Diario della caduta di un regime.

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UncleTom
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IL MINISTERO DELLA PROPAGANDA STRUMPTRUPPEN BIANCA, ROSSA, VERDE, SPINGE PER LA GUERRA CIVILE.




Ieri, sulla prima pagina di Libero, la notizia principale, in grande evidenza era questa.

Sanremo fa dimenticare la politica
Canta che ti passa
la voglia di sparare

L’Italia va a picco, tornano spread e crolli in Borsa, voteremo senza legge elettorale. Ma stasera parte
il Festival e il Paese si ferma una settimana davanti alla tv. Anche stavolta la rivoluzione è rimandata

di Renato Farina.



Oggi, Il Giornale:

Biella, "Per colpa degli immigrati i nostri figli chiusi come nei lager"
A Occhieppo superiore (Biella) i migranti spacciano. La droga proposta anche ai bambini. I genitori: "Costretti a chiuderli in casa, si sentono in prigione"
Giuseppe De Lorenzo - Mer, 08/02/2017 - 17:28
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Tre anni di denunce, lamentele, paure. Mesi di controlli, blitz e arresti. Ed una sola certezza: al centro profughi di Occhieppo Superiore, Comune di 3mila abitanti a due passi da Biella, i migranti spacciano droga.

Non solo. La propongono ai bambini del quartiere, che rischiano di diventarne schiavi. E così i genitori sono costretti a chiuderli in casa (guarda il video). Come se fossero in un "lager".
Villa Ottino, immobile d'epoca proprietà della "Pia Unione Figlie della Carità", un tempo era destinata al ricovero degli anziani. Usciti i nonni, tre anni fa sono arrivati gli immigrati. E con loro i problemi. Per Sabrina Grandi, residente e madre di due ragazzi, ogni giorno è un calvario di timori e paure. "I miei figli si sentono carcerati, ma io ho paura. Così gli impedisco di uscire di casa". C'è da capirla. A fine gennaio i carabinieri hanno realizzato un blitz nella struttura scovando dosi di marijuana per 100 grammi totali, tutti ben divisi in dosi pronte ad essere vendute. "I migranti avvicinano i nostri figli e li invogliano a consumare droga. Gli dicono: 'Provatela, che è buona". E gliela regalano. Lo fanno per creare una dipendenza e poi avere nuovi clienti". Luci sulla strada ce ne sono poche, di auto in transito nemmeno a parlarne. Il campo da calcio un tempo brulicante di bambini è occupato la maggior parte del tempo dagli stranieri. Tra il cancello della villa e quello della residenza di Sabrina c'è solo un parcheggio privato, diventato luogo di aggregazione e scambi illeciti. Il terrore della droga si mescola a quello delle aggressioni sessuali. "Un gruppo di siriani faceva paura e urlava apprezzamenti pesanti alle ragazze del quartiere", racconta con le mani in tasca Filippo Fanton, anche lui proprietario di un appartamento a due passi da lì. "Per ora non è successo ancora l'irreparabile, ma questa è casa nostra e non si può vivere così".
Occhieppo, i migranti spacciano droga: "I nostri figli chiusi in casa"
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 60312.html


Già, non si può. Per questo i Carabinieri negli ultimi tre mesi hanno aumentato i controlli, scoprendo "una vera e propria centrale di spaccio". Il bollettino di guerra parla chiaro: a novembre un nigeriano denunciato; il 19 gennaio un immigrato del Gambia fermato per gli stessi motivi; il 21 gennaio un'altra denuncia, sempre a carico di un nigeriano con in tasca 300 euro. Infine, il blitz con i cani anti-droga e le dosi rinvenute nel cestino dell'immondizia nella sala comune. Sotto gli occhi degli altri inquilini e dei dipendenti del consorzio che gestisce il centro.
Struttura a norma? Forse
Contattata via mail, la cooperativa "Filo da tessere" non ha voluto commentare in alcun modo le attività illecite portate avanti dai suoi ospiti. Eppure qualcosa da spiegare ci sarebbe, visto che sembra impossibile nessuno si sia accorto delle dosi di stupefacenti conservate nei locali. Uno dei tanti misteri di villa Ottino. "Il centro durerà solo sei mesi", dissero alla cittadinanza. Poi però i giorni si sono moltiplicati, diventando anni. "E pensare che la struttura non ha nemmeno i requisiti minimi per poter essere usata", spiega irritato Guido Dellarovere, capogruppo dell'opposizione, mentre affigge un cartellone di fronte al centro profughi. "Se un cittadino volesse aprire un albergo in questo stabile, non riuscirebbe mai ad ottenere le autorizzazioni. Invece per i migranti possono trasformare pure le catapecchie in alberghi".
Milioni di euro, nessun controllo
A dicembre un colpo di scena sembrava aver risolto il problema. La coop e i proprietari dello stabile non raggiunsero un nuovo accordo sull'affitto e tutti erano convinti che il centro profughi sarebbe rapidamente scomparso. Invece i 39 migranti rimarranno lì fino a nuova comunicazione, ovvero finché la Prefettura non scioglierà le riserve sul nuovo bando da 8,5 milioni di euro per i servizi di accoglienza nel periodo dal 1 aprile al 31 dicembre 2017. In pratica un milione di euro al mese per garantire un letto ad almeno 850 immigrati. Probabilmente villa Ottino chiuderà lo stesso, spostando così il problema di qualche metro. Per tornare alla normalità ci vorrà comunque del tempo. "I benpensanti della sinistra dicono che questi centri sono come dei lager", dice Dellarovere scattando una foto. "Non è vero: siamo noi ad essere costretti a tenere i nostri figli nei lager. Perché abbiamo troppa paura".
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I TENTATIVI DI COLPO DI STATO IN ITALIA



Cultura

Giuseppe Loteta

1 Dec 2016 12:13 CET


Quell’estate del ’64, quando il golpe fu evitato per un soffio



Il generale De Lorenzo volle incontrarmi e cercò di convicermi che era stato lui ad evitare il putsch militare contro il centrosinistra e il Psi di Nenni

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Tra il 1967 e il 1970 esplose in Italia il caso del colpo di Stato tentato dal generale Giovanni De Lorenzo. Il tentativo si svolse nel 1964, ma, all’infuori di una ristrettissima cerchia di uomini politici e di militari, nessuno sul momento si avvide di niente. Si sapeva che Pietro Nenni aveva parlato con preoccupazione di un “tintinnio di sciabole” e che, a causa di questo tintinnio, la crisi del primo governo di centro-sinistra si era risolta rapidamente, con il mantenimento della stessa formula governativa ma con l’esclusione dall’accordo tra Dc e Psi delle riforme sostenute dai socialisti.Fu per primo “L’Espresso” a far esplodere il caso tre anni dopo. E, insieme con “L’Espresso”, fu “l’Astrolabio”, più di ogni altro giornale, a informare i suoi lettori con una lunga campagna giornalistica di ciò che il generale De Lorenzo aveva programmato. Ferruccio Parri, direttore dell’ “Astrolabio”, aveva i suoi referenti negli ambienti militari che avevano avuto a che fare con la Resistenza, era uomo prudente ma determinato e sapeva quel che scriveva. Con la guida di Parri, fui io da cronista a seguire quei fatti.

IL PERSONAGGIO

Giovanni De Lorenzo nacque a Vizzini il 29 novembre 1907. Laureato in ingegneria navale, ufficiale d’artiglieria, durante la seconda guerra mondiale partecipò alla campagna di Russia con il grado di tenente colonnello e, dopo l’8 settembre, alla Resistenza, dapprima sul fronte alpino, poi nella Roma occupata. Insignito di medaglia d’argento. Dal 1955 al 1962, con il grado di generale, fu a capo del SIFAR (il servizio di spionaggio italiano), comandante generale dell’arma dei carabinieri dal 1962 al 1965, capo di stato maggiore dell’esercito dal 1965 al 1967, incarico questo dal quale fu destituito il 15 aprile 1967. Alle elezioni politiche del 19 maggio 1968 fu eletto alla Camera dei deputati nelle liste del Partito democratico italiano di unità monarchica. Nel 1971 aderì al gruppo parlamentare del Movimento sociale italiano fino al 1972. Morì a Roma il 29 aprile 1973.

IL PIANO “SOLO”

Il 21 maggio del 1967 “l’Espresso”, con gran risalto in copertina, pubblica un articolo esplosivo di Lino Jannuzzi. Vi si afferma che tre anni prima, il 14 luglio del 1964, il comandante dei carabinieri, generale De Lorenzo, aveva tenuto una riunione con quasi tutti i comandanti di divisione e i capi di stato maggiore dell’Arma, uomini a lui fedeli, per rendere operativo un colpo di Stato.Vediamo come è andata. Tutto comincia nel dicembre del 1963, quando si costituisce il primo governo di centro-sinistra, presidente del Consiglio Aldo Moro e vicepresidente Pietro Nenni. E’ un evento memorabile, preparato da Moro e da Nenni fin dal 1960, dalla fine del governo Tambroni. Per la prima volta nella storia della Repubblica la democrazia cristiana e il partito socialista, due forze politiche con base popolare ma fino a quel momento avversarie, stringono un’alleanza di governo. Grandi aspirazioni e grandi attese. E Nenni titola a tutta pagina sull’ “Avanti”: “Da oggi ognuno è più libero”. Ma la coabitazione è difficile e la situazione economica non la migliora. I socialisti spingono sul tasto riformista e i democristiani su quello moderato. A guidare i conservatori della Dc, soprattutto gli esponenti della corrente dorotea, è il Presidente della Repubblica, Antonio Segni.Le divergenze aumentano e il 26 giugno il presidente del Consiglio rassegna le dimissioni. Non ci sono alternative e il Capo dello stato affida di nuovo a Moro l’incarico di formare il nuovo governo. Seguono tre settimane di trattative difficili tra i due partiti. Gli scogli più vistosi sono costituiti dalla scuola, dalla programmazione economica e dall’urbanistica. E proprio in quei giorni Segni dice a Nenni: “Non posso certo costringervi a non costituire il governo se raggiungete un accordo in breve tempo. E però badate, se trasformate in legge le vostre riforme, a cominciare dal progetto urbanistico di Sullo e Lombardi, mi rifiuterò di firmarle e le rimanderò alle Camere”. Il 18 luglio l’accordo è faticosamente raggiunto. Ma è un grosso passo indietro sui programmi del precedente governo. Riccardo Lombardi lascia la direzione dell'”Avanti” e il socialista lombardiano Antonio Giolitti, autore del piano di programmazione economica, rifiuta di partecipare al nuovo governo.Ma che c’entrano De Lorenzo e il tentativo di colpo di Stato? C’entrano. Non a caso, in quei giorni Segni mantiene contatti sempre più stretti con il comandante dei carabinieri. De Lorenzo è al suo fianco in tutte le occasioni pubbliche. E, sempre non a caso, il 24 giugno si svolge, nella stanza del capo di stato maggiore dell’arma dei carabinieri, generale Picchiotti, una riunione alla quale partecipano i capi di stato maggiore delle divisioni di stanza a Napoli, Milano e Roma, e i colonnelli del Sifar Allavena e Bianchi. Durante l’incontro gli uomini del controspionaggio consegnano ai carabinieri le liste di 731 uomini politici, sindacalisti, giornalisti, amministratori, perfino religiosi, da arrestare in tutte le regioni italiane e da deportare su una base in Sardegna: il piano “Solo”, destinato a sovvertire le istituzioni democratiche. La riunione si conclude nella stanza del generale De Lorenzo. Ed è De Lorenzo a tenere 14 luglio una riunione di alti ufficiali dei carabinieri, nel corso della quale predispone i particolari di attuazione del piano. Il secondo governo di centrosinistra nasce all’ombra del tintinnio di sciabole avvertito da Nenni.

IL PROCESSO DE LORENZO-L’ESPRESSO E ALTRO

Poco dopo l’apparizione nelle edicole de “l’Espresso” del 21 maggio, il generale De Lorenzo querela per diffamazione Eugenio Scalari e Lino Jannuzzi. Il processo dura tre mesi e si conclude il 3 marzo 1968 con la condanna di Scalfari e Jannuzzi a 17 e 16 mesi di reclusione, malgrado la motivata richiesta d’assoluzione avanzata dal pubblico ministero, Vittorio Occorsio (ucciso il 10 luglio 1976 dal terrorista di destra Pierluigi Concutelli), che era riuscito a leggere gli incartamenti integrali prima che il governo li rendesse inutili con gli “omissis”. Ma nel corso del dibattimento emergono nuove prove, nuovi particolari, nuove testimonianze sul tentativo di colpo di stato. Ed è sempre del 1967 la stesura del rapporto Manes, cioè delle conclusioni della commissione d’inchiesta interna ai carabinieri, affidata al vicecomandante dell’Arma, generale Giorgio Manes, un militare con un alto senso del dovere e dell’onore, fedele alle istituzioni repubblicane. Manes non scherza. Interroga colonnelli e generali, li costringe a dire la verità. E gli ufficiali ammettono le riunioni segrete al comando generale, le discussioni operative sul piano “Solo”, la distribuzione ai tre capi di stato maggiore da parte del SIFAR delle liste di proscrizioni. Indiscrezioni successive lasceranno trapelare alcuni particolari del lavoro svolto da Manes e i nomi di molti “enucleandi”. Ma il rapporto sarà coperto dal segreto di Stato e la verità si conoscerà soltanto anni dopo. Il generale Manes muore, colpito da infarto, il 25 giugno 1969, mentre sta per deporre davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del 1964, presieduta dal democristiano Giuseppe Alessi. Questa commissione concluderà i suoi lavori il 15 settembre 1970 con una relazione di maggioranza che scagiona sostanzialmente il generale e con una relazione di minoranza, firmata dal comunista Umberto Terracini, dove si conferma che De Lorenzo aveva preparato un colpo di Stato.

LA TRAMA E L’EPILOGO

Ma per conto di chi agiva De Lorenzo? Contro chi e a favore di chi il golpe era diretto? E perché il tentativo di colpo di Stato si interrompe? Tutto nasce dall’avversione che il Presidente della Repubblica nutre verso l’incontro tra democristiani e socialisti. Segni non si limita ad ostacolare le riforme volute dai socialisti, vorrebbe impedire la riedizione della formula governativa di centrosinistra. E al suo fianco, servizievole e privo di scrupoli, c’è De Lorenzo, con il suo carrierismo, la sua forza militare, la sua brama di potere. Il generale dispone dell’Arma dei carabinieri e indirettamente del Sifar, guidato da uomini di sua fiducia. In chi nasce l’idea del colpo di Stato? E’ Segni a imporla o è De Lorenzo a suggerirla? Difficile rispondere. Certo è che il progetto va avanti, fino alle soglie dell’esecuzione, fino al pre-allarme ai comandi periferici dell’Arma e alla distribuzione agli stessi comandi delle liste di proscrizione. Si attende solo un ordine da Roma. Ma non arriva. Perché, quando si avvede che il progetto non aveva sufficienti coperture politiche, De Lorenzo si tira indietro. Gli esponenti della più forte corrente della Dc, i dorotei, non stanno al gioco. Mariano Rumor ed Emilio Colombo vogliono portare il governo su posizioni moderate, non il paese al colpo di Stato. E, inoltre, si fatica a trovare l’uomo giusto da mettere a capo del governo golpista.Il generale a questo punto salta il fosso. Ottiene d’incontrare i vertici del partito di maggioranza in casa del senatore democristiano Tommaso Morlino e risolve a suo modo il problema. Sono presenti Aldo Moro, presidente del Consiglio, Mariano Rumor, segretario del partito, Silvio Gava, capogruppo dc al senato e Benigno Zaccagnini, capogruppo dc alla Camera. De Lorenzo parla a lungo delle intenzioni e dello stato d’animo del presidente della Repubblica e dei preparativi del colpo di Stato, attribuendo a Segni la volontà d’andare fino in fondo e a sè stesso il ruolo del moderatore. Il gioco é fatto. E la promozione a capo di stato maggiore dell’esercito premia qualche tempo dopo il suo “lealismo democratico”. Ci vorranno tre anni perché sia destituito da questa carica. Ci vorranno le conclusioni di una commissione d’inchiesta sulle attività del Sifar, costituita dal ministro della Difesa, Tremelloni, e presieduta dal generale Aldo Beolchini. Vi si legge che, dietro ordine di De Lorenzo, il Sifar aveva creato una formidabile raccolta di fascicoli, frutto di “indagini su personalità civili e militari che nulla avevano a che fare con la sicurezza interna e il controspionaggio, non già a tutela del buon nome delle suddette personalità, ma per presunta altra utilizzazione delle notizie scandalistiche così raccolte”. E che il generale si era avvalso “della organizzazione centrale e periferica del Sifar, allo stesso scopo di cui sopra, anche quando passò al comando generale dell’Arma”. Ma quanti erano questi fascicoli? Ben 157.000, secondo le indagini del generale Beolchini.

A TU PER TU CON IL GENERALE

In quei mesi mi incontrai due volte con De Lorenzo. La prima fu in un’aula di tribunale. Si svolgeva il processo per diffamazione intentato dal generale contro Scalfari e Jannuzzi. Avevo scritto di due circolari che De Lorenzo, nella sua veste di comandante generale dell’arma, aveva emanato per ottenere un comportamento che ritenevo illegittimo dai carabinieri preposti alla polizia giudiziaria. Nella pausa di un’udienza lui usci nel corridoio e mi vide. Evidentemente, sapeva già chi ero. Tolse per un attimo il monocolo incastrato nell’occhio destro, mi guardò con attenzione e chiese: “Lei è Loteta, vero? “. “Certo. E lei è il generale De Lorenzo”. “Ebbene sappia che quelle circolari io avevo il dovere di emanarle”. “Credo di no. Anche se non sono mai stato comandante generale dei carabinieri”. “Lo diventi, allora. Si accorgerà che vedrà molte cose da un altro punto di vista”. “Va bene, generale. Farò il possibile per diventarlo”. Tutto qui, tra il serio e il faceto. Ma la seconda volta andò diversamente.Frequentava l’aula del processo un signore sui cinquant’anni, piccolo, elegante, fumatore accanito di sigarette americane che infilava sistematicamente dentro un lungo bocchino d’avorio. Era un colonnello del Sios, il servizio informazioni dell’esercito. E si dichiarava apertamente simpatizzante comunista. Familiarizzava con tutti e dava, ricambiato, il tu ai giornalisti. Un giorno mi disse con fare misterioso: “Sua eccellenza ti vuol parlare”. L’eccellenza, naturalmente, era De Lorenzo. Gli risposi che ci avrei pensato e mi consigliai con Parri che non frappose alcun ostacolo all’incontro, limitandosi ad invitarmi alla prudenza. “Parli poco e faccia parlare lui”, concluse. Così, dissi al colonnello che accettavo l’invito. E l’abboccamento fu fissato a casa dell’ufficiale, in uno dei palazzoni umbertini che sorgono all’inizio di viale Trastevere,Arrivai per primo e il generale poco dopo. Il colonnello ci introdusse nel suo studio e ci lasciò soli. Su un tavolino, al centro delle due poltrone che ci avrebbero ospitati, erano disposti una bottiglia di whisky e due bicchieri. De Lorenzo cominciò scherzando. Mi toccò il nodo della cravatta e mi chiese sorridendo: “Ma dove ha nascosto il microfono? “. “Io, generale? Lei è maestro in queste cose. Io non so nemmeno com’è fatto un microfono”. Poi fu un dialogo tra sordi. Lui voleva convincere me, ma soprattutto Parri, della sua lealtà verso la Repubblica e le istituzioni democratiche. E, naturalmente, non ci riuscì. Io, con qualche ingenuità, credevo di potergli far rivelare i retroscena di quella estate del 1964. E, naturalmente, non cavai un ragno dal buco. Più d’una volta, forse troppo, il whisky del colonnello facilitò la conversazione. Il generale aveva il volto arrossato. E a un certo punto sbottò: “Tutti dicono e scrivono che io avrei chissà quali documentazioni, casse di documenti. Ebbene, le do la mia parola d’onore di ufficiale: non ho neanche un foglio di carta”. Poi fece una pausa di pochi secondi e aggiunse, con un sorrisetto sardonico: “Qualche registrazione, sì”.E’ forse il caso di aggiungere che il generale, ancora in servizio, si presentò alle elezioni politiche del 1968 nelle liste del partito monarchico. Dalle sue dichiarazioni in campagna elettorale: “L’ordine deve essere salvato a qualunque costo, anche se non dovesse coincidere con la comune legalità”. E ancora: “Mi pento di non aver fatto il colpo di stato del 1964”.
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Tentativo di Colpo di Stato di Junio Valerio Borghese


Published on 22/09/2009 11:27 Number of Views: 4059


Golpe Borghese

Con golpe Borghese (o golpe dei forestali) si indica un tentativo di colpo di Stato avvenuto in Italia nella notte del 7-8 dicembre 1970 ed organizzato dal principe Junio Valerio Borghese, sotto la sigla Fronte Nazionale (Italia), in stretto rapporto con Avanguardia Nazionale. Borghese, conosciuto anche come il "principe nero", era un ex comandante della X MAS che dopo l'8 settembre 1943 aderì alla repubblica di Salò.

IL PIANO
Il golpe era stato progettato da diversi anni nei minimi particolari: dal 1969 erano stati formati gruppi clandestini armati con stretti rapporti con le Forze Armate. In accordo con diversi vertici militari e membri dei Ministeri, il golpe prevedeva l'occupazione del Ministero dell'Interno, del Ministero della Difesa, delle sedi RAI e dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni) e la deportazione degli oppositori presenti nel Parlamento. Nei piani c'erano anche il rapimento del capo dello stato Giuseppe Saragat e l'assassinio del capo della polizia, Angelo Vicari. A tutto questo sarebbe stato accompagnato un proclama ufficiale alla nazione, che Borghese stesso avrebbe letto dagli studi RAI occupati.

Attuazione e annullamento
Il piano cominciò ad essere attuato tra il 7 e l'8 dicembre 1970, con il concentramento nella capitale di diverse centinaia di congiurati, con azioni simili in diverse città italiane, tra cui Milano. All'interno del Ministero degli Interni iniziò anche la distribuzione di armi e munizioni ai cospiratori; il generale dell'Aeronautica militare italiana Giuseppe Casero e il colonnello Giuseppe Lo Vecchio presero posizione al Ministero della Difesa, mentre un gruppo armato della Guardia Forestale, di 187 uomini, guidato dal maggiore Luciano Berti si appostò non lontano dalle sedi televisive della RAI. A Milano, invece, si organizzò l'occupazione di Sesto San Giovanni tramite un reparto al comando del colonnello dell'esercito Amos Spiazzi.

Il golpe era in fase di avanzata esecuzione quando, improvvisamente, Valerio Borghese ne ordinò l'immediato annullamento. Le motivazioni di Borghese per questo improvviso ordine a poche ore dall'attuazione effettiva del piano non sono ancora certe e esenti da una possibile smentita.

Le indagini
Gli italiani scoprirono il tentato golpe tre mesi dopo. Paese sera titolò: "Piano eversivo contro la repubblica, scoperto piano di estrema destra". Il 18 marzo 1971 il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone firmò i mandati di arresto con l'accusa di usurpazione dei poteri dello stato e cospirazione per il costruttore edile Remo Orlandini, Mario Rosa, Giovanni De Rosa, Sandro Saccucci, Giuseppe Lo Vecchio e Junio Valerio Borghese.

In seguito al fallimento del golpe, Borghese si rifugiò in Spagna dove, non fidandosi della giustizia italiana, che nel 1973 revocò l'ordine di cattura, rimase fino alla morte, avvenuta a Cadice il 26 agosto 1974.

Il ruolo del SID
Il 15 settembre 1974 Giulio Andreotti, all'epoca Ministro della Difesa, consegnò alla magistratura romana un dossier del SID diviso in tre parti che descrive il piano e gli obiettivi del golpe, portando alla luce nuove informazioni. Il dossier fu redatto dal numero due del SID, il generale Gianadelio Maletti che avviò un'inchiesta sulle cospirazioni mantenendolo nascosto anche a Vito Miceli, direttore del servizio. Aiutato dal capitano Antonio La Bruna, furono registrate le dichiarazioni di Remo Orlandini, quest'ultimo coordinatore per Borghese verso collegamenti all'estero e in Italia. Durante un colloquio, Orlandini fa il nome di Vito Miceli, come una figura coinvolta direttamente come Borghese. A questo punto Maletti è costretto a scavalcare Vito e a parlare direttamente con Andreotti.

Miceli si giustifica affermando che doveva acquisire delle informazioni. Venne subito destituito insieme ad altri 20 generali e ammiragli, senza particolari spiegazioni.

La Magistratura fa partire altri 32 arresti, tra cui anche quello di Adriano Monti. Nel 1974 Monti nega tutto e viene scarcerato per motivi di salute. Immediatamente fugge all'estero e rimane latitante per 10 anni.

Nel 1991 si è scoperto che le registrazioni consegnate nel 1974 da Andreotti alla magistratura non erano la versione integrale. In origine Remo Orlandini faceva il nome di numerosi personaggi di spicco in ambito politico e militare, ma Andreotti ha recentemente dichiarato che ritenne di dover tagliare quelle parti per non renderle pubbliche, in quanto tali informazioni erano "inessenziali" per il processo in corso e, anzi, avrebbero potuto risultare "inutilmente nocive" per i personaggi ivi citati.

Le parti cancellate includevano il nome di Giovanni Torrisi, successivamente Capo di Stato Maggiore della Difesa tra il 1980 e il 1981; inoltre venivano fatti riferimenti a Licio Gelli e alla loggia massonica P2, che si doveva occupare del rapimento del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat; infine si facevano rivelazioni circa un "patto" stretto da Borghese con alcuni esponenti della mafia siciliana, secondo cui alcuni sicari della mafia, in effetti presenti a Roma la notte tra il 7 e l' 8 dicembre 1970, avrebbero ucciso il capo della polizia, Angelo Vicari. L'esistenza di tale patto sarebbe poi stata confermata da vari pentiti di mafia, tra cui Tommaso Buscetta.

Il processo
Il 30 maggio 1977 cominciò il processo per il golpe, gli imputati sono 68.

Remo Orlandini dichiarò che la notte dell'8 dicembre, dopo l'avvio dell'operazione, ricevette una telefonata da Borghese il quale gli ordinava di rientrare, ma il motivo rimase sconosciuto.

Il ruolo di Adriano Monti fu invece quello di fare da "mediatore" per accertare il gradimento o meno del golpe in ambienti esteri. Grazie al Freedom of Information Act nel 2004 si è scoperto infatti che il piano di Borghese era conosciuto dagli americani. Monti era in collegamento con l'ambasciata americana attraverso Ugo Fenwich, il quale, subito dopo l'arresto di Monti, fuggì in USA con un aereo appositamente preparato. Monti inoltre si recò a Madrid per incontrare il tedesco Otto Skorzeny (amico di Borghese), che aveva preso parte alla liberazione di Mussolini il 12 settembre 1943. L'incontro fu necessario per confermare l'"avallo" statunitense al golpe, che fu dato, a condizione però che fosse assicurato il coinvolgimento di un personaggio politico italiano "di garanzia". Il nome indicato fu quello di Giulio Andreotti, che sarebbe dovuto diventare una sorta di presidente "in pectore" del governo post golpe. Monti tuttavia non seppe se Andreotti fosse al corrente dell'indicazione statunitense.

Venne accertato che la colonna delle guardie forestali, comandata dal capitano Berti, da Rieti si diresse verso Roma, arrestandosi sull'Olimpica. Questa marcia fu considerata "una coincidenza".

Il processo per il presunto Golpe si concluse in secondo grado in Corte d'Assise d'appello il 29 novembre 1984 con una complessiva assoluzione. I giudici disponevano l'assoluzione di tutti i 46 imputati ("perché il fatto non sussiste") dall'accusa di cospirazione politica, aggiungendo che tutto ciò che era successo non era che il parto di un "conciliabolo di 4 o 5 sessantenni". La sentenza, riformando completamente la decisione di primo grado, si limitava, per il resto, a ridurre le condanne che erano state inflitte nel luglio del 1978 ad alcuni imputati minori per il reato di detenzione e porto di armi da fuoco.

FONTI
"La Storia siamo Noi - Il golpe Borghese" di Marco Marra - Trasmissione televisiva: Rai - 5 dicembre 2005.


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IL COLLOQUIO

Ciampi: "La notte del '93
con la paura del golpe"


Parla l'ex presidente della Repubblica: "Alle quattro di notte parlai con Scalfaro al Quirinale e gli dissi 'dobbiamo reagire'. Grasso dice cose giuste"

di MASSIMO GIANNINI


Ciampi: "La notte del '93 con la paura del golpe"
Carlo Azeglio Ciampi

"Dubbi tremendi su quelle morti Forse un pezzo dello Stato tradì"

articolo





ROMA - "Non c'è democrazia senza verità. Questo è il tempo della verità. Chi c'è dietro le stragi del '92 e '93? Chi c'è dietro le bombe contro il mio governo di allora? Il Paese ha il diritto di saperlo, per evitare che quella stagione si ripeta...". Dopo la denuncia di Piero Grasso, dopo l'appello di Walter Veltroni, ora anche Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo e al presidente del Consiglio di rompere il muro del silenzio, di chiarire in Parlamento cosa accadde tra lo Stato e la mafia in uno dei passaggi più oscuri della nostra Repubblica.

L'ex presidente, a Santa Severa per un weekend di riposo, è rimasto molto colpito dalle parole del procuratore nazionale antimafia, amplificate dall'ex leader del Pd. E non si sottrae a una riflessione e, prima ancora, a un ricordo di quei terribili giorni di quasi vent'anni fa. "Proprio la scorsa settimana ho parlato a lungo con Veltroni, che è venuto a trovarmi, di quelle angosciose vicende. E ora mi ritrovo al 100 per cento nei contenuti dell'intervista che ha rilasciato a "Repubblica". Quelle domande inevase, quel bisogno di sapere e di capire, riflettono pienamente i miei pensieri. Tuttora noi non sappiamo nulla di quei tragici attentati. Chi armò la mano degli attentatori? Fu solo la mafia, o dietro Cosa Nostra si mossero anche pezzi deviati dell'apparato statale, anzi dell'anti-Stato annidato dentro e contro lo Stato, come dice Veltroni? E perché, soprattutto, partì questo attacco allo Stato? Tuttora io stesso non so capire... ".

Il ricordo di Ciampi è vivissimo. E il presidente emerito, all'epoca dei fatti presidente del Consiglio di un esecutivo di emergenza, che prese in mano un Paese sull'orlo del collasso politico (dopo Tangentopoli) e finanziario (dopo la maxi-svalutazione della lira) non esita ad azzardare l'ipotesi più inquietante: l'Italia, in quel frangente, rischiò il colpo di Stato, anche se è ignoto il profilo di chi ordì quella trama. "Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l'esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ".

Resta da capire per mano di chi. Su questo Ciampi allarga le braccia. "Non so dare risposte. So che allora corsi come un pazzo in macchina, e mi precipitai a Roma. Arrivai a Palazzo Chigi all'una e un quarto di notte, convocai un Consiglio supremo di difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi "presidente, dobbiamo reagire". Alle 8 del mattino riunii il Consiglio dei ministri, e subito dopo partii per Milano. Il golpe non ci fu, grazie a dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte". La certezza che esponeva ieri Veltroni è la stessa che ripete Ciampi: non furono solo stragi di mafia, ed anzi, sulla base delle inchieste si dovrebbe smettere di definirle così. Furono stragi di un "anti-Stato", ancora tutto da scoprire. E come Veltroni anche Ciampi aggiunge un dubbio: perché a un certo punto, poco dopo la nascita del suo governo, le stragi cominciano? E perché, a un certo punto, dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, le stragi finiscono? Perché la mafia comincia a mettere le bombe? Perché la mafia smette di mettere le bombe?

È lo scenario ipotizzato dal procuratore Grasso: gli attentati servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una nuova "entità politica", che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani Pulite. Un "aggregato imprenditoriale e politico" che doveva conservare la situazione esistente. Quell'entità, quell'aggregato, secondo questo scenario, potrebbe essere Forza Italia. Nel momento in cui quel partito si prepara a nascere, e siamo al '94, Cosa Nostra interrompe la strategia stragista. E' uno scenario credibile? Ciampi non si avventura in supposizioni: "Non sta a me parlare di tutto questo. Parlano gli avvenimenti di quel periodo. Parlano i fatti di allora, che sono quelli richiamati da Grasso. Il procuratore antimafia dice la verità, e io condivido pienamente le sue parole".

Per questo, in nome di quella verità troppo a lungo negata, l'ex capo dello Stato oggi rilancia l'appello: è sacrosanto che chi sa parli. Ed è sacrosanto, come chiede Veltroni, che "Berlusconi e il governo non tacciano", perché la lotta alla mafia non è questione di parte, "ma è il tema bipartisan per eccellenza". Si apra dunque una sessione parlamentare, dedicata a far luce su quegli avvenimenti. Perché il clima che si respira oggi, a tratti, sembra pericolosamente rievocare quello del '92-'93. Ciampi stesso ne parlerà, in un libro autobiografico scritto insieme ad Arrigo Levi, che uscirà per "il Mulino" tra pochi giorni. "Lì è tutto scritto, ciò che accadde e ciò che penso. Così come lo riportai, ora per ora, sulle mie agende dell'epoca... ". Deve restare memoria, di tutto questo. Ma insieme alla memoria deve venir fuori anche la verità. "Perché senza verità - conclude l'ex presidente della Repubblica - non c'è democrazia".

(29 maggio 2010) © Riproduzione riservata
UncleTom
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Re: Diario della caduta di un regime.

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NOTIZIE DA UN OBITORIO CHIAMATO PD, CHE PERSEVERA SULLA LINEA POLITICA DEL “SPERIAMO CHE IO ME LA CAVO”


Il presidente del Senato Piero Grasso ferma l’emendamento da 97 milioni
per un torneo di golf
. È il secondo stop, ma sulle mance il Pd non si arrende


IL FATTO QUOTIDIANO | Giovedì 9 Febbraio 2017



QUESTO PAESE RISENTE DA TEMPO L'INFLUENZA PRIMARIA DELL'ESTABLISHMENT DI PRIMO LIVELLO CHE RISIEDE NEL PAESE A STELLE E STRISCIE.
MA ANCHE DELL'ESTABLISHMENT DI SECONDO LIVELLO CHE RISIEDE AL SUO INTERNO.
NON MANCA POI LA PIRLAGGINE ENDEMICA DEGLI ESECUTORI. CHE IN PARTE DIPENDONO DAI DUE LIVELLI E IN PARTE DIPENDONO DALLE SCELTE DEI SUOI CITTADINI.(RIDOTTI AL RANGO DI SCHIAVETTI TONTOLONI).
C'E' UNA PARTE DI ITALIANI CHE DA MESI SOFFRE LA PRESENZA DEI TERREMOTI CHE SI SOMMA ALL'INCLEMENZA DEI RIGORI DEL.L'INVERNO.
E QUESTI CERVELLI DA GALLINA SPELACCHIATA SPRECANO I SOLDI CON IL GOLF.
NELLA PASSERELLA DEI PAVONI DI STATO DOPO IL TERREMOTO, AVEVANO PROMESSO, TUTTI QUANTI, "NON VI LASCEREMO SOLI"
PECCATO NON CI SIA PIU' ALBERTO SORDI, PERCHE' COME DICEVA LUI "STO caXXo" NON LO DICE PIU' NESSUNO.
erding
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Re: Diario della caduta di un regime.

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"Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo":
è uno dei passaggi della missiva con cui un ragazzo di Udine ha motivato la scelta di farla finita.
Ecco il testo integrale


http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02 ... a/3374604/

La lettera di Michele che, come un novello Jan Palach, si immola per la libertà e come lui ci lascia un lucido messaggio
col quale motiva il suo gesto. Gesti simili non vanno giudicati, devono solo far riflettere.
Viene definito: “un lucido e pesante atto di accusa” che riguarda tutti, chi più chi meno.
Ci ricorda la mancata applicazione della nostra costituzione.
Quella costituzione dove è scritto: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Costituzione che, come Michele, è minacciata di soppressione perché scomoda nel ricordare doveri e diritti ad
un popolo che sembra aver perso la capacità di discernere, di capire, e di reagire.

Michele è perfino capace di ironizzare e chiude la lettera facendo il nome di Poletti.
Un ministro! Il ministro del LAVORO!!
Nostro rappresentante, che ha esplicitato un pensiero che, purtroppo, è di molti
e che riecheggia l'antico e sempre attuale “guai ai vinti”in un mondo, quello attuale, dove non credo ci siano vincitori.
UncleTom
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La morte di Michele non è la tragedia di un individuo solo
di Silvia Truzzi | 9 febbraio 2017



| 11
“Perdonatemi, mamma e papà, se potete. Ho resistito finché ho potuto. Michele”.

Se si scrivesse con la penna l’inchiostro di questa rubrica sarebbe sbavato.


Ma al Messaggero Veneto la mamma di Michele ha detto “niente cose lacrimose” e visto che è lei a sopportare l’indicibile dolore di aver perso suo figlio, il minimo che si possa fare è darle ascolto.


Michele aveva trent’anni, s’è ammazzato perché non poteva più passare la vita “a combattere solo per sopravvivere”, “cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo”.


Michele era stremato.


“Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro inutili, stufo di sprecare sentimenti…”.


Michele ci ha provato: “Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte”.



Michele era arrabbiato e, questa furia s’è accorto che rischiava di rivolgerla contro altri: “Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno”.


Michele era disperato: “Le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente”, “il futuro sarà un disastro”.


E qui sbagliava.


Lo è già il presente, come il recente passato.



La sua lettera ricorda quella di Dimitris Chistoulas, un ex farmacista che si suicidò in piazza Syntagma ad Atene nel 2012, perché ogni sua “possibilità di sopravvivenza era azzerata”: “Dipendevo da una modesta pensione che mi sono pagato in 35 anni di lavoro senza alcun sostegno statale.


Non vedo altra soluzione che una fine onorevole prima di iniziare a rovistare nei cassonetti in cerca di cibo”. Dimitris aveva 77 anni, Michele solo 30: la vita davanti a sé.


La sua storia è quella di tanti nostri amici, compagni di scuola, fratelli, sorelle.


Ragazzi che ci provano ma non ce la fanno, spesso nonostante lauree e master.




A un certo punto può succedere che il lavoro di cercare lavoro diventi troppo faticoso: il no non si può accettare in eterno, la speranza muore, la frustrazione vince. Davanti a questo, deve essere chiaro, non c’è spazio per i giudizi: nessuno è un superuomo, la fragilità deve avere cittadinanza altrimenti l’esistenza si trasforma in una prova di resistenza, in uno sport estremo.


Ieri Stefano Feltri ha scritto, giustamente, che un tempo la qualità di una democrazia si misurava sul tipo di vita che conducevano gli ultimi.


“Poi la retorica della meritocrazia ha stabilito che invece la temperatura della democrazia andava misurata alle eccellenze, le élite”.



La tragedia della disoccupazione chiama in causa la politica che fatica a dare risposte e spesso è inadeguata.




Il discorso sul lavoro è complesso e purtroppo siamo abituati a vederlo ridotto a cifre su slide o tweet.


Poi c’è chi la realtà la racconta: ieri i maggiori quotidiani non avevano in prima la storia di Michele, che è stata trattata come una storia di cronaca, una tragedia individuale.




C’è forse la paura degli emuli, ma in qualche articolo si legge pure il tentativo di negare la natura stessa di quella lettera e di quel suicidio (“lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo farmene carico”): Michele ha pensato la sua morte come una denuncia del modello sociale che, all’ingrosso, chiamano neoliberista.


Si può non essere d’accordo, ovviamente, o ritenere inaccettabile il gesto, ma il dibattito – davvero impressionante per partecipazione – che avviene sul web ci dice una cosa: la sottovalutazione dei media non distoglie i cittadini.


Oltre a non capire per chi scriviamo, rischiamo per leggerezza di non capire nemmeno quale finta realtà contribuiamo a raccontare.
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Re: Diario della caduta di un regime.

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PUNTI DI VISTA DIVERSI SULL'ESPRESSO




La lettera
"Se Michele si è suicidato è anche colpa di noi giovani, egoisti senza coscienza sociale"

"Partecipo attivamente alla vita di questo Paese da 10 anni e a ogni incontro, manifestazione e dibattito a mancare sono i miei coetanei. Toccano anche a noi le riflessioni su cosa stiamo facendo per questa società". La lettera di una ragazza arrivata all'Espresso sposta il dibattito sulla condizione giovanile nel nostro Paese riaperto dal messaggio del trentenne che si è tolto la vita

di Veronica Andrea Sauchelli*
08 febbraio 2017


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Un giovane uomo si suicida perché non ha il lavoro che desidera e scoppia l’urto di accuse . Ovviamente la maggior parte sono commenti alla "governo ladro", "sistema bastardo" e "povera vittima". Non voglio tentare neanche per un secondo di commentare il gesto di chi se n’è andato perché non ne ho né il diritto né l’interesse.

Quello che mi preme dire, invece, è che io non mi sento follemente arrabbiata solo con un "sistema" generico, impersonale, intangibile; io mi sento arrabbiata col sistema reale, e mi dispiace sottolinearlo, ma del sistema reale fanno parte anche tutti quei miei coetanei che adesso puntano il dito verso un responsabile invisibile. Siamo tutti responsabili. Tutti: dal primo all’ultimo, e non solo chi arriva nei palazzoni con le auto blu.

Partecipo più o meno attivamente alla vita di questo Paese da quando avevo 15 anni, ora ne ho venticinque e sono già stanca, amareggiata e stufa. Non dalla classe politica, ma dalla mia generazione. Sì, lo sono anche dalla prima categoria, però da quella te l’aspetti, dalla seconda no. Ero rappresentante del mio liceo e organizzavo conferenze a cui non veniva nessuno perché "meglio i tornei di calcetto e pallavolo". Alle manifestazioni talvolta un po’ di gente c’era, ma il più delle volte per saltare scuola o per vivere un pizzico di quell’atmosfera sessantottina di cui abbiamo sentito solo parlare. Poi sono cresciuta ed ho iniziato ad andare all’università e ad altri incontri pubblici: sulla questione dell’acqua, conflitti vari, giornalismo, crisi giovanile, complesso di Telemaco, Costituzione italiana… indifferente l’argomento, c’era sempre una sola costante: ero l’unica (o quasi) a non avere la testa grigia. I miei coetanei non ci sono mai, li si vede in massa solo quando c’è da fare aperitivo.

Al festival di Internazionale ho assistito ad un incontro sul (non) futuro giovanile in cui l’attempato relatore si è consumato in un sentitissimo mea culpa perché loro, i nostri nonni, ce l’hanno rubato, il divenire. Beh, questa frase fatta - che ormai si sente troppo spesso - sortisce come unico effetto quello di assecondare il nostro volerci sentire vittime. Magari in parte lo siamo, ma non possiamo usare questo come scusa per redimerci dalla responsabilità di costruire quello che vogliamo. Non abbiamo una coscienza sociale, questo è il vero problema. Ognuno è a testa china sulla propria strada, in mezzo a smartphone, ambizioni, menefreghismo e bicchieri di vino. È una grossa generalizzazione, sicuramente, ma che siamo imbottiti di un individualismo spesso quanto le nostre speranze è innegabile.

Spesso ho fatto la pendolare coi miei colleghi di studio, ed è stato sempre un penoso lungo viaggio fatto scivolando sulla superficie delle cose. Uno solo l’argomento di conversazione, puntuale: l’esame e la mole di studio. Non riesce a preoccuparsi d’altro se non dei suoi problemucci quotidiani, questa nuova maggioranza; compresa la più istruita, "l’élite". Gente che anche quando si lamenta perché il libro scritto (e inflitto) dal professore non è nemmeno in italiano corretto e a studiarlo ci si sente presi per il sedere, sorride compiacente all’autore perché c’è un voto da portare a casa. Come si può pretendere da un insieme di persone incapace d’unirsi anche solo per ottenere un libro dignitoso da studiare, che sappia creare una forza sociale in grado di far valere i propri diritti?


Una persona molto cara a me (laureata) aveva trovato un posto in cui veniva pagata cinque euro l’ora (in nero) come responsabile di sala, e se avesse voluto bere o mangiare qualsiasi cosa avrebbe dovuto pagarlo a prezzo intero. «Non andateci», ho detto ad alcuni amici «non dobbiamo sostenere il nostro sfruttamento», «mi dispiace, ma la birra lì è buona!», mi hanno risposto. Stesso tipo di risposta quando ho riportato il medesimo suggerimento per un’altra situazione analoga di sfruttamento vaucheriano giovanile, «ma non sta sfruttando mica me!», già. Non oggi, non lì.

Quindi la riflessione prima ancora che ai poteri forti spetta a noi. Noi abbiamo la forza fisica, mentale e anagrafica per proporre e reggere uno scontro tangibile con questa realtà. La società non si fa da sola, e in questo momento noi giovani stiamo lasciando che subisca se stessa. Noi abbiamo il diritto e il dovere di partecipare, di creare un tessuto, al posto di un pettine di fili paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Siamo noi che ci stiamo annegando a vicenda in un assordante silenzio di contenuti. Siamo noi che dobbiamo (ri)costruire per primi un ambiente vitale, vivace, fatto di braccia salde e responsabili. Chi altri sennò? La cosa pubblica non si fa da sé. Michele s’è ammazzato da solo eppure l’abbiamo ammazzato un po’ tutti, col disinteresse, la critica altero-diretta e l’incapacità di essere un gruppo. Sinergia, questa dovrebbe essere la parola d’ordine per arrivare tutti da qualche parte. Sempre che ci interessi.

*Veronica Andrea Sauchelli è una fotografa di 25 anni di Udine. Pubblichiamo con il suo consenso la sua lettera arrivata in redazione
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PUNTI DI VISTA DIVERSI SULL'ESPRESSO





Donne come noi
Federica Bianchi

08 feb
Michele: una gioventù senza coraggio
La lettera che ha scritto Michele e che i genitori hanno dato al Messaggero Veneto perché la pubblicassero come denuncia di una situazione sociale è stata condivisa da migliaia di uomini e donne che in quella vita ormai spezzata trovano assonanze con la propria.
Ha colpito anche me. Ma lo ha fatto in senso opposto. Mi ha suscitato una grande rabbia non contro un'epoca che precarizza il lavoro, anzi, siamo franchi, tende ad ucciderlo, ma contro tutti quei ragazzi che hanno usato una lettera scritta da un ragazzo depresso e arrabbiato per giustificare le proprie debolezze e i propri fallimenti. Gettando sulle spalle degli “altri” - la globalizzazione, l'Unione europea, l'incapacità delle élite di governo, etc.. - la difficoltà di realizzare i propri sogni, la fatica di essere felici. Senza rendersi conto che la realizzazione di un sogno è sforzo ed è anche fortuna. Non sempre avviene. «Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione», scrive Michele. Come se il massimo e il minimo fossero due scatole di cereali sullo scaffale del supermercato. E non invece parole vuote se non le riempiamo noi, ogni giorno, di contenuto.
Alessandro Gilioli scrive che la critica non è solo e non tanto al precariato ma al “vincismo”, ovvero «quell’ideologia secondo la quale se non sei un vincente, sei uno sfigato. Se non sei un vincente, devi soffrire. Se non sei un vincente, non meriti di essere accolto dalla società».
E io mi chiedo cosa vuol dire vincere? Cos'è il massimo? Ottenere un posto di lavoro subito? Non dover faticare? Andare in televisione? Avere sciami di donne? Vivere con l'adrenalina a mille? Avere figli? Possedere un'isola privata? Diventare primo ministro? Cos'è?
Perché credo che nella vita non esista un solo concetto di massimo e di minimo, di vittoria e di perdita, di vincente e di sfigato. I concetti sono molteplici e tutti validi. E il massimo e il minimo, la vittoria e la perdita cambiano con gli anni, con la vita che abbiamo tutti i giorni il coraggio di vivere e di scegliere. E anche di accettare quello che non riusciremo mai ad avere nonostante ogni sforzo – sia esso un figlio, un uomo o un riconoscimento.
Ma, per l'appunto, nella vita serve coraggio. E il coraggio, mi perdoni Don Abbondio, uno deve imparare a darselo. Perché se ci riescono persone che sotto le macerie hanno perso tutto, sogni, affetti e denari, e se ci riescono ragazze del Sud scappate da padri-padroni per ricostruirsi una vita partendo dal fare la colf, allora dovrebbe essere per tutti imbarazzante dire “che è solo colpa della società”. Non un vanto.
Certo non viviamo più negli anni Ottanta e nemmeno nei Novanta. Ma quegli anni di crescita economica al 9 per cento del Pil, di settimane bianche e paninari, di aspettative che i figli avessero una vita migliore dei genitori, sono state una parentesi nella Storia del nostro Paese. Non la regola. La regola è la scarsità non l'abbondanza.
La vita è dura e ingiusta. Occorre farsene una ragione. E attrezzarsi. Ricordandosi che massimo e minimo mutano negli anni, nei luoghi, nei cuori. Che se una ragazza come Bebe Vio, una grafica appunto, è riuscita a dare un perché alla propria vita, coniugando fatica e passione, anche un trentenne non disabile lo può fare. E lo può fare meglio dei suoi genitori e dei suoi nonni. Perché forse il lavoro non sarà dietro casa. Ma lui, come italiano, come europeo (fortuna che in tanti, in troppi oggi non vogliono più riconoscere) può spostarsi. Può emigrare. Lui sì. E pensate quanti vorrebbero essere al posto suo nel mondo. E lo può fare non solo perché i confini sono per noi italiani (ancora) aperti ma perché i biglietti aerei non costano nulla. Perché oggi (e non ieri) si può surfare sul divano di un altro. Si può capire su Internet come funzionano le cose altrove prima ancora di andarci. Si può far rete su Facebook. Si può fare.
I giovani di oggi non hanno più tre offerte di lavoro all'uscita da scuola. Ma hanno un caleidoscopio di opportunità. A cui aggiungere coraggio, passione, impegno. Hanno anche l'opportunità di cambiare aspetti della realtà che non funzionano più. Convogliando rabbia e insoddisfazione in un percorso di vita. In una scelta di vita. E poi possono permettersi il lusso di vivere con poco, magari connessi in rete da un angolo modesto di questo pianeta, fosse anche uno scampolo d'Italia, e essere felici. E vincenti.
Quello che non possono più permettersi – ma in realtà non hanno mai potuto – è pensare che il mondo non cambi mai. Che qualsiasi lavoro sia sempre disponibile e ben remunerato. Non è così. Alcuni lavori lo erano e non lo sono più (giornalismo in testa). Altri non esistevano e sono il futuro (hacker). Capire come cambia la vita intorno a noi e come ci dobbiamo muovere per coglierne le opportunità e schivarne le trappole non è mirare al massimo. Non è vincismo. È semplicemente imparare a vivere. Cercando di individuare (e non è facile) in quale punto del cosmo possiamo noi trovare uno scampolo di felicità. A prescindere dagli altri.
L'importante è avere bene in testa quello che si vuole (e non si vuole) prima di alzarsi e andarlo a prendere. Altrimenti si gira a vuoto. E si finisce per dare sempre e solo la colpa agli altri.
http://bianchi.blogautore.espresso.repu ... -coraggio/
UncleTom
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Re: Diario della caduta di un regime.

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QUESTO ARTICOLO DI LIBRE, DI STAMANI, E' DEDIDATO A TUTTI NOI.

MA NEL CONTEMPO, DIMOSTRA CHE AMBIENTINO ABBIAMO PREPARATO PER QUESTI RAGAZZI.


NON MERAVIGLIAMOCI PIU' DI TANTO SE LO RIFIUTANO TOGLIENDOSI LA VITA, O ALTRO.




Tarchi: un altro mondo è impossibile, dicono. E ci crediamo

Scritto il 10/2/17 • nella Categoria: idee Condividi




Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino.


A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra.


Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione.



«Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino».


Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta.


E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione.


«Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono.

Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».

Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la promozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli».


Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale.


E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”.


Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere».


Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni».


La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».

Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto».

E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale».

Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un fenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».


Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda».


E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».

In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale».


Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle «molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.



Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico».



Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione».


Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana».


Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».

Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male».


E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento».


E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose».


Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».

Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda».


Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo?


«Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano».

Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa».

Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato».


E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato».



Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente.
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E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».





Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo?

Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici.


E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico.


E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia).




Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti».



Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli».


Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie.



Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale.

E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».

Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino.


A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra.


Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione.


«Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino».


Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta.


E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione.


«Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono.


Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».

Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la Marco Tarchipromozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli».


Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale.

E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”.

Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere».


Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni». La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».

Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto». E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale». Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un La caduta del Murofenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».

Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda». E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».

In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale». Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle Lerner e Santoro«molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.

Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico». Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione». Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana». Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».

Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male». E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento». E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose». Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti Gli Usa in guerradell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».

Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda». Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? «Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano». Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa». Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato». E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato». Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di Ernesto Glli della Loggiaprotesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».

Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo? Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici. E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico. E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia). Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti». Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli». Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».
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