Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
dal sito http://www.scuolissima.com/2013/03/tema ... omica.html
Tema sulla Disoccupazione e sulla Crisi Economica
Una delle conseguenze più preoccupanti della crisi economica che caratterizza attualmente l’economia di tutti i paesi industrializzati, è l’incremento della disoccupazione.
La crescente disoccupazione è uno dei fenomeni più gravi di questi ultimi anni: ogni giorno leggiamo sui giornali di industrie in difficoltà nel nostro paese e, in genere, negli altri paesi industrializzati. Leggiamo di industrie che sono costrette a licenziare e di sempre maggiori difficoltà, per i giovani di trovare un posto di lavoro. La causa della disoccupazione nei paese dell’Europa occidentale è senza alcun dubbio la crisi economica.
La disoccupazione se contenuta entro certi limiti è addirittura funzionale nel sistema economico, in quanto consente quel margine di flessibilità indispensabile all'apparato industriale; ma se la disoccupazione aumenta in modo evidente può creare forti tensioni sociali ed i soldi che potrebbero essere investiti verranno utilizzati per il sussidio, per consentire la sopravvivenza a chi ne ha bisogno. Se la disoccupazione diventa di un livello bassissimo, ovvero sotto al 3-4% ciò comporterebbe l’aumento vertiginoso dei salari e come diceva lo stesso Marx grazie ai disoccupati ci possiamo permettere salari bassi.
Mettere fine alla disoccupazione è una cosa alquanto impossibile perché se in un area grazie all'industrializzazione non c’è disoccupazione significa che in altre aree anche a causa di emigrazioni il lavoro tenderà a mancare, per esempio il divario che c’è da sempre stato tra Nord e Sud.
La disoccupazione non è una cosa bella perché provoca angoscia, frustrazione ed emarginazione perché la società tende ad accantonare chi non ha un lavoro e lo considera uno sconfitto; anche la stessa persona si sente un vinto perché il lavoro è una cosa che ci fa sentire fieri, il non averlo è un offesa alla nostra dignità.
In passato la media della disoccupazione italiana era del 12% con punte del 30%, nel 2012 e nel 2012 la disoccupazione ha toccato il 40%. Il problema della disoccupazione anche se colpisce tutte le generazioni di persone è più allarmante verso chi deve iniziare a fare la sua prima esperienza lavorativa: i giovani. Una volta il problema era rivolto ai paesi del Sud, adesso invece anche e, soprattutto, le aziende del nord stanno chiudendo velocemente, si parla di 1000 aziende (di qualsiasi categoria) che chiudono ogni giorno.
Chiudono magari trasferendosi verso l’estero e continuare la loro impresa fuori da un paese che è convinto che mettendo tasse è possibile bilanciare il debito pubblico.
Il problema sembrerebbe molto facile da risolvere, ovvero se venissero aiutate in modo concreto tutte le persone che volessero creare una propria impresa il problema della disoccupazione finirebbe in meno di un anno e l’handicap economico nei confronti di America e Germania sarebbe risanato molto più rapidamente ed invece con le leggi attuali, sbagliate ed anche inutili pare che stiano organizzando proprio l’opposto, sembra che l’Italia, in particolare, perché ci viviamo noi, sia caduta in un buco dove non se ne può uscire fuori ma che invece col tempo diventa sempre più profondo.
Stando a quanto riportano i sondaggi un debito di 2.000.000 di euro può essere risanato di questo passo fra 1900 anni. Siccome io non credo che gli stati europei stiano a guardare mi sembra molto probabile che di questo passo ci caccino fuori dall'Europa perché non ha molto senso tenere un parassita che è il vero soprannome che si può dare all'Italia di oggi, anche se secondo me dietro alla permanenza dell’Italia vicino le grandi d’Europa sia dovuto al girovagare delle mazzette in politica, basti pensare che i primi ad essere scoperti ladri di soldi pubblici non sono altro che i tesorieri dei partiti, cioè coloro che gestiscono i soldi, poi le stesse banche… e questo è quello che sappiamo, grazie alla tv, che tra l’altro dice quello che vuole che noi dobbiamo sapere.
In realtà, perché ci sia un'inversione di tendenza, sarebbe necessario imboccare un’altra strada, che non è quella dell’aumento della produttività a tutti i costi e dell’abbattimento del costo per unità di prodotto. E’ certamente da tutti i paesi industriali, altrimenti si creerebbero soltanto pericolosi squilibri e distorsioni.
Questa strada, l’unica che consentirebbe realmente di trovare un rimedio alla crescente disoccupazione, è la strada della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, come dice un famoso slogan: lavorare tutti, lavorare meno. In questo modo, si creerebbero maggiori opportunità d’impiego e di lavoro ed anche i sistemi automatizzati e robotizzati, che oggi vengono massicciamente introdotti nella produzione, consentirebbero a tutti di avere lo stesso tempo-lavoro.
Altre iniziative sarebbero solamente delle scorciatoie, come ad esempio, il salario d’ingresso, per giovani, più basso del 10% 20% o il non pagare le tasse per chi assume giovani per 5 anni di cui si sta parlando, non farebbe altro che favorire i licenziamenti dei lavoratori più anziani per sostituirli con i giovani che costerebbero meno, ma, come si può facilmente intuire, senza alcun beneficio sui livelli occupazionali complessivi, difatti l’anziano solitamente ha una famiglia da sfamare rispetto al giovane, ed il giovane che deve iniziare ad acquistarsi l’auto o la casa con meno soldi di un normale lavoratore non riuscirà mai a raggiungere i suoi scopi lavorando onestamente, e così come conseguenza alla disoccupazione ci troveremo di fronte alla criminalità.
Tema sulla Disoccupazione e sulla Crisi Economica
Una delle conseguenze più preoccupanti della crisi economica che caratterizza attualmente l’economia di tutti i paesi industrializzati, è l’incremento della disoccupazione.
La crescente disoccupazione è uno dei fenomeni più gravi di questi ultimi anni: ogni giorno leggiamo sui giornali di industrie in difficoltà nel nostro paese e, in genere, negli altri paesi industrializzati. Leggiamo di industrie che sono costrette a licenziare e di sempre maggiori difficoltà, per i giovani di trovare un posto di lavoro. La causa della disoccupazione nei paese dell’Europa occidentale è senza alcun dubbio la crisi economica.
La disoccupazione se contenuta entro certi limiti è addirittura funzionale nel sistema economico, in quanto consente quel margine di flessibilità indispensabile all'apparato industriale; ma se la disoccupazione aumenta in modo evidente può creare forti tensioni sociali ed i soldi che potrebbero essere investiti verranno utilizzati per il sussidio, per consentire la sopravvivenza a chi ne ha bisogno. Se la disoccupazione diventa di un livello bassissimo, ovvero sotto al 3-4% ciò comporterebbe l’aumento vertiginoso dei salari e come diceva lo stesso Marx grazie ai disoccupati ci possiamo permettere salari bassi.
Mettere fine alla disoccupazione è una cosa alquanto impossibile perché se in un area grazie all'industrializzazione non c’è disoccupazione significa che in altre aree anche a causa di emigrazioni il lavoro tenderà a mancare, per esempio il divario che c’è da sempre stato tra Nord e Sud.
La disoccupazione non è una cosa bella perché provoca angoscia, frustrazione ed emarginazione perché la società tende ad accantonare chi non ha un lavoro e lo considera uno sconfitto; anche la stessa persona si sente un vinto perché il lavoro è una cosa che ci fa sentire fieri, il non averlo è un offesa alla nostra dignità.
In passato la media della disoccupazione italiana era del 12% con punte del 30%, nel 2012 e nel 2012 la disoccupazione ha toccato il 40%. Il problema della disoccupazione anche se colpisce tutte le generazioni di persone è più allarmante verso chi deve iniziare a fare la sua prima esperienza lavorativa: i giovani. Una volta il problema era rivolto ai paesi del Sud, adesso invece anche e, soprattutto, le aziende del nord stanno chiudendo velocemente, si parla di 1000 aziende (di qualsiasi categoria) che chiudono ogni giorno.
Chiudono magari trasferendosi verso l’estero e continuare la loro impresa fuori da un paese che è convinto che mettendo tasse è possibile bilanciare il debito pubblico.
Il problema sembrerebbe molto facile da risolvere, ovvero se venissero aiutate in modo concreto tutte le persone che volessero creare una propria impresa il problema della disoccupazione finirebbe in meno di un anno e l’handicap economico nei confronti di America e Germania sarebbe risanato molto più rapidamente ed invece con le leggi attuali, sbagliate ed anche inutili pare che stiano organizzando proprio l’opposto, sembra che l’Italia, in particolare, perché ci viviamo noi, sia caduta in un buco dove non se ne può uscire fuori ma che invece col tempo diventa sempre più profondo.
Stando a quanto riportano i sondaggi un debito di 2.000.000 di euro può essere risanato di questo passo fra 1900 anni. Siccome io non credo che gli stati europei stiano a guardare mi sembra molto probabile che di questo passo ci caccino fuori dall'Europa perché non ha molto senso tenere un parassita che è il vero soprannome che si può dare all'Italia di oggi, anche se secondo me dietro alla permanenza dell’Italia vicino le grandi d’Europa sia dovuto al girovagare delle mazzette in politica, basti pensare che i primi ad essere scoperti ladri di soldi pubblici non sono altro che i tesorieri dei partiti, cioè coloro che gestiscono i soldi, poi le stesse banche… e questo è quello che sappiamo, grazie alla tv, che tra l’altro dice quello che vuole che noi dobbiamo sapere.
In realtà, perché ci sia un'inversione di tendenza, sarebbe necessario imboccare un’altra strada, che non è quella dell’aumento della produttività a tutti i costi e dell’abbattimento del costo per unità di prodotto. E’ certamente da tutti i paesi industriali, altrimenti si creerebbero soltanto pericolosi squilibri e distorsioni.
Questa strada, l’unica che consentirebbe realmente di trovare un rimedio alla crescente disoccupazione, è la strada della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, come dice un famoso slogan: lavorare tutti, lavorare meno. In questo modo, si creerebbero maggiori opportunità d’impiego e di lavoro ed anche i sistemi automatizzati e robotizzati, che oggi vengono massicciamente introdotti nella produzione, consentirebbero a tutti di avere lo stesso tempo-lavoro.
Altre iniziative sarebbero solamente delle scorciatoie, come ad esempio, il salario d’ingresso, per giovani, più basso del 10% 20% o il non pagare le tasse per chi assume giovani per 5 anni di cui si sta parlando, non farebbe altro che favorire i licenziamenti dei lavoratori più anziani per sostituirli con i giovani che costerebbero meno, ma, come si può facilmente intuire, senza alcun beneficio sui livelli occupazionali complessivi, difatti l’anziano solitamente ha una famiglia da sfamare rispetto al giovane, ed il giovane che deve iniziare ad acquistarsi l’auto o la casa con meno soldi di un normale lavoratore non riuscirà mai a raggiungere i suoi scopi lavorando onestamente, e così come conseguenza alla disoccupazione ci troveremo di fronte alla criminalità.
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
Lavorare tutti, lavorare meno (come in Germania)
Stefano Perri - 13 febbraio 2014
Che l’occupazione e il lavoro siano la questione centrale che dobbiamo affrontare non è più messo in discussione da nessuno[1]. Nei primi anni dallo scoppio della crisi il tasso di disoccupazione dell’Italia è stato più basso di quello della media europea, ma negli ultimi anni il fenomeno si è drammaticamente aggravato fino a raggiungere, secondo le ultime rilevazioni ISTAT, relative al novembre 2013, un tasso di del 12,7%, superando il dato medio europeo[2].
L’andamento dei tassi di disoccupazione per l’area Euro e le tre maggiori economie europee è mostrato nel grafico 1. Sono riportati nel grafico anche la stima da parte dell’ AMECO del tasso di disoccupazione del 2013 (che risulta per l’Italia leggermente inferiore a quello calcolato dall’Istat) e le proiezioni per il 2014 e il 2015. Come si vede è impressionante l’accelerazione che la crescita del tasso di disoccupazione ha avuto a partire dal 2011.
Il fatto che tutti siano, almeno a parole, consapevoli della gravità del problema non significa affatto che sia altrettanto estesa la determinazione o semplicemente la volontà di affrontarlo.
Dal punto di vista dell’ideologia economica è dominante l’idea che in fondo il problema dell’occupazione sia un problema del mercato. Se le condizioni del mercato sono tali da creare un’alta disoccupazione, c’è poco che la politica possa fare direttamente per risolvere il problema. In questo quadro una parte consistente della disoccupazione è considerata “naturale”[3]. Un’azione diretta del governo, secondo questa opinione, creerebbe ulteriori problemi, aggravando le condizioni del debito pubblico, distorcendo ulteriormente il mercato e via dicendo. Al massimo si può cercare di oliare ulteriormente i meccanismi di mercato, magari rendendo più flessibile il lavoro (nonostante l’indice dell’OCSE segnali già da molto tempo che il mercato del lavoro italiano è notevolmente flessibile in rapporto agli altri paesi europei) o cercando di creare dei deboli incentivi verso l’assunzione di nuovi lavoratori.
Come mostra il grafico 2, la rigidità della legislazione sulla protezione del lavoro a tempo indeterminato, secondo l’indice stimato dall’OECD, è minore, nel 2013, di quella della Francia e della Germania.
Che le politiche proposte come riforme strutturali si siano rivelate spesso controproducenti e comunque del tutto insufficienti non sembra aver scalfito questa certezza. Cosicché si attende una salvifica ripresa della crescita che, nel migliore dei casi dopo qualche anno, incentivi la domanda di lavoro alleviando, ma non risolvendo il problema.
Al contrario, ogni ragionevole idea di politica economica dovrebbe rovesciare l’approccio: la priorità è l’obiettivo della piena occupazione, cui subordinare gli altri obiettivi, compreso quello del contenimento del deficit pubblico. I costi umani, sociali ed anche puramente economici (di minore produzione, insufficiente domanda aggregata e di deterioramento del cosiddetto capitale umano) di un’alta disoccupazione permanente sono del tutto insostenibili. Ottenere una drastica diminuzione del tasso di disoccupazione è indispensabile al fine di rompere il circolo vizioso bassa occupazione-bassa crescita-aumento della disoccupazione.
Tra le possibili misure di politica economica volte all’aumento dell’occupazione ce ne sono due che nel nostro paese sarebbero particolarmente efficaci, ma che sono considerate quasi delle bestemmie. Non a caso negli USA, in cui nessuno ha paura di apparire troppo statalista o post-comunista, se ne parla invece approfonditamente[4]. La prima è quella di una assunzione diretta di lavoratori da parte dello stato, per progetti pubblici indifferibili, come il risanamento idrogeologico, la salvaguardia, la conservazione e la fruizione dei beni culturali e altre iniziative urgenti di grande valore sociale. Non mi soffermo su questo aspetto, se non per notare di passaggio che non è vero, al contrario di quanto comunemente si afferma, che in Italia gli impiegati pubblici sono “troppi” in rapporto agli altri paesi. Infatti, secondo le stime dell’OCSE, nel 2011 il nostro impiego pubblico rappresentava il 13,7% della forza-lavoro, minore degli Stati Uniti (14,4%), della media dei paesi OCSE (15,5%), del Regno Unito (18,3%) e della Francia (21,9%)[5].
Ma ciò su cui vorrei attirare l’attenzione è l’orario di lavoro[6]. Poiché l’argomento rischia di riportarci a passati dibattiti sui quali non è il caso di tornare in questa sede, partirò dai dati. Innanzitutto la tendenza di lungo periodo di pressoché tutti i paesi avanzati è la diminuzione dell’orario di lavoro. L’unica eccezione negli ultimi decenni che conosco è rappresentata dalla Svezia. Occorre aggiungere, in effetti, che durante gli anni ‘90 le ore lavorate in un anno in media da una persona sono aumentate anche negli Stati Uniti, il che ha indotto qualche commentatore ad affermare che la tendenza secolare alla diminuzione dell’orario di lavoro si era interrotta. Tuttavia la conclusione è prematura e negli anni 2000 anche negli Stati Uniti questa tendenza è ripresa con decisione.
Il grafico 3, che riporta anche i dati relativi alla Svezia e agli Usa oltre a quelli dell’Unione Europea, della Germania, della Francia e dell’Italia, mostra chiaramente le tendenze sopra accennate e mostra anche come in Italia le ore annue medie lavorate per persona sono molto alte.
Al di là delle tendenze secolari, quest’ultimo dato ci permette di passare al qui ed ora.
La realtà è che se confrontiamo il numero di ore lavorate in un anno in media da un lavoratore italiano con quello degli altri paesi europei, scopriamo subito che il dato dell’Italia è molto più alto. Dai dati dell’AMECO, sito statistico della Commissione Europea si ricava che un lavoratore europeo[7] ha lavorato nel 2013 in media l’89% di ore rispetto ad un lavoratore italiano. Se poi consideriamo la Francia e la Germania i dati sono ancora più netti. Nello stesso anno in Francia le ore annue per lavoratore sono state in media l’84,5% e in Germania il 79% di quelle italiane.
La tabella 1) riporta per il 2013 i dati relativi all’occupazione complessiva (E), le ore lavorate in media annualmente da una persona (h), le ore complessivamente lavorate nell’economia (H), il numero di lavoratori disoccupati (U), il tasso di disoccupazione (%u), il numero di lavoratori dipendenti (DE) e la percentuale dei lavoratori dipendenti sull’occupazione totale (%DE). Come si può notare il numero dei lavoratori dipendenti in Italia è minore in relazione alla occupazione totale che negli altri paesi. Ai nostri fini può essere utile cercare di stimare le ore lavorate in media da un lavoratore dipendente, che sono quelle che effettivamente ci interessano. Infatti, almeno in Europa[8], i lavoratori dipendenti lavorano in media un numero di ore minore rispetto ai lavoratori autonomi. Poiché in Italia il peso del lavoro autonomo è maggiore che negli altri paesi, questo ci porterebbe a sovrastimare la differenza di ore lavorate in media da un lavoratore dipendente italiano rispetto a quelle lavorate negli altri paesi. Supponiamo, almeno come prima approssimazione, che il numero di ore lavorate da un lavoratore dipendente in un anno sia circa il 94% del dato medio[9].
Ricaviamo in questo modo la tabella 2), con le ore lavorate in media da un lavoratore dipendente in un anno (hd) e con le ore totali lavorate dai lavoratori dipendenti (Hd).
Come si vede, il dato italiano delle ore annue lavorate per persona, così corretto, resta ancora molto superiore rispetto a quello degli altri paesi.
Possiamo ora fare il seguente esperimento mentale: immaginiamo che in Italia sia mantenuto lo stesso numero di ore annue complessivamente lavorate in totale, ma che ciascun lavoratore dipendente sia impiegato per un numero di ore annue uguale alla media europea, a quella francese o a quella tedesca. La domanda è: di quanto dovrebbe aumentare l’occupazione per ottenere questo risultato? La risposta è molto sorprendente, come mostrato dalla tabella 3.
Nella tabella 3) DE rappresenta i lavoratori dipendenti potenzialmente occupabili in Italia con un carico annuale di lavoro pari rispettivamente a quello europeo, tedesco e francese. DE è l’incremento in termini assoluti dell’occupazione che si realizzerebbe in queste ipotesi, %DE l’incremento percentuale dell’occupazione e %u il tasso di disoccupazione corrispondente.
In questa semplice simulazione l’occupazione dovrebbe crescere dell’8,84% se un lavoratore italiano dovesse lavorare in media le stesse ore annue di un lavoratore europeo, del 14,12% se dovesse lavorare come un lavoratore francese e addirittura del 19,98% se dovesse lavorare come un tedesco. Nel primo caso il tasso di disoccupazione ufficiale si abbasserebbe drasticamente, nel secondo si annullerebbe e addirittura diverrebbe negativo, nel terzo troverebbero occupazione molti potenziali lavoratori scoraggiati, cioè coloro che sono disposti a lavorare ma non cercano attivamente un lavoro, stimati dall’ISTAT in 3.300.000 unità.
Ovviamente si tratta di un esercizio che non può essere applicato meccanicamente alla realtà[10]. Infatti non si può essere affatto sicuri che se per qualsiasi motivo diminuissero di colpo le ore lavorate in un anno da ciascun lavoratore le imprese sarebbero disposte ad assumere un numero proporzionale di nuovi lavoratori.
Anche con queste cautele, i risultati dell’esperimento mentale sono veramente impressionanti e segnalano che esiste in Italia un margine di manovra amplissimo per stimolare l’occupazione agendo sulle ore lavorate. Ovviamente questa linea di azione dovrebbe accompagnarsi ad una politica economica più complessiva che stimoli la domanda aggregata e, nel medio-lungo periodo, ad una politica industriale che affronti i problemi della nostra struttura produttiva (ad esempio, ma non solo, scarsa domanda di laureati e scarsa spesa in ricerca e sviluppo in confronto agli altri paesi europei). Evidenti ragioni di spazio rendono opportuno, in questa sede, concentrarsi sull’argomento specifico che stiamo affrontando. Si afferma in continuazione che dobbiamo essere più simili agli altri paesi europei e non si vede perché non dobbiamo seguirne l’esempio anche in questo caso. Anche se non si tratta di abbassare le ore lavorate per decreto, si apre un campo vastissimo per andare in questa direzione attraverso accorte e decise misure di politica economica ed incentivi. Due condizioni sono però necessarie: la prima è che non si colga in questo quadro il pretesto per cercare di abbassare ulteriormente i salari[11], la seconda è che sia effettivamente perseguita una politica di sostegno alla domanda aggregata, cui abbiamo già accennato, senza la quale le imprese non sarebbero disposte ad assumere nuovi lavoratori. Queste due condizioni sono collegate tra loro.
Si deve poi notare che proprio in Germania il relativamente basso tasso di disoccupazione (di poco superiore al 5%) è stato ottenuto anche attraverso le politiche di job sharing. Tuttavia occorre notare che i lavoratori part time erano nel 2012, secondo l’OCSE, il 22 per cento dell’occupazione totale in Germania contro il 19% in Italia. La differenza nelle ore lavorate annue in media tra l’Italia e la Germania non è causata solo dalla maggiore incidenza del part time in Germania, ma anche dalle ore effettivamente lavorate dai lavoratori a tempo pieno. Si può però in Italia cercare di generalizzare i contratti di solidarietà, non solo al fine di evitare licenziamenti nei singoli casi di crisi aziendale (contratti di solidarietà difensiva), ma anche al fine di sostenere l’occupazione. In questo senso occorre rivedere e incentivare i contratti di solidarietà espansiva, cioè quelli volti all’assunzione di nuovi lavoratori, che, pur previsti dalla normativa, non hanno praticamente fino ad ora trovato applicazione consistente[12].
Certamente ci sono problemi: proprio in Germania sono aumentati i working poors anche perché si è esteso il numero di lavoratori part time involontari. Anche in questo caso, però, le statistiche sono illuminanti: tra i lavoratori part time quelli involontari, sempre secondo l’OCSE, erano nel 2012 il 15% in Germania e il 47,2% in Italia. Il part time involontario è molto più diffuso in Italia che in Germania. Si tratta quindi di incentivare il part time volontario, certamente non quello involontario. Inoltre il reddito minore, che nel breve periodo i lavoratori otterrebbero dalle imprese, potrebbe essere sostenuto dalle risorse che si liberano in seguito ad una diminuzione dei sussidi alla disoccupazione conseguente alla crescita dell’occupazione. In un periodo più lungo, i salari potrebbero addirittura crescere, per effetto della diminuzione del tasso di disoccupazione e della conseguente crescita della domanda aggregata.
In ogni caso occorre agire con decisione per aggredire la disoccupazione, pensando out of the box e senza ripetere stanche formule inefficaci e questa è una strada che occorre intraprendere se si vogliono ottenere risultati.
- See more at: http://www.economiaepolitica.it/lavoro- ... 9Andvl_u_k
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Ma e' proprio questa la soluzione oppure e' una toppa ad un sistema che periodicamente si ripresentera' sempre in forme più "pericolosa"?
un salutone da Juan
Stefano Perri - 13 febbraio 2014
Che l’occupazione e il lavoro siano la questione centrale che dobbiamo affrontare non è più messo in discussione da nessuno[1]. Nei primi anni dallo scoppio della crisi il tasso di disoccupazione dell’Italia è stato più basso di quello della media europea, ma negli ultimi anni il fenomeno si è drammaticamente aggravato fino a raggiungere, secondo le ultime rilevazioni ISTAT, relative al novembre 2013, un tasso di del 12,7%, superando il dato medio europeo[2].
L’andamento dei tassi di disoccupazione per l’area Euro e le tre maggiori economie europee è mostrato nel grafico 1. Sono riportati nel grafico anche la stima da parte dell’ AMECO del tasso di disoccupazione del 2013 (che risulta per l’Italia leggermente inferiore a quello calcolato dall’Istat) e le proiezioni per il 2014 e il 2015. Come si vede è impressionante l’accelerazione che la crescita del tasso di disoccupazione ha avuto a partire dal 2011.
Il fatto che tutti siano, almeno a parole, consapevoli della gravità del problema non significa affatto che sia altrettanto estesa la determinazione o semplicemente la volontà di affrontarlo.
Dal punto di vista dell’ideologia economica è dominante l’idea che in fondo il problema dell’occupazione sia un problema del mercato. Se le condizioni del mercato sono tali da creare un’alta disoccupazione, c’è poco che la politica possa fare direttamente per risolvere il problema. In questo quadro una parte consistente della disoccupazione è considerata “naturale”[3]. Un’azione diretta del governo, secondo questa opinione, creerebbe ulteriori problemi, aggravando le condizioni del debito pubblico, distorcendo ulteriormente il mercato e via dicendo. Al massimo si può cercare di oliare ulteriormente i meccanismi di mercato, magari rendendo più flessibile il lavoro (nonostante l’indice dell’OCSE segnali già da molto tempo che il mercato del lavoro italiano è notevolmente flessibile in rapporto agli altri paesi europei) o cercando di creare dei deboli incentivi verso l’assunzione di nuovi lavoratori.
Come mostra il grafico 2, la rigidità della legislazione sulla protezione del lavoro a tempo indeterminato, secondo l’indice stimato dall’OECD, è minore, nel 2013, di quella della Francia e della Germania.
Che le politiche proposte come riforme strutturali si siano rivelate spesso controproducenti e comunque del tutto insufficienti non sembra aver scalfito questa certezza. Cosicché si attende una salvifica ripresa della crescita che, nel migliore dei casi dopo qualche anno, incentivi la domanda di lavoro alleviando, ma non risolvendo il problema.
Al contrario, ogni ragionevole idea di politica economica dovrebbe rovesciare l’approccio: la priorità è l’obiettivo della piena occupazione, cui subordinare gli altri obiettivi, compreso quello del contenimento del deficit pubblico. I costi umani, sociali ed anche puramente economici (di minore produzione, insufficiente domanda aggregata e di deterioramento del cosiddetto capitale umano) di un’alta disoccupazione permanente sono del tutto insostenibili. Ottenere una drastica diminuzione del tasso di disoccupazione è indispensabile al fine di rompere il circolo vizioso bassa occupazione-bassa crescita-aumento della disoccupazione.
Tra le possibili misure di politica economica volte all’aumento dell’occupazione ce ne sono due che nel nostro paese sarebbero particolarmente efficaci, ma che sono considerate quasi delle bestemmie. Non a caso negli USA, in cui nessuno ha paura di apparire troppo statalista o post-comunista, se ne parla invece approfonditamente[4]. La prima è quella di una assunzione diretta di lavoratori da parte dello stato, per progetti pubblici indifferibili, come il risanamento idrogeologico, la salvaguardia, la conservazione e la fruizione dei beni culturali e altre iniziative urgenti di grande valore sociale. Non mi soffermo su questo aspetto, se non per notare di passaggio che non è vero, al contrario di quanto comunemente si afferma, che in Italia gli impiegati pubblici sono “troppi” in rapporto agli altri paesi. Infatti, secondo le stime dell’OCSE, nel 2011 il nostro impiego pubblico rappresentava il 13,7% della forza-lavoro, minore degli Stati Uniti (14,4%), della media dei paesi OCSE (15,5%), del Regno Unito (18,3%) e della Francia (21,9%)[5].
Ma ciò su cui vorrei attirare l’attenzione è l’orario di lavoro[6]. Poiché l’argomento rischia di riportarci a passati dibattiti sui quali non è il caso di tornare in questa sede, partirò dai dati. Innanzitutto la tendenza di lungo periodo di pressoché tutti i paesi avanzati è la diminuzione dell’orario di lavoro. L’unica eccezione negli ultimi decenni che conosco è rappresentata dalla Svezia. Occorre aggiungere, in effetti, che durante gli anni ‘90 le ore lavorate in un anno in media da una persona sono aumentate anche negli Stati Uniti, il che ha indotto qualche commentatore ad affermare che la tendenza secolare alla diminuzione dell’orario di lavoro si era interrotta. Tuttavia la conclusione è prematura e negli anni 2000 anche negli Stati Uniti questa tendenza è ripresa con decisione.
Il grafico 3, che riporta anche i dati relativi alla Svezia e agli Usa oltre a quelli dell’Unione Europea, della Germania, della Francia e dell’Italia, mostra chiaramente le tendenze sopra accennate e mostra anche come in Italia le ore annue medie lavorate per persona sono molto alte.
Al di là delle tendenze secolari, quest’ultimo dato ci permette di passare al qui ed ora.
La realtà è che se confrontiamo il numero di ore lavorate in un anno in media da un lavoratore italiano con quello degli altri paesi europei, scopriamo subito che il dato dell’Italia è molto più alto. Dai dati dell’AMECO, sito statistico della Commissione Europea si ricava che un lavoratore europeo[7] ha lavorato nel 2013 in media l’89% di ore rispetto ad un lavoratore italiano. Se poi consideriamo la Francia e la Germania i dati sono ancora più netti. Nello stesso anno in Francia le ore annue per lavoratore sono state in media l’84,5% e in Germania il 79% di quelle italiane.
La tabella 1) riporta per il 2013 i dati relativi all’occupazione complessiva (E), le ore lavorate in media annualmente da una persona (h), le ore complessivamente lavorate nell’economia (H), il numero di lavoratori disoccupati (U), il tasso di disoccupazione (%u), il numero di lavoratori dipendenti (DE) e la percentuale dei lavoratori dipendenti sull’occupazione totale (%DE). Come si può notare il numero dei lavoratori dipendenti in Italia è minore in relazione alla occupazione totale che negli altri paesi. Ai nostri fini può essere utile cercare di stimare le ore lavorate in media da un lavoratore dipendente, che sono quelle che effettivamente ci interessano. Infatti, almeno in Europa[8], i lavoratori dipendenti lavorano in media un numero di ore minore rispetto ai lavoratori autonomi. Poiché in Italia il peso del lavoro autonomo è maggiore che negli altri paesi, questo ci porterebbe a sovrastimare la differenza di ore lavorate in media da un lavoratore dipendente italiano rispetto a quelle lavorate negli altri paesi. Supponiamo, almeno come prima approssimazione, che il numero di ore lavorate da un lavoratore dipendente in un anno sia circa il 94% del dato medio[9].
Ricaviamo in questo modo la tabella 2), con le ore lavorate in media da un lavoratore dipendente in un anno (hd) e con le ore totali lavorate dai lavoratori dipendenti (Hd).
Come si vede, il dato italiano delle ore annue lavorate per persona, così corretto, resta ancora molto superiore rispetto a quello degli altri paesi.
Possiamo ora fare il seguente esperimento mentale: immaginiamo che in Italia sia mantenuto lo stesso numero di ore annue complessivamente lavorate in totale, ma che ciascun lavoratore dipendente sia impiegato per un numero di ore annue uguale alla media europea, a quella francese o a quella tedesca. La domanda è: di quanto dovrebbe aumentare l’occupazione per ottenere questo risultato? La risposta è molto sorprendente, come mostrato dalla tabella 3.
Nella tabella 3) DE rappresenta i lavoratori dipendenti potenzialmente occupabili in Italia con un carico annuale di lavoro pari rispettivamente a quello europeo, tedesco e francese. DE è l’incremento in termini assoluti dell’occupazione che si realizzerebbe in queste ipotesi, %DE l’incremento percentuale dell’occupazione e %u il tasso di disoccupazione corrispondente.
In questa semplice simulazione l’occupazione dovrebbe crescere dell’8,84% se un lavoratore italiano dovesse lavorare in media le stesse ore annue di un lavoratore europeo, del 14,12% se dovesse lavorare come un lavoratore francese e addirittura del 19,98% se dovesse lavorare come un tedesco. Nel primo caso il tasso di disoccupazione ufficiale si abbasserebbe drasticamente, nel secondo si annullerebbe e addirittura diverrebbe negativo, nel terzo troverebbero occupazione molti potenziali lavoratori scoraggiati, cioè coloro che sono disposti a lavorare ma non cercano attivamente un lavoro, stimati dall’ISTAT in 3.300.000 unità.
Ovviamente si tratta di un esercizio che non può essere applicato meccanicamente alla realtà[10]. Infatti non si può essere affatto sicuri che se per qualsiasi motivo diminuissero di colpo le ore lavorate in un anno da ciascun lavoratore le imprese sarebbero disposte ad assumere un numero proporzionale di nuovi lavoratori.
Anche con queste cautele, i risultati dell’esperimento mentale sono veramente impressionanti e segnalano che esiste in Italia un margine di manovra amplissimo per stimolare l’occupazione agendo sulle ore lavorate. Ovviamente questa linea di azione dovrebbe accompagnarsi ad una politica economica più complessiva che stimoli la domanda aggregata e, nel medio-lungo periodo, ad una politica industriale che affronti i problemi della nostra struttura produttiva (ad esempio, ma non solo, scarsa domanda di laureati e scarsa spesa in ricerca e sviluppo in confronto agli altri paesi europei). Evidenti ragioni di spazio rendono opportuno, in questa sede, concentrarsi sull’argomento specifico che stiamo affrontando. Si afferma in continuazione che dobbiamo essere più simili agli altri paesi europei e non si vede perché non dobbiamo seguirne l’esempio anche in questo caso. Anche se non si tratta di abbassare le ore lavorate per decreto, si apre un campo vastissimo per andare in questa direzione attraverso accorte e decise misure di politica economica ed incentivi. Due condizioni sono però necessarie: la prima è che non si colga in questo quadro il pretesto per cercare di abbassare ulteriormente i salari[11], la seconda è che sia effettivamente perseguita una politica di sostegno alla domanda aggregata, cui abbiamo già accennato, senza la quale le imprese non sarebbero disposte ad assumere nuovi lavoratori. Queste due condizioni sono collegate tra loro.
Si deve poi notare che proprio in Germania il relativamente basso tasso di disoccupazione (di poco superiore al 5%) è stato ottenuto anche attraverso le politiche di job sharing. Tuttavia occorre notare che i lavoratori part time erano nel 2012, secondo l’OCSE, il 22 per cento dell’occupazione totale in Germania contro il 19% in Italia. La differenza nelle ore lavorate annue in media tra l’Italia e la Germania non è causata solo dalla maggiore incidenza del part time in Germania, ma anche dalle ore effettivamente lavorate dai lavoratori a tempo pieno. Si può però in Italia cercare di generalizzare i contratti di solidarietà, non solo al fine di evitare licenziamenti nei singoli casi di crisi aziendale (contratti di solidarietà difensiva), ma anche al fine di sostenere l’occupazione. In questo senso occorre rivedere e incentivare i contratti di solidarietà espansiva, cioè quelli volti all’assunzione di nuovi lavoratori, che, pur previsti dalla normativa, non hanno praticamente fino ad ora trovato applicazione consistente[12].
Certamente ci sono problemi: proprio in Germania sono aumentati i working poors anche perché si è esteso il numero di lavoratori part time involontari. Anche in questo caso, però, le statistiche sono illuminanti: tra i lavoratori part time quelli involontari, sempre secondo l’OCSE, erano nel 2012 il 15% in Germania e il 47,2% in Italia. Il part time involontario è molto più diffuso in Italia che in Germania. Si tratta quindi di incentivare il part time volontario, certamente non quello involontario. Inoltre il reddito minore, che nel breve periodo i lavoratori otterrebbero dalle imprese, potrebbe essere sostenuto dalle risorse che si liberano in seguito ad una diminuzione dei sussidi alla disoccupazione conseguente alla crescita dell’occupazione. In un periodo più lungo, i salari potrebbero addirittura crescere, per effetto della diminuzione del tasso di disoccupazione e della conseguente crescita della domanda aggregata.
In ogni caso occorre agire con decisione per aggredire la disoccupazione, pensando out of the box e senza ripetere stanche formule inefficaci e questa è una strada che occorre intraprendere se si vogliono ottenere risultati.
- See more at: http://www.economiaepolitica.it/lavoro- ... 9Andvl_u_k
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Ma e' proprio questa la soluzione oppure e' una toppa ad un sistema che periodicamente si ripresentera' sempre in forme più "pericolosa"?
un salutone da Juan
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
Servono tante elucubrazioni mentali per capirne le cause o semplicemente aveva (forse)ragione Karl Marx?
Esercito industriale di riserva
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Espressione con la quale Karl Marx indica, nel I libro del Capitale [1], la massa dei disoccupati in una economia capitalistica e la sua funzione.
Il filosofo-economista nota due caratteristiche apparentemente paradossali (se osservate dal punto di vista della lotta di classe) del fenomeno della disoccupazione.
Innanzitutto è la stessa opera subordinata degli operai che concorre a rendere in parte eccedente il proprio stesso lavoro. Sono gli operai infatti, costretti a produrre plusvalore di cui si appropriano i capitalisti, plusvalore grazie al quale il capitalista può tentare, una volta raggiunto il limite oltre il quale gli è impossibile abbassare i salari, di combattere la concorrenza rinnovando i processi produttivi, quindi risparmiando manodopera [2], così come il loro stesso lavoro subordinato produce le macchine che sostituiscono in parte il lavoro loro o di altri operai.
I capitalisti, obbligati dalla concorrenza ad aumentare la produttività, ossia a diminuire il costo unitario delle merci prodotte, sono così costretti ad aumentare l’uso delle macchine modificando la composizione del proprio capitale, aumentando la quota del capitale costante (macchinari, acquisti di materie prime) a scapito di quella del capitale variabile (salari). Ma d’altro canto i capitalisti non ricavano, come credono, plusvalore dalla quantità di capitale investito ma dal lavoro operaio che hanno comunque, come per qualsiasi loro voce di spesa, interesse a pagare il meno possibile, tendenzialmente non più del livello di sussistenza. Dall'osservazione di questa contraddizione, aumento del capitale costante e diminuzione di quello variabile (la spesa per il lavoro), il solo che produca valore, nasce in Marx la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto. La presenza di un gran numero di disoccupati è funzionale all’esistenza stessa del sistema capitalistico, poiché, alimentando la concorrenza tra gli operai, garantisce un basso livello di salari opponendosi alle rivendicazioni di aumenti salariali che diminuirebbero ancor di più il profitto per il capitalista e la massa totale di plusvalore di cui si appropria la classe capitalistica nel suo insieme (accelerando quindi la caduta tendenziale del saggio di profitto).
La definizione marxiana è tratta dal linguaggio militare perché secondo Marx la disoccupazione è un’arma in mano ai capitalisti nel dispiegamento della lotta di classe.
Marx prosegue la propria analisi definendo la disoccupazione come una sovrappopolazione relativa, e sottolineando come solo in natura, tra gli animali o le piante e senza l’intervento regolatore dell’uomo, si possa parlare di “sovrappopolazione assoluta” [3].
http://it.wikipedia.org/wiki/Esercito_i ... di_riserva
L'esercito di riserva e la nuova sottoclasse dei disoccupati
L'esercito industriale di riserva rappresenta un elemento indispensabile del meccanismo sociale capitalistico, esattamente uguale alle macchine di scorta e alle materie prime nei magazzini degli stabilimenti o ai prodotti finiti già immessi nelle botteghe. Né la generale espansione della produzione né l'adattamento del capitale al periodico flusso e riflusso del ciclo industriale sarebbero possibili senza una riserva di forza-lavoro. Dalla tendenza generale dello sviluppo capitalistico, l'aumento di capitale fisso (macchine e materie prime) a spese del capitale variabile (forza-lavoro), Marx trasse la conclusione: "Più grande la ricchezza sociale... maggiore l'esercito industriale di riserva... più grande la massa in eccesso di popolazione consolidata... maggiore il pauperismo ufficiale. Questa è la legge generale assoluta dell'accumulo capitalistico".
Questa tesi, indissolubilmente legata alla "teoria della miseria crescente" e per decenni tacciata di "esagerazione", "tendenziosità", "demagogia", è divenuta ora l'impeccabile immagine teorica delle cose quali sono. L'attuale esercito di disoccupati non può esser più considerato "massa di riserva", perché la sua base non può avere più la minima speranza di ritrovare lavoro; anzi è suscettibile di ingrossarsi per un costante afflusso di ulteriori disoccupati. La disintegrazione capitalistica ha prodotto tutta una generazione di giovani che non hanno mai trovato lavoro e non hanno speranza di trovarne. Questa nuova sotto-classe, tra il proletariato e il semiproletariato, e costretta a vivere a spese della società. È stato calcolato che in nove anni (fra il 1930 e il 1938) la disoccupazione ha sottratto all'economia degli Stati Uniti più di 43 milioni di anni-uomo lavorativi. Ricordando che nel 1929, al massimo della prosperità, c'erano 2 milioni di disoccupati, negli Stati Uniti, e che in questi 9 anni il numero di lavoratori potenziali è aumentato di 5 milioni, la cifra totale di anni-uomo perduti deve essere incomparabilmente più alta. Un sistema sociale devastato da una simile piaga è malato senza speranze di salvezza. La vera diagnosi di questa malattia è stata fatta quasi ottanta anni fa, quando la malattia medesima era ancora un semplice germe.
http://www.marxpedia.org/biblioteca/il- ... isoccupati
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Qui vi voglio tutti!!
Smanettate o arate pure il web per cercare qualcosa che possa essere inerente a questo tema e casomai controbattere le "vecchie"posizioni di K.Mark , o quelle proposte dal sistema tedesco poiche questo e' uno dei grossi temi sul quale la politica deve saper dare le risposte. ......e pure noi essere informati.
un salutone da juan
Esercito industriale di riserva
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Espressione con la quale Karl Marx indica, nel I libro del Capitale [1], la massa dei disoccupati in una economia capitalistica e la sua funzione.
Il filosofo-economista nota due caratteristiche apparentemente paradossali (se osservate dal punto di vista della lotta di classe) del fenomeno della disoccupazione.
Innanzitutto è la stessa opera subordinata degli operai che concorre a rendere in parte eccedente il proprio stesso lavoro. Sono gli operai infatti, costretti a produrre plusvalore di cui si appropriano i capitalisti, plusvalore grazie al quale il capitalista può tentare, una volta raggiunto il limite oltre il quale gli è impossibile abbassare i salari, di combattere la concorrenza rinnovando i processi produttivi, quindi risparmiando manodopera [2], così come il loro stesso lavoro subordinato produce le macchine che sostituiscono in parte il lavoro loro o di altri operai.
I capitalisti, obbligati dalla concorrenza ad aumentare la produttività, ossia a diminuire il costo unitario delle merci prodotte, sono così costretti ad aumentare l’uso delle macchine modificando la composizione del proprio capitale, aumentando la quota del capitale costante (macchinari, acquisti di materie prime) a scapito di quella del capitale variabile (salari). Ma d’altro canto i capitalisti non ricavano, come credono, plusvalore dalla quantità di capitale investito ma dal lavoro operaio che hanno comunque, come per qualsiasi loro voce di spesa, interesse a pagare il meno possibile, tendenzialmente non più del livello di sussistenza. Dall'osservazione di questa contraddizione, aumento del capitale costante e diminuzione di quello variabile (la spesa per il lavoro), il solo che produca valore, nasce in Marx la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto. La presenza di un gran numero di disoccupati è funzionale all’esistenza stessa del sistema capitalistico, poiché, alimentando la concorrenza tra gli operai, garantisce un basso livello di salari opponendosi alle rivendicazioni di aumenti salariali che diminuirebbero ancor di più il profitto per il capitalista e la massa totale di plusvalore di cui si appropria la classe capitalistica nel suo insieme (accelerando quindi la caduta tendenziale del saggio di profitto).
La definizione marxiana è tratta dal linguaggio militare perché secondo Marx la disoccupazione è un’arma in mano ai capitalisti nel dispiegamento della lotta di classe.
Marx prosegue la propria analisi definendo la disoccupazione come una sovrappopolazione relativa, e sottolineando come solo in natura, tra gli animali o le piante e senza l’intervento regolatore dell’uomo, si possa parlare di “sovrappopolazione assoluta” [3].
http://it.wikipedia.org/wiki/Esercito_i ... di_riserva
L'esercito di riserva e la nuova sottoclasse dei disoccupati
L'esercito industriale di riserva rappresenta un elemento indispensabile del meccanismo sociale capitalistico, esattamente uguale alle macchine di scorta e alle materie prime nei magazzini degli stabilimenti o ai prodotti finiti già immessi nelle botteghe. Né la generale espansione della produzione né l'adattamento del capitale al periodico flusso e riflusso del ciclo industriale sarebbero possibili senza una riserva di forza-lavoro. Dalla tendenza generale dello sviluppo capitalistico, l'aumento di capitale fisso (macchine e materie prime) a spese del capitale variabile (forza-lavoro), Marx trasse la conclusione: "Più grande la ricchezza sociale... maggiore l'esercito industriale di riserva... più grande la massa in eccesso di popolazione consolidata... maggiore il pauperismo ufficiale. Questa è la legge generale assoluta dell'accumulo capitalistico".
Questa tesi, indissolubilmente legata alla "teoria della miseria crescente" e per decenni tacciata di "esagerazione", "tendenziosità", "demagogia", è divenuta ora l'impeccabile immagine teorica delle cose quali sono. L'attuale esercito di disoccupati non può esser più considerato "massa di riserva", perché la sua base non può avere più la minima speranza di ritrovare lavoro; anzi è suscettibile di ingrossarsi per un costante afflusso di ulteriori disoccupati. La disintegrazione capitalistica ha prodotto tutta una generazione di giovani che non hanno mai trovato lavoro e non hanno speranza di trovarne. Questa nuova sotto-classe, tra il proletariato e il semiproletariato, e costretta a vivere a spese della società. È stato calcolato che in nove anni (fra il 1930 e il 1938) la disoccupazione ha sottratto all'economia degli Stati Uniti più di 43 milioni di anni-uomo lavorativi. Ricordando che nel 1929, al massimo della prosperità, c'erano 2 milioni di disoccupati, negli Stati Uniti, e che in questi 9 anni il numero di lavoratori potenziali è aumentato di 5 milioni, la cifra totale di anni-uomo perduti deve essere incomparabilmente più alta. Un sistema sociale devastato da una simile piaga è malato senza speranze di salvezza. La vera diagnosi di questa malattia è stata fatta quasi ottanta anni fa, quando la malattia medesima era ancora un semplice germe.
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
NOVA10002 aprile 2014
ADAPTability 10/
Il dilemma occupazionale nell’era della terza rivoluzione industriale
L'automazione può sostituire la forza lavoro?
Di Francesca Sperotti Twitter@FSperotti
Da almeno due secoli economisti, storici e filosofi si interrogano sul rapporto “automazione–forza lavoro” e sul rischio – o meno – che la prima possa sostituire la seconda.
Se per lungo tempo la maggior parte degli economisti, sulla base di quanto osservato dopo la prima rivoluzione industriale, ha dato per certa la relazione positiva tra innovazione tecnologica e innalzamento occupazionale e salariale, oggigiorno comincia a delinearsi un secondo filone di pensiero secondo cui, invece, nell’attuale era dell’elettronica, delle telecomunicazioni e dell’informatica, da alcuni denominata come terza rivoluzione industriale (1970-oggi), il potenziale dell’automazione potrebbe portare a uno scenario meno positivo rispetto a quello osservato nello scorso secolo.Lo ha affermato anche di recente l’ex premier Romano Prodi in un’intervista rilasciata su La Repubblica: «a differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie dell’informazione distruggono posti di lavoro.
Il rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto». L’attuale livello salariale stagnante, accompagnato da tassi occupazionali decrescenti, sembrerebbe confermare questo scenario.
Anche secondo Lawrence Summers, Segretario al Tesoro per l’ultimo anno e mezzo della presidenza Clinton, tale dato indicherebbe che «il cambiamento tecnologico sta gradualmente prendendo la forma del capitale che sostituisce il lavoro».
Affermazioni che vengono ulteriormente rafforzate dalle previsioni di Carl Benedikt Frey e Michael Osborne che, classificando le occupazioni esistenti secondo il grado di sostituzione con i computer (si veda la Tabella 1), rivelano che, in questa fase di passaggio, alcuni lavori hanno già un’altissima probabilità di essere sostituiti da software e strumenti hardware (si pensi ai cassieri, tour operator e ai contabili) perché comprendono mansioni ripetitive e standardizzate. Più precisamente il 47% delle categorie occupazionali, in cui attualmente il lavoro è organizzato, è a rischio di essere automatizzato.
A salvarsi, invece, sarebbero essenzialmente quei lavori con una forte componente umana e relazionale, i cosiddetti “emotive occupations”: terapisti, dentisti, allenatori, insegnanti etc. (C.B. Frey e M.A. Osborne, The Future of Employment: How Susceptible are Jobs to Computerisation?, settembre 2013).
Tabella 1
Classifica Lavoro Probabilità di computerizzazione (0: non computerizzazione; 1: computerizzazione)
1° Terapeuti 0.0028
10° Pompieri e addetti alla prevenzione 0.0036
20° Insegnanti scuole elementari 0.0044
30° Manager dello Sviluppo e della Formazione 0.0063
40° Insegnanti di sostegno e delle scuole secondarie 0.0077
50° Truccatori 0.01
100° Chiropratici 0.027
150° Terapisti del respiro 0.066
200° Insegnanti scuole medie 0.17
250° Assistenti di volo 0.35
300° Addetti all’installazione, manutenzione e riparazione 0.5
350° Ispettori delle costruzioni e dell’edilizia 0.63
400° Sarti, fissatori di macchine, operatori 0.73
450° Installatori di allarmi di sicurezza e anti-incendio 0.82
500° Personale di corrispondenza 0.86
550° Personale tecnico addetto alle cartelle cliniche 0.91
600° Intervistatori 0.94
692° Bibliotecari 0.99
Anche l’articolo “The onrushing wave” (The Economist) da voce a questo nuovo filone di pensiero aggiungendo che tale processo di computerizzazione dei lavori potrebbe essere accelerato da altri elementi tipici del contesto attuale.
In primo luogo, da un sistema formativo ed educativo che, oltre ad essere in ritardo rispetto al mondo produttivo, che non è più in grado di competere con l’intelligenza artificiale.
Come riportato anche dal Financial Times la generazione di laureati con posizioni ben retribuite – come giovani ricercatori e analisti del settore bancario – potrebbero essere presto sostituiti dalle nuove macchine “smart”.
In secondo luogo, la presenza di sussidi per la disoccupazione e altri sistemi di welfare che rischiano di rendere il lavoro meno attraente agli occhi del lavoratore: il posto di lavoro lasciato “vuoto” dal lavoratore potrebbe essere preso direttamente dalle nuove tecnologie.
Eppure, è il medesimo articolo dell’Economist a gettare luce su quelli che sono anche i falsi miti del passato, che forse non rappresentano il corretto parametro di riferimento.
Durante la prima rivoluzione industriale, costosi macchinari venivano affiancati alla forza lavoro e i processi produttivi e di organizzazione del lavoro venivano riorganizzati per massimizzare gli output.
La stragrande maggioranza della forza lavoro veniva così impiegata in un insieme di molteplici componenti del processo produttivo implicanti mansioni ripetitive, mentre una piccola porzione, quella più qualificata, veniva affidata ai macchinari.
Tale progresso tecnologico, che ha segnato il passaggio da un’economia agricola a una di tipo industriale, ha tuttavia avuto bisogno del suo tempo per mostrare i suoi benefici.
Tra il 1780 e il 1830, infatti, la crescita dei salari è stata impercettibile e i guadagni sono stati alti solo per una porzione ridotta di industrie.
Solo sul finire del 1800 si è registrato un boom occupazionale e un livello dei salari in linea con quello della produttività. Ciò ha portato a maggiori investimenti nell’istruzione e dunque nella formazione di una forza lavoro più qualificata.
Da allora fino alla Seconda Guerra Mondiale, questa nuova forza lavoro ha avuto la meglio sulla tecnologia garantendo una reale prosperità alle economie industrializzate.
Sulla base di questo excursus si potrebbe dunque argomentare che l’attuale terza rivoluzione industriale stia vivendo una fase di transizione simile a quella che la prima ha vissuto dal 1780 al 1830.
La rivoluzione delle nuove tecnologie non è ancora riuscita a sprigionare il suo potenziale occupazionale e salariale perché ancora in una fase di “aggiustamento” nella quale pochi sono ancora coloro che hanno abbracciato il cambiamento.
E come ogni cambiamento ha bisogno del suo tempo per essere innanzitutto compreso – mentre oggi molti lo attaccano stigmatizzandolo (si legga M. Minghetti, I #neoluddisti non muoiono mai, 1: Internet come fonte di ogni male, 13 gennaio 2014), poi valutato (nei costi e nei benefici) e infine vissuto.
La profezia della disoccupazione tecnologica di Maynard Keynes potrebbe dunque verificarsi ma non a causa della semplice scoperta di strumenti economizzatori di manodopera, quanto piuttosto per una serie di mancanze che potrebbero, nel medio e lungo termine, far ritardare i benefici di questa nuova ondata tecnologica.
Tra queste il ritardo nell’informazione sui benefici che le medesime nuove tecnologie possono portare, il ritardo nel cambiamento culturale nell’approccio al nuovo mondo del lavoro, il ritardo della formazione verso le nuove tecnologie sia nei sistemi scolastici sia negli assetti aziendali, e il mancato coordinamento tra tutti gli attori coinvolti.
Tutti tasselli che sono necessari per accompagnare al meglio questa transizione perché «despite some predictable trends tomorrow’s work begins today» (L. Gratton, The Shift: The future of Work is Already Here, 2011).
http://marcominghetti.nova100.ilsole24o ... dustriale/
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Il dilemma occupazionale nell’era della terza rivoluzione industriale
L'automazione può sostituire la forza lavoro?
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Da almeno due secoli economisti, storici e filosofi si interrogano sul rapporto “automazione–forza lavoro” e sul rischio – o meno – che la prima possa sostituire la seconda.
Se per lungo tempo la maggior parte degli economisti, sulla base di quanto osservato dopo la prima rivoluzione industriale, ha dato per certa la relazione positiva tra innovazione tecnologica e innalzamento occupazionale e salariale, oggigiorno comincia a delinearsi un secondo filone di pensiero secondo cui, invece, nell’attuale era dell’elettronica, delle telecomunicazioni e dell’informatica, da alcuni denominata come terza rivoluzione industriale (1970-oggi), il potenziale dell’automazione potrebbe portare a uno scenario meno positivo rispetto a quello osservato nello scorso secolo.Lo ha affermato anche di recente l’ex premier Romano Prodi in un’intervista rilasciata su La Repubblica: «a differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie dell’informazione distruggono posti di lavoro.
Il rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto». L’attuale livello salariale stagnante, accompagnato da tassi occupazionali decrescenti, sembrerebbe confermare questo scenario.
Anche secondo Lawrence Summers, Segretario al Tesoro per l’ultimo anno e mezzo della presidenza Clinton, tale dato indicherebbe che «il cambiamento tecnologico sta gradualmente prendendo la forma del capitale che sostituisce il lavoro».
Affermazioni che vengono ulteriormente rafforzate dalle previsioni di Carl Benedikt Frey e Michael Osborne che, classificando le occupazioni esistenti secondo il grado di sostituzione con i computer (si veda la Tabella 1), rivelano che, in questa fase di passaggio, alcuni lavori hanno già un’altissima probabilità di essere sostituiti da software e strumenti hardware (si pensi ai cassieri, tour operator e ai contabili) perché comprendono mansioni ripetitive e standardizzate. Più precisamente il 47% delle categorie occupazionali, in cui attualmente il lavoro è organizzato, è a rischio di essere automatizzato.
A salvarsi, invece, sarebbero essenzialmente quei lavori con una forte componente umana e relazionale, i cosiddetti “emotive occupations”: terapisti, dentisti, allenatori, insegnanti etc. (C.B. Frey e M.A. Osborne, The Future of Employment: How Susceptible are Jobs to Computerisation?, settembre 2013).
Tabella 1
Classifica Lavoro Probabilità di computerizzazione (0: non computerizzazione; 1: computerizzazione)
1° Terapeuti 0.0028
10° Pompieri e addetti alla prevenzione 0.0036
20° Insegnanti scuole elementari 0.0044
30° Manager dello Sviluppo e della Formazione 0.0063
40° Insegnanti di sostegno e delle scuole secondarie 0.0077
50° Truccatori 0.01
100° Chiropratici 0.027
150° Terapisti del respiro 0.066
200° Insegnanti scuole medie 0.17
250° Assistenti di volo 0.35
300° Addetti all’installazione, manutenzione e riparazione 0.5
350° Ispettori delle costruzioni e dell’edilizia 0.63
400° Sarti, fissatori di macchine, operatori 0.73
450° Installatori di allarmi di sicurezza e anti-incendio 0.82
500° Personale di corrispondenza 0.86
550° Personale tecnico addetto alle cartelle cliniche 0.91
600° Intervistatori 0.94
692° Bibliotecari 0.99
Anche l’articolo “The onrushing wave” (The Economist) da voce a questo nuovo filone di pensiero aggiungendo che tale processo di computerizzazione dei lavori potrebbe essere accelerato da altri elementi tipici del contesto attuale.
In primo luogo, da un sistema formativo ed educativo che, oltre ad essere in ritardo rispetto al mondo produttivo, che non è più in grado di competere con l’intelligenza artificiale.
Come riportato anche dal Financial Times la generazione di laureati con posizioni ben retribuite – come giovani ricercatori e analisti del settore bancario – potrebbero essere presto sostituiti dalle nuove macchine “smart”.
In secondo luogo, la presenza di sussidi per la disoccupazione e altri sistemi di welfare che rischiano di rendere il lavoro meno attraente agli occhi del lavoratore: il posto di lavoro lasciato “vuoto” dal lavoratore potrebbe essere preso direttamente dalle nuove tecnologie.
Eppure, è il medesimo articolo dell’Economist a gettare luce su quelli che sono anche i falsi miti del passato, che forse non rappresentano il corretto parametro di riferimento.
Durante la prima rivoluzione industriale, costosi macchinari venivano affiancati alla forza lavoro e i processi produttivi e di organizzazione del lavoro venivano riorganizzati per massimizzare gli output.
La stragrande maggioranza della forza lavoro veniva così impiegata in un insieme di molteplici componenti del processo produttivo implicanti mansioni ripetitive, mentre una piccola porzione, quella più qualificata, veniva affidata ai macchinari.
Tale progresso tecnologico, che ha segnato il passaggio da un’economia agricola a una di tipo industriale, ha tuttavia avuto bisogno del suo tempo per mostrare i suoi benefici.
Tra il 1780 e il 1830, infatti, la crescita dei salari è stata impercettibile e i guadagni sono stati alti solo per una porzione ridotta di industrie.
Solo sul finire del 1800 si è registrato un boom occupazionale e un livello dei salari in linea con quello della produttività. Ciò ha portato a maggiori investimenti nell’istruzione e dunque nella formazione di una forza lavoro più qualificata.
Da allora fino alla Seconda Guerra Mondiale, questa nuova forza lavoro ha avuto la meglio sulla tecnologia garantendo una reale prosperità alle economie industrializzate.
Sulla base di questo excursus si potrebbe dunque argomentare che l’attuale terza rivoluzione industriale stia vivendo una fase di transizione simile a quella che la prima ha vissuto dal 1780 al 1830.
La rivoluzione delle nuove tecnologie non è ancora riuscita a sprigionare il suo potenziale occupazionale e salariale perché ancora in una fase di “aggiustamento” nella quale pochi sono ancora coloro che hanno abbracciato il cambiamento.
E come ogni cambiamento ha bisogno del suo tempo per essere innanzitutto compreso – mentre oggi molti lo attaccano stigmatizzandolo (si legga M. Minghetti, I #neoluddisti non muoiono mai, 1: Internet come fonte di ogni male, 13 gennaio 2014), poi valutato (nei costi e nei benefici) e infine vissuto.
La profezia della disoccupazione tecnologica di Maynard Keynes potrebbe dunque verificarsi ma non a causa della semplice scoperta di strumenti economizzatori di manodopera, quanto piuttosto per una serie di mancanze che potrebbero, nel medio e lungo termine, far ritardare i benefici di questa nuova ondata tecnologica.
Tra queste il ritardo nell’informazione sui benefici che le medesime nuove tecnologie possono portare, il ritardo nel cambiamento culturale nell’approccio al nuovo mondo del lavoro, il ritardo della formazione verso le nuove tecnologie sia nei sistemi scolastici sia negli assetti aziendali, e il mancato coordinamento tra tutti gli attori coinvolti.
Tutti tasselli che sono necessari per accompagnare al meglio questa transizione perché «despite some predictable trends tomorrow’s work begins today» (L. Gratton, The Shift: The future of Work is Already Here, 2011).
http://marcominghetti.nova100.ilsole24o ... dustriale/
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
Ieri sera ho ascoltato Giavazzi ad “In Onda”. Neppure lui è in grado di introdurre questo tema quando parla di rilancio dell’economia.
Avanti di questo passo saranno in pochi a rientrare al lavoro.
Avanti di questo passo saranno in pochi a rientrare al lavoro.
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
Certamente queste scuole di pensiero non possono dare delle risposte che in qualche modo dovrebbero costringerti ad uscire dagli schemi imparati a scuola.camillobenso ha scritto:Ieri sera ho ascoltato Giavazzi ad “In Onda”. Neppure lui è in grado di introdurre questo tema quando parla di rilancio dell’economia.
Avanti di questo passo saranno in pochi a rientrare al lavoro.
Non e' forse che dovremmo rileggerci piu' attentamente alcuni filosofi del passato fra i quali Marx e Bakunin.
Certe riletture non le facevi da giovane ma ora con qualche anno in più e con piu' di tempo me le sono riviste.
Proprio facendo riferimento a queste, porto uno stracio di discussione tra Marx e Bukanin, preso da Wikipedia, molto interessante ed attuale che in un certo qual modo mi fa propendere(in questo caso) per Bukanin.
Marx, sempre attivo nel polemizzare con Bakunin, lesse un suo opuscoletto ("Stato e anarchia"), e vi scrisse dei commenti.
Eccone uno stralcio:
Bakunin:
«Il suffragio universale tramite il quale il popolo intero elegge i suoi rappresentanti e i governanti dello Stato - questa è l'ultima parola dei marxisti e della scuola democratica. Tutte queste sono menzogne che nascondono il dispotismo di una minoranza che detiene il governo, menzogne tanto più pericolose in quanto questa minoranza si presenta come espressione della cosiddetta volontà popolare»
Marx:
«Con la collettivizzazione della proprietà, la cosiddetta volontà popolare scompare per lasciare spazio alla volontà reale dell'ente cooperativo»
Bakunin:
«Risultato: il dominio esercitato sulla grande maggioranza del popolo da parte di una minoranza di privilegiati. Ma, dicono i marxisti, questa minoranza sarà costituita da lavoratori. Si, certo, ma da ex lavoratori che, una volta diventati rappresentanti o governanti del popolo, cessano di essere lavoratori»
Marx:
«Non più di quanto un industriale oggi cessi di essere un capitalista quando diventa membro del consiglio comunale»
[b]Bakunin[/b]:
«E dall'alto dei vertici dello Stato cominciano a guardare con disprezzo il mondo comune dei lavoratori. Da quel punto in poi non rappresentano più il popolo, ma solo se stessi e le proprie pretese di governare il popolo. Chi mette in dubbio ciò dimostra di non conoscere per niente la natura umana»
Marx:
«Se solo il signor Bakunin avesse la minima familiarità anche solo con la posizione di un dirigente di una cooperativa di lavoratori, butterebbe alle ortiche tutti i suoi incubi sull'autorità»
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Non e' che sia proprio questo il problema dei problemi? Quindi potrebbe aver ragione Bakunin su questo!!...il dominio esercitato sulla grande maggioranza del popolo da parte di una minoranza di privilegiati. Ma, dicono i marxisti, questa minoranza sarà costituita da lavoratori. Si, certo, ma da ex lavoratori che, una volta diventati rappresentanti o governanti del popolo, cessano di essere lavoratori....
....E dall'alto dei vertici dello Stato cominciano a guardare con disprezzo il mondo comune dei lavoratori. Da quel punto in poi non rappresentano più il popolo, ma solo se stessi e le proprie pretese di governare il popolo. Chi mette in dubbio ciò dimostra di non conoscere per niente la natura umana
E come venirne fuori?
un salutone da Juan
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
Non e' che sia proprio questo il problema dei problemi? Quindi potrebbe aver ragione Bakunin su questo!!
E come venirne fuori?
un salutone da Juan
^^^^^^^^^^^^
A me sembra che abbia ragione Bakunin ancora in queste ore.
Non voglio fare “il bauscia” milanese alla Silvietto. Ma…………….
Da tempo ho colloqui quotidiani con la gente comune che trova opportuno discutere a 360 gradi, come facciamo noi sul forum, e le risposte non sono proprio confortanti.
1) Più ascolto gente, che spesso mescola volentieri problemi ed esperienze personali, con i fatti della politica e della società in genere, e più li spingo a riflettere verso una conclusione del tipo:
E come venirne fuori?
un salutone da Juan
che mi trovo da molti mesi sempre e soltanto davanti alla stessa conclusione.
So che non piacerà a nessuno, ma questa è la amara verità.
“Da questa situazione non se ne viene fuori più, a meno che si possa mettere un dittatore con la testa sulle spalle.”
Già, ma io nella storia dell’umanità di dittatori con la testa a posto non ne ho mai visti. Anche se Fidel Confalonieri ha definito a suo tempo Silvietto di Hardcore come un dittatore buono, non certo un Ceaușescu.
E’ proprio di ieri la risposta di un ottantenne molto vispo e presente, di area politica indefinibile,…probabilmente di centro destra. Ma che gli è anche piaciuto Bersani. Un po’ socialista un po’ centrista. Vattelapesca.
Affrontando ieri i problemi dell’occupazione, dei sindacati (ce l’ha su a morte), ma soprattutto dell’emigrazione, che è cosciente più di tutti dei problemi della robotizzazione perché fino a 10 anni fa ha fatto il piccolo imprenditore in quel di Milano, che conosce i problemi della PA, …..ieri ad un certo punto è sbottato così:
<<Dovremmo mandare su un uomo 10 volte più cattivo di Mussolini…..>>
PS. Gli ho anche fatto sentire l’intervista di Giulietto Chiesa, in merito alla Terza Guerra Mondiale, postata da Paolino in altro 3D, per conoscere il suo parere, ottenendo questo risultato:
<<Non tutto è attendibile,….ma buona parte si….>>
^^
2) Il giorno prima, venerdì 1 agosto, si siede al tavolo un tizio (classe 1940), già visto qualche volta in precedenza, ma che non aveva mai avuto contatti con il solito gruppo che tutti i giorni manda in onda Ballarò per risolvere i problemi del Bel Paese, e chiede il permesso di leggere “Il Manifesto”.
Poi ad un certo punto, eravamo soli, mi pone questa domanda: <<Chi ha ragione???....>>
Ovviamente è un modo per rompere il ghiaccio e a questo punto parte il solito rosario delle deficienze di questo Paese.
Anche in questo caso, dopo aver sgranato tutto il rosario, parte la sua conclusione: <<Un sistema ci sarebbe,…….ma non posso dirlo…..>>
Non ci vuole di certo un genio per capire cosa sottintende. Premendo sull’acceleratore alla fine lo spingo a dire quello che pensa.
Ovviamente è convinto che ci voglia la dittatura per uscire da questo pantano.
Mi piacerebbe conoscere le vostre esperienze nelle varie città dello Stivalone.
Mi rifiuto di credere che solo da queste parti la conclusione sia quella di andare a cercare un nuovo, Amilcare, Andrea, Benito Mussolini, per potere uscire da questa Morta Gora.
Anche perché questa rimane, anche se molto annacquata, la vecchia Stalingrado d’Italia. La ex cittadella operaia per eccellenza, che negli anni ’60 aveva raggiunto il record planetario della città più densamente dotata di fabbriche a livello internazionale, oltre alle altre. SSG era considerata all’epoca il dormitorio di Milano. Una città operaia prevalentemente rossa.
Sentire queste conclusioni a 69 anni dalla fine del fascismo, fa “senzo”….direbbe Totò.
Ritornare al punto di partenza, per una città medaglia d’oro della Resistenza è un vero obbrobrio.
Eppure le cose stanno così.
E come venirne fuori?
un salutone da Juan
^^^^^^^^^^^^
A me sembra che abbia ragione Bakunin ancora in queste ore.
Non voglio fare “il bauscia” milanese alla Silvietto. Ma…………….
Da tempo ho colloqui quotidiani con la gente comune che trova opportuno discutere a 360 gradi, come facciamo noi sul forum, e le risposte non sono proprio confortanti.
1) Più ascolto gente, che spesso mescola volentieri problemi ed esperienze personali, con i fatti della politica e della società in genere, e più li spingo a riflettere verso una conclusione del tipo:
E come venirne fuori?
un salutone da Juan
che mi trovo da molti mesi sempre e soltanto davanti alla stessa conclusione.
So che non piacerà a nessuno, ma questa è la amara verità.
“Da questa situazione non se ne viene fuori più, a meno che si possa mettere un dittatore con la testa sulle spalle.”
Già, ma io nella storia dell’umanità di dittatori con la testa a posto non ne ho mai visti. Anche se Fidel Confalonieri ha definito a suo tempo Silvietto di Hardcore come un dittatore buono, non certo un Ceaușescu.
E’ proprio di ieri la risposta di un ottantenne molto vispo e presente, di area politica indefinibile,…probabilmente di centro destra. Ma che gli è anche piaciuto Bersani. Un po’ socialista un po’ centrista. Vattelapesca.
Affrontando ieri i problemi dell’occupazione, dei sindacati (ce l’ha su a morte), ma soprattutto dell’emigrazione, che è cosciente più di tutti dei problemi della robotizzazione perché fino a 10 anni fa ha fatto il piccolo imprenditore in quel di Milano, che conosce i problemi della PA, …..ieri ad un certo punto è sbottato così:
<<Dovremmo mandare su un uomo 10 volte più cattivo di Mussolini…..>>
PS. Gli ho anche fatto sentire l’intervista di Giulietto Chiesa, in merito alla Terza Guerra Mondiale, postata da Paolino in altro 3D, per conoscere il suo parere, ottenendo questo risultato:
<<Non tutto è attendibile,….ma buona parte si….>>
^^
2) Il giorno prima, venerdì 1 agosto, si siede al tavolo un tizio (classe 1940), già visto qualche volta in precedenza, ma che non aveva mai avuto contatti con il solito gruppo che tutti i giorni manda in onda Ballarò per risolvere i problemi del Bel Paese, e chiede il permesso di leggere “Il Manifesto”.
Poi ad un certo punto, eravamo soli, mi pone questa domanda: <<Chi ha ragione???....>>
Ovviamente è un modo per rompere il ghiaccio e a questo punto parte il solito rosario delle deficienze di questo Paese.
Anche in questo caso, dopo aver sgranato tutto il rosario, parte la sua conclusione: <<Un sistema ci sarebbe,…….ma non posso dirlo…..>>
Non ci vuole di certo un genio per capire cosa sottintende. Premendo sull’acceleratore alla fine lo spingo a dire quello che pensa.
Ovviamente è convinto che ci voglia la dittatura per uscire da questo pantano.
Mi piacerebbe conoscere le vostre esperienze nelle varie città dello Stivalone.
Mi rifiuto di credere che solo da queste parti la conclusione sia quella di andare a cercare un nuovo, Amilcare, Andrea, Benito Mussolini, per potere uscire da questa Morta Gora.
Anche perché questa rimane, anche se molto annacquata, la vecchia Stalingrado d’Italia. La ex cittadella operaia per eccellenza, che negli anni ’60 aveva raggiunto il record planetario della città più densamente dotata di fabbriche a livello internazionale, oltre alle altre. SSG era considerata all’epoca il dormitorio di Milano. Una città operaia prevalentemente rossa.
Sentire queste conclusioni a 69 anni dalla fine del fascismo, fa “senzo”….direbbe Totò.
Ritornare al punto di partenza, per una città medaglia d’oro della Resistenza è un vero obbrobrio.
Eppure le cose stanno così.
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
Una delle ragioni per cui anch'io credo che non se ne verrà fuori è questa:
SESSANTA SECONDINI PER UNA MINUTILLO - L’EX SEGRETARIA DI GALAN: “POTEVAMO CORROMPERE POLITICI E GIUDICI E MOLTI NOMI NON USCIRANNO MAI. GIRAVANO COSÌ TANTE TANGENTI CHE GALAN FACEVA CONFUSIONE ”
La dimensione del giro delle tangenti è megalattica, non se ne può uscire.
3 AGO 2014 12:53
SESSANTA SECONDINI PER UNA MINUTILLO - L’EX SEGRETARIA DI GALAN: “POTEVAMO CORROMPERE POLITICI E GIUDICI E MOLTI NOMI NON USCIRANNO MAI. GIRAVANO COSÌ TANTE TANGENTI CHE GALAN FACEVA CONFUSIONE ” - IL RIESAME DICE NO: NIENTE SCARCERAZIONE PER GALAN - -
“Baita, Buson e Mazzacurati sono stati pagati milioni di euro per corrompere e per pagare investigatori privati che potessero in qualche modo controllare le indagini. Eravamo arrivati a un punto che non ci si fidava più di nessuno. Non sapevi più con chi parlare: arrestandomi mi hanno liberata”... -
1 - LA DOGARESSA DELLO SCANDALO MOSE «MOLTI NOMI NON USCIRANNO MAI»
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera”
Quando lo incontrerà gli tirerà due ceffoni, se lui non l’avrà stesa prima. E garantisce che glielo dirà in faccia: «Per salvare te stesso e i tuoi soldi hai infamato una donna con falsità e cattiverie. Io i peccati li ho confessati, tu no». Oggi lo detesta almeno quanto lo sosteneva negli anni ruggenti, quando lavoravano fianco a fianco per intere giornate. Lei a gestire la fitta agenda del governatore, lui a dettarla.
Era l’età della forte ascesa di Claudia Minutillo, formalmente la segretaria di Giancarlo Galan, di fatto vicepresidente della Regione Veneto. Il doge e la dogaressa oggi si trattano a pesci in faccia. È partita lei confessando fondi neri e denunciandolo. «Era lei a rubare», è insorto lui creando così le premesse di questa intervista indignata e fumantina.
Abito elegante nero, la gonna due dita sopra il ginocchio, un filo di trucco, un filo di tacco, della battagliera Claudia Minutillo sorprende la fragilità che di tanto in tanto esce allo scoperto bagnandole gli occhi di commozione, quando ricorda suo padre, sua madre o alcune persone semplici nelle quali si scioglie. Ma quando si parla del doge torna inflessibile.
Galan sostiene che lei ha trattenuto i soldi di due contributi elettorali in nero, 500 mila euro, e che si faceva dare una sorta di ticket da chi chiedeva un appuntamento col governatore.
«Dico che io quei soldi non solo non li ho trattenuti ma neppure li ho ricevuti. Dei contributi cash destinati a lui non ho mai intascato nulla, pur vivendo in quella realtà corrotta e pur avendo confessato fondi neri. Figuriamoci poi se facevo pagare un ticket».
Lussi, case, macchine, il cappotto da 18 mila euro. Il vecchio capo punta il dito sul suo patrimonio che non sembra quello di una segretaria.
«Galan si difende attaccando chi lo accusa per cercare di salvarsi colpendo i testimoni: non ci sono solo io, anche Baita e Mazzacurati. Con me è particolarmente violento, forse perché sono stata la prima a confessare. Guardi, io le dico una cosa: giravano così tante tangenti che Galan faceva pure confusione fra questo o quell’imprenditore, questa è la verità. In ogni caso non ho mai avuto un cappotto da 18 mila euro».
Lei sta dicendo che è venuta a galla solo una parte di verità?
«Il sistema era quello. Molti nomi non usciranno mai perché ci vorrebbe un esercito di inquirenti per provare le accuse prima della prescrizione. Eravamo in grado di corrompere molte persone, politici, magistrati, generali, al punto che quando decisi di parlare temevo che qualcuno dei finanzieri potesse fare il doppio gioco. Quando sei dentro a un sistema malato pensi che tutto sia malato».
Poi ha cambiato idea?
«Pensi che a farmela cambiare sono stati proprio i miei accusatori, quei magistrati, Ancilotto, la Tonini, e il gruppetto di finanzieri della Tributaria di Venezia che hanno saputo lavorare in un ambiente difficilissimo, per il fatto che noi cercavamo di inquinarlo. Guadagnano quel che guadagnano ma nulla può tentarli. Mi hanno incastrato, certo, ma alla fine è come se mi avessero liberato».
Come cercavate di inquinare?
«Con Baita, Buson e Mazzacurati sono stati pagati milioni di euro per corrompere e per pagare investigatori privati che potessero in qualche modo controllare le indagini. Ricordo che una volta, quando ci fu la richiesta di ulteriori due milioni di euro, Buson che era il responsabile finanziario del gruppo Mantovani, mi disse: pazzesco, ma tu sai quanti dipendenti pagherei io con tutti questi soldi».
In quel mondo lei ci ha sguazzato a lungo, giusto?
«Sì ma non ne potevo più. Eravamo arrivati a un punto che non ci si fidava più di nessuno. Non sapevi più con chi parlare, dove, avevo sempre il sospetto di essere spiata, indagata. Era diventata una vita grama. Ho confessato anche per questo».
Dopo la confessione com’è cambiata la sua vita?
«Forse sono più sola di prima ma più in pace con me stessa. Ho dovuto fare i conti con varie minacce, anche a persone a me vicine. Ma alla fine è come se mi fossi tolta una grande peso».
Cosa fa ora dei suoi giorni?
«Mi sto dedicando a un nuovo progetto imprenditoriale che non ha nulla anche fare con la Pubblica amministrazione».
Come vede il suo futuro?
«Non lo vedo ancora ma sarà certamente migliore del mio passato. Il mio passato e il mio futuro sono divisi da un arresto che mi ha liberato».
2 - «IL PRESIDENTE MI DICEVA: LA POLITICA VA AIUTATA»
G.Fas. per il “Corriere della Sera”
Una cattiva notizia dopo l’altra per Giancarlo Galan . Il tribunale del Riesame di Venezia ha respinto ieri la richiesta di scarcerazione presentata dagli avvocati Nicolò Ghedini e Antonio Franchini. E anche se, come spiegano gli stessi legali, i giudici hanno riconosciuto la prescrizione «per l’80% dei fatti contestati» (compreso il FINANZIAMENTO della ristrutturazione della casa) non sono stati concessi gli arresti domiciliari.
La difesa pensa ora al ricorso in Cassazione sapendo bene che la posizione del deputato di Forza Italia si è complicata con il deposito di nuovi atti. Fra quelle carte ci sono le accuse di due imprenditori: Pierluigi Alessandri, amministratore della Sacaim costruzioni, e Andrea Mevorach. Dice Alessandri in un interrogatorio: «Fra il 2006 e il 2007 ho dato a Galan, in tutto, 115 mila euro (...) eravamo estromessi dai lavori importanti in Veneto.
Io ho parlato con Galan delle difficoltà della mia impresa e lui mi disse che aveva saputo che noi eravamo una delle imprese di riferimento dei Ds. Io replicai che il mio interesse principale era far lavorare la mia impresa e lui rispose che avrebbe visto cosa fare purché io fossi stato disponibile a entrare nella cerchia degli imprenditori a lui vicini (...) amici, con ciò intendendo imprenditori disponibili a elargire somme di denaro e favori di altro genere».
E ancora: «Mi mise in contatto con l’assessore alle infrastrutture Renato Chisso (arrestato per la stessa inchiesta sul Mose, ndr ) consigliandomi di mostrarmi generoso nelle elargizioni (...) mi suggerì esplicitamente di corrispondere delle somme a Chisso».
L’altra nuova spina nel fianco dell’ex governatore è l’imprenditore Andrea Mevorach. Anche lui ha riempito un verbale di accuse contro Galan il quale, per fargli capire che avrebbe lavorato solo pagando e consigliando anche a lui di «mettersi d’accordo» con Chisso, gli avrebbe detto: «Non fare il furbo, sai bene di cosa parlo, la politica va aiutata...». Racconta Mevorach: «Non ho mai pagato e per questo lui mi ha più volte apostrofato in modo poco simpatico».
SESSANTA SECONDINI PER UNA MINUTILLO - L’EX SEGRETARIA DI GALAN: “POTEVAMO CORROMPERE POLITICI E GIUDICI E MOLTI NOMI NON USCIRANNO MAI. GIRAVANO COSÌ TANTE TANGENTI CHE GALAN FACEVA CONFUSIONE ”
La dimensione del giro delle tangenti è megalattica, non se ne può uscire.
3 AGO 2014 12:53
SESSANTA SECONDINI PER UNA MINUTILLO - L’EX SEGRETARIA DI GALAN: “POTEVAMO CORROMPERE POLITICI E GIUDICI E MOLTI NOMI NON USCIRANNO MAI. GIRAVANO COSÌ TANTE TANGENTI CHE GALAN FACEVA CONFUSIONE ” - IL RIESAME DICE NO: NIENTE SCARCERAZIONE PER GALAN - -
“Baita, Buson e Mazzacurati sono stati pagati milioni di euro per corrompere e per pagare investigatori privati che potessero in qualche modo controllare le indagini. Eravamo arrivati a un punto che non ci si fidava più di nessuno. Non sapevi più con chi parlare: arrestandomi mi hanno liberata”... -
1 - LA DOGARESSA DELLO SCANDALO MOSE «MOLTI NOMI NON USCIRANNO MAI»
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera”
Quando lo incontrerà gli tirerà due ceffoni, se lui non l’avrà stesa prima. E garantisce che glielo dirà in faccia: «Per salvare te stesso e i tuoi soldi hai infamato una donna con falsità e cattiverie. Io i peccati li ho confessati, tu no». Oggi lo detesta almeno quanto lo sosteneva negli anni ruggenti, quando lavoravano fianco a fianco per intere giornate. Lei a gestire la fitta agenda del governatore, lui a dettarla.
Era l’età della forte ascesa di Claudia Minutillo, formalmente la segretaria di Giancarlo Galan, di fatto vicepresidente della Regione Veneto. Il doge e la dogaressa oggi si trattano a pesci in faccia. È partita lei confessando fondi neri e denunciandolo. «Era lei a rubare», è insorto lui creando così le premesse di questa intervista indignata e fumantina.
Abito elegante nero, la gonna due dita sopra il ginocchio, un filo di trucco, un filo di tacco, della battagliera Claudia Minutillo sorprende la fragilità che di tanto in tanto esce allo scoperto bagnandole gli occhi di commozione, quando ricorda suo padre, sua madre o alcune persone semplici nelle quali si scioglie. Ma quando si parla del doge torna inflessibile.
Galan sostiene che lei ha trattenuto i soldi di due contributi elettorali in nero, 500 mila euro, e che si faceva dare una sorta di ticket da chi chiedeva un appuntamento col governatore.
«Dico che io quei soldi non solo non li ho trattenuti ma neppure li ho ricevuti. Dei contributi cash destinati a lui non ho mai intascato nulla, pur vivendo in quella realtà corrotta e pur avendo confessato fondi neri. Figuriamoci poi se facevo pagare un ticket».
Lussi, case, macchine, il cappotto da 18 mila euro. Il vecchio capo punta il dito sul suo patrimonio che non sembra quello di una segretaria.
«Galan si difende attaccando chi lo accusa per cercare di salvarsi colpendo i testimoni: non ci sono solo io, anche Baita e Mazzacurati. Con me è particolarmente violento, forse perché sono stata la prima a confessare. Guardi, io le dico una cosa: giravano così tante tangenti che Galan faceva pure confusione fra questo o quell’imprenditore, questa è la verità. In ogni caso non ho mai avuto un cappotto da 18 mila euro».
Lei sta dicendo che è venuta a galla solo una parte di verità?
«Il sistema era quello. Molti nomi non usciranno mai perché ci vorrebbe un esercito di inquirenti per provare le accuse prima della prescrizione. Eravamo in grado di corrompere molte persone, politici, magistrati, generali, al punto che quando decisi di parlare temevo che qualcuno dei finanzieri potesse fare il doppio gioco. Quando sei dentro a un sistema malato pensi che tutto sia malato».
Poi ha cambiato idea?
«Pensi che a farmela cambiare sono stati proprio i miei accusatori, quei magistrati, Ancilotto, la Tonini, e il gruppetto di finanzieri della Tributaria di Venezia che hanno saputo lavorare in un ambiente difficilissimo, per il fatto che noi cercavamo di inquinarlo. Guadagnano quel che guadagnano ma nulla può tentarli. Mi hanno incastrato, certo, ma alla fine è come se mi avessero liberato».
Come cercavate di inquinare?
«Con Baita, Buson e Mazzacurati sono stati pagati milioni di euro per corrompere e per pagare investigatori privati che potessero in qualche modo controllare le indagini. Ricordo che una volta, quando ci fu la richiesta di ulteriori due milioni di euro, Buson che era il responsabile finanziario del gruppo Mantovani, mi disse: pazzesco, ma tu sai quanti dipendenti pagherei io con tutti questi soldi».
In quel mondo lei ci ha sguazzato a lungo, giusto?
«Sì ma non ne potevo più. Eravamo arrivati a un punto che non ci si fidava più di nessuno. Non sapevi più con chi parlare, dove, avevo sempre il sospetto di essere spiata, indagata. Era diventata una vita grama. Ho confessato anche per questo».
Dopo la confessione com’è cambiata la sua vita?
«Forse sono più sola di prima ma più in pace con me stessa. Ho dovuto fare i conti con varie minacce, anche a persone a me vicine. Ma alla fine è come se mi fossi tolta una grande peso».
Cosa fa ora dei suoi giorni?
«Mi sto dedicando a un nuovo progetto imprenditoriale che non ha nulla anche fare con la Pubblica amministrazione».
Come vede il suo futuro?
«Non lo vedo ancora ma sarà certamente migliore del mio passato. Il mio passato e il mio futuro sono divisi da un arresto che mi ha liberato».
2 - «IL PRESIDENTE MI DICEVA: LA POLITICA VA AIUTATA»
G.Fas. per il “Corriere della Sera”
Una cattiva notizia dopo l’altra per Giancarlo Galan . Il tribunale del Riesame di Venezia ha respinto ieri la richiesta di scarcerazione presentata dagli avvocati Nicolò Ghedini e Antonio Franchini. E anche se, come spiegano gli stessi legali, i giudici hanno riconosciuto la prescrizione «per l’80% dei fatti contestati» (compreso il FINANZIAMENTO della ristrutturazione della casa) non sono stati concessi gli arresti domiciliari.
La difesa pensa ora al ricorso in Cassazione sapendo bene che la posizione del deputato di Forza Italia si è complicata con il deposito di nuovi atti. Fra quelle carte ci sono le accuse di due imprenditori: Pierluigi Alessandri, amministratore della Sacaim costruzioni, e Andrea Mevorach. Dice Alessandri in un interrogatorio: «Fra il 2006 e il 2007 ho dato a Galan, in tutto, 115 mila euro (...) eravamo estromessi dai lavori importanti in Veneto.
Io ho parlato con Galan delle difficoltà della mia impresa e lui mi disse che aveva saputo che noi eravamo una delle imprese di riferimento dei Ds. Io replicai che il mio interesse principale era far lavorare la mia impresa e lui rispose che avrebbe visto cosa fare purché io fossi stato disponibile a entrare nella cerchia degli imprenditori a lui vicini (...) amici, con ciò intendendo imprenditori disponibili a elargire somme di denaro e favori di altro genere».
E ancora: «Mi mise in contatto con l’assessore alle infrastrutture Renato Chisso (arrestato per la stessa inchiesta sul Mose, ndr ) consigliandomi di mostrarmi generoso nelle elargizioni (...) mi suggerì esplicitamente di corrispondere delle somme a Chisso».
L’altra nuova spina nel fianco dell’ex governatore è l’imprenditore Andrea Mevorach. Anche lui ha riempito un verbale di accuse contro Galan il quale, per fargli capire che avrebbe lavorato solo pagando e consigliando anche a lui di «mettersi d’accordo» con Chisso, gli avrebbe detto: «Non fare il furbo, sai bene di cosa parlo, la politica va aiutata...». Racconta Mevorach: «Non ho mai pagato e per questo lui mi ha più volte apostrofato in modo poco simpatico».
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Re: Robotizzazione, industrializzazione e....disoccupazione.
https://www.youtube.com/watch?v=n6Kx7tFWQuQ
Piero Angela spiega le auto del fututo senza guidatori,in fututo anche i mezzi pesanti potrebbero viaggiare senza guidatore,
Pure trattori per l'agricoltura.Quindi la macchina sostituisce L'uomo anche in questi campi.
http://www.alvolante.it/news/gran-breta ... ore-336775
Ciao
Paolo11
Piero Angela spiega le auto del fututo senza guidatori,in fututo anche i mezzi pesanti potrebbero viaggiare senza guidatore,
Pure trattori per l'agricoltura.Quindi la macchina sostituisce L'uomo anche in questi campi.
http://www.alvolante.it/news/gran-breta ... ore-336775
Ciao
Paolo11
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