Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
UN "UOMO" TUTTO DI UN PEZZO
Quando Renzi diceva: “Non vi pagherò mai una pizza in cambio del vostro voto”
VIDEO:http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/11 ... o/3207463/
1:04 / 1:04
di Gisella Ruccia | 21 novembre 2016
COMMENTI (2)
648
Più informazioni su: Matteo Renzi, Primarie PD, Referendum Costituzionale 2016, Vincenzo De Luca
“Mi hanno appena detto: ”Ci paghi la pizza per tutti quanti?’. No, è finita l’epoca in cui i politici pagano per avere il voto. Basta. E’ l’ora di finirla”. Così il 6 ottobre 2012 parlava Matteo Renzi, durante la sua tappa tranese per le primarie del 2012. Un monito che apparteneva allo ‘storytelling’ del rottamatore ‘duro e puro’ e che oggi, dopo quattro anni, stride con la reazione bonaria che il premier ha mostrato dinanzi alla sanguigna esortazione del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ai 300 sindaci e al primo cittadino di Agropoli, Franco Alfieri. Proprio oggi, infatti, il presidente del Consiglio, ai microfoni di 24 Mattino (Radio24), ha precisato che De Luca ha “un metodo” che non è il suo personale, senza esprimersi in giudizi di merito. E lo ha difeso strenuamente: “Se tutto il Mezzogiorno fosse stato amministrato come De Luca ha amministrato Salerno, oggi il Pil dell’Italia sarebbe l’uno per cento in più”
Quando Renzi diceva: “Non vi pagherò mai una pizza in cambio del vostro voto”
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di Gisella Ruccia | 21 novembre 2016
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“Mi hanno appena detto: ”Ci paghi la pizza per tutti quanti?’. No, è finita l’epoca in cui i politici pagano per avere il voto. Basta. E’ l’ora di finirla”. Così il 6 ottobre 2012 parlava Matteo Renzi, durante la sua tappa tranese per le primarie del 2012. Un monito che apparteneva allo ‘storytelling’ del rottamatore ‘duro e puro’ e che oggi, dopo quattro anni, stride con la reazione bonaria che il premier ha mostrato dinanzi alla sanguigna esortazione del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ai 300 sindaci e al primo cittadino di Agropoli, Franco Alfieri. Proprio oggi, infatti, il presidente del Consiglio, ai microfoni di 24 Mattino (Radio24), ha precisato che De Luca ha “un metodo” che non è il suo personale, senza esprimersi in giudizi di merito. E lo ha difeso strenuamente: “Se tutto il Mezzogiorno fosse stato amministrato come De Luca ha amministrato Salerno, oggi il Pil dell’Italia sarebbe l’uno per cento in più”
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Re: Diario della caduta di un regime.
FILASTROCCHE
La Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte
ADATTAMENTI OBBLIGATORI
La Scemenza vien di notte
con le scarpe tutte rotte
La Stampa 21.11.16
Se vince il No
Sarà il caos (Luigi Zanda, Pd). Avremo una coalizione di governo che vede insieme grillini, leghisti e comunisti (Gianfranco Librandi, Civici e innovatori). Torniamo a essere una vera democrazia (Silvio Berlusconi, FI). Sarà un po’ come la Brexit (Dario Franceschini, ministro). Il paese sarà in balia di speculatori finanziari (Dario Nardella). Lo Stato potrebbe estendere la ricerca di petrolio ovunque (Michele Emiliano, governatore della Puglia). Avremo Virginia Raggi sindaco d’Italia (Pier Ferdinando Casini, Area popolare). Il nostro paese sarà ingovernabile per decenni (Dario Franceschini). Non si ridurranno mai più i costi della politica (Matteo Renzi). Gli italiani che sono andati via torneranno in Italia (Luigi Di Maio). Torniamo alla casta (Matteo Renzi). Sarà un Natale con la casta (Comitato Bastaunsì). Avremo un sistema che non riesce a decidere, e lì c’è il rischio autoritario (Maria Elena Boschi). Avrà una funzione educativa e farà crescere il paese (Gianna Fracassi, Cgil). Si metterà in sicurezza il paese (Lorenzo Cesa, Udc). Avremo la democrazia del vuoto di potere (Dario Nardella). Siamo cool e vincenti, come Bob Dylan (Carlo Sibilia, M5s). Non avremo voce nei grandi vertici internazionali (Matteo Renzi). Torniamo alla bicamerale D’Alema (Matteo Renzi). Non diventeremo schiavi del sistema più infame, schiavi di Bruxelles, di Francoforte e di Berlino (Matteo Salvini, Lega). Non verrà fuori un nostro Erdogan (Lorenzo Cesa). Tornano i dinosauri della politica (Dario Nardella). Gli amici di Renzi - JP Morgan in primis con il loro consulente Tony Blair - ci rimettono un sacco di soldi (Renato Brunetta, FI). Vince l’Italia del rancore e dell’odio, l’italietta senza credibilità che si rassegna senza combattere (Simona Vicari, sottosegretario). Nell’Unione europea non ci fila più nessuno (Matteo Renzi). Lascio la politica (Alberto Baccini, sindaco di Porcari, Lucca).
La Stampa 21.11.16
Se vince il Sì
È caos (Stefano Parisi, FI). Si soddisfano le esigenze di lobby occulte anche criminali (Antonio Ingroia, Azione civile) La politica manterrà le sue promesse (Ettore Rosato, Pd). L’Italia aiuta le sue imprese (Paolo Gentiloni, ministro). Migliora anche la mia città (Dario Nardella, sindaco di Firenze). Si ridà un futuro al Sud (Stefania Covello, Pd). Si aprono le porte alle grandi speculazioni straniere (Danilo Toninelli, M5s). Si va contro i sardi (Ugo Cappellacci, FI). Ci sarà un fondo di 500 milioni per le nuove povertà (Matteo Renzi, premier). Si rischia di tornare al ventennio fascista (Roberto Calderoli, Lega). La sanità non può che migliorare (Beatrice Lorenzin, ministro). Daremo ai malati di cancro cure migliori (Maria Elena Boschi, ministro). Le conseguenze ambientali sarebbero gravi (Angelo Bonelli, Verdi). Vuol dire tagliare gli stipendi di lusso (Matteo Renzi). Si attua il Piano rinascita di Licio Gelli (Beppe Grillo, M5s). Il voto degli italiani all’estero sarà più rilevante (Fabio Porta, Pd). Il nuovo Senato bloccherà i provvedimenti dei cinque stelle (Luigi Di Maio, M5s). Questo clima può trasformarsi in violenza (Danilo Toninelli). L’economia andrà meglio e ci sarà più lavoro (Pier Carlo Padoan, ministro). La democrazia è in pericolo (Luigi De Magistris, sindaco di Napoli). Nascerebbe il Pdr, il partito di Renzi (Massimo D’Alema, Pd). Si mandano a casa i dinosauri della politica (Dario Nardella). In costituzione ci sarà l’equilibrio di genere (Maria Elena Boschi). Assistiamo a un colpo di Stato (Roberto Calderoli). È finita la stagione degli inciuci (Matteo Renzi). Farà con meno violenza, meno arresti, meno morti, quello che han già fatto Mussolini, Franco, Salazar, Ceausescu, Erdogan (Maurizio Bianconi, Conservatori e riformisti). L’Italia sarà più simile all’Ungheria (Ferdinando Imposimato)
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Re: Diario della caduta di un regime.
Repubblica 21.11.16
Confindustria in campo “Addio investimenti se fermiamo la riforma”
Per il presidente Boccia “l’incertezza è un macigno”. “Jobs act utile ma la precarietà è ancora troppo estesa”
di Massimo Giannini
FERMARE “l’Internazionale populista”. Nella Trumposfera in cui siamo inopinatamente piombati, l’imperativo categorico risuona forte e chiaro. Dopo l’America, la minaccia “aliena” incomberà sull’Italia, dove l’ordalia referendaria su Renzi apre la prospettiva che prevalga “l’accozzaglia del no”.
LA FORMULA del premier suona irrispettosa della verità e della società. Ma in fondo non dispiace al degasperiano “Quarto Partito”, quello degli imprenditori, che rilancia una discesa in campo molto discussa: «Nei giorni scorsi - ragiona il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia - ho visto il leader degli industriali tedeschi che mi ha chiesto: “Come possiamo fermare i populismi in Europa?”. Il tema è cruciale. Per questo siamo ancora più determinati nel sostegno alla riforma costituzionale».
Se Banca d’Italia constata, Confindustria milita: «E’ normale: siamo un corpo intermedio che vuole contribuire a cambiare il Paese, in termini di maggiore competitività per le imprese. Solo il 30% degli italiani sa che l’Italia è il secondo paese industriale d’Europa dopo la Germania. E potremmo essere i primi. Ma per questo serve stabilità. Le imprese devono poter contare su un assetto istituzionale e normativo semplice e certo, nel medio periodo, altrimenti la macchina degli investimenti non riparte. Poi è decisivo rivedere il Titolo V e ristabilire un equilibrio virtuoso tra centro e territori. Queste posizioni fanno parte della tradizione riformista di Confindustria: il 23 giugno il nostro Consiglio Generale le ha approvate all’unanimità». Resta un fatto: il “voto” dei mercati, come quello delle élite finanziarie, è diventato un’arma impropria. Boccia nega: «La vittoria del No sarebbe un segnale che l’Italia non vuole cambiare, perchè tutto rimarrebbe com’è: non possiamo permettercelo».
La “svolta politica” di Confindustria produce maldipancia. C’è una “fronda” interna pronta a uscire allo scoperto dopo il 4 dicembre: «Questa è una leggenda, siamo molto più compatti di quello che raccontano. Confindustria è e resta rigorosamente a-politica e a-governativa. Detto questo, non è facile far capire a tutti perché vogliamo passare dalla difesa degli interessi a una dimensione più generale della rappresentanza. Ma è un passaggio necessario... ». Il sospetto di una forma impropria di collateralismo con il governo c’è. Nel luglio scorso Confindustria ha previsto il peggio: se non passa la riforma il Pil cala dell’1,7% e gli investimenti del 12,1%.
Un’Apocalisse. Fondata su evidenze scientifiche, o tarata su esigenze politiche? «Era un momento diverso. Il referendum era previsto in ottobre, proprio all’inizio della sessione di bilancio, e il premier minacciava di dimettersi in caso di sconfitta del Sì. Questo avrebbe voluto dire incertezza sulla legge di bilancio e sulla flessibilità Ue. In altre parole, grande instabilità, con forte impatto sullo spread...». In ogni caso il sostegno al referendum è stato “ripagato” da una legge di bilancio molto generosa con le imprese. Boccia ammette: «Il governo ha messo in campo una serie di “stimoli” importanti. Il piano Industria 4.0 è positivo non perché aiuta Confindustria, ma perché aiuta il Paese a fare un salto verso la modernizzazione. Lo stesso ragionamento vale per la detassazione del salario di produttività. Se il governo avvia una politica industriale che ci porta “dai settori ai fattori” non fa un favore a noi, ma all’Italia».
Anche il Jobs Act non sfugge alla chiave di lettura dello “scambio”. Senza la decontribuzione (costata 20 miliardi) i 650 mila nuovi posti di lavoro non ci sarebbero mai stati. «Ma anche il Jobs Act non è “un favore alle imprese”. Il bilancio è positivo anche per i lavoratori. Certo, ha funzionato il combinato disposto con la decontribuzione. Ora gli obiettivi per andare avanti sono due. Il primo è rendere davvero convenienti le assunzioni a tempo indeterminato, con un serio abbattimento del cuneo fiscale. Il secondo è combattere davvero la precarietà: se vivi da lavoratore “somministrato” non hai futuro, non puoi costruirti una famiglia».
Il “fantasma dell’instabilità”, agitato da Confindustria, sembra un alibi che giustifica il crollo degli investimenti (meno 25% dal 2007): «Per noi un recupero di “passione imprenditoriale” è necessario - ammette Boccia - dobbiamo agire secondo il pessimismo delle previsioni e l’ottimismo delle aspettative. Ma il clima di incertezza che regna nel Paese è un macigno sulle scelte degli imprenditori. Simon Peres diceva che “l’attesa della guerra è peggio della guerra”... ».
La sensazione è che la guerra sia iniziata da un pezzo. E noi, con una produzione industriale collassata del 25%, la stiamo perdendo. «Abbiamo un 20% di medie imprese che vanno molto bene, scambiano salari con produttività, hanno alta innovazione di processo e di prodotto, alta intensita di capitale e alta proiezione sui mercati esteri. Poi abbiamo un 20% di imprese che non ce la fanno, operano in settori maturi o ad alto valore aggiunto, ma non hanno innovato e non reggono la competizione globale. E poi c’è un 60% di imprese che stanno in mezzo al guado». Ora la sfida è «come si fa a traghettare quel 60% in mezzo al guado verso il 20% che sta sull’altra sponda, e non verso l’altro 20% che sta affondando». Per Confindustria Renzi «ci sta provando ». Per un’altra metà del Paese, pronta a scrivere No sulla scheda, non ci sta riuscendo. Chiunque vinca, dopo il 4 dicembre sarà un miracolo rimette insieme queste due metà.
Confindustria in campo “Addio investimenti se fermiamo la riforma”
Per il presidente Boccia “l’incertezza è un macigno”. “Jobs act utile ma la precarietà è ancora troppo estesa”
di Massimo Giannini
FERMARE “l’Internazionale populista”. Nella Trumposfera in cui siamo inopinatamente piombati, l’imperativo categorico risuona forte e chiaro. Dopo l’America, la minaccia “aliena” incomberà sull’Italia, dove l’ordalia referendaria su Renzi apre la prospettiva che prevalga “l’accozzaglia del no”.
LA FORMULA del premier suona irrispettosa della verità e della società. Ma in fondo non dispiace al degasperiano “Quarto Partito”, quello degli imprenditori, che rilancia una discesa in campo molto discussa: «Nei giorni scorsi - ragiona il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia - ho visto il leader degli industriali tedeschi che mi ha chiesto: “Come possiamo fermare i populismi in Europa?”. Il tema è cruciale. Per questo siamo ancora più determinati nel sostegno alla riforma costituzionale».
Se Banca d’Italia constata, Confindustria milita: «E’ normale: siamo un corpo intermedio che vuole contribuire a cambiare il Paese, in termini di maggiore competitività per le imprese. Solo il 30% degli italiani sa che l’Italia è il secondo paese industriale d’Europa dopo la Germania. E potremmo essere i primi. Ma per questo serve stabilità. Le imprese devono poter contare su un assetto istituzionale e normativo semplice e certo, nel medio periodo, altrimenti la macchina degli investimenti non riparte. Poi è decisivo rivedere il Titolo V e ristabilire un equilibrio virtuoso tra centro e territori. Queste posizioni fanno parte della tradizione riformista di Confindustria: il 23 giugno il nostro Consiglio Generale le ha approvate all’unanimità». Resta un fatto: il “voto” dei mercati, come quello delle élite finanziarie, è diventato un’arma impropria. Boccia nega: «La vittoria del No sarebbe un segnale che l’Italia non vuole cambiare, perchè tutto rimarrebbe com’è: non possiamo permettercelo».
La “svolta politica” di Confindustria produce maldipancia. C’è una “fronda” interna pronta a uscire allo scoperto dopo il 4 dicembre: «Questa è una leggenda, siamo molto più compatti di quello che raccontano. Confindustria è e resta rigorosamente a-politica e a-governativa. Detto questo, non è facile far capire a tutti perché vogliamo passare dalla difesa degli interessi a una dimensione più generale della rappresentanza. Ma è un passaggio necessario... ». Il sospetto di una forma impropria di collateralismo con il governo c’è. Nel luglio scorso Confindustria ha previsto il peggio: se non passa la riforma il Pil cala dell’1,7% e gli investimenti del 12,1%.
Un’Apocalisse. Fondata su evidenze scientifiche, o tarata su esigenze politiche? «Era un momento diverso. Il referendum era previsto in ottobre, proprio all’inizio della sessione di bilancio, e il premier minacciava di dimettersi in caso di sconfitta del Sì. Questo avrebbe voluto dire incertezza sulla legge di bilancio e sulla flessibilità Ue. In altre parole, grande instabilità, con forte impatto sullo spread...». In ogni caso il sostegno al referendum è stato “ripagato” da una legge di bilancio molto generosa con le imprese. Boccia ammette: «Il governo ha messo in campo una serie di “stimoli” importanti. Il piano Industria 4.0 è positivo non perché aiuta Confindustria, ma perché aiuta il Paese a fare un salto verso la modernizzazione. Lo stesso ragionamento vale per la detassazione del salario di produttività. Se il governo avvia una politica industriale che ci porta “dai settori ai fattori” non fa un favore a noi, ma all’Italia».
Anche il Jobs Act non sfugge alla chiave di lettura dello “scambio”. Senza la decontribuzione (costata 20 miliardi) i 650 mila nuovi posti di lavoro non ci sarebbero mai stati. «Ma anche il Jobs Act non è “un favore alle imprese”. Il bilancio è positivo anche per i lavoratori. Certo, ha funzionato il combinato disposto con la decontribuzione. Ora gli obiettivi per andare avanti sono due. Il primo è rendere davvero convenienti le assunzioni a tempo indeterminato, con un serio abbattimento del cuneo fiscale. Il secondo è combattere davvero la precarietà: se vivi da lavoratore “somministrato” non hai futuro, non puoi costruirti una famiglia».
Il “fantasma dell’instabilità”, agitato da Confindustria, sembra un alibi che giustifica il crollo degli investimenti (meno 25% dal 2007): «Per noi un recupero di “passione imprenditoriale” è necessario - ammette Boccia - dobbiamo agire secondo il pessimismo delle previsioni e l’ottimismo delle aspettative. Ma il clima di incertezza che regna nel Paese è un macigno sulle scelte degli imprenditori. Simon Peres diceva che “l’attesa della guerra è peggio della guerra”... ».
La sensazione è che la guerra sia iniziata da un pezzo. E noi, con una produzione industriale collassata del 25%, la stiamo perdendo. «Abbiamo un 20% di medie imprese che vanno molto bene, scambiano salari con produttività, hanno alta innovazione di processo e di prodotto, alta intensita di capitale e alta proiezione sui mercati esteri. Poi abbiamo un 20% di imprese che non ce la fanno, operano in settori maturi o ad alto valore aggiunto, ma non hanno innovato e non reggono la competizione globale. E poi c’è un 60% di imprese che stanno in mezzo al guado». Ora la sfida è «come si fa a traghettare quel 60% in mezzo al guado verso il 20% che sta sull’altra sponda, e non verso l’altro 20% che sta affondando». Per Confindustria Renzi «ci sta provando ». Per un’altra metà del Paese, pronta a scrivere No sulla scheda, non ci sta riuscendo. Chiunque vinca, dopo il 4 dicembre sarà un miracolo rimette insieme queste due metà.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Corriere 21.11.16
«Io, Renzi e l’accozzaglia»
di Mario Monti
È nella natura stessa di un referenduml’aggregare i Sì e i No secondo l’opinione che si ha sulla questione sottoposta al voto.a pagina 27
C aro direttore, il presidente del Consiglio Matteo Renzi sabato ha esibito un fotomontaggio, completo di fumetti, raffigurante l’«accozzaglia»: i volti di sette persone, tra le quali quattro ex premier, che si sono pronunciate per il No al referendum. L’opera, si è appreso, illustrerà un dépliant che sarà spedito a tutti gli italiani dal comitato per il Sì.
Ieri Renzi ha precisato: «Se ho offeso qualcuno mi scuso». Per quanto mi riguarda, nessuna offesa; se mai sorpresa per essere finito lì anch’io. Infatti, a differenza dei miei «compagni di accozzaglia», pur avendo dichiarato che voterò No e per quali ragioni ( Corriere della Sera , 18 e 30 ottobre scorso) non prendo parte alla campagna referendaria.
A mio modesto avviso, il presidente Renzi dovrebbe piuttosto rivolgere le sue scuse alla logica e ai fatti, per ripetute mancanze di rispetto nei loro confronti. A meno che, in epoca di politica post verità e di storytelling , l’aderenza alla logica e ai fatti sia ormai da considerare un fastidioso orpello.
È contro la logica, a prescindere dalle buone o cattive maniere, l’assillante e caricaturale argomento sull’ «accozzaglia» dei No. È nella natura stessa di un referendum l’aggregare i Sì e i No secondo l’opinione che si ha sulla questione sottoposta al voto. Pur essendo un tema importante, quello di una parziale riforma della Costituzione non è una «scelta di civiltà» che consenta di separare i reprobi e i virtuosi. Ed è persino possibile che vi siano cittadini inceneriti come reprobi dalle saette del presidente del Consiglio e che tuttavia non pensano che, anche in caso di vittoria del No, egli dovrebbe lasciare. Chi scrive, ad esempio, è un cittadino che si è espresso contro questa particolare riforma e che tuttavia non vede perché Renzi dovrebbe lasciare il governo in caso di sconfitta del Sì. Non è una debolezza delle ragioni del No (così come del Sì, evidentemente) se a sostenere il No sono persone e movimenti che mai potrebbero governare insieme. Anzi, più eterogenei sono gli orientamenti politici di quanti condividono il No, più questo significa che le ragioni del No sono numerose e diffuse. E sono contro i fatti molti degli argomenti usati dal presidente del Consiglio. Ne cito alcuni tra quelli che sono stati da lui utilizzati nei miei confronti, solo perché conosco la realtà più che in altri casi.
«Mi dispiace il No di una parte del Parlamento che ha votato la riforma in Aula e che poi per motivi politici ora vota No» (Renzi, 17 novembre). Il mio nome è citato tra questi. Come ho avuto occasione di ricordare più volte, ho votato a favore della riforma in prima lettura in Senato, nell’agosto 2014, non in seconda e terza lettura.
«Con il No, Monti, Salvini, Grillo, D’Alema sfruttano il 4 dicembre per riprendersi il potere che avevano perso. Vogliono tornare loro» (Renzi, 18 novembre). Per quanto mi riguarda, Renzi può stare tranquillo. Forse ricorderà che il «potere» me l’hanno dato il presidente della Repubblica e il Parlamento nel novembre 2011 quando nessun politico lo voleva. È curioso, questo addebito, mosso da chi nel febbraio 2014 è andato a esigere il potere, con una risolutezza che gli si deve riconoscere.
«Se voti No stai difendendo la "Casta". Sono i sostenitori della "Casta", quelli che per anni hanno sempre detto No al cambiamento» (Renzi, 16 novembre). Se Renzi ritiene che questo addebito sia da muovere anche a me, che voterò No, o al governo che ho guidato, sarò lieto di discuterne.
«Monti (qui contrapposto a Salvini) ha una visione da maestrina, che era propria del governo tecnico, dell’Europa da cui ci si fa dettare la linea, un governo che dice "ce lo chiede l’Europa"» (Renzi, 18 novembre). Se la narrazione non è confortata dai fatti, basta dimenticare i fatti, questa sembra essere la posizione di Renzi anche sui temi europei. Nel periodo del mio governo, ho sempre spiegato agli italiani che determinate misure erano necessarie per il bene dell’Italia e dei nostri figli. Preferivo, come è avvenuto, assumere su di me l’impopolarità anziché vederla scaricata dagli italiani sull’Unione Europea, come fanno di solito i politici con un esercizio in cui il nostro presidente del Consiglio è maestro.
Quanto al modo di battersi a Bruxelles, pima di fare affermazioni inconsistenti come quella citata del 18 novembre sarebbe bastato che Renzi desse un’occhiata ad una nota Ansa di tre giorni prima: «Il più noto pugno sul tavolo lo sbattè Mario Monti nel 2012, durante la notte del 28 giugno, in cui sfidò apertamente la Merkel: minacciò il veto all’intero pacchetto di misure sul tavolo se non avesse avuto il via libera allo scudo anti spread, che ha aperto la strada al programma di acquisto di titoli di Stato della Bce».
Ma il massimo dello storytelling avulso dai fatti Renzi l’ha raggiunto sabato. «Mille giorni fa tutti dicevano che l’Italia avrebbe fatto la fine della Grecia». Come tutti sanno, l’Italia ha rischiato di fare la fine della Grecia. Ma quel rischio è stato scongiurato ben prima dell’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi. Quando si è insediato nel febbraio 2014 lo spread era a 190, all’incirca come è oggi. Il mio governo se l’era trovato a 574 nel novembre 2011 e l’aveva consegnato a Enrico Letta nell’aprile 2013 a quota 260, insieme all’uscita dell’Italia dalla procedura di disavanzo eccessivo. Renzi è poi arrivato a governare il solo Paese del Sud Europa che era fuori da tale procedura e che non aveva la troika a «governare».
Il fronte finanziario è da presidiare con attenzione, come stanno facendo il ministro Padoan e la Banca d’Italia. Padoan ha spiegato nel Corriere di ieri che i mercati internazionali in questa fase sono più nervosi. È naturale che anche la scadenza referendaria abbia una certa influenza ed è stato inopportuno avere drammatizzato questa scadenza al di là della sua portata effettiva. Ma, come ha illustrato ieri Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore , il rialzo attuale dello spread dell’Italia ha a che fare, più che con il referendum, con i risorgenti dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico italiano, legati — nell’analisi di Ricolfi — alle scelte di politica economica degli ultimi due anni. «Dai primi mesi di quest’anno lo spread dell’Italia, che nel corso del 2015 era peggiorato di meno di quello di Spagna e Portogallo, comincia a evolvere (negativamente) come quello del Portogallo, peggio di quello della Spagna e persino peggio di quello della Grecia». Invece di parlare di Grecia a sproposito, cerchiamo di fare il necessario per ancorare definitivamente la nave della finanza italiana in un porto sicuro, prima che arrivi una prossima tempesta.
«Io, Renzi e l’accozzaglia»
di Mario Monti
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C aro direttore, il presidente del Consiglio Matteo Renzi sabato ha esibito un fotomontaggio, completo di fumetti, raffigurante l’«accozzaglia»: i volti di sette persone, tra le quali quattro ex premier, che si sono pronunciate per il No al referendum. L’opera, si è appreso, illustrerà un dépliant che sarà spedito a tutti gli italiani dal comitato per il Sì.
Ieri Renzi ha precisato: «Se ho offeso qualcuno mi scuso». Per quanto mi riguarda, nessuna offesa; se mai sorpresa per essere finito lì anch’io. Infatti, a differenza dei miei «compagni di accozzaglia», pur avendo dichiarato che voterò No e per quali ragioni ( Corriere della Sera , 18 e 30 ottobre scorso) non prendo parte alla campagna referendaria.
A mio modesto avviso, il presidente Renzi dovrebbe piuttosto rivolgere le sue scuse alla logica e ai fatti, per ripetute mancanze di rispetto nei loro confronti. A meno che, in epoca di politica post verità e di storytelling , l’aderenza alla logica e ai fatti sia ormai da considerare un fastidioso orpello.
È contro la logica, a prescindere dalle buone o cattive maniere, l’assillante e caricaturale argomento sull’ «accozzaglia» dei No. È nella natura stessa di un referendum l’aggregare i Sì e i No secondo l’opinione che si ha sulla questione sottoposta al voto. Pur essendo un tema importante, quello di una parziale riforma della Costituzione non è una «scelta di civiltà» che consenta di separare i reprobi e i virtuosi. Ed è persino possibile che vi siano cittadini inceneriti come reprobi dalle saette del presidente del Consiglio e che tuttavia non pensano che, anche in caso di vittoria del No, egli dovrebbe lasciare. Chi scrive, ad esempio, è un cittadino che si è espresso contro questa particolare riforma e che tuttavia non vede perché Renzi dovrebbe lasciare il governo in caso di sconfitta del Sì. Non è una debolezza delle ragioni del No (così come del Sì, evidentemente) se a sostenere il No sono persone e movimenti che mai potrebbero governare insieme. Anzi, più eterogenei sono gli orientamenti politici di quanti condividono il No, più questo significa che le ragioni del No sono numerose e diffuse. E sono contro i fatti molti degli argomenti usati dal presidente del Consiglio. Ne cito alcuni tra quelli che sono stati da lui utilizzati nei miei confronti, solo perché conosco la realtà più che in altri casi.
«Mi dispiace il No di una parte del Parlamento che ha votato la riforma in Aula e che poi per motivi politici ora vota No» (Renzi, 17 novembre). Il mio nome è citato tra questi. Come ho avuto occasione di ricordare più volte, ho votato a favore della riforma in prima lettura in Senato, nell’agosto 2014, non in seconda e terza lettura.
«Con il No, Monti, Salvini, Grillo, D’Alema sfruttano il 4 dicembre per riprendersi il potere che avevano perso. Vogliono tornare loro» (Renzi, 18 novembre). Per quanto mi riguarda, Renzi può stare tranquillo. Forse ricorderà che il «potere» me l’hanno dato il presidente della Repubblica e il Parlamento nel novembre 2011 quando nessun politico lo voleva. È curioso, questo addebito, mosso da chi nel febbraio 2014 è andato a esigere il potere, con una risolutezza che gli si deve riconoscere.
«Se voti No stai difendendo la "Casta". Sono i sostenitori della "Casta", quelli che per anni hanno sempre detto No al cambiamento» (Renzi, 16 novembre). Se Renzi ritiene che questo addebito sia da muovere anche a me, che voterò No, o al governo che ho guidato, sarò lieto di discuterne.
«Monti (qui contrapposto a Salvini) ha una visione da maestrina, che era propria del governo tecnico, dell’Europa da cui ci si fa dettare la linea, un governo che dice "ce lo chiede l’Europa"» (Renzi, 18 novembre). Se la narrazione non è confortata dai fatti, basta dimenticare i fatti, questa sembra essere la posizione di Renzi anche sui temi europei. Nel periodo del mio governo, ho sempre spiegato agli italiani che determinate misure erano necessarie per il bene dell’Italia e dei nostri figli. Preferivo, come è avvenuto, assumere su di me l’impopolarità anziché vederla scaricata dagli italiani sull’Unione Europea, come fanno di solito i politici con un esercizio in cui il nostro presidente del Consiglio è maestro.
Quanto al modo di battersi a Bruxelles, pima di fare affermazioni inconsistenti come quella citata del 18 novembre sarebbe bastato che Renzi desse un’occhiata ad una nota Ansa di tre giorni prima: «Il più noto pugno sul tavolo lo sbattè Mario Monti nel 2012, durante la notte del 28 giugno, in cui sfidò apertamente la Merkel: minacciò il veto all’intero pacchetto di misure sul tavolo se non avesse avuto il via libera allo scudo anti spread, che ha aperto la strada al programma di acquisto di titoli di Stato della Bce».
Ma il massimo dello storytelling avulso dai fatti Renzi l’ha raggiunto sabato. «Mille giorni fa tutti dicevano che l’Italia avrebbe fatto la fine della Grecia». Come tutti sanno, l’Italia ha rischiato di fare la fine della Grecia. Ma quel rischio è stato scongiurato ben prima dell’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi. Quando si è insediato nel febbraio 2014 lo spread era a 190, all’incirca come è oggi. Il mio governo se l’era trovato a 574 nel novembre 2011 e l’aveva consegnato a Enrico Letta nell’aprile 2013 a quota 260, insieme all’uscita dell’Italia dalla procedura di disavanzo eccessivo. Renzi è poi arrivato a governare il solo Paese del Sud Europa che era fuori da tale procedura e che non aveva la troika a «governare».
Il fronte finanziario è da presidiare con attenzione, come stanno facendo il ministro Padoan e la Banca d’Italia. Padoan ha spiegato nel Corriere di ieri che i mercati internazionali in questa fase sono più nervosi. È naturale che anche la scadenza referendaria abbia una certa influenza ed è stato inopportuno avere drammatizzato questa scadenza al di là della sua portata effettiva. Ma, come ha illustrato ieri Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore , il rialzo attuale dello spread dell’Italia ha a che fare, più che con il referendum, con i risorgenti dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico italiano, legati — nell’analisi di Ricolfi — alle scelte di politica economica degli ultimi due anni. «Dai primi mesi di quest’anno lo spread dell’Italia, che nel corso del 2015 era peggiorato di meno di quello di Spagna e Portogallo, comincia a evolvere (negativamente) come quello del Portogallo, peggio di quello della Spagna e persino peggio di quello della Grecia». Invece di parlare di Grecia a sproposito, cerchiamo di fare il necessario per ancorare definitivamente la nave della finanza italiana in un porto sicuro, prima che arrivi una prossima tempesta.
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Re: Diario della caduta di un regime.
GIORNI DIFFICILI
La Stampa 21.11.16
Marino: “Votare Sì è un favore a Grillo”
Per l’ex sindaco di Roma “il successo della consultazione voluta dal premier farà volare i populisti mentre il No li fermerà. Basta propaganda Pd”
Il premier rischia di consegnare l’Italia alla Casaleggio
L’ex sindaco: “La vittoria del Sì farebbe volare il populismo. Il No lo può fermare”
Io con Grillo? No, io sto con Libera di don Ciotti, i partigiani, la Cgil, i migliori costituzionalisti
Il centrosinistra deve tornare una forza che unisce e non il comitato propagandistico che è diventato
Un successo del No genererebbe instabilità? Quando si demolisce un ecomostro, si alza un po’ di polvere. Ma poi si torna a vedere l’orizzonte
intervista di Giuseppe Salvaggiulo
«Il referendum, convocato per riscuotere un plebiscito, ora fa paura.
E si cerca di manipolare l’opinione pubblica con le peggiori tecniche.
Da un lato la legge di stabilità che a colpi di bonus e marchette lobbistiche diventa il grande mercimonio della Repubblica.
Dall’altro l’evocazione di apocalissi finanziarie connesse al referendum.
Tutto si tiene, scivolando pericolosamente su un crinale antidemocratico.
Mi viene in mente Gramsci, il sovversivismo delle classi dirigenti».
Da un mese Ignazio Marino, incassata la piena assoluzione, perché il fatto non sussiste, nel processo sulle spese di rappresentanza effettuate quando era sindaco di Roma, gira l’Italia in treno.
Duemila chilometri da solo, per raccontare della sua vicenda politica e umana ricostruita nel libro “Un marziano a Roma” (Feltrinelli, 2016) e sostenere le ragioni del No al referendum. «Non è revanscismo, il mio.
Guardo avanti. Voglio solo che tutti sappiano che c’è un filo conduttore, che parte da Roma un anno fa e arriva oggi in ogni angolo d’Italia».
Qual è la sua lettura?
«Tutta questa stagione è dominata dallo stesso sprezzo della democrazia e del valore costituzionale della sovranità popolare.
La volontà renziana spazzò via la mia giunta di sinistra consegnando Roma al Movimento 5 Stelle. Ora rischia di consegnare l’Italia a Grillo. Anzi, alla Casaleggio Associati».
Renzi dice che la vittoria del Sì sarebbe un argine ai populisti.
«E’ vero il contrario. Se passasse questo forzato stravolgimento di 47 articoli della Costituzione Repubblicana, consegneremmo a chi detiene il potere esecutivo, il governo, un potere mai visto prima.
E con il mondo che vira pericolosamente verso la deriva populista, questo è un azzardo che non possiamo permetterci.
E’ il tempo di coltivare limiti e contrappesi, non la democrazia d’investitura».
Qual è lo scenario più probabile in caso di vittoria del Sì?
«La vittoria elettorale di Grillo, come dimostrato dalle ultime amministrative e dai sondaggi».
E in caso di vittoria del No ci saranno contraccolpi in termini di instabilità?
«Quando si demolisce un ecomostro, si alza un po’ di polvere. Ma poi si torna a vedere l’orizzonte».
Non pensa che senza Renzi il Movimento 5 Stelle sarebbe già al governo?
«Renzi ha pensato che avrebbe disinnescato Grillo. Invece rincorrerlo sul terreno del populismo è stato un errore strategico.
Anziché porsi come alternativa all’avversario ha pensato di imitarlo, aprendogli la strada. L’originale ha sempre più appeal della copia».
Ma la vittoria del No rinforzerebbe ulteriormente Grillo. E riporterebbe il Pd nel caos.
«Non è detto. Cancellerebbe in un colpo una pessima revisione costituzionale e una pessima legge elettorale. So bene che anche la vittoria del No ci metterebbe di fronte a un percorso di ricostruzione.
Ma con più speranze di poter ricostruire in condizioni di sicurezza costituzionale. La Costituzione non deve dividerci ma unirci».
Come?
«Tutti i riformisti, che non si riconoscono nel messaggio populista ma nemmeno nella sbrigativa e arrogante semplificazione renziana, dovranno riflettere e ritrovarsi».
Una chiamata alle armi per la minoranza del Pd?
«Il Pd non basta più, figuriamoci la minoranza. Non penso solo al Pd, ma a tutto il centrosinistra, in questi anni devastato dalla spinta centrifuga. Ci sono energie eccezionali ma disordinate. Occorre mettere fine a questa diaspora, superare la parentesi renzista, recidere i gigli magici e fare una nuova semina. Insieme. Un collettivo, non un uomo solo».
Lei dice che Renzi fa il gioco di Grillo, ma in realtà nel fronte del no è lei che sta con Grillo. E con Salvini, Brunetta, Meloni.
«Io sto con chi crede nella sovranità popolare, con Libera di don Ciotti, con i partigiani, con la Cgil, con i nostri migliori costituzionalisti. Ma vede, questo è l’altro “capolavoro” di Renzi: a forza di prendere il mondo a sportellate si è messo contro quasi tutti. E quando si parla di riforme costituzionali, che sono le regole comuni, isolarsi è peggio di un crimine: è un errore strategico».
Nel Pd la vittoria del No sarebbe la vittoria di D’Alema e Bersani, la vecchia politica che si prende la rivincita?
«Trovo grottesco e patetico che chi ha malamente personalizzato il Sì ora voglia velenosamente personalizzare il No. La vittoria del No sarebbe innanzitutto la vittoria del buonsenso, contro una riforma sbagliata della Costituzione. D’Alema e Bersani non sono candidati, così come non lo sono io. Siamo impegnati nel difendere la democrazia».
Comunque vada, ci sarà presto un congresso del Pd. Lei che farà?
«Io credo ancora molto nel centrosinistra come unico argine possibile alle spinte anti-sistema. Deve riprendersi dal trauma di questi anni, tornare a essere una forza che unisce e non il comitato propagandistico che ha lacerato la nostra identità a colpi di tweet. Forse siamo ancora in tempo».
Non è che nel Pd si rivede la Ditta, il sistema di potere degli ex comunisti? E lei come la mette, visto che nel 2009 si candidò contro?
«Oggi è il tempo di liberarsi della sottomarca che ha sostituito la cosiddetta Ditta di Bersani. E di costruire insieme il futuro».
La Stampa 21.11.16
Marino: “Votare Sì è un favore a Grillo”
Per l’ex sindaco di Roma “il successo della consultazione voluta dal premier farà volare i populisti mentre il No li fermerà. Basta propaganda Pd”
Il premier rischia di consegnare l’Italia alla Casaleggio
L’ex sindaco: “La vittoria del Sì farebbe volare il populismo. Il No lo può fermare”
Io con Grillo? No, io sto con Libera di don Ciotti, i partigiani, la Cgil, i migliori costituzionalisti
Il centrosinistra deve tornare una forza che unisce e non il comitato propagandistico che è diventato
Un successo del No genererebbe instabilità? Quando si demolisce un ecomostro, si alza un po’ di polvere. Ma poi si torna a vedere l’orizzonte
intervista di Giuseppe Salvaggiulo
«Il referendum, convocato per riscuotere un plebiscito, ora fa paura.
E si cerca di manipolare l’opinione pubblica con le peggiori tecniche.
Da un lato la legge di stabilità che a colpi di bonus e marchette lobbistiche diventa il grande mercimonio della Repubblica.
Dall’altro l’evocazione di apocalissi finanziarie connesse al referendum.
Tutto si tiene, scivolando pericolosamente su un crinale antidemocratico.
Mi viene in mente Gramsci, il sovversivismo delle classi dirigenti».
Da un mese Ignazio Marino, incassata la piena assoluzione, perché il fatto non sussiste, nel processo sulle spese di rappresentanza effettuate quando era sindaco di Roma, gira l’Italia in treno.
Duemila chilometri da solo, per raccontare della sua vicenda politica e umana ricostruita nel libro “Un marziano a Roma” (Feltrinelli, 2016) e sostenere le ragioni del No al referendum. «Non è revanscismo, il mio.
Guardo avanti. Voglio solo che tutti sappiano che c’è un filo conduttore, che parte da Roma un anno fa e arriva oggi in ogni angolo d’Italia».
Qual è la sua lettura?
«Tutta questa stagione è dominata dallo stesso sprezzo della democrazia e del valore costituzionale della sovranità popolare.
La volontà renziana spazzò via la mia giunta di sinistra consegnando Roma al Movimento 5 Stelle. Ora rischia di consegnare l’Italia a Grillo. Anzi, alla Casaleggio Associati».
Renzi dice che la vittoria del Sì sarebbe un argine ai populisti.
«E’ vero il contrario. Se passasse questo forzato stravolgimento di 47 articoli della Costituzione Repubblicana, consegneremmo a chi detiene il potere esecutivo, il governo, un potere mai visto prima.
E con il mondo che vira pericolosamente verso la deriva populista, questo è un azzardo che non possiamo permetterci.
E’ il tempo di coltivare limiti e contrappesi, non la democrazia d’investitura».
Qual è lo scenario più probabile in caso di vittoria del Sì?
«La vittoria elettorale di Grillo, come dimostrato dalle ultime amministrative e dai sondaggi».
E in caso di vittoria del No ci saranno contraccolpi in termini di instabilità?
«Quando si demolisce un ecomostro, si alza un po’ di polvere. Ma poi si torna a vedere l’orizzonte».
Non pensa che senza Renzi il Movimento 5 Stelle sarebbe già al governo?
«Renzi ha pensato che avrebbe disinnescato Grillo. Invece rincorrerlo sul terreno del populismo è stato un errore strategico.
Anziché porsi come alternativa all’avversario ha pensato di imitarlo, aprendogli la strada. L’originale ha sempre più appeal della copia».
Ma la vittoria del No rinforzerebbe ulteriormente Grillo. E riporterebbe il Pd nel caos.
«Non è detto. Cancellerebbe in un colpo una pessima revisione costituzionale e una pessima legge elettorale. So bene che anche la vittoria del No ci metterebbe di fronte a un percorso di ricostruzione.
Ma con più speranze di poter ricostruire in condizioni di sicurezza costituzionale. La Costituzione non deve dividerci ma unirci».
Come?
«Tutti i riformisti, che non si riconoscono nel messaggio populista ma nemmeno nella sbrigativa e arrogante semplificazione renziana, dovranno riflettere e ritrovarsi».
Una chiamata alle armi per la minoranza del Pd?
«Il Pd non basta più, figuriamoci la minoranza. Non penso solo al Pd, ma a tutto il centrosinistra, in questi anni devastato dalla spinta centrifuga. Ci sono energie eccezionali ma disordinate. Occorre mettere fine a questa diaspora, superare la parentesi renzista, recidere i gigli magici e fare una nuova semina. Insieme. Un collettivo, non un uomo solo».
Lei dice che Renzi fa il gioco di Grillo, ma in realtà nel fronte del no è lei che sta con Grillo. E con Salvini, Brunetta, Meloni.
«Io sto con chi crede nella sovranità popolare, con Libera di don Ciotti, con i partigiani, con la Cgil, con i nostri migliori costituzionalisti. Ma vede, questo è l’altro “capolavoro” di Renzi: a forza di prendere il mondo a sportellate si è messo contro quasi tutti. E quando si parla di riforme costituzionali, che sono le regole comuni, isolarsi è peggio di un crimine: è un errore strategico».
Nel Pd la vittoria del No sarebbe la vittoria di D’Alema e Bersani, la vecchia politica che si prende la rivincita?
«Trovo grottesco e patetico che chi ha malamente personalizzato il Sì ora voglia velenosamente personalizzare il No. La vittoria del No sarebbe innanzitutto la vittoria del buonsenso, contro una riforma sbagliata della Costituzione. D’Alema e Bersani non sono candidati, così come non lo sono io. Siamo impegnati nel difendere la democrazia».
Comunque vada, ci sarà presto un congresso del Pd. Lei che farà?
«Io credo ancora molto nel centrosinistra come unico argine possibile alle spinte anti-sistema. Deve riprendersi dal trauma di questi anni, tornare a essere una forza che unisce e non il comitato propagandistico che ha lacerato la nostra identità a colpi di tweet. Forse siamo ancora in tempo».
Non è che nel Pd si rivede la Ditta, il sistema di potere degli ex comunisti? E lei come la mette, visto che nel 2009 si candidò contro?
«Oggi è il tempo di liberarsi della sottomarca che ha sostituito la cosiddetta Ditta di Bersani. E di costruire insieme il futuro».
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Re: Diario della caduta di un regime.
GIORNI DIFFICILI.....-13 ALL'ALBA (Del 5 dicembre 2016)
Il 5 di dicembre prossimo, comunque vada non sarà più come prima.
Proviamo a sondare tra di noi come saranno quei giorni, se vince il SI o se vince il NO.
Il 5 di dicembre prossimo, comunque vada non sarà più come prima.
Proviamo a sondare tra di noi come saranno quei giorni, se vince il SI o se vince il NO.
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Re: Diario della caduta di un regime.
GIORNI DIFFICILI.....-12 ALL'ALBA
Una traccia per iniziare il confronto. Il vostro beneamato premier ha dichiarato:
Il premier si sfila in caso di sconfitta: "Non sono adatto ai governicchi"
E Grillo si scaglia contro Renzi: "Chi vota Sì è un serial killer"
Laura Cesaretti - Mar, 22/11/2016 - 08:20
Una traccia per iniziare il confronto. Il vostro beneamato premier ha dichiarato:
Il premier si sfila in caso di sconfitta: "Non sono adatto ai governicchi"
E Grillo si scaglia contro Renzi: "Chi vota Sì è un serial killer"
Laura Cesaretti - Mar, 22/11/2016 - 08:20
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Re: Diario della caduta di un regime.
Renzi: “In questo referendum vediamo che c'è un'accozzaglia di tutti contro una sola persona"UncleTom ha scritto:GIORNI DIFFICILI.....-12 ALL'ALBA
Una traccia per iniziare il confronto. Il vostro beneamato premier ha dichiarato:
Il premier si sfila in caso di sconfitta: "Non sono adatto ai governicchi"
E Grillo si scaglia contro Renzi: "Chi vota Sì è un serial killer"
Laura Cesaretti - Mar, 22/11/2016 - 08:20
Attenzione, dicendo questo, Renzi, non si limita ad offendere ma è chiaro cosa intende e cosa vuol far intendere.
Se vincerà il si, avrà vinto e continuerà ad avere il banco e dare le carte come prima e più di prima con l'arroganza
che lo distingue.
Se vincerà il no, intesterà tutti i voti del si alla sua sola persona.
Anche se il si prendesse solo il 40%, lui, potrà presentarsi nel probabilissimo, prossimo, inevitabile congresso PD,
sostenendo che i voti del si sono voti SUOI PERSONALI, e tenterà di trasformare una netta sconfitta in un suo
mezzo successo personale in quanto, anche se perde il referendum, ha guadagnato DA SOLO, contro gufi e traditori,
il 40 o magari 45% dei voti di un intero popolo.
Ma comunque vadano le cose Renzi potra' e dovrà ascrivere a se la responsabilità di avere spaccato il paese,
il contrario di ciò che la scrittura o la riscrittura di una costituzione dovrebbe fare: UNIRE in una corale CONDIVISIONE.
Cio' lo segnera' negativamente per aver voluto con estrema arroganza imporre, con metodi piu' che discutibili,
la sua visione unilaterale di una "democrazia" malata.
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Re: Diario della caduta di un regime.
LA FASE FINALE DELLA SECONDA REPUBBLICA
Non ho mai compreso l’ardire di alcuni giornalisti nel definire, già da molti mesi addietro, questa, come la Terza Repubblica.
Non ci sono minimamente le condizioni storiche per definire un cambio di passo. Molto probabilmente si trattava di ammiratori, interessati, di Pinocchio Mussoloni, che volevano evidenziare la grandeur del venditore di pentole bucate di Rignano.
Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica è stato caratterizzato dalla scomparsa politica della Democrazia Cristiana che aveva dominato la scena politica per mezzo secolo. Ma anche dei suoi comprimari dell’ultimo periodo.
Sul palcoscenico si era presentato l’esuberante imprenditore di Hardcore che aveva ereditato tutto il vecchio elettorato centrista, promettendo a tutti l’età dell’oro.
Inoltre, erano stati sdoganati gli eredi dell’ex Pci, diventati Ds, che insieme agli ex Dc, potevano accedere al Governo del Paese.
Ma oggi l’esuberante imprenditore di Hardcore è ancora presente sulla scena, anche se politicamente non conta più una mazza, ed è vecchio e malato.
La presenza del venditore di pentole bucate, non rappresenta per niente un cambio sostanziale.
Come ha definito bene Stefano Sylos Labini, il rignanese ha portato a termine il suo compito assegnatogli.
Quello di demolire definitivamente tutti i diritti che in 50 anni di lotta, il mondo del lavoro aveva conquistato.
Il lavoro lo aveva iniziato Silvietto, applicando il programma di Licio Gelli, Rinascita democratica, ma non aveva avuto il coraggio di andare fino in fondo.
Adesso, invece, lo sfascio è completo.
Esattamente una settimana fa, sono andato ad ascoltare Moni Ovadia, che alla Sala Talamucci, presentava le ragioni del NO.
E lì ho scoperto di avere un gemello (in politica), perché su quel palco io avrei detto esattamente le stesse cose.
Dalle ragioni del cambiamento della Costituzione, perché JP Morgan la ritiene troppo “socialista”, al chiarimento che Pinocchio Mussoloni non è per niente di sinistra, ma un uomo di destra infiltrato a “”sinistra””, ammesso che il Pd si possa chiamare di sinistra.
Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, una parte sostanziale degli italiani faceva leva sulla speranza di cambiamento.
Ora la speranza è morta, e molti timidamente, avanzano l’ipotesi dell’uomo forte.
La speranza degli anni ’90 era giustificata dalla presenza di una magistratura intenzionata a ripulire le stalle della politica. Mani pulite su tutti.
Ma oggi le cose sono cambiate.
Non ho mai compreso l’ardire di alcuni giornalisti nel definire, già da molti mesi addietro, questa, come la Terza Repubblica.
Non ci sono minimamente le condizioni storiche per definire un cambio di passo. Molto probabilmente si trattava di ammiratori, interessati, di Pinocchio Mussoloni, che volevano evidenziare la grandeur del venditore di pentole bucate di Rignano.
Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica è stato caratterizzato dalla scomparsa politica della Democrazia Cristiana che aveva dominato la scena politica per mezzo secolo. Ma anche dei suoi comprimari dell’ultimo periodo.
Sul palcoscenico si era presentato l’esuberante imprenditore di Hardcore che aveva ereditato tutto il vecchio elettorato centrista, promettendo a tutti l’età dell’oro.
Inoltre, erano stati sdoganati gli eredi dell’ex Pci, diventati Ds, che insieme agli ex Dc, potevano accedere al Governo del Paese.
Ma oggi l’esuberante imprenditore di Hardcore è ancora presente sulla scena, anche se politicamente non conta più una mazza, ed è vecchio e malato.
La presenza del venditore di pentole bucate, non rappresenta per niente un cambio sostanziale.
Come ha definito bene Stefano Sylos Labini, il rignanese ha portato a termine il suo compito assegnatogli.
Quello di demolire definitivamente tutti i diritti che in 50 anni di lotta, il mondo del lavoro aveva conquistato.
Il lavoro lo aveva iniziato Silvietto, applicando il programma di Licio Gelli, Rinascita democratica, ma non aveva avuto il coraggio di andare fino in fondo.
Adesso, invece, lo sfascio è completo.
Esattamente una settimana fa, sono andato ad ascoltare Moni Ovadia, che alla Sala Talamucci, presentava le ragioni del NO.
E lì ho scoperto di avere un gemello (in politica), perché su quel palco io avrei detto esattamente le stesse cose.
Dalle ragioni del cambiamento della Costituzione, perché JP Morgan la ritiene troppo “socialista”, al chiarimento che Pinocchio Mussoloni non è per niente di sinistra, ma un uomo di destra infiltrato a “”sinistra””, ammesso che il Pd si possa chiamare di sinistra.
Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, una parte sostanziale degli italiani faceva leva sulla speranza di cambiamento.
Ora la speranza è morta, e molti timidamente, avanzano l’ipotesi dell’uomo forte.
La speranza degli anni ’90 era giustificata dalla presenza di una magistratura intenzionata a ripulire le stalle della politica. Mani pulite su tutti.
Ma oggi le cose sono cambiate.
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Re: Diario della caduta di un regime.
UncleTom ha scritto:LA FASE FINALE DELLA SECONDA REPUBBLICA
Non ho mai compreso l’ardire di alcuni giornalisti nel definire, già da molti mesi addietro, questa, come la Terza Repubblica.
Non ci sono minimamente le condizioni storiche per definire un cambio di passo. Molto probabilmente si trattava di ammiratori, interessati, di Pinocchio Mussoloni, che volevano evidenziare la grandeur del venditore di pentole bucate di Rignano.
Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica è stato caratterizzato dalla scomparsa politica della Democrazia Cristiana che aveva dominato la scena politica per mezzo secolo. Ma anche dei suoi comprimari dell’ultimo periodo.
Sul palcoscenico si era presentato l’esuberante imprenditore di Hardcore che aveva ereditato tutto il vecchio elettorato centrista, promettendo a tutti l’età dell’oro.
Inoltre, erano stati sdoganati gli eredi dell’ex Pci, diventati Ds, che insieme agli ex Dc, potevano accedere al Governo del Paese.
Ma oggi l’esuberante imprenditore di Hardcore è ancora presente sulla scena, anche se politicamente non conta più una mazza, ed è vecchio e malato.
La presenza del venditore di pentole bucate, non rappresenta per niente un cambio sostanziale.
Come ha definito bene Stefano Sylos Labini, il rignanese ha portato a termine il suo compito assegnatogli.
Quello di demolire definitivamente tutti i diritti che in 50 anni di lotta, il mondo del lavoro aveva conquistato.
Il lavoro lo aveva iniziato Silvietto, applicando il programma di Licio Gelli, Rinascita democratica, ma non aveva avuto il coraggio di andare fino in fondo.
Adesso, invece, lo sfascio è completo.
Esattamente una settimana fa, sono andato ad ascoltare Moni Ovadia, che alla Sala Talamucci, presentava le ragioni del NO.
E lì ho scoperto di avere un gemello (in politica), perché su quel palco io avrei detto esattamente le stesse cose.
Dalle ragioni del cambiamento della Costituzione, perché JP Morgan la ritiene troppo “socialista”, al chiarimento che Pinocchio Mussoloni non è per niente di sinistra, ma un uomo di destra infiltrato a “”sinistra””, ammesso che il Pd si possa chiamare di sinistra.
Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, una parte sostanziale degli italiani faceva leva sulla speranza di cambiamento.
Ora la speranza è morta, e molti timidamente, avanzano l’ipotesi dell’uomo forte.
La speranza degli anni ’90 era giustificata dalla presenza di una magistratura intenzionata a ripulire le stalle della politica. Mani pulite su tutti.
Ma oggi le cose sono cambiate.
22 NOV 2016 13:34
CI MANCAVA SOLO LO SCANNATOIO DEL PM DI AREZZO
- ROBERTO ROSSI, PROCURATORE CAPO CHE INDAGA SU BANCA ETRURIA ED È STATO CONSULENTE DI PALAZZO CHIGI, AVREBBE USUFRUITO DI UN APPARTAMENTO DOVE PORTAVA ''VARIE'' RAGAZZE, IL CUI AFFITTO VENIVA SALDATO DA UNA COPPIA FINITA IN UN'INCHIESTA PERCHÉ SPENDEVA IL SUO NOME PER SPREMERE SOLDI A UN IMPRENDITORE
Stefano Zurlo per il Giornale
Un appartamento con vista sulle colline della Val di Chiana. Roberto Rossi, il procuratore dell' inchiesta sul crac di Banca Etruria, s' intratteneva in quei locali, rifiniti con una certa eleganza, in compagnia delle sue amiche. Una storia andata avanti a lungo, un anno e mezzo circa fra il 2010 e il 2011, tanto che alcuni condomini si erano lamentati con gli amministratori della società proprietaria della casa.
«Quell' andirivieni di ragazze non ci andava a genio», racconta al Giornale Emiliano, uno dei sedici abitanti del complesso residenziale di Poggio Fabbrelli, alle porte di Arezzo. «Noi volevamo tranquillità e invece Rossi arrivava per primo, poi le sue amiche, una in particolare a bordo di una Mercedes». Elisabetta, che abita al piano terra, elabora immagini più defilate: «Ho capito che era il procuratore di Arezzo perché avevo visto le sue foto sui giornali. Ma ho in mente solo incontri fugaci sul camminamento di cotto affacciato sulla valle: Buongiorno e buonasera, nient' altro». Anzi, discrezione e silenzio.
La garçonièrre del magistrato era un argomento di dominio pubblico o quasi. E a suo tempo è finita dentro un fascicolo molto più corposo che da Arezzo è partito per Genova, competente ad indagare sui reati commessi o subiti dalle toghe toscane. L' interminabile, lunghissima inchiesta del pm genovese Francesco Pinto, una delle colonne portanti di Magistratura democratica in Liguria, viaggia verso l' archiviazione per Rossi il cui nome sarebbe stato speso a sua insaputa da un poliziotto infedele, Antonio Incitti, all' epoca braccio destro del procuratore, per spremere 50mila euro a un imprenditore.
Ma la vicenda di Poggio Fabbrelli resta un episodio sconcertante, da valutare attentamente sul piano disciplinare anche perché nel periodo in questione Rossi, che aveva le chiavi di quell' abitazione, non avrebbe mai pagato le spese condominiali, il canone d' affitto e neppure le bollette delle utenze.
Un conto di alcune migliaia di euro. Una cifra saldata dagli amministratori della Italcasa Costruzioni srl, Paolo Casalini e Marta Massai, in quei mesi casualmente fidanzata di Antonio Incitti. Prima, naturalmente, di rompere fragorosamente quell' unione e di correre a denunciare quel torbido groviglio di rapporti, favori, scelte orientate, scoperti dal Giornale.
Rossi nei mesi scorsi è stato al centro di una lunga querelle davanti al Csm perché non avrebbe segnalato il potenziale conflitto di interessi fra la sua consulenza ai Governi Letta e Renzi e l' indagine su Etruria, ai cui vertici c' era il padre del ministro Maria Elena Boschi.
Non si sa invece se il Csm abbia mai affrontato quest' altro capitolo assai più imbarazzante: un magistrato deve maneggiare con estrema cautela tutti i rapporti e deve tutelare in ogni modo la propria onorabilità, evitando anche solo l' ombra di possibili ricatti e voci velenose.
Quel che accadeva invece alle porte di Arezzo era noto a un grappolo di persone e nella primavera del 2012, quando la coppia Incitti-Massai andò in pezzi, entrò nei verbali raccolti dagli agenti della polizia aretina. Non è chiaro se la procura generale di Firenze abbia esercitato l' azione disciplinare, peraltro facoltativa e non obbligatoria, e se la relativa pratica sia mai giunta a Roma, a Palazzo dei Marescialli, e sia stata messa in stand by o archiviata.
Certo nel 2012 Casalini e Massai raccontano che Incitti ha chiesto loro un appartamento per il «capo» e aggiungono di essere stati loro a pagare tutto quello che c' era da pagare. Finché i mugugni di qualche condomino e l' opportunità di affittare finalmente quei novanta metri quadri non li hanno convinti, alla fine del 2011, a chiudere il rapporto con quel personaggio ingombrante. Che intanto ha fatto carriera, nel 2014 è diventato formalmente il procuratore della Repubblica, ha condotto la delicatissima indagine sul disastro della banca che ha portato via i risparmi di migliaia di italiani.
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