Re: quo vadis PD ????
Inviato: 08/04/2013, 18:15
La maionese impazzita chiamata Pd - 27
Nel grande asilo Mariuccia dove ci si vestiva alla marinara - 1
La teoria e la pratica -1
Walter Veltroni, lettera a Repubblica:
"Evitiamo le scissioni per salvare il Pd"
di WALTER VELTRONI
Caro direttore,
salviamo il Pd. È stato il sogno della mia vita politica e sono convinto che una crisi di quel progetto precipiterebbe il paese nell'egemonia di populismi vari, cioè lo avvicinerebbe alla sua crisi definitiva.
La mia posizione di oggi, lontana ormai dalle dinamiche della vita interna, mi consente di dire, con la necessaria serenità e il necessario allarme, che quando sento parlare di possibili scissioni penso che si stia irresponsabilmente, anche solo ventilando l'ipotesi, distruggendo un grande progetto politico.
E considero alla stessa stregua l'ipotesi, circolata sui giornali, di machiavellici patti di potere che sanciscano una sorta di "doppia natura" del Pd.
Perché è nato il partito Democratico? Credo si fosse fatta strada allora nei gruppi dirigenti del centrosinistra la lucida consapevolezza che senza un grande partito riformista che superasse gli steccati delle vecchie appartenenze sarebbe stato impossibile dare al paese un governo davvero riformista e una maggioranza di popolo che lo sostenesse.
Il Pd non è nato per essere la somma di due storie del Novecento, stanche di se stesse.
Tradizioni culturali importanti ma non sufficienti a interpretare le trasformazioni sociali e culturali di questo nuovo millennio.
Per noi il Pd, l'ho sempre detto, non era il coronamento del "sogno" di Berlinguer e Moro. Che, peraltro, tutto sognavano fuorché di fondere i loro partiti o parti di essi.
Per noi il Pd era qualcosa di davvero nuovo: non la giustapposizione del cattolicesimo democratico e della tradizione laburista ma un salto, una rottura.
Essere democratici non era l'ultima soluzione delle innumerevoli trasformazioni dei partiti seguiti al triennio 89-92.
Era una identità nuova per l'Italia, ma una identità non inventata, non sprovvista di radici.
Essere democratici non è “fare gli americani”, è attingere alla più vitale delle culture politiche del riformismo.
Quella che si è manifestata con le grandi conquiste sociali e civili ,da Roosevelt a Obama.
Essere democratici non è una definizione che va usata perché altre non sono, in Italia, più praticabili; è una identità post ideologica , fondata sulla convivenza di valori puri e di un riformismo realista.
Essere democratici significa far parte di una tradizione culturale alla quale in Italia, pur con denominazioni diverse, nella storia hanno fatto riferimento personalità della politica e della società civile, partiti e singoli leader.
Spesso sono stati sfortunati, spesso hanno dovuto aspettare che il tempo desse loro ragione ben dopo la loro scomparsa.
Non è solo l’importazione, peraltro non vietata, di tradizioni politiche apparnostalgia, tenenti più alla cultura anglosassone, ma anche qualcosa che è esistito, spesso in forma minoritaria, come purtroppo fu l’Azionismo, nell’Italia ideologica del Novecento.
Essere democratici significa considerare intangibili valori come la legalità e la giustizia sociale, avere una cultura aperta dei diritti e una idea della società come una comunità inclusiva.
Significa coltivare una idea alta della priorità dell’interesse nazionale e una idea sobria e al tempo stesso orgogliosa della politica, significa sapere che la società civile non è solo un deposito di rabbia da usare elettoralmente come uno spot del momento ma una risorsa di organizzazione dal basso della vita pubblica.
La parola democratici è però sparita dal vocabolario del Pd. È stata sostituita progressivamente dalla più rassicurante autodefinizione di “progressisti” che, davvero al di là degli sfortunati precedenti, allude al fatto che sì , siamo cambiati, ma in fondo siamo sempre noi, «quelli che vengono da lontano e vanno lontano».
Del Pci che ho conosciuto, quello di Berlinguer, ho apprezzato proprio la grandezza dell’idea di essere una forza della nazione e, in quei tempi così duri, un contenitore così poco ideologico da esser votato, in piena guerra fredda, dal 34% degli italiani e da raccogliere il consenso di chi comunista non era, non era più, non voleva essere.
In Italia non è mai esistito un trentaquattro per cento che auspicava la dittatura del proletariato.
Ma quella storia è finita per sempre, forse con la morte di Moro, certamente con quella di Enrico Berlinguer.
Il Pd non è un partito socialista. Ne esiste uno ed è composto da bravi riformisti.
Il Pd non è semplicemente una forza della tradizione progressista della sinistra.
Non è neanche una & societaria che collega i Ds e la Margherita.
È, dovrebbe essere, una forza nuova, aperta, che si propone di mutare i paradigmi anche della seconda Repubblica, di uscire dallo scontro Berlusconismo-antiberlusconismo per entrare in quello vero, quello che dovrebbe essere: conservatori contro riformisti, cultura liberista contro cultura delle opportunità, individualismo contro spirito di comunità.
Gli avversari politici non sono mai, se non nelle dittature, nemici da eliminare. Ma leader ai quali sottrarre consenso, combattendo apertamente, duramente, le loro idee e le loro proposte.
La condizione di un paese stremato, con lavoratori senza lavoro e imprenditori senza imprese, con la mafia che domina e l’illegalità che prospera, con livelli infimi di investimenti in scuola e ricerca, rimanda alla necessità di sfidare la destra non sul suo terreno, lo scontro frontale che tiene alti gli steccati, ma su quello della vera innovazione, in una parola del riformismo.
Per questo il Pd non deve pensare se stesso come un soggetto limitato nella sua espansione; deve coltivare la sua ambizione di portare al governo del paese non una fragile maggioranza raccolta, con esiti che conosciamo, contro qualcuno, ma un consenso popolare capace di sorreggere quel ciclo riformista senza il quale il paese è destinato a declinare e a sfarinarsi.
Era questa, per noi, la “vocazione maggioritaria” del Pd. Senza vocazione maggioritaria il Pd non esiste.
Se il problema era solamente la strategia delle alleanze, sempre più difficile, allora tanto valeva restare alle forze antiche.
In questi giorni un risultato elettorale molto negativo, determinatosi nelle condizioni migliori per i riformisti, ha squadernato drammaticamente questo problema.
Allearsi con Berlusconi, che definisce i giudici mafiosi in un seggio elettorale o con Grillo che vuole sciogliere i sindacati e uscire dall’euro?
Oppure precipitare sciaguratamente verso ennesime elezioni dall’esito incerto per la governabilità del Paese?
Scrivo queste note con grande preoccupazione per il destino della idea politica che considero vitale per il destino del paese. Sento parlare di divisioni, spaccature, accordi tra correnti e correntine sempre con l’idea che, in fondo, ci siano due mezze mele da tenere insieme.
Ma se le due metà hanno colori molto diversi sarà molto difficile trovare chi mangerà la mela considerandola fresca.
C’è, al fondo un specie di nei gruppi dirigenti, per i vecchi partiti e ritorna l’idea di farli rivivere separandosi oppure combinandoli con una precaria colla che però li lascia sempre uguali e sempre pronti a entrare in conflitto.
Fu una gioia vedere, nell’immensa folla della manifestazione del Circo massimo del 2008, che non c’erano le bandiere dei vecchi partiti, neanche una.
Ma solo quelle del Pd, nato meno di un anno prima. Il Pd non può essere né un partito progressista, alla Hollande, né una versione moderata e scolorita di una identità di radicale cambiamento.
Il Pd non deve temere di riconoscere qualcuno, da rispettare, alla sua sinistra, ma non deve nemmeno avere la voglia di trasformarsi in altro da sé, di farsi moderato o di appannare le differenze con gli avversari.
Per me essere democratici è il contrario: una identità forte, che unisca realismo e radicalità, riformismo e valori forti. È innovazione, non conservazione.
Ci vuole orgoglio politico e autonomia culturale. Non un patchwork di idee antiche ma un meticciato vero. In fondo una metafora della società nuova, quella che coniuga identità e apertura.
Abbiamo di fronte tempi drammatici: dal lavoro alle tasse, dalla legalità ai diritti il riformismo dovrà far valere le sue risposte inedite.
Che dovranno essere autonome dai condizionamenti sindacali, cooperativi, di poteri forti, di pressioni ecclesiastiche.
Autonome da particolarismi conservatori e corporativismi. Non sarà una passeggiata di salute mettere mano davvero alle grandi riforme che da quarant’anni si annunciano, ma mai si realizzano. Bisognerà cambiare molto, snellendo e velocizzando, nella macchina di decisione e di rappresentanza se si vorrà tenere in vita la democrazia ed evitare che la politica corrotta e imbelle uccida la politica tout court.
Io credo ancora e sempre di più nelle possibilità del Partito Democratico e ho scritto queste parole per invitare tutti ad avere, in questo momento terribile, la testa sulle spalle e a tenere il paese al primo posto, sempre.
Bisogna alzare lo sguardo, tornare a vivere come una comunità di discussione e decisione comune, ridimensionare correnti e gruppi di potere vecchi e nuovi, recuperare autonomia politica e culturale.
E occuparsi della vita reale delle persone, offrendo soluzioni concrete e una visione, anche di valori, che accenda finalmente un sogno di futuro in un paese stremato. In una parola bisogna solamente essere i Democratici.
http://www.repubblica.it/politica/2013/ ... ef=HREC1-9
Nel grande asilo Mariuccia dove ci si vestiva alla marinara - 1
La teoria e la pratica -1
Walter Veltroni, lettera a Repubblica:
"Evitiamo le scissioni per salvare il Pd"
di WALTER VELTRONI
Caro direttore,
salviamo il Pd. È stato il sogno della mia vita politica e sono convinto che una crisi di quel progetto precipiterebbe il paese nell'egemonia di populismi vari, cioè lo avvicinerebbe alla sua crisi definitiva.
La mia posizione di oggi, lontana ormai dalle dinamiche della vita interna, mi consente di dire, con la necessaria serenità e il necessario allarme, che quando sento parlare di possibili scissioni penso che si stia irresponsabilmente, anche solo ventilando l'ipotesi, distruggendo un grande progetto politico.
E considero alla stessa stregua l'ipotesi, circolata sui giornali, di machiavellici patti di potere che sanciscano una sorta di "doppia natura" del Pd.
Perché è nato il partito Democratico? Credo si fosse fatta strada allora nei gruppi dirigenti del centrosinistra la lucida consapevolezza che senza un grande partito riformista che superasse gli steccati delle vecchie appartenenze sarebbe stato impossibile dare al paese un governo davvero riformista e una maggioranza di popolo che lo sostenesse.
Il Pd non è nato per essere la somma di due storie del Novecento, stanche di se stesse.
Tradizioni culturali importanti ma non sufficienti a interpretare le trasformazioni sociali e culturali di questo nuovo millennio.
Per noi il Pd, l'ho sempre detto, non era il coronamento del "sogno" di Berlinguer e Moro. Che, peraltro, tutto sognavano fuorché di fondere i loro partiti o parti di essi.
Per noi il Pd era qualcosa di davvero nuovo: non la giustapposizione del cattolicesimo democratico e della tradizione laburista ma un salto, una rottura.
Essere democratici non era l'ultima soluzione delle innumerevoli trasformazioni dei partiti seguiti al triennio 89-92.
Era una identità nuova per l'Italia, ma una identità non inventata, non sprovvista di radici.
Essere democratici non è “fare gli americani”, è attingere alla più vitale delle culture politiche del riformismo.
Quella che si è manifestata con le grandi conquiste sociali e civili ,da Roosevelt a Obama.
Essere democratici non è una definizione che va usata perché altre non sono, in Italia, più praticabili; è una identità post ideologica , fondata sulla convivenza di valori puri e di un riformismo realista.
Essere democratici significa far parte di una tradizione culturale alla quale in Italia, pur con denominazioni diverse, nella storia hanno fatto riferimento personalità della politica e della società civile, partiti e singoli leader.
Spesso sono stati sfortunati, spesso hanno dovuto aspettare che il tempo desse loro ragione ben dopo la loro scomparsa.
Non è solo l’importazione, peraltro non vietata, di tradizioni politiche apparnostalgia, tenenti più alla cultura anglosassone, ma anche qualcosa che è esistito, spesso in forma minoritaria, come purtroppo fu l’Azionismo, nell’Italia ideologica del Novecento.
Essere democratici significa considerare intangibili valori come la legalità e la giustizia sociale, avere una cultura aperta dei diritti e una idea della società come una comunità inclusiva.
Significa coltivare una idea alta della priorità dell’interesse nazionale e una idea sobria e al tempo stesso orgogliosa della politica, significa sapere che la società civile non è solo un deposito di rabbia da usare elettoralmente come uno spot del momento ma una risorsa di organizzazione dal basso della vita pubblica.
La parola democratici è però sparita dal vocabolario del Pd. È stata sostituita progressivamente dalla più rassicurante autodefinizione di “progressisti” che, davvero al di là degli sfortunati precedenti, allude al fatto che sì , siamo cambiati, ma in fondo siamo sempre noi, «quelli che vengono da lontano e vanno lontano».
Del Pci che ho conosciuto, quello di Berlinguer, ho apprezzato proprio la grandezza dell’idea di essere una forza della nazione e, in quei tempi così duri, un contenitore così poco ideologico da esser votato, in piena guerra fredda, dal 34% degli italiani e da raccogliere il consenso di chi comunista non era, non era più, non voleva essere.
In Italia non è mai esistito un trentaquattro per cento che auspicava la dittatura del proletariato.
Ma quella storia è finita per sempre, forse con la morte di Moro, certamente con quella di Enrico Berlinguer.
Il Pd non è un partito socialista. Ne esiste uno ed è composto da bravi riformisti.
Il Pd non è semplicemente una forza della tradizione progressista della sinistra.
Non è neanche una & societaria che collega i Ds e la Margherita.
È, dovrebbe essere, una forza nuova, aperta, che si propone di mutare i paradigmi anche della seconda Repubblica, di uscire dallo scontro Berlusconismo-antiberlusconismo per entrare in quello vero, quello che dovrebbe essere: conservatori contro riformisti, cultura liberista contro cultura delle opportunità, individualismo contro spirito di comunità.
Gli avversari politici non sono mai, se non nelle dittature, nemici da eliminare. Ma leader ai quali sottrarre consenso, combattendo apertamente, duramente, le loro idee e le loro proposte.
La condizione di un paese stremato, con lavoratori senza lavoro e imprenditori senza imprese, con la mafia che domina e l’illegalità che prospera, con livelli infimi di investimenti in scuola e ricerca, rimanda alla necessità di sfidare la destra non sul suo terreno, lo scontro frontale che tiene alti gli steccati, ma su quello della vera innovazione, in una parola del riformismo.
Per questo il Pd non deve pensare se stesso come un soggetto limitato nella sua espansione; deve coltivare la sua ambizione di portare al governo del paese non una fragile maggioranza raccolta, con esiti che conosciamo, contro qualcuno, ma un consenso popolare capace di sorreggere quel ciclo riformista senza il quale il paese è destinato a declinare e a sfarinarsi.
Era questa, per noi, la “vocazione maggioritaria” del Pd. Senza vocazione maggioritaria il Pd non esiste.
Se il problema era solamente la strategia delle alleanze, sempre più difficile, allora tanto valeva restare alle forze antiche.
In questi giorni un risultato elettorale molto negativo, determinatosi nelle condizioni migliori per i riformisti, ha squadernato drammaticamente questo problema.
Allearsi con Berlusconi, che definisce i giudici mafiosi in un seggio elettorale o con Grillo che vuole sciogliere i sindacati e uscire dall’euro?
Oppure precipitare sciaguratamente verso ennesime elezioni dall’esito incerto per la governabilità del Paese?
Scrivo queste note con grande preoccupazione per il destino della idea politica che considero vitale per il destino del paese. Sento parlare di divisioni, spaccature, accordi tra correnti e correntine sempre con l’idea che, in fondo, ci siano due mezze mele da tenere insieme.
Ma se le due metà hanno colori molto diversi sarà molto difficile trovare chi mangerà la mela considerandola fresca.
C’è, al fondo un specie di nei gruppi dirigenti, per i vecchi partiti e ritorna l’idea di farli rivivere separandosi oppure combinandoli con una precaria colla che però li lascia sempre uguali e sempre pronti a entrare in conflitto.
Fu una gioia vedere, nell’immensa folla della manifestazione del Circo massimo del 2008, che non c’erano le bandiere dei vecchi partiti, neanche una.
Ma solo quelle del Pd, nato meno di un anno prima. Il Pd non può essere né un partito progressista, alla Hollande, né una versione moderata e scolorita di una identità di radicale cambiamento.
Il Pd non deve temere di riconoscere qualcuno, da rispettare, alla sua sinistra, ma non deve nemmeno avere la voglia di trasformarsi in altro da sé, di farsi moderato o di appannare le differenze con gli avversari.
Per me essere democratici è il contrario: una identità forte, che unisca realismo e radicalità, riformismo e valori forti. È innovazione, non conservazione.
Ci vuole orgoglio politico e autonomia culturale. Non un patchwork di idee antiche ma un meticciato vero. In fondo una metafora della società nuova, quella che coniuga identità e apertura.
Abbiamo di fronte tempi drammatici: dal lavoro alle tasse, dalla legalità ai diritti il riformismo dovrà far valere le sue risposte inedite.
Che dovranno essere autonome dai condizionamenti sindacali, cooperativi, di poteri forti, di pressioni ecclesiastiche.
Autonome da particolarismi conservatori e corporativismi. Non sarà una passeggiata di salute mettere mano davvero alle grandi riforme che da quarant’anni si annunciano, ma mai si realizzano. Bisognerà cambiare molto, snellendo e velocizzando, nella macchina di decisione e di rappresentanza se si vorrà tenere in vita la democrazia ed evitare che la politica corrotta e imbelle uccida la politica tout court.
Io credo ancora e sempre di più nelle possibilità del Partito Democratico e ho scritto queste parole per invitare tutti ad avere, in questo momento terribile, la testa sulle spalle e a tenere il paese al primo posto, sempre.
Bisogna alzare lo sguardo, tornare a vivere come una comunità di discussione e decisione comune, ridimensionare correnti e gruppi di potere vecchi e nuovi, recuperare autonomia politica e culturale.
E occuparsi della vita reale delle persone, offrendo soluzioni concrete e una visione, anche di valori, che accenda finalmente un sogno di futuro in un paese stremato. In una parola bisogna solamente essere i Democratici.
http://www.repubblica.it/politica/2013/ ... ef=HREC1-9