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Economia Occulta
Terrorismo, il fenomeno è globale. Armi e strategie devono essere trasnazionali
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di Loretta Napoleoni | 20 agosto 2017
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Più informazioni su: Attentato Barcellona, Burkina Faso, Terrorismo
Loretta Napoleoni
Economista
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Per capire davvero la minaccia che il terrorismo jihadista rappresenta a casa nostra bisogna avere una visione di grand’angolo. Gli eventi di Barcellona, anche se non collegati direttamente a quelli di Ouagadougou in Burkina Faso, fanno parte di una strategia del terrore nuova perché globalizzata. E’ paradossale che nessuno ci abbia pensato prima, in fondo quello che stiamo vivendo è un film dell’orrore iniziato l’11 settembre del 2001 quando al Qaeda ha lanciato il più spettacolare attacco terrorista transnazionale. Che è stato anche l’ultimo.
Da allora l’elemento globalizzante del terrorismo – finanziamenti da un paese, organizzazione dell’attacco in un altro ed azione in un terzo – è diventato ideologico. Il denaro non si muove più da un paese all’altro, non ci sono più i grossi sponsor, né esiste una regia centralizzata, una sorta di grande vecchio del terrore jihadista che muove soldi ed attentatori su una scacchiera mondiale. Esiste però un ombrello ideologico con venature nazionaliste, anti-imperialiste, un ombrello dove la lotta armata contro “gli infedeli” – termine volutamente generico – è lo strumento per riscattare secoli di alienazione.
L’elemento ideologico ha preso il sopravvento anche perché dall’11 settembre il costo unitario degli attentati terroristi è sceso vertiginosamente. Nuove metodologie sono subentrate, molte davvero ingegnose. L’attacco nel Burkina Faso, dove sono morte 18 persone, è il secondo del suo genere. Un commando armato apre il fuoco in un luogo pubblico, un ristorante, e miete tante più vittime possibile. Nel primo morirono 30 persone, la maggior parte erano clienti di un albergo di lusso.
In entrambi i casi si è voluta colpire la borghesia d’affari africana, chi insomma conta nel processo di modernizzazione autoctono del continente africano. L’ingegnosità sta nel modo in cui gli attacchi vengono finanziati da al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), e cioè con i soldi dei riscatti degli ostaggi occidentali, soldi nostri. Milioni e milioni di euro consegnati ai rapitori dai nostri governi. La prova? Entrambi gli attentati sono avvenuti pochi mesi dopo il rilascio di ostaggi nel vicino Mali, dove AQIM ha i suoi quartier generali del business dei sequestri.
Anche nell’attentato di Barcellona ci imbattiamo nell’ingegnosità del terrorismo jihadista. Sebbene definito il settimo dall’inizio dell’anno condotto utilizzando un furgoncino per falciare la folla, in realtà non era questa la modalità prescelta. Sembra infatti che il piano originario fosse un altro: riempire i furgoncini di bombole del gas e farli esplodere tra la folla. Ma nella notte di mercoledì qualcosa non ha funzionato e l’abitazione ad Alcanar, una cittadina sulla costa a sud di Barcellona, dove si stavano preparando gli ordigni, è saltata in aria. A quel punto è scattato il piano B.
E’ probabile che gli attentatori africani non abbiano avuto alcuna relazione con quelli spagnoli ma entrambi mostrano le stesse capacità di adattamento sul piano finanziario e su quello logistico ed uccidono per i medesimi motivi. Si tratta di una nuova generazione di terroristi che potremmo definire autosufficienti, ogni gruppo è compartimentalizzato sotto tutti i punti di vista al punto che usare la parola cellule è sbagliato. Tuttavia ogni gruppo opera, si muove, interagisce sotto un ombrello ideologico ben definito, tessuto dall’abile retorica jihadista ed impacchettato per il grande consumo dal marketing dello Stato Islamico.
Ferme restando le modalità ed il finanziamento, il comportamento di questi gruppi varia a seconda delle strategie prodotte dalla macchina ideologica, è questo l’elemento chiave per prevedere le prossime mosse. E’ dal 2016 che la radicalizzazione globale non trova sfogo nel viaggio in Medio Oriente per costruire il Califfato ma è stata costretta ad operare a livello locale. I potenziali combattenti jihadisti, i guerrieri di Allah, si sono dovuti accontentare di fare i terroristi. Non c’è dubbio che tutti avrebbero preferito combattere contro gli infedeli nella loro Terra Santa piuttosto che sul selciato di Barcellona o nei ristoranti di Ouagadougou. Prima siamo stati noi a bloccare questi viaggi poi è stato al Baghdadi. “Rimanete dove siete e fate tutto ciò che potete”, così ha esortato i suoi seguaci stranieri. Meglio fare una strage a Nizza che farsi saltare in aria a Mosul prima di capitolare.
Certo dovevamo prevedere tutto ciò, potevamo farlo ed agire di conseguenza ma non è stato possibile. L’Occidente lotta contro un fenomeno nuovo e dinamico usando armi e strategie arcaiche. Siamo fermi all’11 settembre 2001! Non solo non conosciamo il nemico, non vogliamo cambiare le nostre tattiche di guerra.
Applicare il modello dell’anti-terrorismo tradizionale, e cioè limitato ai confini nazionali, non funziona. Su questo ormai nessuno dubita. E qui torniamo al solito dilemma: la politica è ancora ben contenuta dentro i confini nazionali mentre il crimine, il terrorismo, la finanza, ma soprattutto l’ideologia del terrore jihadista è totalmente globalizzata. Nessuna istituzione o organo sovranazionale può impedire ai governi europei di pagare i riscatti ad AQIM, anche se tutti sanno che con quei soldi si finanzieranno attentati, dove moriranno decine e decine di innocenti. Egualmente nessun governo occidentale è disposto a delegare un aspetto tanto importante della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico, e cioè la lotta contro il terrorismo, ad un organo transnazionale, sovraimposto a quello nazionale.
Così, in assenza di una modernizzazione istituzionale e culturale dell’anti-terrorismo, dobbiamo prepararci per un futuro distopico dove morire per caso lungo la strada, nei caffè, sulle spiagge, dovunque si abbia la sfortuna di trovarsi, entrerà a far parte della quotidianità.