Re: PRIMARIE DEL PD
Inviato: 30/04/2017, 13:37
Pd, il giorno delle primarie al minimo storico. Per la prima volta meno di due milioni al voto
di Diego Pretini | 30 aprile 2017
Politica
Nel 2013 l'ex segretario diceva: "Sotto il milione e mezzo è una sconfitta per tutto il partito". Ora tutta la dirigenza uscente rassicura: "Sarà una festa", "Abbiamo già vinto perché gli altri partiti non le fanno". Così si guarda alla Francia solo per Macron, senza vedere che dalle primarie è uscito anche Hamon, che ha portato i socialisti al disastro
di Diego Pretini | 30 aprile 2017
516
• 2 mila
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Più informazioni su: Congresso PD, Matteo Orfini, Matteo Renzi, PD, Primarie PD
Si rassicurano: andrà tutto bene, sarà una festa, sarà un successo. Nel frattempo sistemano cuscini tutti intorno, perché nessuna caduta possa essere dolorosa. Il salto è troppo alto? Va bene, abbassiamo l’asticella. Il bersaglio è troppo lontano? Pace: che vuoi che sia, basta avvicinarsi di un passo. Un milione di votanti? Sarebbe bellissimo. Un milione e mezzo? Ma che regalo, che sarebbe. Per la quinta volta, oggi, il Partito Democratico ricorre alle elezioni primarie per scegliere da chi sarà guidato. Ma per la prima volta non saranno superati i due milioni di partecipanti. A prevederlo non sono i gufi né l’accozzaglia. Sono, con un sorriso da stregatto, il segretario uscente e il presidente uscente, Matteo Renzi e Matteo Orfini, cioè coloro che hanno gestito il partito fino a qui. Non solo non sarà superata quota dei due milioni, ma la cifra che gira (un milione e 7-800mila) viene venduta da Renzi come speranza, come regalo a chi nel Pd ancora resiste, anziché come uno spettro, un sintomo. “Sotto il milione e mezzo una sconfitta per tutto il partito” aveva detto nel 2013. Per la prima volta le primarie rischiano, insomma, di non segnare un punto di svolta, com’è sempre avvenuto – con fortune alterne – nelle occasioni precedenti. Per la prima volta, piuttosto, rischiano di diventare un autoinganno, come un viaggio nella sala degli specchi del luna park che sembra affollata e poi si è soli. Come un modo per dirsi che va tutto bene, che il peggio è passato, e poi però chissà se è davvero così.
Le primarie come il quadro di Dorian Gray: il partito si vede ancora giovane e energico, ma intanto ripiega su se stesso, dando le solite risposte alle solite domande, assicurando di aver capito la lezione. Il risultato – dicono i sondaggi – appare scontato, ma chiunque vinca tra Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano si troverà un partito non aperto a tutti come aveva promesso il segretario uscente, ma sempre più cerchia: i tesserati sono in lieve aumento, ma la comunità alla quale si riferisce il Pd crolla. Non solo nelle urne, per quello che si è potuto vedere con le elezioni amministrative che hanno seguito il 40 per cento delle Europee, ma perfino all’appuntamento che sembrava essere diventato – fino all’ultima volta – l’elisir di vita eterna. All’improvviso, invece, lo “strumento partecipativo” – come direbbe in una direzione del Nazareno – è diventato raggrinzito, loffio, inefficace. C’è chi sfoglia l’albo e ragiona su com’è finita: Veltroni, schiantato un anno e mezzo dopo con le Regionali in Sardegna; Bersani, che “non vinse” nel 2013; Renzi, schiacciato sotto il sessanta per cento di no al referendum. E poi gli “scherzi” sul territorio, candidati vincenti alle primarie e perdenti alle elezioni vere (Paita in Liguria, Valente a Napoli, Casson a Venezia, Giachetti a Roma con le varie differenze) oppure sindaci non del Pd che alla fine sono diventati “stretti” (Doria a Genova). Fino al rischio del deperimento delle primarie e al ritorno del “primato della politica”, cioè che si ricominci a scegliere negli organismi del partito. In alcune città, per alcune Regioni, già è successo. A Livorno, per esempio: ancora si chiedono se sarebbe finita in modo diverso.
Meglio i vecchi riti, le assemblee, le alzate di mano, favorevoli, astenuti, giochi di corrente? Ai tempi dei voti online dei Cinquestelle, delle consultazioni di Podemos e della democrazia dal basso di Mélenchon, è un po’ complicato tornare indietro, agli anni Novanta. Mentre una parte del Pd si preoccupa di trasformare Macron in un mito greco, fino a emulare il suo tifo per l’Europa con il corteo blu durante il 25 aprile, credendo che sia quella la risposta al “populismo”, in Francia è iniziata una discussione sulle primarie, sia a destra che a sinistra, per capire se sia solo colpa di Fillon e Hamon se per la prima volta nella storia gollisti e socialisti sono rimasti fuori dal ballottaggio delle Presidenziali. Aveva cominciato a ragionarci prima ancora del primo turno delle presidenziali uno che ne sa qualcosa. Il presidente della Repubblica francese François Hollande – ormai trafitto dall’agonia e responsabile della più grave disfatta del suo partito da quando esiste – a un settimanale era arrivato a dire: “Non ci devono più essere delle primarie nei partiti di governo. Altrimenti non ci saranno più partiti di governo in questo paese. Sono diventati fragili e devono ritrovare legittimità da soli. Non scegliendo i loro candidati, stanno sul filo dell’acqua, come avrebbe detto il generale De Gaulle”. Hollande è arrivato all’Eliseo partendo dai gazebo, mentre nel 2017 alle primarie dei socialisti hanno partecipato in due milioni e Hamon ha preso solo quei due milioni.
di Diego Pretini | 30 aprile 2017
Politica
Nel 2013 l'ex segretario diceva: "Sotto il milione e mezzo è una sconfitta per tutto il partito". Ora tutta la dirigenza uscente rassicura: "Sarà una festa", "Abbiamo già vinto perché gli altri partiti non le fanno". Così si guarda alla Francia solo per Macron, senza vedere che dalle primarie è uscito anche Hamon, che ha portato i socialisti al disastro
di Diego Pretini | 30 aprile 2017
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Più informazioni su: Congresso PD, Matteo Orfini, Matteo Renzi, PD, Primarie PD
Si rassicurano: andrà tutto bene, sarà una festa, sarà un successo. Nel frattempo sistemano cuscini tutti intorno, perché nessuna caduta possa essere dolorosa. Il salto è troppo alto? Va bene, abbassiamo l’asticella. Il bersaglio è troppo lontano? Pace: che vuoi che sia, basta avvicinarsi di un passo. Un milione di votanti? Sarebbe bellissimo. Un milione e mezzo? Ma che regalo, che sarebbe. Per la quinta volta, oggi, il Partito Democratico ricorre alle elezioni primarie per scegliere da chi sarà guidato. Ma per la prima volta non saranno superati i due milioni di partecipanti. A prevederlo non sono i gufi né l’accozzaglia. Sono, con un sorriso da stregatto, il segretario uscente e il presidente uscente, Matteo Renzi e Matteo Orfini, cioè coloro che hanno gestito il partito fino a qui. Non solo non sarà superata quota dei due milioni, ma la cifra che gira (un milione e 7-800mila) viene venduta da Renzi come speranza, come regalo a chi nel Pd ancora resiste, anziché come uno spettro, un sintomo. “Sotto il milione e mezzo una sconfitta per tutto il partito” aveva detto nel 2013. Per la prima volta le primarie rischiano, insomma, di non segnare un punto di svolta, com’è sempre avvenuto – con fortune alterne – nelle occasioni precedenti. Per la prima volta, piuttosto, rischiano di diventare un autoinganno, come un viaggio nella sala degli specchi del luna park che sembra affollata e poi si è soli. Come un modo per dirsi che va tutto bene, che il peggio è passato, e poi però chissà se è davvero così.
Le primarie come il quadro di Dorian Gray: il partito si vede ancora giovane e energico, ma intanto ripiega su se stesso, dando le solite risposte alle solite domande, assicurando di aver capito la lezione. Il risultato – dicono i sondaggi – appare scontato, ma chiunque vinca tra Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano si troverà un partito non aperto a tutti come aveva promesso il segretario uscente, ma sempre più cerchia: i tesserati sono in lieve aumento, ma la comunità alla quale si riferisce il Pd crolla. Non solo nelle urne, per quello che si è potuto vedere con le elezioni amministrative che hanno seguito il 40 per cento delle Europee, ma perfino all’appuntamento che sembrava essere diventato – fino all’ultima volta – l’elisir di vita eterna. All’improvviso, invece, lo “strumento partecipativo” – come direbbe in una direzione del Nazareno – è diventato raggrinzito, loffio, inefficace. C’è chi sfoglia l’albo e ragiona su com’è finita: Veltroni, schiantato un anno e mezzo dopo con le Regionali in Sardegna; Bersani, che “non vinse” nel 2013; Renzi, schiacciato sotto il sessanta per cento di no al referendum. E poi gli “scherzi” sul territorio, candidati vincenti alle primarie e perdenti alle elezioni vere (Paita in Liguria, Valente a Napoli, Casson a Venezia, Giachetti a Roma con le varie differenze) oppure sindaci non del Pd che alla fine sono diventati “stretti” (Doria a Genova). Fino al rischio del deperimento delle primarie e al ritorno del “primato della politica”, cioè che si ricominci a scegliere negli organismi del partito. In alcune città, per alcune Regioni, già è successo. A Livorno, per esempio: ancora si chiedono se sarebbe finita in modo diverso.
Meglio i vecchi riti, le assemblee, le alzate di mano, favorevoli, astenuti, giochi di corrente? Ai tempi dei voti online dei Cinquestelle, delle consultazioni di Podemos e della democrazia dal basso di Mélenchon, è un po’ complicato tornare indietro, agli anni Novanta. Mentre una parte del Pd si preoccupa di trasformare Macron in un mito greco, fino a emulare il suo tifo per l’Europa con il corteo blu durante il 25 aprile, credendo che sia quella la risposta al “populismo”, in Francia è iniziata una discussione sulle primarie, sia a destra che a sinistra, per capire se sia solo colpa di Fillon e Hamon se per la prima volta nella storia gollisti e socialisti sono rimasti fuori dal ballottaggio delle Presidenziali. Aveva cominciato a ragionarci prima ancora del primo turno delle presidenziali uno che ne sa qualcosa. Il presidente della Repubblica francese François Hollande – ormai trafitto dall’agonia e responsabile della più grave disfatta del suo partito da quando esiste – a un settimanale era arrivato a dire: “Non ci devono più essere delle primarie nei partiti di governo. Altrimenti non ci saranno più partiti di governo in questo paese. Sono diventati fragili e devono ritrovare legittimità da soli. Non scegliendo i loro candidati, stanno sul filo dell’acqua, come avrebbe detto il generale De Gaulle”. Hollande è arrivato all’Eliseo partendo dai gazebo, mentre nel 2017 alle primarie dei socialisti hanno partecipato in due milioni e Hamon ha preso solo quei due milioni.