IL PUNTO DI VISTA DI MARCO DAMILANO
Scenari
L'ultima speranza dei partiti per salvarsi dal M5S: ricostruire il vecchio bipolarismo
I grillini sono da mesi in testa ai sondaggi. Centrosinistra e centrodestra hanno una sola strategia possibile per non perdere: ricompattarsi grazie a una legge elettorale che favorisca le coalizioni. Ma i problemi e le incognite non mancano
di Marco Damilano
21 aprile 2017
Silvio Berlusconi e Matteo Renzi Il sistema «sembra assoggettarsi senza resistenza a due spinte esattamente opposte, l’istinto di conservazione e un’oscura volontà di autoannientamento», lo scriveva Edmondo Berselli sul “Mulino”, era l’autunno del 1991 e quell’articolo si intitolava “L’ultima recita dei partiti”. Venne poi il 1992, nel Parlamento di oggi pochi ricordano quelle giornate in cui cominciò la legislatura numero undici, la più breve e drammatica della storia repubblicana: il voto del 5 aprile con il successo della Lega di Umberto Bossi e la maggioranza di pentapartito traballante, gli avvisi di garanzia dei pm di Milano agli ex sindaci di Milano socialisti e craxiani Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, le dimissioni anticipate di Francesco Cossiga dal Quirinale, il voto per il nuovo presidente della Repubblica segnato dalla strage di Capaci per assassinare Giovanni Falcone il 23 maggio, il leader designato per Palazzo Chigi Bettino Craxi costretto a rinunciare. In poche settimane l’inizio dell’inchiesta Mani Pulite e la fine di una classe dirigente.
Un quarto di secolo dopo la storia sembra ripetersi. Di nuovo gli interventi della magistratura sembrano dettare i tempi della politica: il pasticciaccio brutto dell’inchiesta Consip, con l’indagine della procura di Roma che si sposta sul capitano dei carabinieri del Noe Gianpaolo Scafarto, accusato di aver manipolato le prove contro Tiziano Renzi, la sentenza del tribunale civile di Genova che riscrive le regole del Movimento 5 Stelle e strappa a Beppe Grillo il potere di arbitrio assoluto nei confronti degli iscritti. Ma non è un ritorno di Tangentopoli, genere ormai asfittico, dopo venticinque anni di riforme dell’etica pubblica mancate e arresti per corruzione a ripetizione. Il 1992 si ripresenta attuale per ragioni tutte politiche: per la paralisi e il fatalismo con cui i partiti della maggioranza uscente si avviano alle elezioni, quando sarà il momento.
In una giornata qualsiasi di votazioni alla Camera, nel Transatlantico sempre più vuoto di notizie e di leader, può capitare di sentire discorsi sull’invincibilità del Movimento 5 Stelle e sull’inevitabile scenario spagnolo, la possibilità di più elezioni in un anno. «La partita si sposta al 2019, il voto del 2018 sarà a vuoto», prevede Pino Pisicchio, il veterano, era già alla seconda legislatura nel 1992, presidente del gruppo Misto, il quarto più numeroso dopo Pd, M5S e Forza Italia, il risultato dei tanti cambi di casacca.
Gli unici a pensarla diversamente - si aggirano con l’aura dei grandi favoriti - sono i deputati 5 Stelle. Alessandro Di Battista sembra più scaltro di Massimo D’Alema: «Se alle elezioni arriviamo primi, chiederemo l’incarico di formare il governo che spetta alla lista più votata, al partito di maggioranza relativa. Poi andremo di fronte alle Camere con un nostro governo e un programma in pochi punti. Il Parlamento dovrà decidere se farci andare avanti o no. E vediamo chi avrà il coraggio di dirci di no».
Il Movimento 5 Stelle, stabile nei sondaggi intorno al 30 per cento , è da mesi in testa alle preferenze degli elettori se si votasse per i partiti con un sistema proporzionale, com’era stato indicato per oltre un anno come sicuro vincitore del ballottaggio, nel secondo turno previsto dall’Italicum, prima che la Corte costituzionale lo eliminasse con la sentenza di incostituzionalità. Se si vota uno contro uno, il movimento di Grillo e di Davide Casaleggio sembra in grado di raccogliere consensi trasversali, a destra, a sinistra e al centro, come ha dimostrato Ilvo Diamanti (“Repubblica”, 10 aprile): il partito «piglia-tutti», il più capace di adattarsi alle diverse dinamiche elettorali. Tranne una, in effetti. Se tornassero le vecchie coalizioni che si scambiarono il potere negli anni della Seconda Repubblica, una legislatura a testa tra centrodestra e centrosinistra, lo spazio di manovra di M5S si ridurrebbe in modo consistente.
È questo il tallone di Achille del Movimento guidato da Grillo e Casaleggio. Il divieto di stringere alleanze con altri partiti di fronte agli elettori, previsto dalle regole, l’unico dogma delle origini finora sopravvissuto. Tutti gli altri (il divieto di andare in tv, la perdita della rappresentatività del Movimento in caso di indagine) sono via via caduti, resta la rivendicazione della purezza iniziale, nessun accordo è possibile, il Movimento corre sempre da solo.
È una forza perché nel supermarket delle sigle e dei simboli elettorali rende il M5S riconoscibile, con un’identità forte e non confusa con gli altri partiti. Ma è una debolezza sul piano numerico, qualora gli altri partiti decidessero di ritrovarsi insieme in coalizione.
Gli ultimi sondaggi danno i 5 Stelle al primo posto tra le liste: tra il 28 e il 31 per cento secondo Euromedia Research e Tecné, nonostante la rissa interna finita alle carte bollate a Genova e l’incapacità di costruzione di una nuova classe dirigente. Il Pd segue distanziato, tra il 25 e il 26 per cento. Il terzo partito, Forza Italia, è molto più giù, tra il 13 e il 14 per cento.
Se tornassero le coalizioni stile Ulivo o stile Casa delle libertà il gioco cambierebbe, però. Il centrosinistra unito, Pd più gli scissionisti di Mdp più il Campo progressista di Giuliano Pisapia, arriverebbe a superare il 31 per cento. Il centrodestra unito, Forza Italia più la Lega di Matteo Salvini più Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, sarebbe sopra il 32 per cento. Sul piano puramente aritmetico, M5S che nel voto di lista è primo, con le coalizioni arriverebbe terzo, sia pure di poco.
Sul piano politico l’effetto potrebbe essere ancora più significativo: ritornare al centrosinistra contro il centrodestra vecchio stile avrebbe l’effetto di ripristinare il sentimento di appartenenza di un pezzo di elettorato, il voto utile, il ritorno sulla scena delle categorie politiche del Novecento, destra contro sinistra. Mentre la proporzionale senza partiti che si sta preparando è un indistinto in cui ciascun partito si presenta sul mercato elettorale con l’ambizione di rappresentare tutti senza fare una scelta di generazione, di identità politica, classe sociale, territorio geografico: ancora una volta favorisce il Movimento 5 Stelle, il più attrezzato a contenere un elettorato che si sente tutto e il contrario di tutto, una galassia in espansione che raccoglie e assorbe tutto quello che trova.
Alle elezioni amministrative, dove c’è il doppio turno e l’elezione diretta del sindaco, gli schieramenti sono più facili da comporre, centrosinistra e centrodestra si presentano quasi ovunque uniti e il Movimento 5 Stelle fatica ad arrivare al ballottaggio, nonostante il consenso in molte città di un terzo o quasi dell’elettorato.
A Genova, la città più importante che va al voto di giugno, M5S è accreditato del 28 per cento, nonostante la dilaniante spaccatura interna , ma il centrosinistra che governa da sempre sotto la Lanterna è dato dai sondaggi sopra il 30 e il centrodestra del presidente ligure Giovanni Toti è dato più o meno alla pari. Nel 2015 il centrosinistra perse le elezioni regionali per la rottura tra il Pd e la sinistra guidata da Sergio Cofferati. Oggi l’ex segretario della Cgil, uscito dal Pd e tra i promotori di Sinistra italiana, lavora per una lista alla sinistra del Pd, ma gli scissionisti di Pier Luigi Bersani hanno già deciso di sostenere il candidato del Pd Gianni Crivello. Va così più o meno dappertutto: la scissione del Pd, lacerante sul piano nazionale, nelle città al voto è come se non fosse mai esistita. Troppo alto il rischio per gli scissionisti di finire sul banco degli accusati come responsabili della sconfitta e anche il Pd non ha nessuna voglia di perdere le città che governa. Allearsi diventa un imperativo.
Anche le elezioni di un anno fa confermano che centrosinistra e centrodestra uniti fanno risorgere l’antico bipolarismo e tolgono spazio al Movimento grillino. A Roma, dove gli schieramenti classici si sono presentati in ordine sparso, a destra la Lega con Giorgia Meloni e Forza Italia con Alfio Marchini, a sinistra il pd Roberto Giachetti separato da Stefano Fassina, ex pd poi in Sinistra italiana, M5S ha stravinto con Virginia Raggi. A Milano gli schieramenti classici ricomposti da Giuseppe Sala e da Stefano Parisi hanno condannato i 5 Stelle all’irrilevanza.
Perché, allora, Matteo Renzi si dimostra così riluttante a proporre una legge elettorale che consegni il premio di maggioranza alla coalizione che supera il 40 per cento (e non al partito, come oggi)? C’è chi giura che si tratti di una posizione soltanto tattica: dopo le primarie del 30 aprile e la sempre più probabile vittoria e la rielezione alla segreteria del Pd per Renzi cambierà tutto. E c’è chi pensa, invece, che Renzi non abbia nessuna voglia di spingere per un ritorno al passato delle coalizioni perché significherebbe dover arrivare a una trattativa con i fuoriusciti del Pd, scenario che l’ex premier considera come una condanna al patibolo, lui preferirebbe vederli eliminati dal Parlamento con il voto degli elettori.
Ma forse c’è una ragione più profonda che motiva Renzi a tenere duro sul voto per le liste e non per i partiti. «Nel gioco della proporzionale è il momento dei leader che sanno ricucire gli strappi, è l’ora dei federatori, è il momento dei Forlani», spiega Pisicchio che ai sistemi elettorali e alle loro «parole ipnotiche» (preferenze, collegi uninominali, premi di maggioranza, soglie di sbarramento) ha appena dedicato un agile manuale (“Come funzionano le leggi elettorali”).
Arnaldo Forlani, il Coniglio mannaro, come lo aveva ribattezzato Giampaolo Pansa, fu negli anni Ottanta il mediatore tra le diverse correnti della Dc e tra lo Scudocrociato e Bettino Craxi. Oggi potrebbe avvicinarsi a quelle caratteristiche il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, anche se, fa notare Pisicchio, «Forlani era il capo di una corrente, Gentiloni no. Ma di certo Renzi sa di non avere queste caratteristiche: per lui tornare a Palazzo Chigi sarà difficile, per questo per ora ha deciso di interpretare il ruolo del segretario che ha il pieno controllo del Pd e poi, dopo il voto, sedersi al tavolo per trattare con gli altri partiti».
I centristi ovunque dislocati puntano sul ritorno della coalizione nella legge elettorale: il partito di Angelino Alfano, potentissimo in questa legislatura a dispetto del peso elettorale, rischia di non rientrare in Parlamento se non trova un partner più grosso cui associarsi. «I partiti maggiori, Pd, M5S, destra unita fanno grosso modo trenta, trenta e trenta. Resta fuori il dieci per cento dell’elettorato, quello che fa vincere o perdere, noi dobbiamo rappresentarlo», dice il ministro degli Esteri ai suoi interlocutori. Le ricerche dei sondaggisti, però, lo danno lontanissimo da quell’obiettivo, intorno al 2 per cento. E il tentativo di aggregarsi in una coalizione diventa per i centristi una questione di sopravvivenza.
Lo stesso progetto potrebbe interessare Denis Verdini, ma anche Bersani e Massimo D’Alema a sinistra e Gianni Alemanno a destra. Anche se c’è chi pensa che la nuova alleanza potrebbe nascere dopo il voto: un tripartito Pd-Forza Italia-centristi. Soltanto la possibilità di evocare una formula che arriva dal passato remoto della Repubblica indica la situazione in cui il sistema politico si troverà dopo il voto, se non si cambia strada rapidamente.
Anche il ritorno delle coalizioni in un quadro proporzionale presenta numerose controindicazioni: rimette in gioco piccoli partiti, notabilati, leadership marginali. E il nuovo bipolarismo, se mai sarà approvata una legge elettorale in questa direzione dopo le primarie del Pd e il voto amministrativo, avrà in ogni caso caratteristiche diverse dal passato.
Non raccoglierà più la quasi totalità dell’elettorato, come successo nel 2006 o nel 2008, quando fuori dai due schieramenti non c’era nulla o quasi e chi provò a restare fuori dalle coalizioni principali non rientrò in Parlamento, come la Sinistra arcobaleno di Fausto Bertinotti, o a fatica, come l’Udc di Pier Ferdinando Casini.
Non c’è più la distinzione destra-sinistra e neppure il muro che ha separato negli anni della Seconda Repubblica i berlusconiani dagli anti-berlusconiani. I confini tra un campo e l’altro sono mobili e rendono difficile qualunque tentativo di costruire una solida maggioranza di governo.
Ma è anche l’unico modo che Renzi e Silvio Berlusconi hanno per ripristinare un principio d’ordine per il sistema politico che non sia la semplice resa. Arrendersi non tanto all’avvento del Movimento 5 Stelle, che ha bisogno del consenso degli elettori, quanto al revival della proporzionale che sta già condizionando le mosse di tutti i capipartito ben più della prospettiva di una vittoria di Grillo. Un cupio dissolvi, una volontà di autoannientamento, come nel 1992, un quarto di secolo fa.
© Riproduzione riservata 21 aprile 2017
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