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Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 18/03/2017, 13:53
da UncleTom
EUTANASIA DELLA SECONDA REPUBBLICA




Si é spento il sole chi l'ha spento sei tu
da quando un altro dal mio cuor ti rubò.
Innamorare non mi voglio mai più
e nessun'altra cercherò
io cercherò...


Writer(s): Luciano Beretta, Adriano Celentano, Ezio Leoni, Michele Del Prete


oppure:

SCANDALO AL SOLE


RIMANE SOLO LA REALTA' DEL 17 MARZO 2017.



18 mar 2017 10:43

1. PARLA NICOLA BORZI, IL GIORNALISTA DEL 'SOLE 24 ORE' CHE HA SCOPERCHIATO LE MAGAGNE DELLE COPIE GONFIATE, LE SOCIETÀ INGLESI E I MILIONI BUTTATI IN OPERAZIONI OPACHE


2. ''NEL 2010 ERO NEL COMITATO DI REDAZIONE E HO INIZIATO A INDAGARE SULL'INCORPORAZIONE SOSPETTA DI UNA SOCIETÀ CHE ALLA FINE È COSTATA AL GRUPPO 75 MILIONI DI PERDITE''


3. LE COPIE CHE FINIVANO AL MACERO, LE DUE DILIGENCE FARLOCCHE, IL FIDUCIARIO CHE AIUTÒ MESSI A EVADERE IL FISCO, LA CONSOB CHE IGNORA I SUOI ESPOSTI, LE TELEFONATE-TRAPPOLA


4. ''DOPO IL DISASTRO RIOTTA, NAPOLETANO SEMBRAVA AVER RADDRIZZATO IL GIORNALE. MA POI INIZIANO AD ARRIVARE SEGNALAZIONI DALL'INTERNO. HO RACCOLTO GIGABYTE DI DOCUMENTI''






Chiara Caprio per https://www.riparteilfuturo.it/



C'è un libro ambientato negli anni 70 che racconta molto bene le ambiguità dei giornali italiani e dei suoi editori. Si chiama “Comprati e Venduti”, ed è stato scritto da Giampaolo Pansa, ma mai come oggi quel titolo torna attuale. Secondo l'accusa della magistratura infatti, l'ormai ex direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano e altri nove ex manager del gruppo avrebbero gonfiato il numero di copie digitali e cartacee del giornale, facendo false comunicazioni sociali e ottenendo un ingiusto profitto da abbonamenti inesistenti. In polemica con la dirigenza e contro Napoletano, i giornalisti hanno scioperato per giorni, bloccando la pubblicazione del giornale.



Oggi le rotative hanno ripreso a lavorare ma la situazione del gruppo rimane ancora incerta per via del buco economico e di un'inchiesta appena conclusa che potrebbe allargarsi. Di questa vicenda si parlava – a bassa voce - da anni nei corridoi del Sole 24 Ore, ma solo una persona ha indagato internamente per far venire alla luce i reati che mettono a rischio un'azienda da 1200 dipendenti: il giornalista finanziario Nicola Borzi. Autore anche di un libro sul caso Enron e caposervizio del quotidiano, Borzi ha lavorato in segreto per sette anni prima di pubblicare i due esposti che nel 2016 hanno inchiodato gli ex vertici dell'azienda.



Come è iniziata questa sua inchiesta “sotto traccia”?

Io nel 2010 ero nel comitato di redazione del Sole 24 Ore e ho cominciato a seguire le vicende della redazione dal punto di vista sindacale. In questo rientravano anche i discorsi organizzativi per l'allargamento della pianta organica del giornale per l'ingresso di nuovi colleghi. Quando nel 2010 in primavera si parlò della fusione per incorporazione nel Sole 24 Ore Spa di questa società che si chiamava GPP cominciai a capire che c'era qualcosa che non quadrava, perché incorporare una società in un'altra significa togliere alla società incorporata il bilancio: se si toglie il bilancio non si è più in condizione di vedere come sono i conti, se la società è in utile o in perdita.



Su quell'operazione in particolare avevo molte perplessità perché sapevo com'era nata e mi ero studiato tutta la documentazione che risaliva alla quotazione, che mostrava che l'avevamo comprata strapagandola, versando 40 milioni di euro. Quindi, sapendo che dall'epoca della quotazione del 2007 al 2010 aveva perso, capivo che c'era la volontà di seppellire i conti, di farli sparire.



Mi misi a lavorare recuperando diversi documenti e informazioni da varie banche dati, facendo il mio lavoro da giornalista finanziario. In questo modo identificai una serie di operazioni sospette, come ad esempio la creazione di azionisti tra il momento in cui avevamo acquistato una parte e il momento in cui avevamo completato l'acquisto della GPP, azionisti che investendo poche decine di migliaia di euro si erano portati a casa 4 milioni, cioè il 10% della transazione finale della GPP.



All'epoca preparai quindi un esposto alla Consob, interamente basato su documenti, chiedendo alla nostra azienda di valutare se il prezzo di acquisto pagato per la GPP era congruo o non era stata piuttosto un'operazione gonfiata. La Consob scrisse al collegio sindacale chiedendo se era tutto in ordine e ovviamente cosa fece il collegio sindacale, essendo quello che aveva firmato i bilanci? Disse che andava tutto bene. Allora cominciai a capire che c'era qualcosa che non andava, anche perché c'erano anomalie evidenti.



Che cosa l'ha insospettita?

Te ne cito una su tutte: a parte il prezzo sproporzionato per una società che aveva sempre prodotto perdite, c'era ad esempio l'anomalia che la società di revisione KPMG era la società che aveva rivisto i conti della GPP, che aveva rivisto i conti del Sole 24 Ore che era la parte acquirente, era la società che aveva rivisto i conti della società venditrice, che era la Wise SGR, ed era la società di revisione che aveva anche fatto la “due diligence” dell’operazione, quindi aveva recitato quattro parti in commedia.



Da quel momento, poiché come azionista partecipavo alle assemblee societarie, cominciai a usufruire della possibilità di dire la mia all’assemblea degli azionisti e presentai una serie di domande all'azienda, ma mi accorsi che cadevano nel vuoto.



A quel punto che cosa è successo?

Nel 2011, quando mi accorsi che la direzione Riotta ci stava portando contro gli scogli perché continuavamo a perdere copie, anche se non ero più nel Cdr fui io il giornalista che presentò la mozione di sfiducia a Riotta che fu votata dal 70% dei colleghi. Così, poche settimane dopo quel voto, alla direzione gli subentrò Napoletano. Il primo anno di direzione Napoletano debbo dire non fu male: rimise in carreggiata il giornale, lo riportò ad essere Il Sole 24 Ore, organo di informazione economico-finanziaria.



Però già dall'inizio del 2013, cioè dopo poco più di un anno e mezzo di direzione Napoletano, mi cominciarono ad arrivare dall'interno dell'azienda, da fonti mie di altri uffici, segnalazioni. Le mie fonti mi dicevano che cominciavano ad apparire operazioni sospette. Allora sotto traccia, perché ovviamente non potevo mettere la testa fuori dall'acqua, continuai questo lavoro di scavo all'interno su tutte le vicende che non apparivano ma che io sapevo per certo, da varie fonti, che continuavano ad andare avanti. Negli anni ho raccolto tutta una serie di informazioni. Ad esempio, il nome della Di Source lo conoscevo già dal 2013. Il problema qual era?



Che le mie erano fonti orali, perché le persone che in azienda mi passavano informazioni non erano in grado di passarmi alcun documento, perché tutte le volte che una mia fonte si avvicinava ai documenti della Di Source, che erano documenti stoccati sui server digitali, ogni volta che qualcuno chiedeva delle fatture, quella persona, che aveva lasciato le sue “impronte digitali” sui sistemi interni veniva presa e allontanata in un altro ufficio. È per questo che io parlai di documenti secretati: perché queste informazioni non erano di tutti, c'erano delle password che erano solo di alcuni operatori e non di tutti.


Quindi ecco, ho cominciato a raccogliere informazioni per anni, e già dal 2015 sapevo che i fiduciari che avevano costituito la Di Source a Londra, questo Martin William Gordon Palmer del gruppo Jordan erano gli stessi fiduciari che avevano costruito per Lionel Messi, il giocatore del Barcellona, le “scatole finanziarie” che erano servite al bomber argentino a nascondere al fisco spagnolo i soldi degli sponsor, vicenda per la quale Messi è andato a processo in Spagna.



Ma non c'erano collegamenti con il Sole 24 Ore: avevo la documentazione di fondazione della Di Source, avevo il nome del fiduciario, ma non si riusciva a capire chi fosse l’azionista, chi fossero gli azionisti, che si nascondevano dietro il fiduciario. Né si riusciva a stabilire in modo sicuro una connessione con Il Sole 24 Ore.



Poi cos’è cambiato?

Quando nel 2016 è arrivato in azienda l'amministratore delegato Gabriele Del Torchio, che ha sostituito Donatella Treu, ho capito che si era creata una situazione positiva: mentre i precedenti amministratori avevano tenuto tutto nascosto sotto una cappa di opacità, Del Torchio cominciava a fare un'operazione di pulizia e di verità sui conti.


Quando Del Torchio, il 30 settembre 2016, presentò la semestrale al 30 giugno, la sostituzione del revisore dei conti fece emergere una perdita patrimoniale di 7,5 milioni. Non solo: l’ad operò una revisione dei bilanci dal 2012 – guarda caso – al 2015. A quel punto io capii che si era creato uno spiraglio nel quale potevo cercare di entrare per poter fare venire alla luce tutte le informazioni che avevo raccolto. E ne sapevo veramente tante: da parecchio tempo ho una serie di hard disk sia fisici sia virtuali nei quali ho stoccato decine e decine di giga di documenti. Solo che mi mancava il collegamento con la Di Source, che non era ancora uscito.



Il 5 di ottobre ho presentato il mio primo esposto del 2016 al collegio sindacale del Sole 24 Ore e alla Consob, segnalando alcune voci del nostro stato patrimoniale che secondo me richiedevano un riesame da parte della Consob e dei nostri sindaci. Dentro quell'esposto indicavo il nome della Di Source ma non avevo ancora sotto mano un collegamento preciso. Poi mi venne un'idea: andare a vedere tutte le società costituite da questo fiduciario, Martin William Gordon Palmer, per controllare se ce n'erano altre che fossero riconducibili a noi.


All'interno di questo numero sterminato di società, perché Palmer fa questo di lavoro, crea società britanniche per azionisti “coperti”, ce n’era una che mi ha acceso una lampadina. Si chiamava Fleet Street News Limited. Fleet Street a Londra è la via dove un tempo avevano la sede le redazioni dei principali giornali inglesi. Allora ho controllato questa società, ho scoperto che il 100% della Fleet Street era della Di Source, e ho trovato il nome di un italiano, Filippo Beltramini.



Questo accadeva nella notte del 6 ottobre 2016. A quel punto ho messo il nome di Beltramini su Google e ho trovato il suo profilo LinkedIn, ho trovato tra i suoi contatti un certo Di Rocco e ho visto che Di Rocco aveva lavorato come consulente al Sole 24 Ore nel 2012, proprio nell'area digitale che si occupava dei ricavi. Allora ho preso i loro nomi e li ho cercati su Cerved, la banca dati delle imprese italiane, e ho trovato questa società, Bw Consulting di Muggiò. Ho guardato bene questa società e c'erano anche altri nomi, altri clienti e ho cominciato a capire che c'era un primo nesso ma molto flebile, perché Il Sole 24 Ore non appariva tra i clienti.



Allora ho inserito sul sito web di Pagine Bianche i nomi di Beltramini e Di Rocco e gli indirizzi che avevo trovato su Cerved e sono apparsi dei numeri di telefono fisso. La mattina del 7 ottobre 2016 ho chiamato il primo numero, che era quello della casa di Beltramini, ma dalla voce ho capito che non poteva essere lui perché aveva un tono da persona più anziana. Ho detto a questa persona che ero un amico di Filippo e che avevo perso il suo numero di cellulare.


Questa persona mi ha dato il numero di cellulare di Beltramini: l’ho chiamato subito ma mi ha risposto che non poteva parlare perché era in riunione. Quando mi ha richiamato ero in riunione io e allora abbiamo iniziato a comunicare via sms. Allora gli ho chiesto conferme sulle due società, sulla loro collaborazione con Il Sole 24 Ore e sugli abbonamenti digitali.



Gli ho chiesto anche quali fossero i suoi contatti al Sole e lui mi ha dato un nome che ho verificato esistere tra i dipendenti della nostra azienda. Io gli ho detto che avrei usato queste informazioni per trasparenza e lui mi ha detto che andava bene. Da BlackBerry questi sms si possono trasferire sull'email, cosa che ho fatto. Così ho preparato il secondo esposto, quello del 7 ottobre, e ho chiesto lumi al collegio sindacale e alla Consob su questa vicenda.



E il collegio sindacale che cosa ha risposto?

Mi hanno chiesto un appuntamento per la settimana successiva, anche perché nel frattempo l'associazione consumatori Adusbef guidata da Elio Lannutti aveva presentato degli esposti in Procura della Repubblica contro Il Sole 24 Ore per falso in bilancio. Come dipendente io invece mi sono mosso sul piano del diritto civile, usando quegli strumenti che il codice civile italiano e il diritto europeo prevedono per la tutela dei piccoli azionisti. Non ero collegato a questa iniziativa penale.



Comunque, mi hanno convocato una settimana dopo e in questo incontro a porte chiuse ho presentato al collegio sindacale tutta una serie di altre informazioni, come per esempio i rapporti con il gruppo Johnson che intermediava decine di migliaia di copie cartacee per Il Sole 24 Ore. Ho indicato anche la cartolarizzazione di crediti con la società Kleinein del gruppo Omniatel, ho indicato alcune questioni relative alla revisione patrimoniale fatta dal professor Mauro Bini della Bocconi. Poi mi sono messo in attesa.



Nel frattempo Gabriele Del Torchio veniva rimosso dalla carica di amministratore delegato, ma faceva in tempo a chiedere a una società esterna, Protiviti, una revisione della diffusione del giornale. Protiviti pubblicava un report che veniva reso noto agli inizi di novembre nel quale spiegava al nostro consiglio di amministrazione che in effetti c'erano dei numeri molto dubbi sul fronte della diffusione digitale.


Poi nel frattempo l'inchiesta della Procura è andata avanti e tutte le cose che ho scritto negli esposti sono state verificate dai magistrati, verificando anche la catena di società che gonfiavano le copie digitali multiple e le copie cartacee gestite dal gruppo Johnson e da altre società, che invece di andare in edicola andavano direttamente al macero. Quindi tutto questo è stato verificato o almeno questa è la tesi dell'accusa, perché ovviamente il processo si deve ancora fare.



Ma quindi in tutti questi anni la Consob non vi ha mai risposto?

No. Per il momento ci ha risposto solo il collegio sindacale e siamo ancora in attesa della risposta della Consob. Ovviamente, di concerto con la Procura, la Consob a ottobre aveva già mandato la Guardia di Finanza a prendere documenti e fare accertamenti nella sede del Sole 24 Ore. Ora siamo in attesa di una risposta o di possibili sanzioni. Per quanto riguarda invece l'esposto dell’11 maggio 2010 sull'acquisizione di GPP, la Consob avviò uno scambio di informazioni con il nostro collegio sindacale ma questo non portò a niente di concreto.



Adesso però, dal decreto di perquisizione uscito dalla Procura, sta emergendo che gli inquirenti stanno indagando anche su quell'operazione, quella che noi avevamo segnalato nel 2010. L’avevamo ritenuta un’operazione anomala perché, oltre al costo di acquisizione e alle svalutazioni succedutesi, la Procura sta indagando sulla cessione della GPP/Business Media del gennaio 2014 a terzi.


GPP/Business Media è stata venduta dando dei soldi a chi se l'è comprata, circa 10 milioni di euro di cassa a spese ovviamente del Sole 24 Ore. Una cessione in perdita per la nostra azienda, quando c'erano altri acquirenti che avevano presentato offerta positive per Il Sole 24 Ore, e che ora sono oggetto di interesse da parte della magistratura. Secondo i miei calcoli, tutta l'operazione GPP alla fine è costata al Sole 24 Ore circa 75 milioni di euro.



Perchè Beltramini è stato così aperto con lei, quasi ingenuo?

Beltramini ha anche parlato alla magistratura, nell'interrogatorio del 10 febbraio lui ha fatto i nomi di Arioli e di altri come soci occulti della Di Source. Secondo me, Beltramini si aspettava che questa storia prima o poi sarebbe uscita e voleva liberarsi di un peso.



Come mai è stato creato un sistema così complesso?

Perché il sistema di rilevazione e controllo delle copie digitali è molto macchinoso: in base alle regole stabilite dalla società Accertamenti diffusione Stampa (Ads), che controlla la diffusione della stampa italiana, bisogna dimostrare con degli indirizzi e dei dati anagrafici che i clienti e gli abbonati siano reali. Quindi era necessario creare delle attivazioni di download delle copie digitali dal web e dimostrare così che i clienti fossero reali, anche se poi non lo erano.


Tra l'altro, anche tutto questo sistema, come è stato dimostrato dai documenti messi a disposizione degli inquirenti da Beltramini, è stato verificato che realizzava un giro di fatture in entrata e in uscita dal Sole 24 Ore. Il doppio giro di flussi finanziari a danno del Sole 24 Ore l’avevo segnalato nei miei esposti. Il contratto con Di Source all'epoca era stato firmato dall’ad Donatella Treu a dicembre 2012.



Com’era possibile che pochi giorni dopo la costituzione della società britannica, fondata a novembre 2012, una società che non aveva nomi affermati né manager di fama, che non aveva nemmeno un sito internet, com’era possibile che Treu sapesse già dell'esistenza e dei servizi della Di Source e che si fosse accertata di tutto? Il contratto triennale con Di Source fu poi rinnovato dalla Treu nel 2015 e poi sciolto da Del Torchio.



Tutto questo contratto per altro ha costituito un flusso in uscita dal Sole 24 Ore di 18,5 milioni di euro e uno in ingresso al Sole per soli 15,5 milioni di entrate: quindi per Il Sole24Ore ha rappresentato un costo di almeno 3 milioni di euro che ora bisogna capire dove sono, se sono andati agli azionisti di Di Source (che secondo i magistrati sono Arioli, Beltramini, Quintarelli e altri) o se sono rimasti all’estero come una sorta di “fondo cassa” in “nero” per essere poi utilizzati per altre operazioni.


I suoi colleghi come hanno reagito? Sapevano del suo lavoro?

Nessuno dei miei colleghi lo sapeva: ho portato avanti questa inchiesta in solitaria perché non volevo coinvolgere persone che hanno anche il titolo di azionisti all'interno di questa azienda. Se lo avessi comunicato avrei creato potenzialmente il rischio di reati, come quello di insider trading o aggiotaggio, perché tutti noi, in quanto azionisti, siamo in conflitto di interessi ovviamente. Le fonti che avevo facevano tutte parte di altri dipartimenti, del dipartimento della distribuzione, del reparto amministrativo, della stampa del giornale, ma non ho collaborato con gli altri della redazione proprio perché avrebbe creato dei problemi anche molto gravi.



Che cosa ne sarà adesso del Sole 24 Ore?

Io non posso dirlo, però una cosa è certa: tutte queste operazioni hanno danneggiato economicamente la società. A oggi il patrimonio netto negativo è di 7 milioni di euro: quindi o si ricapitalizza o bisogna dichiarare fallimento. I fondi della ricapitalizzazione non sono ancora arrivati anche se Confindustria sembra orientata in questo senso. Nel frattempo siamo molto esposti con le banche e stiamo rinegoziando il debito, ma le banche non sembrano disposte a concedere ulteriori prestiti allo stato attuale se l’azionista di riferimento non ricapitalizza la società.


Lei ha svolto un ruolo da whistleblower interno, come si è mosso per questo, anche grazie alle sue competenze da giornalista?

Ho utilizzato innanzitutto le mie competenze da giornalista finanziario, quindi la capacità di leggere i bilanci e i documenti societari. Inoltre, siccome ho lavorato per tre anni al sito web del Sole 24 Ore, sono un utente di internet piuttosto esperto, sono in grado di analizzare grandi quantità di informazioni e anche di raccoglierle su internet con modalità che l'utente medio non conosce.


Per esempio, quando ho lavorato al mio libro sul crack della Enron, che uscì nel 2002 per Feltrinelli ancor prima degli altri libri di inchiesta americani, ho costruito un database della documentazione ufficiale della Enron grazie alla capacità di poter recuperare del materiale offline risalendo all’indietro nella memoria del server di quella società – il server era ancora connesso alla rete. Quindi ho potuto recuperare un sacco di materiale che sembrava scomparso. Poi attraverso invece documenti di inchiesta ho trovato quello che nella loro storia ufficiale non c'era.

Sono tutti strumenti legali ovviamente, non da hacker, poiché non vado a violare server o siti, utilizzo delle competenze informatiche che mi permettono di andare oltre, unite a competenze finanziarie ed economiche. Recupero le informazioni, le stocco e creo dei grossi database, anche su più hard disk fisici e digitali, per poi analizzare bene i documenti, capire i collegamenti e cercare riscontri documentali. Per evitare rischi legali e querele o richieste di danni in sede civile preferisco avere sempre un supporto documentale.



Nel caso dell’inchiesta sulla Di Source, per esempio, mi ci sono voluti quasi sette anni per avere i documenti che mi aiutassero a provare quello che avevo capito e che le mie fonti mi avevano raccontato, perché quando chiedevo alle mie fonti di stampare dei documenti o di fornirmi una copia dei documenti le persone venivano bloccate, addirittura spostate ad altri dipartimenti. Non licenziate, ma comunque messe nelle condizioni di non avere più accesso a quei documenti, che erano quindi in un certo senso “secretati”. È stato molto difficile.


Mi dico sempre che se a guidare la Fleet Street News Ltd non avessero messo un italiano, Beltramini, ma un altro prestanome inglese, sarebbe stato ancora più difficile, praticamente impossibile, dimostrare la connessione tra la Fleet Street/Di Source e Il Sole 24 Ore. Un fiduciario non mi avrebbe mai risposto. Negli anni avevo anche trovato i contatti di Martin William Gordon Palmer, perché avevo anche trovato il suo numero di cellulare e il suo indirizzo email, ma non volevo contattarlo perché sapevo che se l’avessi fatto avrei messo sul chi va là proprio le persone su cui stavo indagando.

Come mai, secondo lei, ci sono delle persone interne al Sole che hanno deciso di collaborare con lei? In fondo era molto rischioso anche per loro.

All'interno dell'azienda la percezione che ci fosse qualcosa di opaco era abbastanza diffusa. Le persone che mi hanno aiutato sono persone che non lavorano in redazione, ma che avevano accesso diretto ai documenti perché, ad esempio si occupavano del bilancio, della contabilità, delle fatture. Sono tutte persone con un rapporto di fiducia molto forte con me, perché sanno che io non rivelerò mai a nessuno, nemmeno a un giudice, le mie fonti. In quanto giornalista infatti ho il diritto (e dovere) di mantenere il segreto professionale che è tutelato anche dalla Corte di Strasburgo.



Quindi loro si sono fidati molto di me. Poi, a differenza della whistleblower Sharon Watkins del caso Enron, che alcuni hanno accusato di aver semplicemente mandato un'email e aver avuto un confronto privato con il presidente della Enron ma di non essere stata davvero una whistleblower, la mia storia è diversa. Io ho portato dei documenti allegati a tutti i miei esposti e li ho fatti vedere a tutti gli organi di competenza con cui potevo rapportarmi.



Un’altra differenza fondamentale è che la magistratura nel mio caso è arrivata dopo i miei esposti. Negli esposti fatti alla magistratura dalla Adusbef non c'erano tutte le informazioni che invece io avevo presentato negli esposti indirizzati in sede civile alla Consob e agli organismi di controllo della mia azienda.


Insomma, è stato il whistleblower per eccellenza di questa vicenda.

Credo che nessuno meglio di un giornalista economico e finanziario possa fare il whistleblower, per via delle competenze che possiede chi fa questo lavoro. Penso che fare il whistleblower sia l'altra faccia del giornalismo finanziario: se si fa bene questo lavoro si è spesso in grado di arrivare sulle vicende prima dei magistrati, mentre di solito chi si occupa di cronaca giudiziaria si attiva quando ormai ci sono notizie o documenti forniti dai magistrati.


Penso che svolgere davvero il proprio dovere di giornalisti sia una strada per essere veramente dei "civil servants". Però ovviamente ciò significa prendersi qualche rischio. In questa vicenda mi sono preso dei rischi: ho indagato sulla mia stessa azienda. Credo però che chi fa giornalismo partecipativo, per ragioni di trasparenza, se accetta di prendersi dei rischi possa arrivare alle notizie prima degli altri.


Ovviamente, indagando sulla mia azienda e avendo un contratto di esclusiva con Il Sole 24 Ore, non ho potuto scrivere direttamente io questa inchiesta. Dunque non posso che ringraziare tutti i colleghi di altre testate giornalistiche che hanno raccolto i miei esposti e le mie informazioni e hanno fatto uscire questa notizia.


L'importante in questo mestiere è lavorare bene, avere i documenti e fare tutte le verifiche, non solo per evitare querele e richieste di danni ma soprattutto per produrre informazione di qualità. Con il mio lavoro su Di Source, Johnsons e su questa storia credo di poter dire di aver dimostrato che quelle che all'inizio erano solo voci erano invece una grossa notizia.

Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 18/03/2017, 22:33
da UncleTom
Facendo quattro passi dopo cena, questa sera ho attraversato la Via Don Minzoni, come mi capita spesso ogni giorno.

Ma i fatti di questi giorni mi hanno suggerito che era ora di cambiare nome a quella Via, ed aggiornarlo a personalità più recenti.


Cosa è preferibile quindi proporre, secondo voi, al prossimo Consiglio comunale?????


1) VIA DON MINZOLINI,..O

2) VIA DON MINZOLOTTI??????

Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 18/03/2017, 23:06
da UncleTom
.....ORAMAI SIAMO OLTRA LA FRUTTA. OLTRE L'AMMAZZACAFFE'.......QUESTA VOLTA E' PROPRIO FINITA.


Ingresso in politica di Silvio Berlusconi

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

L'ingresso in politica di Silvio Berlusconi, noto anche come «discesa in campo»[1], avvenne il 26 gennaio 1994.


Ce lo siamo sorbito al vertice fino al 2011.

Ma evidentemente ai merli boccaloni tricolori le balle da chi è affetto da PSEUDOLOGIA FANTASTICA non è bastato.

I supermerloni del centrosinistra quando di è presentato Pinocchio Mussoloni, hanno abboccato come dei pescioni boccaloni.

Non è bastato.

ADESSO SI RICOMINCIA DI NUOVO CON LA MUMMIA CINESE DI HARDCORE.





Berlusconi: "No tasse su casa e prima auto. E poi pensioni minime per tutti"

Silvio Berlusconi, parlando ai seniores di Forza Italia riuniti a Villa Gernetto, suona la carica al partito e garantisce: "Confido in Strasburgo. Ma, se anche per assurdo, non potessi candidarmi, sarò comunque in campo per fare la campagna elettorale
Luca Romano - Sab, 18/03/2017 - 15:06
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Tasse, pensioni, politica estera e non solo. Silvio Berlusconi, parlando ai seniores di Forza Italia riuniti a Villa Gernetto, suona la carica al partito e garantisce: "Confido in Strasburgo.

Ma, se anche per assurdo, non potessi candidarmi, sarò comunque in campo per fare la campagna elettorale. Sto in campo per senso di responsabilità verso il mio paese, che continuo ad amare, sto in campo per rispetto agli italiani che mi hanno dato negli anni 200 milioni di voti, sto in campo anche per voi, che avete combattuto con me in tutti questi anni le nostre battaglie di libertà. Contate su di me, io ci sarò. D'altronde neppure Renzi e Grillo sono in Parlamento. I sondaggi dicono che sul referendum ho spostato il 5% a favore del No. Farò la stessa cosa in campagna elettorale, proprio come accadde nel 2013".

Il Cav poi ribadisce il programma di Forza Italia: "Vogliamo garantire una pensione minima a 1000 euro per tutti. La pensione alle mamme per dare loro una vecchiaia dignitosa e serena. Vogliamo introdurre un sussidio di compensazione per le famiglie in condizione di povertà assoluta e relativa, una convenzione con i cinema per l'ingresso gratuito agli anziani, viaggi gratuiti per gli anziani in treno in certi giorni della settimana, cure odontoiatriche gratis per gli anziani, molti dei quali non possono permettersi il dentista, e aiuti agli anziani che possiedono un animale domestico".


In merito alle imposte, Berlusconi spiega: "Nel nostro programma prevediamo nessuna tassa sulla prima casa, che per noi è sacra, nessuna tassa sulla successione, che è ricchezza già tassata quando è stata prodotta, nessuna tassa sulla prima auto, che è uno strumento di lavoro, Flat Tax uguale per tutti al 22-24%. Meno non è credibile. E ancora abolizione dell'Irap che l'azienda paga anche quando perde. Le imposte non sono un diritto dello stato, sono il pagamento di servizi. Per questo se lo stato ci chiede 1/3 di quello che guadagniamo lo sentiamo giusto e lo paghiamo volentieri, se invece ci chiede oltre il 60% ci sembra una rapina. Questo non vuol dire ovviamente che le tasse non vanno pagate, significa che vanno ridotte".

Poi il leader di Forza Italia aggiunge: "Il Movimento Cinque Stelle può fare qualsiasi figuraccia. Eppure continua ad aumentare i propri voti. Perché? Perché con gli ultimi governi il numero dei poveri è aumentato a dismisura: 15 milioni di italiani sono in condizione di povertà e 4.600.000 vivono di assistenza e carità. La stessa tecnologia, che evolve, e la crisi delle start-up, che non riescono ad accedere al credito, portano a diminuire i posti di lavoro. E coloro che perdono il proprio lavoro ritengono responsabile della loro situazione la classe dirigente del paese nella sua globalità. Il reddito di cittadinanza, com'è calcolato dai 5 Stelle, non è sostenibile. I grillini lo finanzierebbero portando l'imposta di successione al 50%. Ma questo non significa che allora lo Stato può voltare la testa dall'altra parte. Noi abbiamo la soluzione: partendo dall'imposta negativa sul reddito di Milton Friedman proponiamo di integrare i redditi insufficienti. Questo, tagliando le spese, si può fare".

Sulla legge elettorale precisa che "in Italia non c'è più il bipolarismo che Forza Italia aveva fatto nascere nel 1994. Abbiamo un sistema tripolare in cui si vince con il 30-32%. Questo rende impossibile un sistema elettorale maggioritario". Poi la stoccata ad Alfano: "Avevo lasciato Forza Italia nelle mani di Alfano ed era calato all'11,7%. Sono tornato a fare campagna elettorale e dopo 21 giorni abbiamo chiuso al 21,7".

Sull'Europa spiega che "per avere un senso deve avere una difesa comune. E deve far cessare le assurde sanzioni contro la Russia".

Infine, il Cav lancia un messaggio animalista: "Anche gli animali hanno diritti, non solo gli uomini. Sono esseri senzienti. Chi uccide un animale deve andare in galera. Gli animali devono poter entrare in tutti i luoghi pubblici e aperti al pubblico. Dobbiamo aiutare e finanziare i canili e i gattili. Invito tutti i militanti di Forza Italia ad adottare un cane o un gatto in un canile o in un gattile. Dobbiamo anche aiutare chi ha un animale e poche risorse per mantenerlo. Se vuoi un amico vero scegli un animale. Io, che amo avere tanti amici, ho 21 cani, se conto quelli adottati da me e da mia figlia Marina".

LUCA ROMANO SI E' DIMENTICATO DEL CINEMA GRATIS A TUTTI PENSIONATI, E LE DENTIERE GRATIS.

Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 19/03/2017, 4:53
da UncleTom
LA GUERRA DELLE POLTRONE STA CARATTERIZZANDO LA FASE FINALE DELLA CADUTA DELLA REPUBBLICA.

NON SI TRASCURA NULLA, MA PROPRIO NULLA, PER SCREDITARE L’AVVERSARIO PER AMBIRE ALLA POLTRONA.

GLI STRUMPTRUPPEN SONO MAESTRI IN QUESTA ATTIVITA’, SALVO DIVENTARE TOTAMBOT MORALISTI E GARANTISTI QUANDO IL DISCREDITO RIGUARDA LA LORO PARTE POLITICA.







Emigratis, Malena rivela: "Sono entrata nel Pd grazie al mio c..."
Nella prima puntata di Emigratis 2, i conduttori Pio e Amedeo hanno mostrato un'intervista di Malena mentre stava girando un film a luci rosse con Rocco Siffredi. La pornostar ha rilasciato alcune dichiarazioni che hanno fatto infuriare il pubblico
Anna Rossi - Sab, 18/03/2017 - 18:01
commenta
Nella prima puntata del programma Emigratis 2, i conduttori Pio e Amedeo hanno mostrato un'intervista di Malena mentre stava girando un film a luci rosse con Rocco Siffredi.



La pornostar, che in questi mesi si trova all'Isola de Famosi, si è lasciata scappare alcune dichiarazioni che non sono passate inosservate e hanno fatto parecchio discutere. Ma vediamo bene cosa è successo. Malena prima di approdare nel mondo dell'hard faceva parte della direzione nazionale del Partito democratico. E visto il suo passato in politica, i due conduttori pugliesi Pio e Amedeo le hanno chesto come ha fatto ad entrare nel Pd: "È vero che hai militato nel Pd? E come hai fatto? L’hai data di sicuro a qualcuno".
Malena, dopo essere scoppiata in una grossa risata, ha provato a non rispondere, ma le domande si facevano sempre più incalzanti così ha ribattuto: "Ma sì, non è stato per questo faccino che sono entrata nel Pd, ma per il mio culo". Dopo questa affermazione e allusione, Pio e Amedeo sono rimasti un po' stupiti, poi hanno ripreso con le domande: "A chi l’hai data? A Bersani? A Renzi? A Fassino? A Emiliano? A D’Alema?". Malena, però, si è guardata bene dal rispondere e ha lasciato a bocca asciutta i conduttori e quelli che si erano incuriositi sull'argomento.
Ma la mezza risposta di Malena ha fatto infuriare il pubblico che dopo la puntata di Emigratis si è scagliato contro di lei duramente. "Guardate voi chi abbiamo noi in politica. Fortuna che questa se ne è andata. Ma gli altri?", commenta un utente sotto il video della puntata. Ma c'è anche chi c'è andato giù più pesante e si dice stufo del "sistema corrotto della politica".

Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 19/03/2017, 14:05
da UncleTom
IL GIOVANE DIRETTORE DELL’ESPRESSO, TOMMASO CERNO, CLASSE 1975, INIZIA COSI’ IL SUO EDITORIALE SUL NUMERO DEL SETTIMANALE OGGI IN EDICOLA:


Fermiamoci fin che siamo in tempo.


Comprendo che il giovane direttore del prestigioso settimanale possa esprimersi in questo modo.

A metà percorso della sua vita, vede che tutt’intorno si accumulano macerie, e mi sembra normale che diversamente da molti, forse moltissimi italiani vada alla carica gridando dalle colonne del suo settimanale : Fermiamoci fin che siamo in tempo.

Purtroppo, Tommaso Cerno non partecipa al nostro Forum, e quindi non è possibile confrontare le idee.

Tommaso Cerno ha tutto il diritto di esprimersi in questo modo, ma gli manca la naturale esperienza di chi ha percorso solo metà strada del tragitto della vita.

Fermiamoci fin che siamo in tempo, lo avrebbero dovuto gridare i suoi predecessori molti anni fa.

Adesso è troppo tardi.

Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 19/03/2017, 17:44
da UncleTom
SE IL GIOVANE DIRETTORE DELL'ESPRESSO, PARTECIPASSE AL FORUM, COMINCEREI CON IL CHIEDERGLI COME SI RISOLVE IL PROBLEMA DI MAFIA, 'NDRANGHETA, COMORRA, E CRIMINALITA' IN GENERE, CHE SI SONO FATTE ISTITUZIONI. VISTO ANCHE:






Al funerale del padrino mafie, slavi e “neri” di Milano


La mappa criminale - Per l’addio a Mimmo Pompeo nuovi narcos e vecchia “mala”, boss da Crotone, dall’Est e dalla Svizzera e il capo degli hammerskin

di Davide Milosa | 19 marzo 2017

| 3


Un funerale da cui partire. Una chiesa, macchine, volti. Per capire che la Milano criminale cambia. Che ha smesso i panni della discrezione, che ora sceglie la visibilità, l’esibizione. Che fa accordi con l’estrema destra sostenuta dalla Lega di Matteo Salvini. Che sceglie le cooperative sociali in stile Mafia Capitale per rimettere in piedi vecchie bande e darsi agli appalti pubblici, grazie alla politica, che spesso indossa la casacca rosso sbiadito del Pd.

Aria ancora fredda in via Antonini. Cielo grigio che pesa sul traffico intenso. Periferia sud di Milano. L’arteria di via Ripamonti. Case popolari. Degrado, spaccio, fatica. Fuori dalla chiesa di Santa Maria Liberatrice, attaccato al portone, il drappo scuro e una scritta: ore 11 celebrazione in memoria di Mario Domenico Pompeo, classe ’53. È il 28 febbraio scorso. Fino a due giorni prima, quando il quadro clinico si è aggravato irrimediabilmente, amici e familiari lo chiamavano Mimmo. Lo conosceva così anche la polizia giudiziaria. “Mimmo Pompeo” sta scritto in decine di informative. “Appartenente – si legge in una nota del Ros di Milano – alla cosca Arena, egemone in Isola di Capo Rizzuto”. ’Ndrangheta di nobili origini.

Pompeo fa carriera al Nord. Corre rapido l’onda della prima malavita. Entra nella cerchia di Angelino Epaminonda. Dal Tebano eredita le bische. Pompeo è calabrese, ma all’epoca sta con il clan dei Catanesi. Nel 1991 i carabinieri di Isola di Capo Rizzuto lo descrivono così: “Elemento pericolosissimo per l’ordine e la sicurezza pubblica”, legato “alla mafia corleonese e figlioccio del noto Luciano Liggio”.

È un boss Pompeo? Certamente un capo. Parente di Ginetto Di Paola, uno degli autori della strage al ristorante La Strega di via Moncucco (3 novembre 1979 e 8 cadaveri). La più sanguinosa che la storia criminale di Milano ricordi. Vicino al narcos serbo Dragomir Petrovic. E, con il passare degli anni, uomo di consigli, paciere, tanto intelligente e colto (era appassionato di letteratura) da dirimere guerre e regolamenti di conti. Ecco chi era Pompeo: cardinale della mala con affari tessuti alla Comasina, il quartiere che fu di Renato Vallanzasca.

Per questo il 28 febbraio oltre ad amici e parenti, la malavita che conta si fa vedere. Presenziare è necessario. La ’ndrangheta del Crotonese manda i suoi emissari. Boss e comprimari discutono, fumano, formano capannelli sul sagrato della chiesa. Dentro, il prete celebra messa. Fuori, sguardi e silenzi ridefiniscono le nuove alleanze di una rinascita criminale. Che stringe patti da un lato con le cosche e dall’altro con l’estrema destra. In rappresentanza c’è Domenico Bosa, detto “Mimmo Hammer”, capo milanese del movimento skin, nonché buon amico di narcotrafficanti slavi con i quali discute di droga e di omicidi.

I serbi qui al funerale indossano divise comuni: scarpe scure di cuoio e giacca di pelle nera. A onorare il capo sono arrivati anche dalla Svizzera. Porsche Cayenne presa da una società di leasing con targa dei Grigioni. Ci sono le famiglie storiche: i Tallarico, i Pittella, alcuni parenti della famiglia mafiosa del superboss Pepè Flachi. E c’è anche un convitato di pietra. La polizia giudiziaria annota le targhe. L’appuntamento è da non perdere. “In chiesa o fuori c’erano tutti – ragiona un investigatore – perché l’assenza non giustificata poteva creare sospetti. Mimmo Pompeo è il passato, il presente e sarà il futuro per il rispetto che gli sarà riconosciuto attraverso figli, fratelli e nipoti”.

La morte, in questi casi, ridistribuisce le carte al tavolo. E il nuovo gioco criminale, oggi, riparte da zone ben precise di Milano. Aree storiche ma la cui attualità troppo spesso sfugge alla lente della Procura antimafia che, come ha specificato il procuratore Ilda Boccassini, punta sui reati finanziari. “Eppure – racconta un altro investigatore – oggi la cosiddetta mafia povera, quella dei summit nei bar, dei chili di cocaina, delle armi da guerra, delle estorsioni si sta riprendendo la città”. Ripartiamo allora da un’area tra Quarto Oggiaro, la Comasina e Novate Milanese. Via Bovisasca divide gli spazi. Non lontano, in un’area industriale, protetto da campi e vie a fondo chiuso, c’è un autosalone. Qui nuove e vecchie leve, legate ai Pompeo, ai Flachi, ai Toscano, officiano riunioni, gestendo carichi di armi da guerra da occultare in doppifondi di auto supersportive. Armi da vendere o da portare con sé. Da esibire in scatti suggestivi postati poi sui profili Facebook. Da usare anche come capitato il 15 febbraio scorso nel quartiere di Bruzzano. Spara Paolo Pittella per gambizzare. Lo fa a volto scoperto. Nessuno parla. Lo arrestano il 13 marzo, dopo una lunga caccia tra le case popolari del quartiere dei fiumi a Bruzzano.

Calabrese di Isola di Capo Rizzuto, Pittella più volte è stato controllato assieme a Gino Pompeo, nipote di Mimmo e con Salvatore Geraci segnalato per essere “un pluripregiudicato per rapina, sequestro di persona, armi e droga”. Gino è uno degli eredi. Core business: la gestione dei cosiddetti paninari. Equilibri dunque. Dopo il funerale soprattutto. Non semplici da gestire. Come successo il 3 marzo scorso. A Quarto Oggiaro viene gambizzato Gianluca Ricatti, classe ’89, figlio di Giuseppe, già legato al crimine influente della zona di piazzale Loreto. Spari, sostengono gli investigatori, per regolare i conti della droga, dopo la morte di Pompeo. Oltre Quarto Oggiaro, il ponte di via Palizzi, c’è piazza Prealpi. Strati di ’ndrangheta, uno sull’altro, epoca dopo epoca. Il clan Di Giovine ieri e oggi. E un ultimo boss, catturato latitante in Spagna, che sceglie di collaborare. Sul piatto dei primi colloqui tanta droga e un progetto di attentato a una personalità delle istituzioni.

E poi c’è l’ultima tappa. Forse la più grave e importante. Ultima perché ancora insvelabile. Coperta da decine di omissis. Tra le pieghe, un’area precisa dell’hinterland e una cooperativa sociale che lavora con i carcerati, messa in piedi da chi la galera l’ha conosciuta per un concorso in omicidio. E ora il lavoro accelera, grazie ai contatti direttissimi con politici della zona e anche sindaci, nati e cresciuti alla scuola del Pd. È Mafia Capitale. Ma non si può dire. Appalti pubblici e nuovi assunti in cooperativa. Molti che arrivano dal passato criminale. Uno, in particolare, che con un fine pena 2030 (circa) per omicidio, grazie alla cooperativa ottiene la semilibertà, e si rimette nel gioco balordo. Volti, nomi, equilibri, politica. È la città criminale 2.0.

Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 19/03/2017, 22:32
da UncleTom
PER CHI SUONA LA POLTRONA


ANGELINO JOLIE, L'A CHIAMATA AP, ALTERNATIVA POPOLARE, MA IN REALTA' SI TRATTA DI ALTERNATIVA POLTRONIFERA.

IL "POPOLARE" E' SOLO PER MERLONI GIGANTI, CHE IN ITALIA CRESCONO PIU' DEI FUNGHI.





Grandi manovre al centro: gli ex Dc tornano alla riscossa

Alfano scioglie Ncd e fonda Ap: noi il popolarismo

Massimiliano Scafi - Dom, 19/03/2017 - 08:40

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Roma - Sì, sono proprio loro, sono tornati, sono i democristiani. Pensi che siano sfioriti, dimenticati, trapassati, invece rieccoli in pista, come il Fanfani turacciolo inaffondabile di cui scriveva Montanelli.

Tramonta il maggioritario, rispunta il proporzionale, ricambia il piccolo mondo antico della politica italiana, ma nel senso gattopardesco, in realtà non cambia nulla. Ecco così Angelino Alfano che annuncia lo scioglimento della sua creatura, l'Ncd. «D'ora in avanti ci chiameremo Ap, Alternativa popolare». E metteteci pure Marco Follini, che rientrerà in presto in campo perché, spiega, «spira un vento dc».

Né a destra né a sinistra, un po' di qua e un po' di la, basta che sia garantita la stabilità e la governabilità, e soprattutto l'utilità marginale delle posizioni intermedie, di collegamento. E la prima mossa del ministro degli Esteri è quella di cancellare ogni residuo riferimento al centrodestra, a partire dal nome. Giorgia Meloni ironizza: «Il nuovo partito? Alternativa (alla volontà) popolare». L'ex iena Emilio Lucci organizza un pianto d'addio all'Ncd con tanto di prefiche e carro funebre davanti alla sede del congresso. Alfano non si scompone. «Noi - dice - siamo qui per voltare pagina. Siamo chiamati a organizzare un movimento politico e chiamati a ripartire pur non essendoci mai fermati» Lo slogan può sembrare banale, «il coraggio di costruire. Insieme». In realtà sottintende un'operazione almeno sulla carta ambiziosa, che non si limita a riposizionare uno dei tanti cespugli del parco parlamentare del Belpaese.

Attenzione, spiega Alfano, «noi non viriamo a sinistra e siamo alternativi a chi dice solo vaffa o vuole lasciare l'Europa», Però, aggiunge, «oggi è tecnicamente impossibile la missione di innovare il centrodestra, anche perché un pezzo di fondamentale, Forza Italia, ha deciso di allearsi con i lepenisti provocando un travaso di voti da Fi alla Lega Nord e ad altri a destra. La nostra scelta è invece quella del popolarismo europeo, il nostro avversario è l'area anti-europea». Quanto alle alleanze, «vogliamo essere indipendenti, siano gli altri a cercarci».

Dunque, grandi manovre al centro, peraltro già parecchio affollato. Ma si sa, i democristiani sono come le palline di mercurio, litigano e si dividono e poi finiscono sempre per riunirsi. Ed è questa l'aria che deve aver fiutato Follini, la voglia di Balena Bianca. «Il tema all'ordine del giorno - racconta al Corriere - è la coesione e, poiché l'unico progetto di unificazione del Paese è quello interpretato dai democristiani, forse abbiamo ancora qualcosa di dire. Esiste un Italia lontana da Grillo e il culto della leadership è finito».

Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 20/03/2017, 4:33
da UncleTom
Minzolini, Pd tra sensi di colpa e schizofrenia
Le mille giravolte di un partito senza guida


Tre giorni dopo il voto Delrio parla di errore, ma un’altra renziana, la Di Giorgi, rivendica la scelta
Perfino “l’Unità” critica i senatori democratici, ma nel frattempo nessuno dei candidati vuole parlarne
Politica
Renzi in silenzio e al massimo concede confusi retroscena. Il suo braccio destro a giorni alterni Delrio condanna tutto. I candidati alla segreteria del Pd Orlando e Emiliano quasi muti. Poi ci sono i senatori renziani che difendono la loro scelta, come la Di Giorgi che ripete ancora che il processo all’ex direttore del Tg1 è stato imparziale, nonostante perfino uno degli autori della legge (Patroni Griffi) ripeta che l’unica cosa che deve fare il Parlamento è verificare se c’è stata una condanna o no. Il Pd sembra in preda alla schizofrenia, tra mea culpa tardivi, responsabilità di nessuno, rivendicazioni e parecchi silenzi
di Martina Castigliani

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Minzolini, il Pd tra sensi di colpa e schizofrenia. Le mille giravolte di un partito senza guida


Politica

Tre giorni dopo il voto il ministro Delrio parla di errore, ma un'altra renziana, la Di Giorgi, rivendica la scelta. Perfino "l'Unità" critica i senatori democratici, ma nel frattempo nessuno dei candidati vuole parlarne
di Martina Castigliani | 19 marzo 2017


Matteo Renzi in silenzio e al massimo concede confusi retroscena. Il suo braccio destro a giorni alterni Graziano Delrio condanna tutto, della serie “errore, buh, schifo, dimenticare per sempre”. I candidati alla segreteria sbiancano se solo viene toccato l’argomento Minzolini: Andrea Orlando, quello che dovrebbe essere di sinistra per davvero, dice che come ministro della Giustizia non può commentare (allora chi deve commentare se la legge non viene rispettata?); Michele Emiliano si è descritto come “addolorato” e ha mandato timidamente avanti i suoi. A difendere la scelta di votare contro la decadenza di Augusto Minzolini da senatore, condannato a 2 anni e 6 mesi per peculato, sembrano rimasti solo quei renziani che hanno votato per il salvataggio. Ad esempio Rosa Maria Di Giorgi che sul Corriere della Sera si spinge spavalda a dire che “il trattamento giudiziario nei confronti del giornalista e ora parlamentare non è stato imparziale”. Una giustificazione che forse all’inizio poteva trovare qualche sponda, ma che più passano le ore e più viene accolta da un silenzio imbarazzato. Tanto che la domanda sorge spontanea: ma qualcuno nel Partito democratico aveva valutato gli effetti di lasciare libertà di coscienza su un tema tanto delicato oppure ormai è “libera tutti” e viva l’anarchia? Qualcuno lo ha deciso a tavolino oppure il capogruppo Luigi Zanda si è svegliato e ha scelto in base all’umore del momento? Nonostante le innumerevoli dichiarazioni di queste ore, è impossibile avere una risposta. Perfino l’Unità non riesce a stare a guardare e il giornalista Maria Lavia, di solito molto vicino alle posizioni di Renzi, pubblica un pezzo dal titolo “I nove punti critici del voto del Pd” dove scrive, testuale, “che il Parlamento non è un passacarte, ma nemmeno un quarto grado di giudizio”.




Insomma, i dirigenti di un Pd senza testa né coda si rendono conto piano piano dell’effetto che il voto in Parlamento può avere nei prossimi mesi e soprattutto sul piano elettorale. Sul tema oggi si è esposto anche il “tecnico” Filippo Patroni Griffi, ex ministro del governo Monti che scrisse con Paola Severino la legge in questione e che ora è presidente aggiunto del consiglio di Stato. “Cambiare la Severino?”, ha detto in un’intervista a Repubblica. “È una valutazione della politica, l’attività legislativa è libera. Poi, naturalmente, una volta che c’è la legge, anche il Parlamento vi è soggetto, come da due secoli insegnano i costituzionalisti inglesi e in genere il costituzionalismo occidentale”, ha spiegato con il pizzico di ironia di chi si deve rimettere a spiegare le basi. Per quanto riguarda il tanto rievocato problema del fumus persecutionis, motivo per cui Minzolini sarebbe stato salvato, dice: “Il problema del fumus si pone soprattutto nella fase delle indagini e per le misure cautelari. Proprio perché vige la separazione dei poteri, il giudice deve accertare se c’è stato il reato. Il Parlamento deve controllare che ci siano i presupposti per la decadenza”. Insomma, inutile insistere, è previsto ben poco margine di manovra per i parlamentari che invece non hanno avuto dubbi a operare nel senso opposto.

Il problema di cui si stanno rendendo conto i democratici è che ora tocca spiegarlo agli elettori. Quegli stessi che a malincuore stavano digerendo la sconfitta al referendum costituzionale che ha lacerato il partito e quegli stessi che si trovano a leggere le evoluzioni dell’inchiesta sugli appalti Consip sui giornali con il coinvolgimento di Tiziano Renzi e del ministro Luca Lotti. La prima a rendersene conto è stata Angela Finocchiaro: la ministra per i Rapporti con il Parlamento, come documentato da ilfattoquotidiano.it, si è presentata a Reggio Emilia per un incontro con i circoli e ha trovato una platea esasperata. “Come faccio a convincere i miei figli a non votare M5s?”, gli ha chiesto un signore dalla platea, uno di quelli che probabilmente è cresciuto tra feste dell’Unità e fiducia cieca al partito. L’arringa di risposta è stata molto accalorata e si è concentrata sulla necessità di arginare il populismo che avanza “lisciando il pelo alle paure della gente”, ma a domanda diretta sul caso Minzolini nessuna risposta.

Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 20/03/2017, 8:11
da UncleTom
UncleTom ha scritto:Minzolini, Pd tra sensi di colpa e schizofrenia
Le mille giravolte di un partito senza guida


Tre giorni dopo il voto Delrio parla di errore, ma un’altra renziana, la Di Giorgi, rivendica la scelta
Perfino “l’Unità” critica i senatori democratici, ma nel frattempo nessuno dei candidati vuole parlarne
Politica
Renzi in silenzio e al massimo concede confusi retroscena. Il suo braccio destro a giorni alterni Delrio condanna tutto. I candidati alla segreteria del Pd Orlando e Emiliano quasi muti. Poi ci sono i senatori renziani che difendono la loro scelta, come la Di Giorgi che ripete ancora che il processo all’ex direttore del Tg1 è stato imparziale, nonostante perfino uno degli autori della legge (Patroni Griffi) ripeta che l’unica cosa che deve fare il Parlamento è verificare se c’è stata una condanna o no. Il Pd sembra in preda alla schizofrenia, tra mea culpa tardivi, responsabilità di nessuno, rivendicazioni e parecchi silenzi
di Martina Castigliani

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Minzolini, il Pd tra sensi di colpa e schizofrenia. Le mille giravolte di un partito senza guida


Politica

Tre giorni dopo il voto il ministro Delrio parla di errore, ma un'altra renziana, la Di Giorgi, rivendica la scelta. Perfino "l'Unità" critica i senatori democratici, ma nel frattempo nessuno dei candidati vuole parlarne
di Martina Castigliani | 19 marzo 2017


Matteo Renzi in silenzio e al massimo concede confusi retroscena. Il suo braccio destro a giorni alterni Graziano Delrio condanna tutto, della serie “errore, buh, schifo, dimenticare per sempre”. I candidati alla segreteria sbiancano se solo viene toccato l’argomento Minzolini: Andrea Orlando, quello che dovrebbe essere di sinistra per davvero, dice che come ministro della Giustizia non può commentare (allora chi deve commentare se la legge non viene rispettata?); Michele Emiliano si è descritto come “addolorato” e ha mandato timidamente avanti i suoi. A difendere la scelta di votare contro la decadenza di Augusto Minzolini da senatore, condannato a 2 anni e 6 mesi per peculato, sembrano rimasti solo quei renziani che hanno votato per il salvataggio. Ad esempio Rosa Maria Di Giorgi che sul Corriere della Sera si spinge spavalda a dire che “il trattamento giudiziario nei confronti del giornalista e ora parlamentare non è stato imparziale”. Una giustificazione che forse all’inizio poteva trovare qualche sponda, ma che più passano le ore e più viene accolta da un silenzio imbarazzato. Tanto che la domanda sorge spontanea: ma qualcuno nel Partito democratico aveva valutato gli effetti di lasciare libertà di coscienza su un tema tanto delicato oppure ormai è “libera tutti” e viva l’anarchia? Qualcuno lo ha deciso a tavolino oppure il capogruppo Luigi Zanda si è svegliato e ha scelto in base all’umore del momento? Nonostante le innumerevoli dichiarazioni di queste ore, è impossibile avere una risposta. Perfino l’Unità non riesce a stare a guardare e il giornalista Maria Lavia, di solito molto vicino alle posizioni di Renzi, pubblica un pezzo dal titolo “I nove punti critici del voto del Pd” dove scrive, testuale, “che il Parlamento non è un passacarte, ma nemmeno un quarto grado di giudizio”.




Insomma, i dirigenti di un Pd senza testa né coda si rendono conto piano piano dell’effetto che il voto in Parlamento può avere nei prossimi mesi e soprattutto sul piano elettorale. Sul tema oggi si è esposto anche il “tecnico” Filippo Patroni Griffi, ex ministro del governo Monti che scrisse con Paola Severino la legge in questione e che ora è presidente aggiunto del consiglio di Stato. “Cambiare la Severino?”, ha detto in un’intervista a Repubblica. “È una valutazione della politica, l’attività legislativa è libera. Poi, naturalmente, una volta che c’è la legge, anche il Parlamento vi è soggetto, come da due secoli insegnano i costituzionalisti inglesi e in genere il costituzionalismo occidentale”, ha spiegato con il pizzico di ironia di chi si deve rimettere a spiegare le basi. Per quanto riguarda il tanto rievocato problema del fumus persecutionis, motivo per cui Minzolini sarebbe stato salvato, dice: “Il problema del fumus si pone soprattutto nella fase delle indagini e per le misure cautelari. Proprio perché vige la separazione dei poteri, il giudice deve accertare se c’è stato il reato. Il Parlamento deve controllare che ci siano i presupposti per la decadenza”. Insomma, inutile insistere, è previsto ben poco margine di manovra per i parlamentari che invece non hanno avuto dubbi a operare nel senso opposto.

Il problema di cui si stanno rendendo conto i democratici è che ora tocca spiegarlo agli elettori. Quegli stessi che a malincuore stavano digerendo la sconfitta al referendum costituzionale che ha lacerato il partito e quegli stessi che si trovano a leggere le evoluzioni dell’inchiesta sugli appalti Consip sui giornali con il coinvolgimento di Tiziano Renzi e del ministro Luca Lotti. La prima a rendersene conto è stata Angela Finocchiaro: la ministra per i Rapporti con il Parlamento, come documentato da ilfattoquotidiano.it, si è presentata a Reggio Emilia per un incontro con i circoli e ha trovato una platea esasperata. “Come faccio a convincere i miei figli a non votare M5s?”, gli ha chiesto un signore dalla platea, uno di quelli che probabilmente è cresciuto tra feste dell’Unità e fiducia cieca al partito. L’arringa di risposta è stata molto accalorata e si è concentrata sulla necessità di arginare il populismo che avanza “lisciando il pelo alle paure della gente”, ma a domanda diretta sul caso Minzolini nessuna risposta.
COMPLETO ORA L'ARTICOLO PERCHE' QUESTA NOTTE MI E' STATA IMPEDITA L'INTERA PUBBLICAZIONE


Forse anche per questo motivo, i democratici ora cercano di scaricare colpe e responsabilità. Il ministro ai Trasporti Graziano Delrio, intervistato da Repubblica, ha detto che “sì, è stato un errore e si poteva evitare”. Anzi ha aggiunto che lui non avrebbe fatto come quei renziani che hanno salvato Minzolini: “Io avrei votato per la decadenza”, ha detto. “Rispetto le opinioni di tutti, non do lezioni, ma non avrei avuto dubbi. Il Paese ha bisogno di chiarezza, non devono esistere privilegiati di fronte alla legge”. Quindi “il liberi tutti” concesso dal Pd “si poteva evitare”: “I nostri senatori votano come credono, ma non avrei lasciato la libertà di coscienza. Il caso Minzolini va oltre il merito: abbiamo dato un messaggio sbagliato“. Intendiamoci, resta un renziano quando non chiude alla necessità di rivedere la Severino (sempre con il dubbio grande come una casa del “come”): “Alcuni aspetti vanno rivisti, nessuna legge è perfetta. Ma ha un principio giusto, che difendo: chi governa ha il dovere di essere più trasparente di chi è governato”.

Delrio parla per sé o va avanti per mettere nero su bianco il pensiero di Renzi? Resta il fatto che la sua è la presa di posizione più netta dentro il Pd. Un po’ a sorpresa, per chi ancora ha voglia di sorprendersi, il voto non è diventato argomento di campagna congressuale in vista delle primarie. Prendiamo ad esempio il candidato Orlando. A domanda diretta, a margine di un incontro della sinistra Pd a Roma, ha risposto: “Non mi pronuncio su questi temi per ragioni di carattere istituzionale“. La replica arriva dallo stesso Lavia su l’Unità: quella del Parlamento “era una scelta politica e non una sentenza giudiziaria, quindi poteva commentare benissimo“. Non che l’avversario Michele Emiliano abbia fatto le barricate: “Rispetto il voto del Senato che pure mi ha addolorato”, ha detto a corpo ancora caldo. “Non voglio farmi tirare dentro queste cose”. Poi più passano le ore e più i suoi sembrano essersi resi conto che forse potrebbe essere tema da campagna congressuale. Per il deputato Simone Valiante “è un doppiopesismo imbarazzante” e per il collega Dario Ginefra la frittata è fatta: “Delrio su Minzolini dice cose sagge, ma fuori tempo massimo. Dobbiamo imparare ad intervenire un attimo prima e non un attimo dopo degli eventi, altrimenti le nostre sembreranno lacrime di coccodrillo anche quando saranno semplicemente l’implicita ammissione dell’assenza di una guida del partito come luogo di orientamento delle scelte”.

In difesa del voto resta qualche sopravvissuto. Ad esempio la De Giorgi che al Corriere, senza nessun timore, ha raccontato il perché del salvataggio: “Non c’è stato alcun ordine di scuderia, il gruppo ha lasciato libertà di coscienza”. Anche nel 2013, per Silvio Berlusconi, “il capogruppo Zanda non diede indicazioni di voto”, ha spiegato. “Io allora non ebbi dubbi e votai per la decadenza. Berlusconi aveva commesso un reato grave e non ravvisai alcun fumus persecutionis” (niente, dal fumus non escono). Quanto all’ex direttore del Tg1, invece, “non entro nel merito della tragica storia di quella carta. Minzolini restituì i soldi, poi la Corte dei Conti disse che la Rai doveva ridare i soldi a Minzolini. Fino alla denuncia di Di Pietro, che portò all’assoluzione in primo grado e infine alla condanna. L’accusa chiese due anni, invece gliene diedero due e mezzo, con anche la pena accessoria”. Per la De Giorgi c’è stato un trattamento imparziale per Minzolini a livello giudiziario: “Tutto chiaro non è. Noi, che abbiamo una certa età e studiamo più degli altri, abbiamo ravvisato parecchio fumus persecutionis. È eccessivo dare una pena in più perché l’imputato è un politico, sospettiamo un accanimento“.

Renzi non si esprime, almeno non direttamente sperando che la faccenda venga dimenticata in fretta. Ma questa volta potrebbe volerci più tempo del solito anche per la memoria da pesce rosso degli italiani. Di sicuro la scelta non fa bene in vista delle primarie e della campagna elettorale e i 5 stelle si mettono sulla scia per raccogliere più voti possibile anche da questa nuova trovata del Pd. Oggi è toccato ad esempio al deputato Alessandro Di Battista intervenire: “Dopo il salvataggio eversivo di Minzolini”, ha scritto su Facebook, “dissi che Renzi probabilmente avrebbe preso le distanze. Beh lui non ha ancora commentato tuttavia l’ha fatto un suo uomo di fiducia: il ministro Delrio. ‘Abbiamo dato un messaggio sbagliato’, ha detto. Non si tratta di un messaggio sbagliato ma di un’istigazione a delinquere. I senatori che hanno salvato Minzolini hanno dato questo messaggio al Paese: ‘Fate reati, violate la legge, delinquete, è tutto permesso!’. Hanno, ufficialmente, istituzionalizzato il crimine”. Nessun esponente del Pd ha potuto avere – almeno per ora – la forza di smentirlo.

Re: Diario della caduta di un regime.

Inviato: 20/03/2017, 11:51
da UncleTom
NEL SEGNO DEL DECADIMENTO TOTALE





“Don Ciotti sbirro. Più lavoro meno sbirri”
A Locri la ‘ndrangheta scrive sui muri



Le parole sono comparse nella notte sul Vescovado che in questi giorni ospita il presidente di Libera
Il procuratore De Raho: “Strategia delle ‘ndrine”. Il sacerdote: “Segno che nostro impegno dà fastidio”
Mafie
“Più lavoro meno sbirri“. E ancora: “Don Ciotti è sbirro“. Non sono passate neanche 24 ore dal duro intervento antimafia del presidente Sergio Mattarella che a Locri compaiono due scritte inquietanti. Due messaggi tracciati nella notte sui muri del Vescovado da mano ignota che incitano chiaramente alla ‘ndrangheta proprio nei giorni in cui la cittadina calabrese è stata scelta come tappa fondamentale della Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime della mafia
di F. Q.