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Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 23/04/2017, 9:08
da UncleTom
DAVIGO IN VIDEO
Corruzione, Davigo: “Conseguenze economiche? In Italia opere pubbliche costano tanto. Poi crollano i viadotti”
di Alessandro Sarcinelli | 22 aprile 2017
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Più informazioni su: Corruzione, Piercamillo Davigo
“La corruzione è anche un fatto economico”. Lo spiega Piercamillo Davigo, a margine di un incontro sul tema della corruzione a Tempo di Libri (evento in corso a Milano): “In Italia le opere pubbliche costano il doppio rispetto all’estero, poi crollano i viadotti, crollano le scuole il giorno dopo l’inaugurazione. Non solo sono care ma sono anche fatte male”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04 ... i/3536998/
Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 23/04/2017, 9:18
da UncleTom
“In Italia le opere pubbliche costano il doppio rispetto all’estero, poi crollano i viadotti, crollano le scuole il giorno dopo l’inaugurazione. Non solo sono care ma sono anche fatte male”.
LA RIFLESSIONE DI DAVIGO E' INCOMPLETA!!!!!
PERCHE' NON SI CHIEDE PER QUALE RECONDITO MOTIVO GLI ITALIANI, DI FRONTE A QUESTA REALTA', SI LIMITANO SOLO AD EFFETUARE IL "SOLITO" LAMENTO DELLA RANA BOLLITA?????????????????????????????????????????????????????????????????
Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 23/04/2017, 9:34
da UncleTom
PONTE, NO PONTE. TAV, NO TAV.
NEL BEL PAESE FUNZIONA ACCUSSI'.
LIBRE news
Recensioni
segnalazioni.
Paghiamo anche per la Francia l’inutile Tav Torino-Lione
Scritto il 23/4/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Tav Torino-Lione, vero affare. Per chi? Non certo per l’Italia, che pagherebbe in gran parte anche la tratta in territorio francese dell’ipotetico euro-tunnel alpino, già noto come “la grande opera più inutile della storia”. Come da più parti ricordato – non ultimo, l’appello di 360 specialisti universitari italiani, rivolto a Palazzo Chigi e al Quirinale ma rimasto senza riposta – la linea Tav Torino-Lione non servirebbe assolutamente a nulla. Tralasciando il devastante impatto (ambientale, idrogeologico, sulla salute e sulla vivibilità del territorio), la nuova ipotetica ferrovia sarebbe un perfetto “doppione” della attuale linea internazionale Torino-Modane, che già attraversa la valle di Susa. L’autorità svizzera che monitora per conto dell’Ue il trasporto alpino conferma: la ferrovia valsusina è utilizzata al 10% delle sue possibilità per mancanza oggettiva di traffico merci. Potrebbe incrementare del 900% i volumi di traffico, sull’attuale infrastruttura. Tanto più che l’Italia ha appena speso 400 milioni di euro per adeguare il Traforo del Fréjus, oggi adatto a ospitare convogli carichi di container “navali”, della massima pezzatura. Nonostante ciò, si insiste nel voler procedere, a tutti i costi, con la nuova linea, super-costosa e super-inutile.
Il movimento NoTav, in prima linea da molti anni nella contestazione della grande opera, è riuscito a raggiungere e informare l’opinione pubblica italiana, sulla scorta degli studi promossi dai migliori esperti del settore: scartata l’idea iniziale di un Il Tgv francesetreno veloce per passeggeri (infinitamente più costoso dell’aereo, sulla rotta di Parigi, dopo l’avvento dei voli low cost), il progetto si è concentrato sul traffico merci, incorrendo però in un ossimoro di fatto: le merci devono viaggiare lentamente; per motivi di sicurezza, non possono “correre” oltre i 120 chilometri orari. Tutti sanno, inoltre, che – nella logistica del trasporto merci – ciò che conta non è la velocità, ma la puntualità: il miglior sistema di trasporto merci al mondo è quello statunitense, con treni che viaggiano a 60 miglia all’ora. Perché dunque ostinarsi a buttar via miliardi per una nuova linea completamente superflua? «Esclusivamente per ragioni di lucro», sostengono i NoTav: «Il sistema dei mega-appalti è notoriamente ideale per finanziare la politica, ma anche le banche e la criminalità mafiosa, che attraverso i subappalti delle grandi opere riesce a compiere colossali operazioni di riciclaggio di denaro sporco».
«La tratta internazionale della Torino-Lione è per lo più in territorio francese», ricorda il sito “NoTav.info”: dei 57 chilometri del futuro (ancora ipotetico) tunnel di base, destinato a collegare Italia e Francia, soltanto 12 chilometri sarebbero in territorio italiano. «Il Cipe certifica che questo comporta una sostanziale differenza dei costi: le opere in territorio italiano valgono 2,6 miliardi di euro, quelle in territorio francese 6 miliardi. Ma paradossalmente – aggiunge il sito – è proprio l’Italia a dover mettere più soldi». Colpa di Mario Monti, che nel 2012 ha firmato un accordo col governo transalpino in cui impegna l’Italia a pagare il 57,9% del costo totale, lasciando alla Francia il restante 42,1%. «Sempre il Cipe certifica che, prescindendo dal cofinanziamento europeo, questa divisione comporterà per l’Italia un costo di 5 miliardi di euro, mentre per la Francia soltanto di 3,6 miliardi». Morale: «L’Italia in pratica ha molti meno lavori sul proprio territorio ma spenderà assai di più, il che Delrio e Montinon suona come un affare». E non solo: «Anche la connessione elettrica in Francia verrà pagata per lo più con soldi italiani: costa 13,5 milioni di euro e 7,8 li ha promessi il ministero delle infrastrutture, lasciando i restanti 5,7 ai “cugini”».
«Firmare accordi che impiegano in questa maniera i soldi di tutti è vergognoso», chiosa “NoTav.info”. Non esattamente esaltante è l’intera storia della Torino-Lione, bloccata nel 2005 dalla rivolta della popolazione valsusina per fermare quella che, allora, doveva essere una linea ferroviaria superveloce per passeggeri. Dopo cinque anni di stop, nel 2010 è ripresa l’offensiva del governo: tracciato spostato di qualche chilometro e progetto riconvertito all’occorrenza, da passeggeri a merci. Nel frattempo, sgomberati dalla polizia i militanti NoTav a Chiomonte nel 2011, la valle di Susa è diventata anche terreno di scontro duro: da vertenza politica a questione di ordine pubblico, anche con arresti in massa. Ma la domanda di fondo – perché insistere nel voler realizzare quest’opera faraonica – è sempre rimasta inevasa: la politica pretende “obbedienza”, senza però dare spiegazioni. Di recente, il ministro Graziano Delrio ha annunciato che, della nuova linea – fino a ieri presentata come dogma intoccabile – si farebbe addirittura a meno: i treni potrebbero cioè utilizzare i binari attuali, come già oggi fa il Tgv francese in valle di Susa. Resta però il progetto dell’euro-traforo, tuttora “misterioso”. L’unica galleria finora scavata è quella di Chiomonte, un piccolo tunnel geognostico. Cambiano i governi e i ministri, ma non la musica: la Torino-Lione “si deve fare”. Per quale motivo? Non è dato saperlo. Anche se poi, a pagare, è soprattutto l’Italia.
Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 23/04/2017, 9:48
da UncleTom
NEL SITO FRANCESE DOVE SONO PRESENTI I MAGGIORI QUOTIDIANI INTERNAZIONALI, OGGI NON PUBBLICA UNO STRACCIO DI GIORNALE ITALIANO, AD ECCEZZIONE DELLA GAZZETTA DELLO SPORT CHE VIENE COSTANTEMENTE PUBBLICATO E HA UN NUMERO ALTISSIMO DI VISITATORI.
IN QUESTO MOMENTO E' FERMO A 357.
Journal La Gazzetta dello Sport 23-04-2017.pdf
Télécharger357
39.17 Mb
23.04.2017 06:17
LASCIATE OGNI SPERANZA O VOI CHE ENTRATE!!!!!
CON UN POPOLO CHE VA AVANTI PANE E CIRCENS NON SI ANDRA' MAI AVANTI DA NESSUNA PARTE.
Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 23/04/2017, 16:44
da UncleTom
Destra e sinistra, due categorie del pensiero che non esistono più.
PALLE.
E’ QUELLO CHE STRUMENTALMENTE CERTI AMBIENTI TENTANO DI FAR CREDERE, AD UN POPOLO SFIBRATO, ORMAI RIDOTTO AD UN INSIEME DI RANE BOLLITE.
LA SINISTRA ESISTE INDIVIDULAMENTE IN MANIERA POLVERIZZATA.
NON A CASO GRAMSCI AVEVA TITOLATO IL SUO GIORNALE, L’UNITA’.
PERCHE ‘SAPEVA MOLTO BENE CHE E’ L’UNITA’ A FARE LA FORZA.
SEMPRE E OVUNQUE.
QUI INVECE, GLI AVVERSARI, HANNO AVUTO RAGIONE NEL FAVORIRE LA DIVISIONE, LA FRANTUMAZIONE DELLA SINISTRA.
SONO ANNI CHE CI LAVORANO.
E I RISULTATI LI VEDIAMO ORA.
ANCHE LA DESTRA E’ CONFUSA E DIVISA, MA MENO DELLA SINISTRA.
I CAMARADEN, TRAVESTITI DA MODERATI CI TENTANO SEMPRE.
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Mai Milano aveva umiliato così
il sangue di quegli italiani vinti
Giannino Della Frattina
Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 23/04/2017, 17:35
da UncleTom
Cronaca | Di Davide Milosa
Milano, il 25 aprile nero dei camerati
La Lega sdogana i movimenti xenofobi
Video – Pisapia: “È rigurgito neofascista”
Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 23/04/2017, 17:43
da UncleTom
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» Cronaca
sabato 22/04/2017
Milano, il 25 aprile nero dei nuovi fascisti: sdoganati dalla Lega Nord, vogliono riprendersi la città
Prefetto e questore hanno vietato la parata per i caduti di Salò. Ma martedì loro “ci tengono troppo e dunque arriveranno”, fanno sapere dalla Digos. Chi sono? I protagonisti di quella "risacca nera" che oggi trova appoggi nella politica parlamentare e della quale Matteo Salvini e il Carroccio si sono fatti grandi traghettatori. Offrendo ribalta e appoggio in primis al movimento di Lealtà e Azione
VISTO CHE MI STANNO BLOCCANDO IL COPIA INCOLLA IL RESTO DELL'ARTICOLO VEDETELO QUI:
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium ... si-milano/
Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 23/04/2017, 22:00
da UncleTom
SONO SEMPRE LORO, CAMUFFATI DA "MODERATI", CHE NON SOPPORTANO IL SISTEMA.
SANNO GIRARE SEMPRE LA FRITTATA A LORO FAVORE.
FANNO FATICA AD ACCETTARE LA MANCANZA DI FASCISMO DAL PUNTO DI VISTA ISTITUZIONALE.
Mai Milano aveva umiliato così il sangue dei vinti
Giannino Della Frattina - Dom, 23/04/2017 - 12:44
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A Milano si può fare tutto. Ma proprio tutto. Perfino un festival per celebrare le virtù della cannabis, scoprendo che tutto finisce in una gran fumata collettiva con la benedizione del sindaco Sala che ne approfitta per confessare che anche lui una canna se l'è fatta.
Oppure in nome dell'antifascismo militante si può mettere a ferro e fuoco la città il giorno dell'inaugurazione dell'Expo, sicuri della comprensione dei magistrati. Si possono occupare stabili privati o comunali chiamandoli centri sociali e commerciare di tutto esentasse per usarli poi come basi per le spedizioni punitive.
Una sola cosa non si può fare, ricordare al cimitero il sangue dei vinti. I morti della Repubblica sociale italiana, ma anche attori come Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, eroi della Prima Guerra mondiale come Carlo Borsani e di tanti massacrati senza colpa nella mattanza che seguì il 25 aprile. Le storie dei padri, dei nonni o degli zii. Ognuno ne ha qualcuna in famiglia. Anzi, per la verità il sindaco Sala e il prefetto Luciana Lamorgese hanno ammesso di non poter vietare una visita al cimitero. E allora hanno dettato le regole. A Musocco si può andare, ma solo in piccoli gruppi. Non tutti insieme, per carità, che magari qualcuno si spaventa. Niente bandiere. Proibite. Perfino quella italiana che è vietato mettere, così come ogni anno, sulle 921 lapidi. Fuorilegge il Tricolore, figurarsi labari, gagliardetti e insegne (magari nere). Forse da Comune e prefettura l'auspicio è che i militi della Repubblica vengano ricordati con le bandiere rosse e la falce e martello. Impossibile, perché quelle saranno tutte sulle tombe dei partigiani. Quelle sì degne di onore come se negli anni terribili della guerra civile l'Italia non avesse diviso i suoi figli in due campi ugualmente degni di rispetto. E la messa? Anche quella «a piccoli gruppi»? Qualcuno il Vangelo, qualcuno l'omelia, altri il Padrenostro. Le mani? Bene in tasca. A chi solleva il braccio è promesso il carcere. Se la mano è aperta, perché col pugno chiuso nessun problema.
Mai, sindaco Sala, nemmeno con i sindaci rossi o con l'ultrarosso Giuliano Pisapia Milano aveva negato la cerimonia al Campo X. Nemmeno nel dopoguerra, quando forse qualche timore del Fascismo poteva esserci. Voleva l'applauso di Anpi, comunisti e centri sociali? L'ha ottenuto. Perdendo forse la stima di tanti milanesi per bene. Che vecchiume. La storia andrebbe studiata. Senza farne, per interesse di bottega, una grottesca caricatura.
Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 24/04/2017, 7:54
da UncleTom
IL FATTO QUOTIDIANO | Lunedì 24 Aprile 2017
XXV aprile per sempre
Perché non possiamo non dirci antifascisti
» GIOVANNI DE LUNA*
La Resistenza nacque da una scelta. Nel crollo delle istituzioni e dello Stato, l’8 settembre del 1943 segnò per gli italiani una sorta di resa dei conti con se stessi. “Tutti a casa” fu lo slogan che segnò i comportamenti di quanti vissero quella data come un invito a rinchiudersi nel calore protettivo della famiglia, affollando una sorta di “zona grigia” che durante i venti mesi della lotta partigiana avrebbe avuto come unico obiettivo quello della sopravvivenza. Altri scelsero in modo opposto, interpretando l’8 settembre come la fine di una stagione di carestia morale e di avvelenamento delle coscienze. Fu la scelta consapevole di chi visse la Resistenza come il momento in cui finalmente non ci si doveva vergognare di se stessi, di riscattare venti anni di passività e di ignavia. E fu quella scelta che oggi rende il 25 aprile una data fondamentale della nostra religione civile. Perpetuarne il ricordo significa ritrovare la scintilla di allora in chi oggi mette in atto scelte altrettanto consapevoli, violando deliberatamente le regole del conformismo e del compiacimento, in chi si avventura nei luoghi dell’emarginazione e della sconfitta, in chi sfida il male nel silenzio delle istituzioni, in chi testimonia la volontà di rompere la crosta dell’egoismo e degli interessi particolari. IL 25 APRILE oggi ci dà speranza. Quelli che diventarono partigiani erano uomini e donne che, come tutti, avevano slanci e coraggio, debolezze e fragilità, forza d’animo, generosità e limiti caratteriali. Erano persone normali. Eppure, all’ap pu nt am en to con la storia, diedero il meglio di sé; combattendo diventarono migliori e migliorarono questo Paese. Quando la Wehrmacht in - vase il nostro territorio imponendo la Repubblica sociale italiana di Mussolini, per chi scelse di combattere contro i nazifascisti si trattò di ridefinire il rapporto con la propria esistenza. Non era più il Duce a ordinarlo, non era più l’Italia fascista, che li aveva educati al conformismo e all’obbedienza, a chiedere loro di essere disposti a sacrificare tutto per una patria ingiusta. “La crisi dell’a u t o r ità,”scrisse a suo tempo Guido Quazza, “diventò assunzione di responsabilità da parte del singolo, si trasformò in nascita della partecipazione e dell’autonomia”. L’ebbrezza di reimpadronirsi del proprio destino è quella ad esempio che ci viene restituita dal “partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio, quando decide di farsi partigiano: “Nel momento in cui partì, si sentì investito in nome dell’autenti - co popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava il vento e la terra”. A questo slancio vitale si accompagnava la sensazione di vivere una fase assolutamente irripetibile della storia italiana, in cui tutto era possibile, anche “una scommessa sul mondo”, una resa dei conti con tutto quanto di sbagliato, corrotto, ingiusto il fascismo aveva fatto affiorare nel costume nazionale, l’azzeramento dell’eredità di un ’Italia liberale ancora intrisa di trasformismo, con uno Stato unitario sempre forte con i deboli e debole con i forti. Certo che nella Resistenza confluirono decisioni occasionali, opportunismi esistenziali, desideri di avventura adolescenziali. Ma certamente scegliere di andare in montagna a combattere fu un gesto che risalta con nettezza soprattutto se confrontato con quelli di chi, come ha scritto Claudio Pavone, “fece il possibile per sottrarsi alla responsabilità di una scelta o almeno cercò di circoscriverne confini e significati, avallando di fatto la continuità delle istituzioni esistenti e
accettando insieme che il vuoto venisse riempito dal più forte” e che sottolinea un dato di fatto: né durante le guerre di indipendenza, né al momento dell’intervento nella guerra 1915-1918, né in nessuna altra fase della nostra vita nazionale unitaria l’Italia ha potuto mobilitare tanta passione civile e un tal numero di combattenti volontari come nella lotta partigiana. RICORDARE la Resistenza oggi è rivivere quel momento come quello della cancellazione di “ogni differenza fra i politici e la gente comune”, in un universo in cui – co me scriveva Carlo Levi – “c i ascuno faceva quello che faceva con naturalezza, in un mondo indipendente e senza compartimenti stagni, nelle fabbriche, sul lavoro o nel governo locale del Comitato di Li ber azio ne”, alimentando una straordinaria esperienza di “democrazia diretta” vis - suta, prima ancora che nel “cielo”della politica, direttamente nel cuore e nelle coscienze degli uomini; allora “tutti si capivano: in città e in campagna: e si poteva battere a tutte le porte, e si aprivano senza bisogno di parole d’or - dine. Ci si riconosceva, così allo sguardo, a fiuto. Si era tutti d’accordo”. Ricordare la Resistenza oggi è confrontarsi con la nostra Costituzione, che è l’uni - ca della nostra storia unitaria a scaturire da un’Assemblea costituente; ed è stato l’anti - fascismo a realizzare quello che era sempre stato il sogno inappagato di una democrazia compiuta. La forza dell’accoppiata 25 aprile-2 giugno è proprio questa: aver indicato, attraverso una Costituente votata dal 90 per cento degli italiani, i lineamenti di una democrazia fondata sull’arm onio sa convivenza tra i valori e le identità (la garanzia dei diritti individuali, sociali e politici) comuni alle tre grandi famiglie politiche e culturali che hanno fatto la storia del nostro paese; una democrazia che non può concedersi il lusso di essere “mite”, quasi che, contro le pulsioni populiste che periodicamente segnano la nostra storia, le regole “normali”vadano potenziate attingendo alle risorse offerte proprio dagli “eccessi” di partecipazione e di militanza politica sedimentatisi intorno alle idee e alle identità della Resistenza.
*Docente dell’Università di Torino, è uno dei più importanti storici del fascismo
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Re: Diario della caduta di un regime.
Inviato: 25/04/2017, 6:18
da UncleTom
LIBRE news
segnalazioni.
Marco Bersani: questa élite non tollera più la democrazia
Scritto il 25/4/17 • nella Categoria: idee Condividi
«Solo uno shock trasforma il socialmente impossibile in politicamente inevitabile».
Con questo aforisma, il padre del neoliberismo, Milton Friedman, salutò il colpo di stato militare in Cile, attuato dal generale Augusto Pinochet l’11 settembre 1973 per rovesciare il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto tre anni prima.
«Dei fatti di quegli anni, dal punto di vista della violazione dei diritti umani, conosciamo quasi tutto; ciò che è meno noto è che quel golpe fu la premessa (lo shock, appunto) per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche liberiste della scuola di Chicago, di cui Friedman era il massimo esponente», ricorda Marco Bersani, convinto che, ormai, «il liberismo non ha più bsogno della democrazia», ormai divenuta «un ostacolo da erodere».
Perché risalire a quei fatti per spiegare l’oggi? «Perché quella storia “parla” al nostro presente», scrive Bersani sul sito di “Attac Italia”. «Oggi, nel pieno della crisi economico-finanziaria globale che ha investito direttamente il continente europeo, il proliferare di poteri “tecnici”, con l’obiettivo della piena applicazione delle politiche monetariste volute dalle grandi lobby del capitale finanziario, è palpabile in tutte le scelte imposte ai popoli europei».
Questa svolta, continua Marco Bersani, evidenzia «la necessità di una riflessione molto profonda sulla relazione tra politiche liberiste e democrazia, nesso sinora dato per scontato e immodificabile».
In questo senso, aggiunge, «sarà utile tenere a mente come l’atto di nascita delle teorie economiche liberiste sia avvenuto esattamente attraverso la feroce distruzione della democrazia, elemento che depone molto più a favore di una relazione di contingenza, piuttosto che di consustanzialità fra le stesse».
D’altronde, secondo lo stesso Bersani, di paradossi come questo è piena la storia: «I banchieri creditori furono i primi a salutare la nascita della democrazia parlamentare nei Paesi Bassi durante il Rinascimento, e in Gran Bretagna dopo la rivoluzione del 1688, perché, contrariamente alle epoche precedenti, nelle quali i debiti erano appannaggio di principi e sovrani e divenivano inesigibili con la loro morte, il fatto che i parlamenti potessero contrarre debiti pubblici per conto dello Stato rendeva perennemente esigibili gli accordi e i contratti stipulati».
Come scrisse Richard Eherenberg, storico del Rinascimento, «chiunque forniva crediti a un principe sapeva che il rimborso del debito dipendeva solo dalla capacità e dalla volontà del debitore di pagare».
Il caso, continua Eherenberg, era molto diverso per le città, che avevano potere quanto i nobili, ma anche per le corporazioni, per le associazioni di individui uniti da interessi comuni.
«Secondo una norma generalmente accettata, ogni singolo cittadino era responsabile per i debiti della città, sia con l’esposizione della sua persona che delle sue proprietà».
Naturalmente, sottolinea Bersani, la finanza si conforma alla democrazia per poi premere per un sistema oligarchico.
“Not with tanks, but with banks”, ovvero: «Ciò che in Cile fu reso possibile dai carri armati, oggi viene realizzato attraverso la finanziarizzazione e la trappola “shock” del debito».
Visto che l’enorme massa di denaro accumulata sui mercati finanziari in questi anni «ha stringente necessità di essere reinvestita», e dato che «i terreni di valorizzazione possibili sono quelli relativi alla deregolamentazione del lavoro, alla dismissione del patrimonio, alla privatizzazione dei servizi pubblici», ciò che le lobby finanziarie si propongono è «un processo di espropriazione totale di diritti e beni comuni, che poco si può accompagnare con il mantenimento di modelli di decisionalità basati sulla democrazia».
Per la banca d’affari Jp Morgan, «i sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione».
L’attacco alla democrazia, richiamato dalla Jp Morgan nel 2013, secondo Marco Bersani è particolarmente evidente con i trattati di libero commercio (Ttip, Ceta), attraverso i quali si tenta il passaggio definitivo dallo Stato di diritto a quello di mercato, permettendo alle grandi multinazionali di non rispondere – impugnandole davanti a una corte arbitrale internazionale – alle leggi promulgate dai parlamenti nazionali.
E questa tendenza «è altrettanto chiara nella progressiva erosione degli spazi democratici».
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Si manifesta a livello locale, «con sindaci che, da garanti dei diritti di una comunità, ne diventano gli sceriffi addetti al controllo sociale delle fasce di popolazione “indecorose”», ma anche sul piano nazionale, «con l’accentramento dei poteri sui governi, invece che sulle assemblee elettive: era questo il disegno “costituzionale” di Renzi, seppellito da una valanga di “No”».
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Fenomeno ancor più vistoso a livello europeo, «con il commissariamento di fatto di ogni scelta di politica economica e sociale, attraverso i vincoli finanziari di Maastricht e del Fiscal Compact».
Tutto ciò, continua Bersani, produce un paradossale circolo vizioso: «Più la democrazia viene erosa, più aumenta la separatezza tra politica istituzionale e società, producendo una forte disaffezione sociale verso la “casta”, più quest’ultima può continuare a perseguire la strada dell’oligarchia al servizio dei grandi interessi finanziari».
Per questo, conclude, oggi ogni lotta per la riappropriazione sociale «deve porsi il doppio obiettivo della “socializzazione della politica” e della “politicizzazione della società”».
Ovvero: deve «porre con forza, da una parte, la riappropriazione di ogni spazio di democrazia diretta e dal basso e dall’altra, premere per un salto culturale e di qualità delle lotte dei movimenti sociali, che devono inserire, nelle proprie rivendicazioni “specifiche”, gli aspetti sistemici contro l’economia del debito e per una nuova democrazia reale».