Economia
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Re: Economia
Repubblica 13.7.16
Per i banchieri non è mai crisi stipendi su del 9,7% nel 2015 e liquidazioni a prova di crac
Da Vigni che ha lasciato Mps con un rosso di 5 miliardi e 4 milioni di buonuscita, a Zonin che ha portato Vicenza sul baratro assegnandosi un milione, i manager del credito incassano sempre
Con gli istituti in salute, addii a sette zeri per Profumo da Unicredit e Arpe e Geronzi da Capitalia. Ora tocca a Ghizzoni
di Ettore Livini
MILANO. La crisi delle banche italiane non è uguale per tutti. Tremano i correntisti delle aziende in difficoltà, terrorizzati dallo spettro del bail-in. Si leccano le ferite gli azionisti, travolti dal crollo del 55% dei titoli del settore negli ultimi 12 mesi. Ai vertici degli istituti di credito, però, il barometro è ancora sul bel tempo: gli amministratori delegati degli otto big tricolori si sono regalati infatti nel 2015 un aumento di stipendio medio del 9,7%. Non solo: il valore della parte azionaria dei loro compensi - in sostanza le stock option monetizzate lo scorso anno – è cresciuto del 68%.
Le buste paga dei Paperoni degli sportelli di casa nostra - con buona pace delle turbolenze di queste settimane - si sono gonfiate persino di più di quelle dei loro colleghi del resto del mondo: i compensi dei maggiori Ceo bancari internazionali - calcola uno studio di Equilar e del Financial Times – sono saliti lo scorso anno “solo” del 7,6%.
La moral suasion di Mario Draghi e Ignazio Visco – in qualità di governatori della Banca d’Italia – è servita a poco. Entrambi avevano esortato i dirigenti delle realtà in crisi a moderare il loro appetito salariale, legando i bonus ai risultati. Ma a beneficiare della Cuccagna, cifre alla mano, sono stati anche i super-manager degli istituti falliti o salvati per il rotto della cuffia gettando sul lastrico migliaia di risparmiatori.
Gianni Zonin ha lasciato la Popolare di Vicenza sull’orlo del crac staccandosi per gli ultimi undici mesi di lavoro un assegno- ricordo di un milione di euro. Cinque ex-dirigenti della banca sono usciti di scena con lo zuccherino di 5,2 milioni di buonuscita. Quattro dei quali destinati all’ex-ad Samuele Sorato. I loro sostituti, visto l’andazzo, hanno messo le mani avanti e si sono fatti anticipare una buonaentrata da 2,67 milioni per prendere in mano la patata bollente passatagli dai predecessori.
La fabbrica italiana delle liquidazioni milionarie, del resto, non conosce crisi. E non smette di sfornare paracaduti d’oro nemmeno di fronte a flop conclamati. Antonio Vigni ha mollato nel 2012 il Monte Paschi di Siena lasciando in ricordo alla città del Palio un bilancio in rosso per quasi 5 miliardi ma consolandosi a livello personale con una buonuscita da 4 milioni.
Siamo lontani dai 20 milioni di premio alla carriera per l’ex-numero uno di Capitalia Cesare Geronzi, ai 37,4 incassati dall’istituto capitolino da Matteo Arpe e dall’assegno di 40 milioni finito ad Alessandro Profumo quando ha dato l’addio a Unicredit. Ma almeno loro hanno lasciato in eredità aziende (allora) in salute. Non si può dire altrettanto, ad esempio, per Luca Bronchi, finito nel mirino degli ispettori spediti da via Nazionale in Banca d’Etruria per la liquidazione da 1,2 milioni di euro che gli è stata assegnata dal cda nel 2014 alla vigilia del crac «nonostante il grave deterioramento della banca e senza contestargli responsabilità specifiche».
Gli accordi, del resto, sono accordi. Veneto Banca, messa in ginocchio dalla crisi, ha liquidato il suo ex-padre padrone Vincenzo Consoli nel 2015 pagandogli solo (si fa per dire) 880 mila euro per le 7 mensilità di lavoro e l’indennità di mancato preavviso. Lui, scottato dall’irriconoscenza, non ha trovato niente di meglio che fare causa all’istituto chiedendo altri 3,51 milioni per il mancato rispetto del patto di risoluzione consensuale. Si vedrà come andrà a finire. L’elenco degli addii dorati, nell’attesa, si prepara ad aggiornare i suoi record. Federico Ghizzoni sta per mollare Unicredit lasciando in ricordo ai soci un titolo crollato del 64% da gennaio. Affari loro. Lui i suoi li ha già fatti: toglierà il disturbo con una buonuscita da 10 milioni.
Per i banchieri non è mai crisi stipendi su del 9,7% nel 2015 e liquidazioni a prova di crac
Da Vigni che ha lasciato Mps con un rosso di 5 miliardi e 4 milioni di buonuscita, a Zonin che ha portato Vicenza sul baratro assegnandosi un milione, i manager del credito incassano sempre
Con gli istituti in salute, addii a sette zeri per Profumo da Unicredit e Arpe e Geronzi da Capitalia. Ora tocca a Ghizzoni
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MILANO. La crisi delle banche italiane non è uguale per tutti. Tremano i correntisti delle aziende in difficoltà, terrorizzati dallo spettro del bail-in. Si leccano le ferite gli azionisti, travolti dal crollo del 55% dei titoli del settore negli ultimi 12 mesi. Ai vertici degli istituti di credito, però, il barometro è ancora sul bel tempo: gli amministratori delegati degli otto big tricolori si sono regalati infatti nel 2015 un aumento di stipendio medio del 9,7%. Non solo: il valore della parte azionaria dei loro compensi - in sostanza le stock option monetizzate lo scorso anno – è cresciuto del 68%.
Le buste paga dei Paperoni degli sportelli di casa nostra - con buona pace delle turbolenze di queste settimane - si sono gonfiate persino di più di quelle dei loro colleghi del resto del mondo: i compensi dei maggiori Ceo bancari internazionali - calcola uno studio di Equilar e del Financial Times – sono saliti lo scorso anno “solo” del 7,6%.
La moral suasion di Mario Draghi e Ignazio Visco – in qualità di governatori della Banca d’Italia – è servita a poco. Entrambi avevano esortato i dirigenti delle realtà in crisi a moderare il loro appetito salariale, legando i bonus ai risultati. Ma a beneficiare della Cuccagna, cifre alla mano, sono stati anche i super-manager degli istituti falliti o salvati per il rotto della cuffia gettando sul lastrico migliaia di risparmiatori.
Gianni Zonin ha lasciato la Popolare di Vicenza sull’orlo del crac staccandosi per gli ultimi undici mesi di lavoro un assegno- ricordo di un milione di euro. Cinque ex-dirigenti della banca sono usciti di scena con lo zuccherino di 5,2 milioni di buonuscita. Quattro dei quali destinati all’ex-ad Samuele Sorato. I loro sostituti, visto l’andazzo, hanno messo le mani avanti e si sono fatti anticipare una buonaentrata da 2,67 milioni per prendere in mano la patata bollente passatagli dai predecessori.
La fabbrica italiana delle liquidazioni milionarie, del resto, non conosce crisi. E non smette di sfornare paracaduti d’oro nemmeno di fronte a flop conclamati. Antonio Vigni ha mollato nel 2012 il Monte Paschi di Siena lasciando in ricordo alla città del Palio un bilancio in rosso per quasi 5 miliardi ma consolandosi a livello personale con una buonuscita da 4 milioni.
Siamo lontani dai 20 milioni di premio alla carriera per l’ex-numero uno di Capitalia Cesare Geronzi, ai 37,4 incassati dall’istituto capitolino da Matteo Arpe e dall’assegno di 40 milioni finito ad Alessandro Profumo quando ha dato l’addio a Unicredit. Ma almeno loro hanno lasciato in eredità aziende (allora) in salute. Non si può dire altrettanto, ad esempio, per Luca Bronchi, finito nel mirino degli ispettori spediti da via Nazionale in Banca d’Etruria per la liquidazione da 1,2 milioni di euro che gli è stata assegnata dal cda nel 2014 alla vigilia del crac «nonostante il grave deterioramento della banca e senza contestargli responsabilità specifiche».
Gli accordi, del resto, sono accordi. Veneto Banca, messa in ginocchio dalla crisi, ha liquidato il suo ex-padre padrone Vincenzo Consoli nel 2015 pagandogli solo (si fa per dire) 880 mila euro per le 7 mensilità di lavoro e l’indennità di mancato preavviso. Lui, scottato dall’irriconoscenza, non ha trovato niente di meglio che fare causa all’istituto chiedendo altri 3,51 milioni per il mancato rispetto del patto di risoluzione consensuale. Si vedrà come andrà a finire. L’elenco degli addii dorati, nell’attesa, si prepara ad aggiornare i suoi record. Federico Ghizzoni sta per mollare Unicredit lasciando in ricordo ai soci un titolo crollato del 64% da gennaio. Affari loro. Lui i suoi li ha già fatti: toglierà il disturbo con una buonuscita da 10 milioni.
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Re: Economia
Repubblica 13.7.16
Per i banchieri non è mai crisi stipendi su del 9,7% nel 2015 e liquidazioni a prova di crac
Da Vigni che ha lasciato Mps con un rosso di 5 miliardi e 4 milioni di buonuscita, a Zonin che ha portato Vicenza sul baratro assegnandosi un milione, i manager del credito incassano sempre
Con gli istituti in salute, addii a sette zeri per Profumo da Unicredit e Arpe e Geronzi da Capitalia. Ora tocca a Ghizzoni
di Ettore Livini
MILANO. La crisi delle banche italiane non è uguale per tutti. Tremano i correntisti delle aziende in difficoltà, terrorizzati dallo spettro del bail-in. Si leccano le ferite gli azionisti, travolti dal crollo del 55% dei titoli del settore negli ultimi 12 mesi. Ai vertici degli istituti di credito, però, il barometro è ancora sul bel tempo: gli amministratori delegati degli otto big tricolori si sono regalati infatti nel 2015 un aumento di stipendio medio del 9,7%. Non solo: il valore della parte azionaria dei loro compensi - in sostanza le stock option monetizzate lo scorso anno – è cresciuto del 68%.
Le buste paga dei Paperoni degli sportelli di casa nostra - con buona pace delle turbolenze di queste settimane - si sono gonfiate persino di più di quelle dei loro colleghi del resto del mondo: i compensi dei maggiori Ceo bancari internazionali - calcola uno studio di Equilar e del Financial Times – sono saliti lo scorso anno “solo” del 7,6%.
La moral suasion di Mario Draghi e Ignazio Visco – in qualità di governatori della Banca d’Italia – è servita a poco. Entrambi avevano esortato i dirigenti delle realtà in crisi a moderare il loro appetito salariale, legando i bonus ai risultati. Ma a beneficiare della Cuccagna, cifre alla mano, sono stati anche i super-manager degli istituti falliti o salvati per il rotto della cuffia gettando sul lastrico migliaia di risparmiatori.
Gianni Zonin ha lasciato la Popolare di Vicenza sull’orlo del crac staccandosi per gli ultimi undici mesi di lavoro un assegno- ricordo di un milione di euro. Cinque ex-dirigenti della banca sono usciti di scena con lo zuccherino di 5,2 milioni di buonuscita. Quattro dei quali destinati all’ex-ad Samuele Sorato. I loro sostituti, visto l’andazzo, hanno messo le mani avanti e si sono fatti anticipare una buonaentrata da 2,67 milioni per prendere in mano la patata bollente passatagli dai predecessori.
La fabbrica italiana delle liquidazioni milionarie, del resto, non conosce crisi. E non smette di sfornare paracaduti d’oro nemmeno di fronte a flop conclamati. Antonio Vigni ha mollato nel 2012 il Monte Paschi di Siena lasciando in ricordo alla città del Palio un bilancio in rosso per quasi 5 miliardi ma consolandosi a livello personale con una buonuscita da 4 milioni.
Siamo lontani dai 20 milioni di premio alla carriera per l’ex-numero uno di Capitalia Cesare Geronzi, ai 37,4 incassati dall’istituto capitolino da Matteo Arpe e dall’assegno di 40 milioni finito ad Alessandro Profumo quando ha dato l’addio a Unicredit. Ma almeno loro hanno lasciato in eredità aziende (allora) in salute. Non si può dire altrettanto, ad esempio, per Luca Bronchi, finito nel mirino degli ispettori spediti da via Nazionale in Banca d’Etruria per la liquidazione da 1,2 milioni di euro che gli è stata assegnata dal cda nel 2014 alla vigilia del crac «nonostante il grave deterioramento della banca e senza contestargli responsabilità specifiche».
Gli accordi, del resto, sono accordi. Veneto Banca, messa in ginocchio dalla crisi, ha liquidato il suo ex-padre padrone Vincenzo Consoli nel 2015 pagandogli solo (si fa per dire) 880 mila euro per le 7 mensilità di lavoro e l’indennità di mancato preavviso. Lui, scottato dall’irriconoscenza, non ha trovato niente di meglio che fare causa all’istituto chiedendo altri 3,51 milioni per il mancato rispetto del patto di risoluzione consensuale. Si vedrà come andrà a finire. L’elenco degli addii dorati, nell’attesa, si prepara ad aggiornare i suoi record. Federico Ghizzoni sta per mollare Unicredit lasciando in ricordo ai soci un titolo crollato del 64% da gennaio. Affari loro. Lui i suoi li ha già fatti: toglierà il disturbo con una buonuscita da 10 milioni.
Per i banchieri non è mai crisi stipendi su del 9,7% nel 2015 e liquidazioni a prova di crac
Da Vigni che ha lasciato Mps con un rosso di 5 miliardi e 4 milioni di buonuscita, a Zonin che ha portato Vicenza sul baratro assegnandosi un milione, i manager del credito incassano sempre
Con gli istituti in salute, addii a sette zeri per Profumo da Unicredit e Arpe e Geronzi da Capitalia. Ora tocca a Ghizzoni
di Ettore Livini
MILANO. La crisi delle banche italiane non è uguale per tutti. Tremano i correntisti delle aziende in difficoltà, terrorizzati dallo spettro del bail-in. Si leccano le ferite gli azionisti, travolti dal crollo del 55% dei titoli del settore negli ultimi 12 mesi. Ai vertici degli istituti di credito, però, il barometro è ancora sul bel tempo: gli amministratori delegati degli otto big tricolori si sono regalati infatti nel 2015 un aumento di stipendio medio del 9,7%. Non solo: il valore della parte azionaria dei loro compensi - in sostanza le stock option monetizzate lo scorso anno – è cresciuto del 68%.
Le buste paga dei Paperoni degli sportelli di casa nostra - con buona pace delle turbolenze di queste settimane - si sono gonfiate persino di più di quelle dei loro colleghi del resto del mondo: i compensi dei maggiori Ceo bancari internazionali - calcola uno studio di Equilar e del Financial Times – sono saliti lo scorso anno “solo” del 7,6%.
La moral suasion di Mario Draghi e Ignazio Visco – in qualità di governatori della Banca d’Italia – è servita a poco. Entrambi avevano esortato i dirigenti delle realtà in crisi a moderare il loro appetito salariale, legando i bonus ai risultati. Ma a beneficiare della Cuccagna, cifre alla mano, sono stati anche i super-manager degli istituti falliti o salvati per il rotto della cuffia gettando sul lastrico migliaia di risparmiatori.
Gianni Zonin ha lasciato la Popolare di Vicenza sull’orlo del crac staccandosi per gli ultimi undici mesi di lavoro un assegno- ricordo di un milione di euro. Cinque ex-dirigenti della banca sono usciti di scena con lo zuccherino di 5,2 milioni di buonuscita. Quattro dei quali destinati all’ex-ad Samuele Sorato. I loro sostituti, visto l’andazzo, hanno messo le mani avanti e si sono fatti anticipare una buonaentrata da 2,67 milioni per prendere in mano la patata bollente passatagli dai predecessori.
La fabbrica italiana delle liquidazioni milionarie, del resto, non conosce crisi. E non smette di sfornare paracaduti d’oro nemmeno di fronte a flop conclamati. Antonio Vigni ha mollato nel 2012 il Monte Paschi di Siena lasciando in ricordo alla città del Palio un bilancio in rosso per quasi 5 miliardi ma consolandosi a livello personale con una buonuscita da 4 milioni.
Siamo lontani dai 20 milioni di premio alla carriera per l’ex-numero uno di Capitalia Cesare Geronzi, ai 37,4 incassati dall’istituto capitolino da Matteo Arpe e dall’assegno di 40 milioni finito ad Alessandro Profumo quando ha dato l’addio a Unicredit. Ma almeno loro hanno lasciato in eredità aziende (allora) in salute. Non si può dire altrettanto, ad esempio, per Luca Bronchi, finito nel mirino degli ispettori spediti da via Nazionale in Banca d’Etruria per la liquidazione da 1,2 milioni di euro che gli è stata assegnata dal cda nel 2014 alla vigilia del crac «nonostante il grave deterioramento della banca e senza contestargli responsabilità specifiche».
Gli accordi, del resto, sono accordi. Veneto Banca, messa in ginocchio dalla crisi, ha liquidato il suo ex-padre padrone Vincenzo Consoli nel 2015 pagandogli solo (si fa per dire) 880 mila euro per le 7 mensilità di lavoro e l’indennità di mancato preavviso. Lui, scottato dall’irriconoscenza, non ha trovato niente di meglio che fare causa all’istituto chiedendo altri 3,51 milioni per il mancato rispetto del patto di risoluzione consensuale. Si vedrà come andrà a finire. L’elenco degli addii dorati, nell’attesa, si prepara ad aggiornare i suoi record. Federico Ghizzoni sta per mollare Unicredit lasciando in ricordo ai soci un titolo crollato del 64% da gennaio. Affari loro. Lui i suoi li ha già fatti: toglierà il disturbo con una buonuscita da 10 milioni.
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Re: Economia
LA CALDA ESTATE DEL 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
Banche, commercialisti: “Nostre casse non sono mucche da mungere, non diamo un euro per salvataggi”
Numeri & News
Altolà dell'Adc dopo la decisione dell'associazione degli enti pensionistici privati di spingere per un investimento degli enti nel fondo che si appresta a tentare l'ennesimo salvataggio del Monte dei Paschi di Siena
di F. Q. | 26 luglio 2016
COMMENTI
“Non consentiremo che neanche un euro del patrimonio della nostra Cassa sia distratto dallo scopo cui è destinato”, cioè “erogare assistenza e previdenza adeguata ai dottori commercialisti“. E’ quanto si legge in una lettera aperta che l’Adc (Associazione dottori commercialisti) ha inviato al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, in relazione alle “notizie secondo le quali il Governo avrebbe chiesto alle Casse di previdenza dei professionisti di contribuire al Fondo salva banche Atlante” e alla “approvazione, ieri, da parte dell’Adepp“, l’Associazione degli Enti pensionistici, di “una delibera che sostiene l’intervento”.
Le Casse, rivendica la missiva, “non sono mucche da mungere”, eppure “la sensazione è che si pensi che i loro patrimoni siano dei gioiellini del sistema previdenziale italiano, in cui sia custodito un tesoretto, cui attingere in caso di bisogno, come fatto sino ad ora con la tassazione dei rendimenti degli investimenti, spending review e balzelli vari. Dimenticando, volutamente, che le Casse autonome dei professionisti sono state istituite e successivamente privatizzate per poter garantire un futuro previdenziale, senza oneri a carico dello Stato e della collettività, a tutti i professionisti che obbligatoriamente vi contribuiscono versando una parte del loro reddito ed alimentando così un patrimonio che, incrementato dai rendimenti, deve garantire adeguate prestazioni previdenziali nel momento in cui verrà meno il reddito della professione”.
Per questo motivo “il patrimonio complessivo di 70 miliardi di euro non costituisce un valore da aggredire, anche se per il bene del Paese, ma un patrimonio da conservare e far fruttare per adempiere puntualmente al debito che le casse hanno maturato e matureranno nei confronti dei professionisti, derivante dall’obbligo che gli enti previdenziali hanno assunto per erogare corrispondenti prestazioni assistenziali e previdenziali”. Se le Casse Previdenziali, è il ragionamento, “dovessero inserire nel passivo dei propri bilanci tale debito “latente”, pari al valore attuale delle pensioni da erogare sia ai pensionati in corso che a quelli futuri, si vedrebbe che il valore patrimoniale è assolutamente tutto impegnato per gli obiettivi di stabilità a lungo termine secondo le stime attuariali dei rispettivi bilanci tecnici. Le Casse di Previdenza private dei professionisti sono enti di diritto privato che si sono assunti l’onere di soddisfare un diritto costituzionale che è quello della pensione e lo fanno “senza oneri per lo Stato” a differenza di quanto accade per la gestione dell’Inps, dovrebbero quindi essere aiutate a svolgere al meglio tale funzione e poter erogare pensioni più adeguate a quello che ora sono in grado di fare”.
Cosa diversa, rivendicano ancora i commercialisti, “è valutare, in piena autonomia, la possibilità di indirizzare gli investimenti delle Casse Previdenziali Private anche nell’economia reale“. Tanto più che il Fondo Atlante “ha come scopo il “salvataggio” di Istituti di credito in crisi e, al di là delle opportune valutazioni degli specifici strumenti di investimento, non si può pensare che questi “prodotti”, che teoricamente si portano dietro interessanti rendimenti e molto realisticamente non pochi rischi, vengano imposti (di fatto si tratta di tentativi di moral suasion) ad Enti che innanzi tutto devono limitare i rischi perché in primo luogo è il capitale che va conservato”.
Perciò, l’Adc “invita il Governo, gli organi delle Casse, e in particolare il Consiglio di amministrazione e l’Assemblea dei delegati della Cassa dei dottori commercialisti (Cnpadc)” a “non perdere di vista che l’unico scopo sostanziale e di legge degli Enti è garantire il futuro previdenziale ed assistenziale dei professionisti”, che “non può esser messo in pericolo in alcun modo, tanto meno per fungere da stampella ad operazioni di salvataggio di pezzi del sistema bancario italiano, la cui soluzione deve essere trovata con strumenti suoi propri“.
di F. Q. | 26 luglio 2016
CRONACA DI GIORNI DI GUERRA
Banche, commercialisti: “Nostre casse non sono mucche da mungere, non diamo un euro per salvataggi”
Numeri & News
Altolà dell'Adc dopo la decisione dell'associazione degli enti pensionistici privati di spingere per un investimento degli enti nel fondo che si appresta a tentare l'ennesimo salvataggio del Monte dei Paschi di Siena
di F. Q. | 26 luglio 2016
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“Non consentiremo che neanche un euro del patrimonio della nostra Cassa sia distratto dallo scopo cui è destinato”, cioè “erogare assistenza e previdenza adeguata ai dottori commercialisti“. E’ quanto si legge in una lettera aperta che l’Adc (Associazione dottori commercialisti) ha inviato al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, in relazione alle “notizie secondo le quali il Governo avrebbe chiesto alle Casse di previdenza dei professionisti di contribuire al Fondo salva banche Atlante” e alla “approvazione, ieri, da parte dell’Adepp“, l’Associazione degli Enti pensionistici, di “una delibera che sostiene l’intervento”.
Le Casse, rivendica la missiva, “non sono mucche da mungere”, eppure “la sensazione è che si pensi che i loro patrimoni siano dei gioiellini del sistema previdenziale italiano, in cui sia custodito un tesoretto, cui attingere in caso di bisogno, come fatto sino ad ora con la tassazione dei rendimenti degli investimenti, spending review e balzelli vari. Dimenticando, volutamente, che le Casse autonome dei professionisti sono state istituite e successivamente privatizzate per poter garantire un futuro previdenziale, senza oneri a carico dello Stato e della collettività, a tutti i professionisti che obbligatoriamente vi contribuiscono versando una parte del loro reddito ed alimentando così un patrimonio che, incrementato dai rendimenti, deve garantire adeguate prestazioni previdenziali nel momento in cui verrà meno il reddito della professione”.
Per questo motivo “il patrimonio complessivo di 70 miliardi di euro non costituisce un valore da aggredire, anche se per il bene del Paese, ma un patrimonio da conservare e far fruttare per adempiere puntualmente al debito che le casse hanno maturato e matureranno nei confronti dei professionisti, derivante dall’obbligo che gli enti previdenziali hanno assunto per erogare corrispondenti prestazioni assistenziali e previdenziali”. Se le Casse Previdenziali, è il ragionamento, “dovessero inserire nel passivo dei propri bilanci tale debito “latente”, pari al valore attuale delle pensioni da erogare sia ai pensionati in corso che a quelli futuri, si vedrebbe che il valore patrimoniale è assolutamente tutto impegnato per gli obiettivi di stabilità a lungo termine secondo le stime attuariali dei rispettivi bilanci tecnici. Le Casse di Previdenza private dei professionisti sono enti di diritto privato che si sono assunti l’onere di soddisfare un diritto costituzionale che è quello della pensione e lo fanno “senza oneri per lo Stato” a differenza di quanto accade per la gestione dell’Inps, dovrebbero quindi essere aiutate a svolgere al meglio tale funzione e poter erogare pensioni più adeguate a quello che ora sono in grado di fare”.
Cosa diversa, rivendicano ancora i commercialisti, “è valutare, in piena autonomia, la possibilità di indirizzare gli investimenti delle Casse Previdenziali Private anche nell’economia reale“. Tanto più che il Fondo Atlante “ha come scopo il “salvataggio” di Istituti di credito in crisi e, al di là delle opportune valutazioni degli specifici strumenti di investimento, non si può pensare che questi “prodotti”, che teoricamente si portano dietro interessanti rendimenti e molto realisticamente non pochi rischi, vengano imposti (di fatto si tratta di tentativi di moral suasion) ad Enti che innanzi tutto devono limitare i rischi perché in primo luogo è il capitale che va conservato”.
Perciò, l’Adc “invita il Governo, gli organi delle Casse, e in particolare il Consiglio di amministrazione e l’Assemblea dei delegati della Cassa dei dottori commercialisti (Cnpadc)” a “non perdere di vista che l’unico scopo sostanziale e di legge degli Enti è garantire il futuro previdenziale ed assistenziale dei professionisti”, che “non può esser messo in pericolo in alcun modo, tanto meno per fungere da stampella ad operazioni di salvataggio di pezzi del sistema bancario italiano, la cui soluzione deve essere trovata con strumenti suoi propri“.
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Re: Economia
Mps, a proposito di soluzioni non esattamente di mercato
Economia & Lobby
di Massimo Famularo | 3 agosto 2016
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Massimo Famularo
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Stante la bocciatura da parte dell’Eba (European banking authority), peraltro ampiamente attesa da tutti gli operatori, una sistemazione definitiva del “caso Monte dei Paschi di Siena” non era ulteriormente procrastinabile. Così è arrivata quella che il governo e molti commentatori si ostinano a chiamare “soluzione di mercato”.
In estrema sintesi, i crediti deteriorati di peggiore qualità, le sofferenze, dopo una svalutazione aggiuntiva di circa 1 miliardo, verranno trasferiti fuori dal bilancio della banca, quelli rimasti in carico all’istituto verranno ulteriormente svalutati per circa 2 miliardi; successivamente si procederà a un aumento di capitale per un importo che un pool di banche internazionali si è impegnato a garantire fino a 5 miliardi.
In che senso si tratta di una soluzione di mercato? Nel senso formale, che i regolatori hanno accettato l’interpretazione secondo la quale, in questa operazione non si sostanzierebbero degli aiuti di Stato e che quindi non troverebbe applicazione la normativa sul bail in.
Cos’è che invece non suona esattamente di mercato nella pratica? In primo luogo il prezzo di trasferimento delle sofferenze, 9,2 miliardi pari al 33% del saldo lordo. Tanto, poco o il giusto? In assenza di una valorizzazione aggiornata delle garanzie immobiliari non è possibile dirlo (allo stato sappiamo solo che circa 6 miliardi di saldo netto sono assistiti da garanzie ipotecarie), tuttavia è alquanto probabile che si tratti di un valore superiore a quello che avrebbero pagato degli operatori privati.
Perché superiore? Perché se ci fossero stati operatori disponibili ad acquistare le sofferenze al prezzo previsto da questo schema, non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere al fondo Atlante, e men che meno di esercitare pressioni sulle casse previdenziali per contribuirvi.
Osservando il tranching della struttura di cartolarizzazione prevista per trasferire le sofferenze abbiamo che il totale di 9,2 miliardi (circa un miliardo meno del valore di bilancio di partenza) rileviamo:
– Una tranche senior fino a 6 miliardi, all’incirca corrispondente ai crediti assistiti da garanzie ipotecarie da collocarsi a condizioni di mercato;
– Una tranche mezzanine da 1,6 miliardi che verrà sottoscritta integralmente da Atlante;
– Una tranche Junior da 1,6 miliardi assegnata agli azionisti di Mps (notare la differenza tra assegnazione di questa tranche e sottoscrizione delle altre due).
In secondo luogo, un altro elemento che può far dubitare del carattere “di mercato” dello schema è l’assegnazione al fondo Atlante di warrants con sottostante azioni di nuova emissione della banca pari al 7% del capitale fully diluted dopo il completamento dell’aumento di capitale: di fatto si tratta di una sorta di “polizza di assicurazione” che consente al fondo di partecipare di eventuali rivalutazioni del patrimonio ricapitalizzato e che pertanto lascia intendere che ci sia un qualche rischio sensibile nella capacità del veicolo di rimborsare i mezzanine noteholders.
Quanto alla tranche junior non può essere casuale che essa venga “assegnata agli azionisti”: se sussiste un rischio elevato per i sottoscrittori della mezzanine, la tranche junior si presenta come il più classico dei meccanismi per differire e spalmare nel tempo la perdita da cessione.
Siamo di fronte pertanto a un raffinato schema privatistico che consente di evitare l’intervento aperto del governo e risparmia i soldi dei contribuenti, oppure di fronte all’ennesima soluzione di sistema all’italiana dove lo Stato che è uscito dalla porta per far contenti i burocrati europei, rientra dalla finestra come regista dell’operazione?
E’ abbastanza evidente che l’impegno nel fondo Atlante da parte degli istituti sani (e qualcuno si è giocato un pezzo della propria sanità intervenendo), così come le sottoscrizioni da parte delle casse previdenziali e della cassa depositati e prestiti poco hanno a che fare con il libero mercato. Quanto al costo dell’intervento è impossibile da quantificare ex ante trattandosi per lo più di impegni indiretti:
– La garanzia sulle tranche senior sarà probabilmente più un guadagno che un costo per lo Stato vista la bassa probabilità che venga escussa;
– Parimenti posto che la parte rilevante dell’aggiustamento è avvenuta nello scorporo delle sofferenze è abbastanza probabile che il successivo aumento di capitale possa avvenire a condizioni di mercato.
Il costo più rilevante, e il più difficile da quantificare, riguarda il permanere di un’invadenza del potere politico nel sistema economico e finanziario del paese; un’invadenza che prima crea disastri distruggendo patrimoni accumulati nei secoli dalle comunità locali e poi vi pone rimedi farraginosi e disfunzionali eludendo le prescrizioni della regolamentazione comunitaria e arrivando a servirsi delle casse previdenziali come strumenti di quella che solo gli ingenui possono ancora considerare politica economica e che finisce per essere politica tout court.
Posto che una qualche forma d’intervento da parte dello Stato sarebbe probabilmente stata imprescindibile, sarebbe forse stato più trasparente, incisivo e probabilmente meno oneroso per la collettività una soluzione simile a quella adottata per Bankia in Spagna.
@massimofamularo
di Massimo Famularo | 3 agosto 2016
Economia & Lobby
di Massimo Famularo | 3 agosto 2016
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Massimo Famularo
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Stante la bocciatura da parte dell’Eba (European banking authority), peraltro ampiamente attesa da tutti gli operatori, una sistemazione definitiva del “caso Monte dei Paschi di Siena” non era ulteriormente procrastinabile. Così è arrivata quella che il governo e molti commentatori si ostinano a chiamare “soluzione di mercato”.
In estrema sintesi, i crediti deteriorati di peggiore qualità, le sofferenze, dopo una svalutazione aggiuntiva di circa 1 miliardo, verranno trasferiti fuori dal bilancio della banca, quelli rimasti in carico all’istituto verranno ulteriormente svalutati per circa 2 miliardi; successivamente si procederà a un aumento di capitale per un importo che un pool di banche internazionali si è impegnato a garantire fino a 5 miliardi.
In che senso si tratta di una soluzione di mercato? Nel senso formale, che i regolatori hanno accettato l’interpretazione secondo la quale, in questa operazione non si sostanzierebbero degli aiuti di Stato e che quindi non troverebbe applicazione la normativa sul bail in.
Cos’è che invece non suona esattamente di mercato nella pratica? In primo luogo il prezzo di trasferimento delle sofferenze, 9,2 miliardi pari al 33% del saldo lordo. Tanto, poco o il giusto? In assenza di una valorizzazione aggiornata delle garanzie immobiliari non è possibile dirlo (allo stato sappiamo solo che circa 6 miliardi di saldo netto sono assistiti da garanzie ipotecarie), tuttavia è alquanto probabile che si tratti di un valore superiore a quello che avrebbero pagato degli operatori privati.
Perché superiore? Perché se ci fossero stati operatori disponibili ad acquistare le sofferenze al prezzo previsto da questo schema, non ci sarebbe stato bisogno di ricorrere al fondo Atlante, e men che meno di esercitare pressioni sulle casse previdenziali per contribuirvi.
Osservando il tranching della struttura di cartolarizzazione prevista per trasferire le sofferenze abbiamo che il totale di 9,2 miliardi (circa un miliardo meno del valore di bilancio di partenza) rileviamo:
– Una tranche senior fino a 6 miliardi, all’incirca corrispondente ai crediti assistiti da garanzie ipotecarie da collocarsi a condizioni di mercato;
– Una tranche mezzanine da 1,6 miliardi che verrà sottoscritta integralmente da Atlante;
– Una tranche Junior da 1,6 miliardi assegnata agli azionisti di Mps (notare la differenza tra assegnazione di questa tranche e sottoscrizione delle altre due).
In secondo luogo, un altro elemento che può far dubitare del carattere “di mercato” dello schema è l’assegnazione al fondo Atlante di warrants con sottostante azioni di nuova emissione della banca pari al 7% del capitale fully diluted dopo il completamento dell’aumento di capitale: di fatto si tratta di una sorta di “polizza di assicurazione” che consente al fondo di partecipare di eventuali rivalutazioni del patrimonio ricapitalizzato e che pertanto lascia intendere che ci sia un qualche rischio sensibile nella capacità del veicolo di rimborsare i mezzanine noteholders.
Quanto alla tranche junior non può essere casuale che essa venga “assegnata agli azionisti”: se sussiste un rischio elevato per i sottoscrittori della mezzanine, la tranche junior si presenta come il più classico dei meccanismi per differire e spalmare nel tempo la perdita da cessione.
Siamo di fronte pertanto a un raffinato schema privatistico che consente di evitare l’intervento aperto del governo e risparmia i soldi dei contribuenti, oppure di fronte all’ennesima soluzione di sistema all’italiana dove lo Stato che è uscito dalla porta per far contenti i burocrati europei, rientra dalla finestra come regista dell’operazione?
E’ abbastanza evidente che l’impegno nel fondo Atlante da parte degli istituti sani (e qualcuno si è giocato un pezzo della propria sanità intervenendo), così come le sottoscrizioni da parte delle casse previdenziali e della cassa depositati e prestiti poco hanno a che fare con il libero mercato. Quanto al costo dell’intervento è impossibile da quantificare ex ante trattandosi per lo più di impegni indiretti:
– La garanzia sulle tranche senior sarà probabilmente più un guadagno che un costo per lo Stato vista la bassa probabilità che venga escussa;
– Parimenti posto che la parte rilevante dell’aggiustamento è avvenuta nello scorporo delle sofferenze è abbastanza probabile che il successivo aumento di capitale possa avvenire a condizioni di mercato.
Il costo più rilevante, e il più difficile da quantificare, riguarda il permanere di un’invadenza del potere politico nel sistema economico e finanziario del paese; un’invadenza che prima crea disastri distruggendo patrimoni accumulati nei secoli dalle comunità locali e poi vi pone rimedi farraginosi e disfunzionali eludendo le prescrizioni della regolamentazione comunitaria e arrivando a servirsi delle casse previdenziali come strumenti di quella che solo gli ingenui possono ancora considerare politica economica e che finisce per essere politica tout court.
Posto che una qualche forma d’intervento da parte dello Stato sarebbe probabilmente stata imprescindibile, sarebbe forse stato più trasparente, incisivo e probabilmente meno oneroso per la collettività una soluzione simile a quella adottata per Bankia in Spagna.
@massimofamularo
di Massimo Famularo | 3 agosto 2016
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Re: Economia
NON E' NECESSARIO AVER FREQUENTATO I CORSI DI ECONOMIA ALLA BOCCONI DI MILANO PER COMPRENDERE COSE ELEMENTARI.
SE LA CARTOLERIA PIU' VECCHIA DELLA CITTA' E' APERTA NEL POMERIGGIO DI MARTEDI' 9 AGOSTO 2016.
NON ERA MAI SUCCESSO NEGLI ANNI PRECEDENTI.
PADRE E FIGLIO DIETRO IL BANCONE DI VENDITA IN ATTESA CHE QUALCHE CLIENTE ENTRI IN NEGOZIO.
SEGNO CHE L'ECONOMIA "VA A GONFIE VELE". COME RACCONTA IL SIGNOR QUINDICIPALLE, IN ARTE MUSSOLONI.
QUALCUNO GLI APRA GLI OCCHI.
TO
SE LA CARTOLERIA PIU' VECCHIA DELLA CITTA' E' APERTA NEL POMERIGGIO DI MARTEDI' 9 AGOSTO 2016.
NON ERA MAI SUCCESSO NEGLI ANNI PRECEDENTI.
PADRE E FIGLIO DIETRO IL BANCONE DI VENDITA IN ATTESA CHE QUALCHE CLIENTE ENTRI IN NEGOZIO.
SEGNO CHE L'ECONOMIA "VA A GONFIE VELE". COME RACCONTA IL SIGNOR QUINDICIPALLE, IN ARTE MUSSOLONI.
QUALCUNO GLI APRA GLI OCCHI.
TO
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Re: Economia
Un tempo, questo Paese era la settima potenza mondiale.
Adesso è ridotto così, solo chiacchiere e distintivo.
Come finiremo, non bisogna essere dei maghi per prevederlo
Produzione industriale, i numeri di un disastro che non ha precedenti
Dal dopoguerra non s’era mai visto un crollo come quello degli anni scorsi.
E con Renzi? L’indice in ventotto mesi è passato da 91,6 a 91,8: l’Italia non riparte.
I dati della produzione industriale.
di Alberto Bagnai | 10 agosto 2016
| Commenti (189)
Due elettori mediani commentano il fatto politico del giorno: “Hai visto che scandalo? Poi dicono che c’è la crisi!
Ma il problema è che se sò magnati tutto…”. L’amico, sconsolato: “Che ci vuoi fare: ogni popolo ha i politici che si merita…”.
Su queste parole i due si congedano, ebbri di assolutoria autocommiserazione.
Ognuno di noi ha assistito a simili siparietti.
Qualcuno invece potrebbe essersi perso un fatto che apparentemente non ha nulla a che vedere con quanto precede.
Il 5 agosto scorso, alle 12:19, l’Ansa ha twittato: “Istat, economia frena, meglio ultimi mesi”.
Frenare, in italiano, significa diminuire la propria velocità.
Letto così, il lancio sembrerebbe indicare che l’economia italiana cresca di meno (freni), ma che negli ultimi mesi la situazione stia migliorando (cioè si stia tornando a crescere di più).
Nei dati leggiamo che a giugno l’indice della produzione industriale (Ipi) è diminuito dello 0,4%, mentre a maggio la diminuzione era stata dello 0,6%.
L’Ansa ha ragione: la velocità dell’economia italiana è diminuita.
Quindi tutto bene? Non me ne voglia l’agenzia di stampa, ma direi di no.
Non stiamo andando “meglio” (crescendo di più): stiamo andando “meno peggio” (diminuendo di meno). Non stiamo frenando: stiamo andando a marcia indietro, e questa non è una sfumatura, ma un fallimento epocale.
Renzi è in carica dal febbraio 2014, quando l’indice della produzione industriale era a 91,6.
Ventotto mesi dopo l’indice è a 91,8: un aumento dello 0,2%, e questo mentre l’Unione Europea, nostro principale cliente, è ripartita, passando dall’1,4% al 2% di crescita fra 2014 e 2015.
Certo, nessuno si aspetta che oggi la produzione industriale possa raddoppiare in un decennio, come al tempo del miracolo economico (fra 1955 e 1965), con un paese da ricostruire.
Ma il -18% del decennio 2005-2015 è una catastrofe senza precedenti.
Negli ultimi 64 anni le due annate più infauste per l’Ipi sono state il 2009 (-19%) e il 1975 (-9%).
La terza ce l’ha regalata Monti (-6% nel 2012), riportando l’indice ai valori di 26 anni prima (ma questo i media ce l’hanno taciuto, vantando i successi delle “riforme”).
Da quando siamo nell’euro, un anno su due è stato in rosso (ci verrebbe un bel titolo, che nessun giornale ha mai scritto).
Le recessioni, naturalmente, ci sono sempre state: il problema è che oggi non ci sono le riprese.
Questo non è un caso: è il cambio rigido, che in caso di crisi costringe a tagliare i salari per recuperare competitività.
Rendere i lavoratori ricattabili col Jobs act facilita il compito.
Incassata questa “riforma” la Confindustria ricambia il favore al governo: i suoi economisti elogiano la riforma costituzionale, con uno studio sbriciolato da Massimiliano Tancioni sul “Menabò di etica ed economia” (cosa che la stampa allineata non credo vi abbia detto).
Quanto agli industriali, poverini, loro proprio non arrivano a capire che dipendenti sottopagati sono clienti col braccino corto: distruggere il mercato interno per inseguire quello estero non è una buona idea, e il fallimento di Renzi è tutto in questa frase (che lui non capirebbe, e che chi lo circonda, occupato a mettersi in salvo, non ha tempo di spiegargli).
I danni dell’euro sono ormai conclamati.
L’ultimo rapporto sui mercati esteri del Fondo monetario internazionale, pubblicato il 27 luglio, è cristallino: a 17 anni dall’adozione, l’euro è ancora troppo forte di circa il 5% per Italia e Francia, e troppo debole di circa il 15% per la Germania (nessun giornale italiano ve l’ha detto, ma ai francesi ne ha parlato il Figaro).
Non a caso il 29 aprile il dipartimento del Tesoro americano ha messo la Germania nella lista dei manipolatori di valute (cosa che avete letto solo qui).
I nostri media, però, continuano tetragoni a ripeterci che ci siamo scelti degli ottimi compagni di strada (sarebbero quelli della Volkswagen, per capirci), e che se non ce la facciamo è colpa nostra.
Il grafico è eloquente: gli episodi di contrazione prolungata dell’Ipi sono tre, e coincidono con l’entrata nel Sistema Monetario Europeo (inizio degli anni ’80), con il suo irrigidimento (inizio degli anni ’90) e con l’entrata nell’euro (dal 1999).
È naturale che in un paese esportatore come il nostro l’eccessiva rigidità del cambio porti con sé de-industrializzazione.
Porta anche accresciuta mobilità dei capitali, che fa molto comodo all’industria finanziaria.
Insomma: alle banche.
Come dimostra Luigi Zingales sul blog dell’Università di Chicago, queste controllano in vari modi i giornali, con l’unica eccezione del Fatto Quotidiano (ipse dixit).
Sarà per questo che qui ogni tanto trovate notizie non allineate.
Torno al punto: per scegliere bene i politici, gli elettori hanno bisogno di informazioni corrette, senza le quali la democrazia non funziona.
Se siamo nei guai, quindi, non è solo per colpa dei politici che ci siamo scelti noi (e che quindi ci meriteremmo), ma anche per colpa dei media che ci hanno scelto le banche (e che forse non ci meritiamo).
Non è insomma colpa loro se, bombardati dal messaggio che “va tutto bene”, gli italiani non riescono a scegliere politici che facciano anche i loro interessi, e non solo quelli della finanza internazionale.
Parafrasando Brecht: “Sventurata la democrazia che ha bisogno di blogger”.
di Alberto Bagnai | 10 agosto 2016
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium ... recedenti/
Adesso è ridotto così, solo chiacchiere e distintivo.
Come finiremo, non bisogna essere dei maghi per prevederlo
Produzione industriale, i numeri di un disastro che non ha precedenti
Dal dopoguerra non s’era mai visto un crollo come quello degli anni scorsi.
E con Renzi? L’indice in ventotto mesi è passato da 91,6 a 91,8: l’Italia non riparte.
I dati della produzione industriale.
di Alberto Bagnai | 10 agosto 2016
| Commenti (189)
Due elettori mediani commentano il fatto politico del giorno: “Hai visto che scandalo? Poi dicono che c’è la crisi!
Ma il problema è che se sò magnati tutto…”. L’amico, sconsolato: “Che ci vuoi fare: ogni popolo ha i politici che si merita…”.
Su queste parole i due si congedano, ebbri di assolutoria autocommiserazione.
Ognuno di noi ha assistito a simili siparietti.
Qualcuno invece potrebbe essersi perso un fatto che apparentemente non ha nulla a che vedere con quanto precede.
Il 5 agosto scorso, alle 12:19, l’Ansa ha twittato: “Istat, economia frena, meglio ultimi mesi”.
Frenare, in italiano, significa diminuire la propria velocità.
Letto così, il lancio sembrerebbe indicare che l’economia italiana cresca di meno (freni), ma che negli ultimi mesi la situazione stia migliorando (cioè si stia tornando a crescere di più).
Nei dati leggiamo che a giugno l’indice della produzione industriale (Ipi) è diminuito dello 0,4%, mentre a maggio la diminuzione era stata dello 0,6%.
L’Ansa ha ragione: la velocità dell’economia italiana è diminuita.
Quindi tutto bene? Non me ne voglia l’agenzia di stampa, ma direi di no.
Non stiamo andando “meglio” (crescendo di più): stiamo andando “meno peggio” (diminuendo di meno). Non stiamo frenando: stiamo andando a marcia indietro, e questa non è una sfumatura, ma un fallimento epocale.
Renzi è in carica dal febbraio 2014, quando l’indice della produzione industriale era a 91,6.
Ventotto mesi dopo l’indice è a 91,8: un aumento dello 0,2%, e questo mentre l’Unione Europea, nostro principale cliente, è ripartita, passando dall’1,4% al 2% di crescita fra 2014 e 2015.
Certo, nessuno si aspetta che oggi la produzione industriale possa raddoppiare in un decennio, come al tempo del miracolo economico (fra 1955 e 1965), con un paese da ricostruire.
Ma il -18% del decennio 2005-2015 è una catastrofe senza precedenti.
Negli ultimi 64 anni le due annate più infauste per l’Ipi sono state il 2009 (-19%) e il 1975 (-9%).
La terza ce l’ha regalata Monti (-6% nel 2012), riportando l’indice ai valori di 26 anni prima (ma questo i media ce l’hanno taciuto, vantando i successi delle “riforme”).
Da quando siamo nell’euro, un anno su due è stato in rosso (ci verrebbe un bel titolo, che nessun giornale ha mai scritto).
Le recessioni, naturalmente, ci sono sempre state: il problema è che oggi non ci sono le riprese.
Questo non è un caso: è il cambio rigido, che in caso di crisi costringe a tagliare i salari per recuperare competitività.
Rendere i lavoratori ricattabili col Jobs act facilita il compito.
Incassata questa “riforma” la Confindustria ricambia il favore al governo: i suoi economisti elogiano la riforma costituzionale, con uno studio sbriciolato da Massimiliano Tancioni sul “Menabò di etica ed economia” (cosa che la stampa allineata non credo vi abbia detto).
Quanto agli industriali, poverini, loro proprio non arrivano a capire che dipendenti sottopagati sono clienti col braccino corto: distruggere il mercato interno per inseguire quello estero non è una buona idea, e il fallimento di Renzi è tutto in questa frase (che lui non capirebbe, e che chi lo circonda, occupato a mettersi in salvo, non ha tempo di spiegargli).
I danni dell’euro sono ormai conclamati.
L’ultimo rapporto sui mercati esteri del Fondo monetario internazionale, pubblicato il 27 luglio, è cristallino: a 17 anni dall’adozione, l’euro è ancora troppo forte di circa il 5% per Italia e Francia, e troppo debole di circa il 15% per la Germania (nessun giornale italiano ve l’ha detto, ma ai francesi ne ha parlato il Figaro).
Non a caso il 29 aprile il dipartimento del Tesoro americano ha messo la Germania nella lista dei manipolatori di valute (cosa che avete letto solo qui).
I nostri media, però, continuano tetragoni a ripeterci che ci siamo scelti degli ottimi compagni di strada (sarebbero quelli della Volkswagen, per capirci), e che se non ce la facciamo è colpa nostra.
Il grafico è eloquente: gli episodi di contrazione prolungata dell’Ipi sono tre, e coincidono con l’entrata nel Sistema Monetario Europeo (inizio degli anni ’80), con il suo irrigidimento (inizio degli anni ’90) e con l’entrata nell’euro (dal 1999).
È naturale che in un paese esportatore come il nostro l’eccessiva rigidità del cambio porti con sé de-industrializzazione.
Porta anche accresciuta mobilità dei capitali, che fa molto comodo all’industria finanziaria.
Insomma: alle banche.
Come dimostra Luigi Zingales sul blog dell’Università di Chicago, queste controllano in vari modi i giornali, con l’unica eccezione del Fatto Quotidiano (ipse dixit).
Sarà per questo che qui ogni tanto trovate notizie non allineate.
Torno al punto: per scegliere bene i politici, gli elettori hanno bisogno di informazioni corrette, senza le quali la democrazia non funziona.
Se siamo nei guai, quindi, non è solo per colpa dei politici che ci siamo scelti noi (e che quindi ci meriteremmo), ma anche per colpa dei media che ci hanno scelto le banche (e che forse non ci meritiamo).
Non è insomma colpa loro se, bombardati dal messaggio che “va tutto bene”, gli italiani non riescono a scegliere politici che facciano anche i loro interessi, e non solo quelli della finanza internazionale.
Parafrasando Brecht: “Sventurata la democrazia che ha bisogno di blogger”.
di Alberto Bagnai | 10 agosto 2016
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium ... recedenti/
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Re: Economia
Senza redistribuzione verso il basso della ricchezza per aumentare il potere d'acquisto delle classi più numerose non ci sarà nessuna ripresa e la società attuale (non solo quella italiana) è destinata a finire.
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Re: Economia
lo stato nazione e welfare state
https://www.socialeurope.eu/2016/08/nat ... aroufakis/
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Re: Economia
Crescita, l’Italia si ferma. Nel secondo trimestre pil al palo: +0% dopo il +0,3% dei primi tre mesi
Economia
E' la stima preliminare dell'Istat sul periodo aprile-giugno. Il ministro dell'Economia Padoan aveva detto di attendersi un progresso dello "0,1/0,2%". A settembre il governo dovrà rivedere al ribasso le previsioni per l'intero 2016. Il viceministro Morando: "Staremo decisamente sotto l'1%". Nomisma: "Così si riduce lo spazio per una manovra espansiva in autunno"
di F. Q. | 12 agosto 2016
COMMENTI (1244)
La crescita italiana non si è limitata a rallentare, come gli ultimi dati Istat su produzione industriale e esportazioni facevano presagire, ma si è del tutto fermata. Nel secondo trimestre, stando alla stima preliminare diffusa venerdì mattina dall’istituto di statistica, il pil corretto per gli effetti del calendario è infatti rimasto al palo: +0%. Peggio di quanto temeva il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che il 27 luglio aveva ammesso la frenata ma aveva detto di attendersi un “+0,1/+0,2%”. Preoccupa soprattutto il fatto che dietro la variazione nulla c’è un calo del valore aggiunto dell’industria, mentre agricoltura e servizi hanno tenuto. La battuta d’arresto, dopo il risicato +0,3% dei primi tre mesi, arriva peraltro mentre il resto della Ue rallenta ma non inchioda, mettendo a segno un +0,4% contro il +0,5% del primo trimestre, e l’Eurozona vede il pil progredire dello 0,3% a fronte del +0,6% dei primi mesi dell’anno. Bene la Germania, che ha registrato un +0,4%, sopra le attese degli analisti che si aspettavano un +0,2%, e il Regno Unito a +0,6 per cento. Ferma come Roma, invece, Parigi.
Di fronte al brusco stop, il governo Renzi dovrà necessariamente tagliare le stime di crescita sull’intero 2016 contenute nel Def, che erano di un +1,2%. Ora “siamo per quanto concerne la dimensione annuale decisamente sotto l’1%“, ha anticipato il viceministro Enrico Morando. Per ora comunque il Tesoro si è limitato a diffondere una nota di commento che getta acqua sul fuoco spiegando che “il dato di oggi non costituisce una sorpresa” e dipende dai “fattori di rischio geopolitico che hanno un impatto negativo sulla crescita italiana, tra cui minaccia del terrorismo, crisi dei migranti, Brexit”, oltre che dalla “propensione al protezionismo che sembra riemergere in alcuni contesti”.
“In calo il valore aggiunto dell’industria” - La variazione acquisita per quest’anno, ovvero la crescita che si registrerebbe se nei prossimi mesi ci fosse una variazione congiunturale nulla, è secondo l’Istat dello 0,6%. Nel 2015, come è noto, l’Italia è cresciuta dello 0,6% (dato corretto per gli effetti del calendario), risultato di performance decrescenti di mese in mese: +0,4% nel primo trimestre, +0,3 nel secondo, +0,2 nel terzo e +0,1 nel quarto. Tornando al dato del secondo trimestre 2016, quel +0% è “la sintesi di un aumento del valore aggiunto nei comparti dell’agricoltura e dei servizi e di una diminuzione in quello dell’industria. Dal lato della domanda, vi è un lieve contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte), compensato da un apporto positivo della componente estera netta”. Il progresso rispetto allo stesso periodo del 2015 è stato dello 0,7%.
pilL’analisi di Nomisma: “Confermate le difficoltà di lungo periodo dell’Italia. Si riduce lo spazio per una manovra espansiva” – “In un panorama economico internazionale che si è fatto più complicato, l’Italia conferma le sue difficoltà di lungo periodo”, commenta Andrea Goldstein, managing director di Nomisma, facendo notare che preoccupa sopratutto il calo del valore aggiunto dell’industria, mentre dal lato della domanda il contributo della componente nazionale è lievemente negativo. Per l’ennesima volta, insomma, a tenere è solo la componente estera netta, favorita però soprattutto dal prezzo ancora debole dell’energia. In questo quadro, secondo il centro studi bolognese, si riduce ulteriormente lo spazio per varare una manovra espansiva in autunno e “non c’è alternativa a una politica economica nel segno delle misure strutturali e del recupero della competitività erosa da troppi anni di timidezza”.
La Germania meglio delle attese. Parigi ferma come Roma – Sempre venerdì sono stati resi noti anche i numeri sulla crescita tedesca, francese, inglese e statunitense. La performance della Germania tra aprile è giugno è stata del +0,4%, superiore alle attese anche se in netto calo rispetto al +0,7% del trimestre precedente. Su base annua il dato corretto rispetto all’inflazione è aumentato del 3,1%, il miglior risultato degli ultimi 5 anni. A spingere l’economia, spiega l’istituto di statistica nazionale tedesco Destatis, sono stati il saldo tra importazioni ed esportazioni, i consumi delle famiglie e la spesa pubblica. Per contro, la debolezza degli investimenti ha influito negativamente sul dato finale.
Il Regno Unito mette a segno un +0,6% nel trimestre culminato con la Brexit - Nel trimestre che si è concluso con il referendum sulla Brexit ha fatto meglio il Regno Unito, con un +0,6%. Crescita zero, come per l’Italia, in Francia, duramente colpita dalle conseguenze degli attentati terroristici. Gli Stati Uniti hanno invece registrato un +0,3%. In termini tendenziali, cioè rispetto allo stesso periodo del 2015, si è registrato un aumento del 2,2% nel Regno Unito, dell’1,4% in Francia e dell’1,2% negli Stati Uniti.
Eurozona più lenta dell’intera Ue - Nel complesso, il pil dei Paesi Ue nel secondo trimestre è aumentato dello 0,4% contro il +0,5% dei primi tre mesi, mentre quello dell’Eurozona dello 0,3% rispetto al trimestre precedente quando il progresso era stato dello 0,6%. Rispetto allo stesso periodo del 2015, la crescita è stata dell’1,6% nell’area euro e dell’1,8% per l’Unione a 28.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08 ... i/2970912/
Economia
E' la stima preliminare dell'Istat sul periodo aprile-giugno. Il ministro dell'Economia Padoan aveva detto di attendersi un progresso dello "0,1/0,2%". A settembre il governo dovrà rivedere al ribasso le previsioni per l'intero 2016. Il viceministro Morando: "Staremo decisamente sotto l'1%". Nomisma: "Così si riduce lo spazio per una manovra espansiva in autunno"
di F. Q. | 12 agosto 2016
COMMENTI (1244)
La crescita italiana non si è limitata a rallentare, come gli ultimi dati Istat su produzione industriale e esportazioni facevano presagire, ma si è del tutto fermata. Nel secondo trimestre, stando alla stima preliminare diffusa venerdì mattina dall’istituto di statistica, il pil corretto per gli effetti del calendario è infatti rimasto al palo: +0%. Peggio di quanto temeva il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che il 27 luglio aveva ammesso la frenata ma aveva detto di attendersi un “+0,1/+0,2%”. Preoccupa soprattutto il fatto che dietro la variazione nulla c’è un calo del valore aggiunto dell’industria, mentre agricoltura e servizi hanno tenuto. La battuta d’arresto, dopo il risicato +0,3% dei primi tre mesi, arriva peraltro mentre il resto della Ue rallenta ma non inchioda, mettendo a segno un +0,4% contro il +0,5% del primo trimestre, e l’Eurozona vede il pil progredire dello 0,3% a fronte del +0,6% dei primi mesi dell’anno. Bene la Germania, che ha registrato un +0,4%, sopra le attese degli analisti che si aspettavano un +0,2%, e il Regno Unito a +0,6 per cento. Ferma come Roma, invece, Parigi.
Di fronte al brusco stop, il governo Renzi dovrà necessariamente tagliare le stime di crescita sull’intero 2016 contenute nel Def, che erano di un +1,2%. Ora “siamo per quanto concerne la dimensione annuale decisamente sotto l’1%“, ha anticipato il viceministro Enrico Morando. Per ora comunque il Tesoro si è limitato a diffondere una nota di commento che getta acqua sul fuoco spiegando che “il dato di oggi non costituisce una sorpresa” e dipende dai “fattori di rischio geopolitico che hanno un impatto negativo sulla crescita italiana, tra cui minaccia del terrorismo, crisi dei migranti, Brexit”, oltre che dalla “propensione al protezionismo che sembra riemergere in alcuni contesti”.
“In calo il valore aggiunto dell’industria” - La variazione acquisita per quest’anno, ovvero la crescita che si registrerebbe se nei prossimi mesi ci fosse una variazione congiunturale nulla, è secondo l’Istat dello 0,6%. Nel 2015, come è noto, l’Italia è cresciuta dello 0,6% (dato corretto per gli effetti del calendario), risultato di performance decrescenti di mese in mese: +0,4% nel primo trimestre, +0,3 nel secondo, +0,2 nel terzo e +0,1 nel quarto. Tornando al dato del secondo trimestre 2016, quel +0% è “la sintesi di un aumento del valore aggiunto nei comparti dell’agricoltura e dei servizi e di una diminuzione in quello dell’industria. Dal lato della domanda, vi è un lieve contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte), compensato da un apporto positivo della componente estera netta”. Il progresso rispetto allo stesso periodo del 2015 è stato dello 0,7%.
pilL’analisi di Nomisma: “Confermate le difficoltà di lungo periodo dell’Italia. Si riduce lo spazio per una manovra espansiva” – “In un panorama economico internazionale che si è fatto più complicato, l’Italia conferma le sue difficoltà di lungo periodo”, commenta Andrea Goldstein, managing director di Nomisma, facendo notare che preoccupa sopratutto il calo del valore aggiunto dell’industria, mentre dal lato della domanda il contributo della componente nazionale è lievemente negativo. Per l’ennesima volta, insomma, a tenere è solo la componente estera netta, favorita però soprattutto dal prezzo ancora debole dell’energia. In questo quadro, secondo il centro studi bolognese, si riduce ulteriormente lo spazio per varare una manovra espansiva in autunno e “non c’è alternativa a una politica economica nel segno delle misure strutturali e del recupero della competitività erosa da troppi anni di timidezza”.
La Germania meglio delle attese. Parigi ferma come Roma – Sempre venerdì sono stati resi noti anche i numeri sulla crescita tedesca, francese, inglese e statunitense. La performance della Germania tra aprile è giugno è stata del +0,4%, superiore alle attese anche se in netto calo rispetto al +0,7% del trimestre precedente. Su base annua il dato corretto rispetto all’inflazione è aumentato del 3,1%, il miglior risultato degli ultimi 5 anni. A spingere l’economia, spiega l’istituto di statistica nazionale tedesco Destatis, sono stati il saldo tra importazioni ed esportazioni, i consumi delle famiglie e la spesa pubblica. Per contro, la debolezza degli investimenti ha influito negativamente sul dato finale.
Il Regno Unito mette a segno un +0,6% nel trimestre culminato con la Brexit - Nel trimestre che si è concluso con il referendum sulla Brexit ha fatto meglio il Regno Unito, con un +0,6%. Crescita zero, come per l’Italia, in Francia, duramente colpita dalle conseguenze degli attentati terroristici. Gli Stati Uniti hanno invece registrato un +0,3%. In termini tendenziali, cioè rispetto allo stesso periodo del 2015, si è registrato un aumento del 2,2% nel Regno Unito, dell’1,4% in Francia e dell’1,2% negli Stati Uniti.
Eurozona più lenta dell’intera Ue - Nel complesso, il pil dei Paesi Ue nel secondo trimestre è aumentato dello 0,4% contro il +0,5% dei primi tre mesi, mentre quello dell’Eurozona dello 0,3% rispetto al trimestre precedente quando il progresso era stato dello 0,6%. Rispetto allo stesso periodo del 2015, la crescita è stata dell’1,6% nell’area euro e dell’1,8% per l’Unione a 28.
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Re: Economia
LA VOX POPULI
sanjust43 • un'ora fa
I dati veri sbugiardano immancabilmente ed inesorabilmente le menzogne del duo Renziboschi. Il PIL rispetto alle previsioni di questi economisti del menga crolla mentre il debito pubblico cresce niente "popodimeno" che di 77Miliardi. Questi se ne devono andare a casa il più presto possibile .In fatto di crescita siamo buoni ultimi in Europa e il divario con le altre economie si allarga . Persino la Grecia e la Spagna crescono più di noi. Almeno avessero il pudore di non affermare che la vittoria del sì farebbe aumentare la crescita .. Prima il No e poi a casa subito.
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Ross Baldi • un'ora fa
I Nostri Premi Nobel di Governo e dell'Economia...come sempre non ne azzeccano una...ma questo lo sapevamo già.
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esasperato • un'ora fa
ma non è vero, che razza di gufi!!!
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Ravedo • un'ora fa
Due sono le cose nelle quali i ns. politici sono imbattibili; una è quella di spiegare che cosa si dovrebbe fare (e che ovviamente non hanno fatto), la seconda è trovare sempre qualcuno che ha fatto peggio. Sulle previsioni poi è più facile vincere al superenalotto che un ns. ministro centri il dato sul PIL.
Ora mi sembra chiaro che se l'Italia vuole progredire dovremo mandare a casa per sempre questa classe politica e quindi i partiti a cui appartengono, a prescindere da quelli che ne prenderanno il posto.
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ROBERTO • 2 ore fa
Sono straconvinto che il mago Otelma farebbe 10 volte meglio del governo Renzi.
L'ignoranza è una brutta bestia, e la presunzione di saper governare quando non lo si sa fare è ancora peggio. Mandiamo a casa Renzi.
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sanjust43 • un'ora fa
I dati veri sbugiardano immancabilmente ed inesorabilmente le menzogne del duo Renziboschi. Il PIL rispetto alle previsioni di questi economisti del menga crolla mentre il debito pubblico cresce niente "popodimeno" che di 77Miliardi. Questi se ne devono andare a casa il più presto possibile .In fatto di crescita siamo buoni ultimi in Europa e il divario con le altre economie si allarga . Persino la Grecia e la Spagna crescono più di noi. Almeno avessero il pudore di non affermare che la vittoria del sì farebbe aumentare la crescita .. Prima il No e poi a casa subito.
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Ross Baldi • un'ora fa
I Nostri Premi Nobel di Governo e dell'Economia...come sempre non ne azzeccano una...ma questo lo sapevamo già.
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esasperato • un'ora fa
ma non è vero, che razza di gufi!!!
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Ravedo • un'ora fa
Due sono le cose nelle quali i ns. politici sono imbattibili; una è quella di spiegare che cosa si dovrebbe fare (e che ovviamente non hanno fatto), la seconda è trovare sempre qualcuno che ha fatto peggio. Sulle previsioni poi è più facile vincere al superenalotto che un ns. ministro centri il dato sul PIL.
Ora mi sembra chiaro che se l'Italia vuole progredire dovremo mandare a casa per sempre questa classe politica e quindi i partiti a cui appartengono, a prescindere da quelli che ne prenderanno il posto.
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ROBERTO • 2 ore fa
Sono straconvinto che il mago Otelma farebbe 10 volte meglio del governo Renzi.
L'ignoranza è una brutta bestia, e la presunzione di saper governare quando non lo si sa fare è ancora peggio. Mandiamo a casa Renzi.
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