarà una relazione più positiva con il lavoro e con le persone.
Sul resto, i pareri sono divisi. Per il 48% degli esperti, la nuova ondata dell’innovazione, fatta di auto che si guidano da sole, robot e network di intelligenza artificiale, impatterà negativamente sulla creazione di posti di lavoro. Nei prossimi anni, dunque, le macchine e i programmi sostituiranno non solo i lavoratori meno specializzati, ma anche gli impiegati. L’altra metà degli intervistati, invece, si dice fiduciosa della possibilità che la tecnologia e l’innovazione saranno in grado di creare più posti di lavoro di quanti ne andranno perduti a vantaggio dei robot. Perché l’uomo, così come ha sempre fatto dalla Rivoluzione Industriale in avanti, non smetterà di creare nuovi tipi di lavoro, nuove industrie e nuovi modi di guadagnare.
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Secondo me tutto dipenderà da ciò che farà o non farà la classe politica.
LAVORO & PRECARI
Robot e Industria 4.0, il lavoro del futuro verrà ancora svolto dagli uomini?
Flaminio de Castelmur per SpazioEconomia
Lo spettro dell’automazione si aggira per l’Europa. L’allarme è scattato la scorsa estate, quando i ricercatori di Bruegel, influente think-tank di Bruxelles, hanno calcolato che tra il 45 e il 60 per cento della forza lavoro europea rischia, nel corso dei prossimi decenni, di essere sostituita da robot governati da sofisticati algoritmi. Se fare un pilota digitale era più facile del previsto, ora però bisogna dirlo ai taxisti in rivolta perché sostituiti da un guidatore umano chiamato tramite smartphone oggi e da un algoritmo domani. Non solo: bisogna spiegare altrettanto a tutti gli altri interpreti in carne e ossa delle professioni che saranno travolte o trasformate da quella che il Boston Consulting Group definisce “Industria 4.0”: la quarta rivoluzione produttiva, seguita a quelle del motore a vapore, dell’elettricità e delle forme di automazione introdotte negli anni ’70.
Analizzare l’impatto dell’automazione su singole attività lavorative in un preciso contesto aiuta a meglio comprendere le voci che formano il saldo previsto in termini occupazionali. Nel rapporto Man and Machine in Industry 4.0, analizzando 40 “famiglie” occupazionali in 23 settori diversi dell’economia tedesca, gli analisti concludono che l’impatto dell’automazione sarà positivo, per 350 mila unità in un decennio. Ma se per gli scienziati dei dati e altre professioni legate all’informatica ci sarà un boom di poco inferiore al milione di nuovi posti di lavoro, quelli alla catena di montaggio e in altri settori della produzione vedranno una contrazione di oltre 600 mila lavoratori.
Quale sarà l’impatto sull’occupazione dell’Industria 4.0 se lo è chiesto anche l’autorevole Pew Research che ha girato la domanda a quasi duemila esperti, analisti e costruttori di prodotti tecnologici che hanno partecipato all’inchiesta intitolata Future of the internet. I risultati, resi noti in da poco, concordano su tre punti:
1) I robot e l’intelligenza artificiale permeeranno ogni aspetto della nostra vita nel 2025. La loro diffusione, in particolare, si farà sentire sul settore della salute, dei trasporti, della logistica, dei servizi ai consumatori e della manutenzione della casa;
2) La formazione scolastica e universitaria contemporanea non sono in grado di preparare adeguatamente le persone per le sfide del prossimo decennio e sarebbe bene cominciare a fare qualcosa in proposito;
3) I cambiamenti all’orizzonte saranno un’occasione per rivalutare alcune competenze, ma anche per ripensare il nostro concetto di lavoro. In futuro, insomma, ci sarà più spazio per modelli produttivi che daranno alle persone più tempo libero da trascorrere. La tecnologia, dunque, ci libererà sempre di più dalla fatica della quotidianità e il risultato sarà una relazione più positiva con il lavoro e con le persone.
Sul resto, i pareri sono divisi. Per il 48% degli esperti, la nuova ondata dell’innovazione, fatta di auto che si guidano da sole, robot e network di intelligenza artificiale, impatterà negativamente sulla creazione di posti di lavoro. Nei prossimi anni, dunque, le macchine e i programmi sostituiranno non solo i lavoratori meno specializzati, ma anche gli impiegati. L’altra metà degli intervistati, invece, si dice fiduciosa della possibilità che la tecnologia e l’innovazione saranno in grado di creare più posti di lavoro di quanti ne andranno perduti a vantaggio dei robot. Perché l’uomo, così come ha sempre fatto dalla Rivoluzione Industriale in avanti, non smetterà di creare nuovi tipi di lavoro, nuove industrie e nuovi modi di guadagnare.
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Re: IL LAVORO
NELLA FABBRICA DELL'AMICO DEL DUCETTO DI RIGNANO
Reazioni
Operaio costretto a urinarsi addosso, contro i capi nessun provvedimento[/b]
La Fiat Chrysler si scusa con il lavoratore della Sevel di Atessa a cui è stato impedito di andare in bagno. Ma ai capireparto solo un richiamo, senza procedure disciplinari. Usb promette battaglia. E Sinistra Italiana presenta un'interrogazione
di Maurizio Di Fazio
http://espresso.repubblica.it/
AI DUE AMICI PIACEREBBE TANTO ESTENDERE IL MODUS VIVENDI ANCHE IN ITALIA
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Operaio costretto a urinarsi addosso, contro i capi nessun provvedimento[/b]
La Fiat Chrysler si scusa con il lavoratore della Sevel di Atessa a cui è stato impedito di andare in bagno. Ma ai capireparto solo un richiamo, senza procedure disciplinari. Usb promette battaglia. E Sinistra Italiana presenta un'interrogazione
di Maurizio Di Fazio
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Re: IL LAVORO
Inps, la Corte dei Conti: «Patrimonio in rosso per la prima volta»
1/35
Corriere della Sera
Redazione online 2 ore fa
Allarme della Corte dei Conti sull’Inps. Secondo la Sezione del controllo sugli enti non è più «procrastinabile una riforma della governance» dell’Istituto di previdenza. «Lo scostamento tra i saldi finanziari e quelli economici è dovuto principalmente all’andamento dei residui attivi - spiega la Corte dei Conti nella Relazione sulla gestione finanziaria del 2015 -. Il conto economico, infatti, espone - al netto dell’accantonamento a riserva legale per 2,95 miliardi - un risultato di esercizio negativo per 16,3 miliardi (-12,48 miliardi nel 2014), condizionato da un accantonamento al fondo rischi crediti contributivi per 13,09 miliardi (4,97 miliardi nel 2014). In conseguenza di ciò, il patrimonio netto è pari a 5,87 miliardi, con un decremento sul 2014 di 12,54 miliardi. A questo riguardo è da rilevare come, per effetto di un peggioramento dei risultati previsionali assestati del 2016 (con un risultato economico negativo che si attesta su 7,65 miliardi) il patrimonio netto passi, per la prima volta dall’istituzione dell’ente, in territorio negativo per 1,73 miliardi».
I dati
Nel periodo di riferimento le entrate contributive segnano un incremento di 3,32 miliardi sul precedente esercizio e risultano pari a 214,79 miliardi. La spesa per prestazioni istituzionali ammonta a 307,83 miliardi, con un incremento rispetto all’anno precedente di 4,43 miliardi ascrivibile principalmente all’aumento della spesa per pensioni (+4,26 miliardi), pari in valore assoluto a 273,07 miliardi. Le pensioni vigenti sono oltre 21 milioni, di cui circa l’82 per cento previdenziali. Nel corso del 2015 sono state liquidate 671.934 nuove prestazioni previdenziali e 571.386 nuove prestazioni assistenziali, con un incremento rispettivamente dell’8,5 per cento e del 6,2 per cento rispetto al 2014.
©
I poteri
«Occorre - si legge nella relazione - un ripensamento di funzioni e compiti del direttore generale, che ne definisca i confini, alla luce anche del principio di separazione tra attività di indirizzo politico e gestione amministrativa. D’altro canto, l’accentramento nella figura del presidente dei compiti prima spettanti al Cda non sembra, alla prova dei fatti, aver risolto i profili di problematicità del sistema di governo, anche nei rapporti tra gli organi dell’Istituto».
ALTRO SU MSN:
Inps: in 2017 atteso rosso 6,1 mld, patrimonio -7,8 mld
http://www.msn.com/it-it/notizie/italia ... spartandhp
1/35
Corriere della Sera
Redazione online 2 ore fa
Allarme della Corte dei Conti sull’Inps. Secondo la Sezione del controllo sugli enti non è più «procrastinabile una riforma della governance» dell’Istituto di previdenza. «Lo scostamento tra i saldi finanziari e quelli economici è dovuto principalmente all’andamento dei residui attivi - spiega la Corte dei Conti nella Relazione sulla gestione finanziaria del 2015 -. Il conto economico, infatti, espone - al netto dell’accantonamento a riserva legale per 2,95 miliardi - un risultato di esercizio negativo per 16,3 miliardi (-12,48 miliardi nel 2014), condizionato da un accantonamento al fondo rischi crediti contributivi per 13,09 miliardi (4,97 miliardi nel 2014). In conseguenza di ciò, il patrimonio netto è pari a 5,87 miliardi, con un decremento sul 2014 di 12,54 miliardi. A questo riguardo è da rilevare come, per effetto di un peggioramento dei risultati previsionali assestati del 2016 (con un risultato economico negativo che si attesta su 7,65 miliardi) il patrimonio netto passi, per la prima volta dall’istituzione dell’ente, in territorio negativo per 1,73 miliardi».
I dati
Nel periodo di riferimento le entrate contributive segnano un incremento di 3,32 miliardi sul precedente esercizio e risultano pari a 214,79 miliardi. La spesa per prestazioni istituzionali ammonta a 307,83 miliardi, con un incremento rispetto all’anno precedente di 4,43 miliardi ascrivibile principalmente all’aumento della spesa per pensioni (+4,26 miliardi), pari in valore assoluto a 273,07 miliardi. Le pensioni vigenti sono oltre 21 milioni, di cui circa l’82 per cento previdenziali. Nel corso del 2015 sono state liquidate 671.934 nuove prestazioni previdenziali e 571.386 nuove prestazioni assistenziali, con un incremento rispettivamente dell’8,5 per cento e del 6,2 per cento rispetto al 2014.
©
I poteri
«Occorre - si legge nella relazione - un ripensamento di funzioni e compiti del direttore generale, che ne definisca i confini, alla luce anche del principio di separazione tra attività di indirizzo politico e gestione amministrativa. D’altro canto, l’accentramento nella figura del presidente dei compiti prima spettanti al Cda non sembra, alla prova dei fatti, aver risolto i profili di problematicità del sistema di governo, anche nei rapporti tra gli organi dell’Istituto».
ALTRO SU MSN:
Inps: in 2017 atteso rosso 6,1 mld, patrimonio -7,8 mld
http://www.msn.com/it-it/notizie/italia ... spartandhp
Chi c’è in linea
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