Quale Senato ?
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Re: Quale Senato ?
Riforma Senato, Civati: 'sul nostro ddl consenso di molti partiti'
http://www.la7.it/coffee-break/video/ri ... 014-129851
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Re: Quale Senato ?
09 APR 2014 10:26
FERMARE L’ILLUSIONISTA FIORENTINO –
LETTA, BERSANI E CHITI FANNO PRESSING PER SPINGERE RENZI A RIVEDERE LA RIFORMA DI PALAZZO MADAMA: “QUELLA ROBA VA BENE IN SUDAMERICA” -
E I BERLUSCONES SIA TTACCANO AL PD: “ELEGGIAMO I SENATORI”
A Bersani il testo preparato dalla Boschi non piace affatto, come non gli piace l’Italicum. Ne ha parlato anche con Napolitano: “La combinazione delle due riforme, della legge elettorale e della Costituzione, crea un sistema antidemocratico. Può andare bene una Camera non elettiva ma servono contrappesi”…
1. MINORANZA PD IN TRINCEA - BERSANI: ‘QUELLA ROBA VA BENE IN SUD AMERICA'
Alberto Custodero per ‘La Repubblica'
Il ddl di Vannino Chiti per un Senato elettivo, sostenuto da 22 senatori democratici, e le «modifiche» richieste dall'ex segretario Bersani, dividono il Pd. Dal premier, però, arriva il richiamo alla minoranza interna: «Al di là di qualche senatore in cerca di visibilità che nei fatti prova a oscurare il lavoro di tantissimi uomini e donne del Pd, il partito ha discusso queste cose per anni. E le proposte sono state votate più volte». Il segretario-premier apre a «modifiche» ed è «pronto a migliorare». Ma poi fissa i paletti irrinunciabili della sua «idea di Stato» che ispira la riforma costituzionale.
«Lo Stato dovrà essere più leggero». «Chi fa politica non la fa per sempre. Non la fa per prendere super stipendi. Ma la fa per servizio». Renzi si dice «ottimista di portare a casa il risultato». Se l'intenzione di Renzi è di blindare la riforma - unico modo per incassare l'ok del Senato prima delle elezioni europee - Bersani insiste nel chiedere «modifiche».
Secondo l'ex segretario, quello che va aggiustato nel pacchetto riforma del Senato-legge elettorale sono i «contrappesi» necessari e che, al momento, mancano. Bersani, inoltre, è critico sui tempi. «Va benissimo essere rapidi e chiudere entro il 25 maggio - ammonisce l'ex segretario - ma non sbrigativi. Altrimenti si fanno solo pasticci. Prima occorre fare degli aggiustamenti».
La falla nello schieramento del partito di maggioranza relativa si apre proprio all'indomani dell'autaut di Renzi a Berlusconi: o ci stai a fare le riforme con noi, o io vado avanti lo stesso. Ma non è solo il Pd a preoccupare Renzi: il forzista Paolo Romani rilancia l'elezione diretta dei senatori mentre Giovanni Toti, consigliere politico di Fi, chiude alle intese con i M5S: «Non credo che faremo maggioranze parallele sulle riforme con pezzi del Pd e dei grillini. C'è un patto, andiamo avanti con serietà».
È lo stesso Renzi a chiudere all'accordo coi grillini. «I Cinque Stelle mi sorprendono - ha detto il premier - avevo capito che erano nati per altro non per difendere i senatori». L'iter, intanto, va avanti. Il progetto di riforma passa dal Quirinale, viene girato al Senato («senza correzioni», sottolinea attento alle polemiche il Quirinale), quindi prontamente passa alla Prima commissione, la Affari Costituzionali.
2. BERSANI ATTACCA ANCHE L'ITALICUM
Goffredo De Marchis per ‘La Repubblica'
È una tregua quella che Pier Luigi Bersani propone a Matteo Renzi: spazzare via il disegno di legge firmato da Chiti sulla riforma del Senato ottenendo in cambio dal governo l'apertura su un «profondo pacchetto di emendamenti». L'ex segretario non sembra disposto a seguire quella parte (minoritaria) del suo partito sulla strada del sabotaggio all'esecutivo, alle riforme e in buona sostanza al Pd che sulle modifiche costituzionali si gioca una buona fetta del successo alle Europee.
«Capisco che Matteo voglia mettere una bandierina in vista del 25 maggio... «, dice Bersani. È in fondo una concessione al premier per un primo voto favorevole a un pilastro dell'azione dell'esecutivo. Senza offrire una vittoria simbolica al Movimento 5stelle e agli irrequieti di Forza Italia. Poi, però, il Pd, con le sue varie componenti, proverà a lanciare la battaglia degli emendamenti. Anche correndo il rischio che dopo l'elezioni dell'Europarlamento, Renzi sia molto più forte di oggi, aiutato da un buon risultato
del Pd.
A Bersani il testo preparato da Maria Elena Boschi non piace affatto. Come non piace l'-Italicum. Ne ha parlato con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante un incontro che si è tenuto ieri al Quirinale.
«La combinazione delle due riforme, della legge elettorale e della Costituzione, crea un sistema antidemocratico». Sono parole ultimative ma lo resa dei conti appare rinviata a dopo il 25 maggio. Il tono e i contenuti del discorso dell'ex segretario sono durissimi. «L'Italicum è un sistema pericoloso, che si presta alla peggiore corruzione. Si può arrivare al premio di maggioranza con un partito che prende il 25 per cento e dieci partitini dell'1 che non eleggono nemmeno un deputato. Dieci liste così te le metto in piedi in mezza giornata.
Come li ripaghiamo quei partitini? Promettendogli quali posti di sottogoverno? È un sistema davvero velenoso che si realizza per di più senza finanziamento pubblico dove chi ha i soldi può fare il bello e il cattivo tempo. Prevedo solo disastri».
Per questo il consiglio a Renzi è mediare, prendersi il tempo giusto. «Abbiamo fatto tanti pasticci con una frettolosa riforma del titolo V, tanti anni fa. Dev'essere una lezione, altrimenti lo Stato che disegna il premier tra cinque anni collasserà di nuovo», pronostica Bersani. L'abolizione del vecchio Senato ha altri difetti. «Può andare bene una Camera non elettiva ma i contrappesi sono necessari. Sui criteri di nomina dei senatori vedo solo confusione. Si finisce per alimentare un circolo vizioso, un meccanismo su cui l'antipolitica salterà sopra: nominiamo tutti, il capo dello Stato, la Corte costituzionale, il Csm. Così andiamo dritti in Sudamerica».
Però Bersani si rende conto di cosa significa inseguire adesso Grillo o peggio ancora Forza Italia, che un giorno rinnova il patto con Renzi e quello dopo pensa, come dice Paolo Romani, a unire le forze con la minoranza del Pd e 5stelle per far saltare le riforme e la maggioranza. Se Renzi deve rallentare, anche i dissidenti del Pd sono costretti a darsi una calmata. Se ne accorge anche Vannino Chiti. La minaccia di Romani è un campanello d'allarme. Il suo disegno di legge non ha i voti per fare molta strada. Può solo danneggiare Renzi.
«Non è questo il mio obiettivo - spiega Chiti con una nota - . Non voglio ostacolare nessuno, né il governo né le riforme, ma solo dare un contributo». Il contributo che Renzi chiede ai 22 firmatati del testo alternativo è il ritiro. Per non farsi strumentalizzare dai berlusconiani. E da una fronda interna del Pd che è più ristretta del gruppo che ha firmato. Chiti per il momento conferma il ddl. Ma in qualche modo si arriverà al ritiro. Ieri mattina l'assemblea dei senatori del Pd ha dimostrato che la maggioranza sta con Renzi. La prossima settimana il gruppo si riunirà di nuovo, voterà la strategia definitiva e Chiti finirà in evidente minoranza.
C'è quindi solo un'altra strada: la guerra degli emendamenti. Su questo Renzi non farà il muro contro muro. Fatti salvi i paletti della non elezione, dell'abolizione dell'indennità e della fine del bicameralismo perfetto, il provvedimento uscito dal ministero delle Riforme presenta ancora alcuni buchi neri: le competenze, i criteri di nomina, il peso dei vari enti locali. Se non si vuole finire in Sudamerica, il Pd può dare un contributo. Ma non rovinando la corsa di Renzi e del governo verso il 25 maggio.
FERMARE L’ILLUSIONISTA FIORENTINO –
LETTA, BERSANI E CHITI FANNO PRESSING PER SPINGERE RENZI A RIVEDERE LA RIFORMA DI PALAZZO MADAMA: “QUELLA ROBA VA BENE IN SUDAMERICA” -
E I BERLUSCONES SIA TTACCANO AL PD: “ELEGGIAMO I SENATORI”
A Bersani il testo preparato dalla Boschi non piace affatto, come non gli piace l’Italicum. Ne ha parlato anche con Napolitano: “La combinazione delle due riforme, della legge elettorale e della Costituzione, crea un sistema antidemocratico. Può andare bene una Camera non elettiva ma servono contrappesi”…
1. MINORANZA PD IN TRINCEA - BERSANI: ‘QUELLA ROBA VA BENE IN SUD AMERICA'
Alberto Custodero per ‘La Repubblica'
Il ddl di Vannino Chiti per un Senato elettivo, sostenuto da 22 senatori democratici, e le «modifiche» richieste dall'ex segretario Bersani, dividono il Pd. Dal premier, però, arriva il richiamo alla minoranza interna: «Al di là di qualche senatore in cerca di visibilità che nei fatti prova a oscurare il lavoro di tantissimi uomini e donne del Pd, il partito ha discusso queste cose per anni. E le proposte sono state votate più volte». Il segretario-premier apre a «modifiche» ed è «pronto a migliorare». Ma poi fissa i paletti irrinunciabili della sua «idea di Stato» che ispira la riforma costituzionale.
«Lo Stato dovrà essere più leggero». «Chi fa politica non la fa per sempre. Non la fa per prendere super stipendi. Ma la fa per servizio». Renzi si dice «ottimista di portare a casa il risultato». Se l'intenzione di Renzi è di blindare la riforma - unico modo per incassare l'ok del Senato prima delle elezioni europee - Bersani insiste nel chiedere «modifiche».
Secondo l'ex segretario, quello che va aggiustato nel pacchetto riforma del Senato-legge elettorale sono i «contrappesi» necessari e che, al momento, mancano. Bersani, inoltre, è critico sui tempi. «Va benissimo essere rapidi e chiudere entro il 25 maggio - ammonisce l'ex segretario - ma non sbrigativi. Altrimenti si fanno solo pasticci. Prima occorre fare degli aggiustamenti».
La falla nello schieramento del partito di maggioranza relativa si apre proprio all'indomani dell'autaut di Renzi a Berlusconi: o ci stai a fare le riforme con noi, o io vado avanti lo stesso. Ma non è solo il Pd a preoccupare Renzi: il forzista Paolo Romani rilancia l'elezione diretta dei senatori mentre Giovanni Toti, consigliere politico di Fi, chiude alle intese con i M5S: «Non credo che faremo maggioranze parallele sulle riforme con pezzi del Pd e dei grillini. C'è un patto, andiamo avanti con serietà».
È lo stesso Renzi a chiudere all'accordo coi grillini. «I Cinque Stelle mi sorprendono - ha detto il premier - avevo capito che erano nati per altro non per difendere i senatori». L'iter, intanto, va avanti. Il progetto di riforma passa dal Quirinale, viene girato al Senato («senza correzioni», sottolinea attento alle polemiche il Quirinale), quindi prontamente passa alla Prima commissione, la Affari Costituzionali.
2. BERSANI ATTACCA ANCHE L'ITALICUM
Goffredo De Marchis per ‘La Repubblica'
È una tregua quella che Pier Luigi Bersani propone a Matteo Renzi: spazzare via il disegno di legge firmato da Chiti sulla riforma del Senato ottenendo in cambio dal governo l'apertura su un «profondo pacchetto di emendamenti». L'ex segretario non sembra disposto a seguire quella parte (minoritaria) del suo partito sulla strada del sabotaggio all'esecutivo, alle riforme e in buona sostanza al Pd che sulle modifiche costituzionali si gioca una buona fetta del successo alle Europee.
«Capisco che Matteo voglia mettere una bandierina in vista del 25 maggio... «, dice Bersani. È in fondo una concessione al premier per un primo voto favorevole a un pilastro dell'azione dell'esecutivo. Senza offrire una vittoria simbolica al Movimento 5stelle e agli irrequieti di Forza Italia. Poi, però, il Pd, con le sue varie componenti, proverà a lanciare la battaglia degli emendamenti. Anche correndo il rischio che dopo l'elezioni dell'Europarlamento, Renzi sia molto più forte di oggi, aiutato da un buon risultato
del Pd.
A Bersani il testo preparato da Maria Elena Boschi non piace affatto. Come non piace l'-Italicum. Ne ha parlato con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano durante un incontro che si è tenuto ieri al Quirinale.
«La combinazione delle due riforme, della legge elettorale e della Costituzione, crea un sistema antidemocratico». Sono parole ultimative ma lo resa dei conti appare rinviata a dopo il 25 maggio. Il tono e i contenuti del discorso dell'ex segretario sono durissimi. «L'Italicum è un sistema pericoloso, che si presta alla peggiore corruzione. Si può arrivare al premio di maggioranza con un partito che prende il 25 per cento e dieci partitini dell'1 che non eleggono nemmeno un deputato. Dieci liste così te le metto in piedi in mezza giornata.
Come li ripaghiamo quei partitini? Promettendogli quali posti di sottogoverno? È un sistema davvero velenoso che si realizza per di più senza finanziamento pubblico dove chi ha i soldi può fare il bello e il cattivo tempo. Prevedo solo disastri».
Per questo il consiglio a Renzi è mediare, prendersi il tempo giusto. «Abbiamo fatto tanti pasticci con una frettolosa riforma del titolo V, tanti anni fa. Dev'essere una lezione, altrimenti lo Stato che disegna il premier tra cinque anni collasserà di nuovo», pronostica Bersani. L'abolizione del vecchio Senato ha altri difetti. «Può andare bene una Camera non elettiva ma i contrappesi sono necessari. Sui criteri di nomina dei senatori vedo solo confusione. Si finisce per alimentare un circolo vizioso, un meccanismo su cui l'antipolitica salterà sopra: nominiamo tutti, il capo dello Stato, la Corte costituzionale, il Csm. Così andiamo dritti in Sudamerica».
Però Bersani si rende conto di cosa significa inseguire adesso Grillo o peggio ancora Forza Italia, che un giorno rinnova il patto con Renzi e quello dopo pensa, come dice Paolo Romani, a unire le forze con la minoranza del Pd e 5stelle per far saltare le riforme e la maggioranza. Se Renzi deve rallentare, anche i dissidenti del Pd sono costretti a darsi una calmata. Se ne accorge anche Vannino Chiti. La minaccia di Romani è un campanello d'allarme. Il suo disegno di legge non ha i voti per fare molta strada. Può solo danneggiare Renzi.
«Non è questo il mio obiettivo - spiega Chiti con una nota - . Non voglio ostacolare nessuno, né il governo né le riforme, ma solo dare un contributo». Il contributo che Renzi chiede ai 22 firmatati del testo alternativo è il ritiro. Per non farsi strumentalizzare dai berlusconiani. E da una fronda interna del Pd che è più ristretta del gruppo che ha firmato. Chiti per il momento conferma il ddl. Ma in qualche modo si arriverà al ritiro. Ieri mattina l'assemblea dei senatori del Pd ha dimostrato che la maggioranza sta con Renzi. La prossima settimana il gruppo si riunirà di nuovo, voterà la strategia definitiva e Chiti finirà in evidente minoranza.
C'è quindi solo un'altra strada: la guerra degli emendamenti. Su questo Renzi non farà il muro contro muro. Fatti salvi i paletti della non elezione, dell'abolizione dell'indennità e della fine del bicameralismo perfetto, il provvedimento uscito dal ministero delle Riforme presenta ancora alcuni buchi neri: le competenze, i criteri di nomina, il peso dei vari enti locali. Se non si vuole finire in Sudamerica, il Pd può dare un contributo. Ma non rovinando la corsa di Renzi e del governo verso il 25 maggio.
Ultima modifica di camillobenso il 09/04/2014, 21:41, modificato 1 volta in totale.
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Re: Quale Senato ?
Riforme, minoranza Pd: “Non ritiriamo ddl Chiti. Abbiamo più voti del governo”
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/04/ ... el/273791/
“Il premier Renzi dice che cerchiamo visibilità? Parla proprio lui che in questo è un maestro”. Alfredo D’Attorre, deputato Pd, risponde così - a margine della direzione del Partito democratico – all’affondo di ieri del presidente del Consiglio nei confronti dei 22 senatori firmatari del ddl Chiti che propone una riforma del Senato alternativa a quella approvata dal governo in Consiglio dei ministri. “Il testo presentato dai 22 dissidenti – spiega il deputato Pippo Civati – è identico a quello presentato da me alla Camera tempo fa. Di sicuro il ddl non sarà ritirato”. Dopo l’apertura del Movimento Cinque Stelle alla proposta alternativa della sinistra dem, il senatore Pd Corradino Mineo chiosa: “Il dato politico è che il disegno di legge del governo ha in Senato meno voti del testo di Chiti”. “E’ una proposta ragionevole – aggiunge il senatore M5S Sergio Puglia – sottoporremo la proposta al voto online e vedremo come si esprimerà la rete” di Annalisa Ausilio e Manolo Lanaro
9 aprile 2014
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/04/ ... el/273791/
“Il premier Renzi dice che cerchiamo visibilità? Parla proprio lui che in questo è un maestro”. Alfredo D’Attorre, deputato Pd, risponde così - a margine della direzione del Partito democratico – all’affondo di ieri del presidente del Consiglio nei confronti dei 22 senatori firmatari del ddl Chiti che propone una riforma del Senato alternativa a quella approvata dal governo in Consiglio dei ministri. “Il testo presentato dai 22 dissidenti – spiega il deputato Pippo Civati – è identico a quello presentato da me alla Camera tempo fa. Di sicuro il ddl non sarà ritirato”. Dopo l’apertura del Movimento Cinque Stelle alla proposta alternativa della sinistra dem, il senatore Pd Corradino Mineo chiosa: “Il dato politico è che il disegno di legge del governo ha in Senato meno voti del testo di Chiti”. “E’ una proposta ragionevole – aggiunge il senatore M5S Sergio Puglia – sottoporremo la proposta al voto online e vedremo come si esprimerà la rete” di Annalisa Ausilio e Manolo Lanaro
9 aprile 2014
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Re: Quale Senato ?
Il titolista dell’Unità oggi definisce “malpancisti” gli oppositori di Renzi nel Pd
l’Unità 14.4.14
Senato, parte la battaglia per la riforma
Fi alza la posta e cerca l’asse con i malpancisti
di Vladimiro Frulletti
Si apre un’altra settimana difficile per la riforma del Senato proposta da Matteo Renzi. Una riforma costituzionale che, più si avvicina al dibattito parlamentare, più si rafforza il fronte di chi è contrario.
I primi a dare battaglia sono i senatori di Forza Italia, con Paolo Romani che avverte: il gruppo non voterà un Senato trasformato in «assemblea dei sindaci». Il capogruppo azzurro di Palazzo Madama contra di riunire una maggioranza (contando sul malumore di Chiti e degli altri nel Pd) che non sia d’accordo con la proposta presentata dal governo. Romani sta affinando la sua idea, ma non dice molto, a parte che il Senato dovrebbe rispettare il
voto dei cittadini «in modo proporzionale». Ma Fi cerca di alzare il tiro, e ne approfitta per rilanciare la riforma che aumenta i poteri del premier e che permette l’elezione diretta del Capo dello Stato. I senatori del Pd che hanno firmato la proposta di Vannino Chiti, invece, si riuniranno domani cercando una mediazione, tenendo contro che la minoranza Pd cerca di aumentare la rappresentanza con le tessere.
Oggi comunque la ministra Boschi arriverà a un punto sulle riforme in un incontro (a porte chiuse); alla Camera intanto discuterà di riforme l’assemblea plenaria straordinaria dei Consigli regionali.
Lavoro e riforme, due seminari per tenere unito il Pd
Renzi si prepara a una settimana cruciale per il governo L’obiettivo è convincere la minoranza a sostenere i provvedimenti economici e istituzionali
l’Unità 14.4.14
Senato, parte la battaglia per la riforma
Fi alza la posta e cerca l’asse con i malpancisti
di Vladimiro Frulletti
Si apre un’altra settimana difficile per la riforma del Senato proposta da Matteo Renzi. Una riforma costituzionale che, più si avvicina al dibattito parlamentare, più si rafforza il fronte di chi è contrario.
I primi a dare battaglia sono i senatori di Forza Italia, con Paolo Romani che avverte: il gruppo non voterà un Senato trasformato in «assemblea dei sindaci». Il capogruppo azzurro di Palazzo Madama contra di riunire una maggioranza (contando sul malumore di Chiti e degli altri nel Pd) che non sia d’accordo con la proposta presentata dal governo. Romani sta affinando la sua idea, ma non dice molto, a parte che il Senato dovrebbe rispettare il
voto dei cittadini «in modo proporzionale». Ma Fi cerca di alzare il tiro, e ne approfitta per rilanciare la riforma che aumenta i poteri del premier e che permette l’elezione diretta del Capo dello Stato. I senatori del Pd che hanno firmato la proposta di Vannino Chiti, invece, si riuniranno domani cercando una mediazione, tenendo contro che la minoranza Pd cerca di aumentare la rappresentanza con le tessere.
Oggi comunque la ministra Boschi arriverà a un punto sulle riforme in un incontro (a porte chiuse); alla Camera intanto discuterà di riforme l’assemblea plenaria straordinaria dei Consigli regionali.
Lavoro e riforme, due seminari per tenere unito il Pd
Renzi si prepara a una settimana cruciale per il governo L’obiettivo è convincere la minoranza a sostenere i provvedimenti economici e istituzionali
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Re: Quale Senato ?
Dal blog di Ciwati
Andrea Pertici, professore di diritto costituzionale a Pisa, è l’autore con Pippo Civati della proposta di legge di riforma del bicameralismo e del Titolo V presentata dallo stesso Civati alla camera e sostanzialmente ripresa da Vannino Chiti al senato. Governo e maggioranza Pd ne hanno chiesto (invano) il ritiro. Da qui partirà il confronto in prima commissione al senato: dall’elezione diretta dei senatori. Civati e Chiti sono per mantenerla, il disegno di legge Renzi-Boschi invece la abolisce.
Professore, qual è lo scandalo di un senato non elettivo?
Non c’è scandalo. Ma il governo ha scelto un modello che non ha omologhi nel panorama comparato. Sbaglia a sostenere che quasi tutti i senati sono non elettivi. Restando in Europa tra paesi di dimensioni simili al nostro, escludendo ovviamente la camera dei Lord inglese, la Spagna ha un senato misto, la Polonia uno interamente elettivo.
Ma è alla Germania e alla Francia che si riferisce di continuo la ministra Boschi.
Il Bundesrat tedesco è assai difficilmente esportabile, non è considerato neppure una vera e propria seconda camera. È formato soltanto dai rappresentati dei governi dei lander che votano con un’unica posizione; da un certo punto di vista richiama più alcuni aspetti della nostra conferenza stato-regioni. Quello francese è sì un senato di secondo livello, ma il cui elettorato passivo sta nella generalità dei francesi che abbiano compito 24 anni. E da poco in Francia è stata prevista l’incompatibilità tra le cariche parlamentari e quella di sindaco, tutto il contrario che da noi.
Non ha ragione il governo a sostenere che con l’elezione diretta c’è «il rischio che i senatori si facciano portatori di istanze legate più alle forze politiche che alle istituzioni di appartenenza»?
Nel progetto del governo i senatori non hanno più la rappresentanza della nazione, ma verrebbero scelti sul territorio dai capi partito. Sulla base, è facile prevedere, di equilibri trovati a livello nazionale. Senza contare l’impossibilità di svolgere adeguatamente il doppio mandato, che nel caso di sindaci metropolitani o presidenti delle nuove province potrebbe essere anche triplo. Non so come potrebbero riuscire a fare tutto.
Forse perché il senato che propone il governo non fa molto.
Più che altro nel disegno di legge Renzi-Boschi si dice di cosa il senato non può occuparsi. E quello che resta è assai poco. Meglio allora sarebbe un serio monocameralismo, peraltro assai diffuso nel mondo, anche se generalmente non in paesi della dimensione dell’Italia. Ma il monocameralismo richiede una serie di contrappesi e di garanzie nei passaggi parlamentari che andrebbero studiati adeguatamente. Teniamo presente, però, che non sempre due camere sono sinonimo di lentezza. Perché è solo la prima camera a svolgere il lavoro istruttorio, che quindi può risultare anche alleggerito.
È per questo che le proposte Civati e Chiti lasciano per molte leggi la competenza bicamerale? Prestandosi così all’accusa di non incidere nel bicameralismo paritario.
La lista delle leggi bicamerali si può discutere. All’osso lascerei a entrambi i rami del parlamento le leggi costituzionali, le leggi elettorali, le leggi per le quali la Costituzione richiede maggioranze qualificate come amnistia e indulto, le leggi a tutela dei diritti fondamentali e, nell’ipotesi di un senato camera della coesione territoriale, le leggi espressione della potestà legislativa concorrente. Sulla materia europea andrei cauto. La ratifica dei trattati e bene che sia di competenza bicamerale, ma per l’attuazione delle direttive meglio regolarsi in base all’argomento.
In definitiva anche la proposta Chiti supera il bicameralismo paritario e riduce i parlamentari ancora di più. Mantiene però l’elezione diretta dei senatori. È possibile una mediazione con quella del governo? L’esecutivo dice di no.
Io penso invece che sarebbe auspicabile. E potrebbe essere, soprattutto per quanto riguarda la composizione, la proposta Civati di includere anche una rappresentanza delle istituzioni territoriali che condividono il potere legislativo; delle regioni dunque e non dei comuni. Questa rappresentanza più limitata di secondo livello potrebbe essere fissa, mentre la quota dei senatori elettivi andrebbe stabilita in proporzione alla popolazione, avendo le regioni italiane dimensioni assai diverse.
E per quanto riguarda le funzioni?
Noi proponiamo una camera alta che mantiene poteri importanti, ancorché differenziati. Ad esempio, visto che di questo si parla in queste ore, il controllo sulle nomine pubbliche. Anche nell’ordinamento americano è affidato al senato. Un dibattito in commissione assicura trasparenza sulle ragioni che hanno portato il governo a scegliere una persona anziché un’altra.
Queste mediazioni con il testo del governo potrebbero essere fatte anche con emendamenti?
Con gli emendamenti si può fare tutto, anche cambiare molto profondamente una legge. Intanto aspettiamo di vedere quale testo sarà assunto come base per il lavoro della commissione. Dovessimo giudicare solo sulla base del consenso diffuso direi che quello Chiti andrebbe preferito.
Andrea Pertici, professore di diritto costituzionale a Pisa, è l’autore con Pippo Civati della proposta di legge di riforma del bicameralismo e del Titolo V presentata dallo stesso Civati alla camera e sostanzialmente ripresa da Vannino Chiti al senato. Governo e maggioranza Pd ne hanno chiesto (invano) il ritiro. Da qui partirà il confronto in prima commissione al senato: dall’elezione diretta dei senatori. Civati e Chiti sono per mantenerla, il disegno di legge Renzi-Boschi invece la abolisce.
Professore, qual è lo scandalo di un senato non elettivo?
Non c’è scandalo. Ma il governo ha scelto un modello che non ha omologhi nel panorama comparato. Sbaglia a sostenere che quasi tutti i senati sono non elettivi. Restando in Europa tra paesi di dimensioni simili al nostro, escludendo ovviamente la camera dei Lord inglese, la Spagna ha un senato misto, la Polonia uno interamente elettivo.
Ma è alla Germania e alla Francia che si riferisce di continuo la ministra Boschi.
Il Bundesrat tedesco è assai difficilmente esportabile, non è considerato neppure una vera e propria seconda camera. È formato soltanto dai rappresentati dei governi dei lander che votano con un’unica posizione; da un certo punto di vista richiama più alcuni aspetti della nostra conferenza stato-regioni. Quello francese è sì un senato di secondo livello, ma il cui elettorato passivo sta nella generalità dei francesi che abbiano compito 24 anni. E da poco in Francia è stata prevista l’incompatibilità tra le cariche parlamentari e quella di sindaco, tutto il contrario che da noi.
Non ha ragione il governo a sostenere che con l’elezione diretta c’è «il rischio che i senatori si facciano portatori di istanze legate più alle forze politiche che alle istituzioni di appartenenza»?
Nel progetto del governo i senatori non hanno più la rappresentanza della nazione, ma verrebbero scelti sul territorio dai capi partito. Sulla base, è facile prevedere, di equilibri trovati a livello nazionale. Senza contare l’impossibilità di svolgere adeguatamente il doppio mandato, che nel caso di sindaci metropolitani o presidenti delle nuove province potrebbe essere anche triplo. Non so come potrebbero riuscire a fare tutto.
Forse perché il senato che propone il governo non fa molto.
Più che altro nel disegno di legge Renzi-Boschi si dice di cosa il senato non può occuparsi. E quello che resta è assai poco. Meglio allora sarebbe un serio monocameralismo, peraltro assai diffuso nel mondo, anche se generalmente non in paesi della dimensione dell’Italia. Ma il monocameralismo richiede una serie di contrappesi e di garanzie nei passaggi parlamentari che andrebbero studiati adeguatamente. Teniamo presente, però, che non sempre due camere sono sinonimo di lentezza. Perché è solo la prima camera a svolgere il lavoro istruttorio, che quindi può risultare anche alleggerito.
È per questo che le proposte Civati e Chiti lasciano per molte leggi la competenza bicamerale? Prestandosi così all’accusa di non incidere nel bicameralismo paritario.
La lista delle leggi bicamerali si può discutere. All’osso lascerei a entrambi i rami del parlamento le leggi costituzionali, le leggi elettorali, le leggi per le quali la Costituzione richiede maggioranze qualificate come amnistia e indulto, le leggi a tutela dei diritti fondamentali e, nell’ipotesi di un senato camera della coesione territoriale, le leggi espressione della potestà legislativa concorrente. Sulla materia europea andrei cauto. La ratifica dei trattati e bene che sia di competenza bicamerale, ma per l’attuazione delle direttive meglio regolarsi in base all’argomento.
In definitiva anche la proposta Chiti supera il bicameralismo paritario e riduce i parlamentari ancora di più. Mantiene però l’elezione diretta dei senatori. È possibile una mediazione con quella del governo? L’esecutivo dice di no.
Io penso invece che sarebbe auspicabile. E potrebbe essere, soprattutto per quanto riguarda la composizione, la proposta Civati di includere anche una rappresentanza delle istituzioni territoriali che condividono il potere legislativo; delle regioni dunque e non dei comuni. Questa rappresentanza più limitata di secondo livello potrebbe essere fissa, mentre la quota dei senatori elettivi andrebbe stabilita in proporzione alla popolazione, avendo le regioni italiane dimensioni assai diverse.
E per quanto riguarda le funzioni?
Noi proponiamo una camera alta che mantiene poteri importanti, ancorché differenziati. Ad esempio, visto che di questo si parla in queste ore, il controllo sulle nomine pubbliche. Anche nell’ordinamento americano è affidato al senato. Un dibattito in commissione assicura trasparenza sulle ragioni che hanno portato il governo a scegliere una persona anziché un’altra.
Queste mediazioni con il testo del governo potrebbero essere fatte anche con emendamenti?
Con gli emendamenti si può fare tutto, anche cambiare molto profondamente una legge. Intanto aspettiamo di vedere quale testo sarà assunto come base per il lavoro della commissione. Dovessimo giudicare solo sulla base del consenso diffuso direi che quello Chiti andrebbe preferito.
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Re: Quale Senato ?
da ciwati
30 maggio 2014 – 08:56
Il ritorno del Senato
Sul Senato (non ne parlavo da un po’), con alcuni amici e colleghi parlamentari, ho piantato un solo paletto: quello della possibilità per i cittadini di scegliersi i senatori. E questo per un motivo molto semplice: ci tengo che siano gli elettori a scegliere gli eletti.
È una questione di partecipazione dei cittadini alla vita politica. È un problema che ho posto più volte soprattutto negli ultimi mesi e che mi pare si ponga con ancora più forza a seguito di queste elezioni europee, che fanno registrare un grande successo, cui ho partecipato con gioia, quello del Pd ma anche un grande fallimento – che è invece di tutti gli attori politici – la più forte astensione di sempre in una elezione a carattere nazionale. Ha votato, infatti, soltanto il 58,69%. Un dato che non sembra interessare praticamente a nessuno.
Ora, proprio per questo, soprattutto negli ultimi mesi, mi sto occupando in particolare di partecipazione. Lo faccio, appunto, cercando di evitare che i senatori siano scelti soltanto da chi ha una carica politica e tra chi ha già un’altra carica politica, consentendo la scelta a tutti i cittadini, garantendo comunque una migliore efficienza del Parlamento e abbassando anche di più il costo delle Camere. Lo faccio chiedendo una legge elettorale che restituisca ai cittadini davvero la possibilità di scegliere chi li rappresenta (non a caso mi sono impegnato per il ritorno del Mattarellum nella versione prevista per il Senato, ho votato contro le liste bloccate – più o meno lunghe – e ho sempre chiesto – e spesso ottenuto, almeno nel mio partito – le primarie).
Lo farò ancora più fortemente proponendo una riforma delle forme di partecipazione diretta previste nella Costituzione e aggiungendone di nuove, perché i cittadini siano più consapevoli, più coinvolti, semplicemente più partecipi della cosa comune, appunto. Anche grazie ad un ritrovato ruolo – e questa è la sfida più difficile – dei partiti, strumenti attraverso i quali i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale, come ci dice l’articolo 49 della Costituzione.
Ecco, in questo quadro come possiamo accettare che le nostre leggi siano approvate anziché da rappresentanti eletti dal popolo a questo scopo da un centinaio di amministratori locali che i cittadini avevano scelto perché si dedicassero (a tempo pieno) all’amministrazione delle loro città?
Per questo, con Vannino Chiti, Walter Tocci e molti altri senatori dalla più diversa appartenenza politica, ho sostenuto, sin da quando si parla di riforma del bicameralismo – e da prima che il Governo presentasse una propria proposta – che il Senato deve rimanere (se rimane) elettivo. Per questo l’idea di un Senato di amministratori locali che entrano di diritto o si nominano tra loro non mi piace. In questo senso e soprattutto su questo punto, quindi, ero e rimango contrario alla proposta del Governo.
L’ipotesi emendativa che gli organi di stampa diffondono come di iniziativa dei senatori Marcucci e altri senatori vicinissimi al premier non incide realmente su questo punto: infatti, sono sempre (e anzi ancora di più) gli amministratori locali a scegliersi tra loro per una corsa in Senato.
La proposta può somigliare un po’ al modello francese, ma – a parte il fatto che non risulta un modello particolarmente apprezzato – se ne distingue perché nell’originale gli eleggibili sono tutti i cittadini francesi che abbiano compiuto una certa età, mentre in Italia si vorrebbe limitare la platea agli amministratori stessi.
Se si vogliono trovare mediazioni reali – e non al ribasso, in passato ne abbiamo già individuate: tra queste, ad esempio, quella di un Senato elettivo, ma con una componente di consiglieri regionali volta ad assicurare un coordinamento della legislazione statale e regionale. Questo ho proposto, da prima che il Governo presentasse la sua proposta, nella mia presentata alla Camera (A.C. 2227).
30 maggio 2014 – 08:56
Il ritorno del Senato
Sul Senato (non ne parlavo da un po’), con alcuni amici e colleghi parlamentari, ho piantato un solo paletto: quello della possibilità per i cittadini di scegliersi i senatori. E questo per un motivo molto semplice: ci tengo che siano gli elettori a scegliere gli eletti.
È una questione di partecipazione dei cittadini alla vita politica. È un problema che ho posto più volte soprattutto negli ultimi mesi e che mi pare si ponga con ancora più forza a seguito di queste elezioni europee, che fanno registrare un grande successo, cui ho partecipato con gioia, quello del Pd ma anche un grande fallimento – che è invece di tutti gli attori politici – la più forte astensione di sempre in una elezione a carattere nazionale. Ha votato, infatti, soltanto il 58,69%. Un dato che non sembra interessare praticamente a nessuno.
Ora, proprio per questo, soprattutto negli ultimi mesi, mi sto occupando in particolare di partecipazione. Lo faccio, appunto, cercando di evitare che i senatori siano scelti soltanto da chi ha una carica politica e tra chi ha già un’altra carica politica, consentendo la scelta a tutti i cittadini, garantendo comunque una migliore efficienza del Parlamento e abbassando anche di più il costo delle Camere. Lo faccio chiedendo una legge elettorale che restituisca ai cittadini davvero la possibilità di scegliere chi li rappresenta (non a caso mi sono impegnato per il ritorno del Mattarellum nella versione prevista per il Senato, ho votato contro le liste bloccate – più o meno lunghe – e ho sempre chiesto – e spesso ottenuto, almeno nel mio partito – le primarie).
Lo farò ancora più fortemente proponendo una riforma delle forme di partecipazione diretta previste nella Costituzione e aggiungendone di nuove, perché i cittadini siano più consapevoli, più coinvolti, semplicemente più partecipi della cosa comune, appunto. Anche grazie ad un ritrovato ruolo – e questa è la sfida più difficile – dei partiti, strumenti attraverso i quali i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale, come ci dice l’articolo 49 della Costituzione.
Ecco, in questo quadro come possiamo accettare che le nostre leggi siano approvate anziché da rappresentanti eletti dal popolo a questo scopo da un centinaio di amministratori locali che i cittadini avevano scelto perché si dedicassero (a tempo pieno) all’amministrazione delle loro città?
Per questo, con Vannino Chiti, Walter Tocci e molti altri senatori dalla più diversa appartenenza politica, ho sostenuto, sin da quando si parla di riforma del bicameralismo – e da prima che il Governo presentasse una propria proposta – che il Senato deve rimanere (se rimane) elettivo. Per questo l’idea di un Senato di amministratori locali che entrano di diritto o si nominano tra loro non mi piace. In questo senso e soprattutto su questo punto, quindi, ero e rimango contrario alla proposta del Governo.
L’ipotesi emendativa che gli organi di stampa diffondono come di iniziativa dei senatori Marcucci e altri senatori vicinissimi al premier non incide realmente su questo punto: infatti, sono sempre (e anzi ancora di più) gli amministratori locali a scegliersi tra loro per una corsa in Senato.
La proposta può somigliare un po’ al modello francese, ma – a parte il fatto che non risulta un modello particolarmente apprezzato – se ne distingue perché nell’originale gli eleggibili sono tutti i cittadini francesi che abbiano compiuto una certa età, mentre in Italia si vorrebbe limitare la platea agli amministratori stessi.
Se si vogliono trovare mediazioni reali – e non al ribasso, in passato ne abbiamo già individuate: tra queste, ad esempio, quella di un Senato elettivo, ma con una componente di consiglieri regionali volta ad assicurare un coordinamento della legislazione statale e regionale. Questo ho proposto, da prima che il Governo presentasse la sua proposta, nella mia presentata alla Camera (A.C. 2227).
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Re: Quale Senato ?
da Il Fatto Quotidiano
Riforme, Stefano Rodotà: “La Carta esiste, Renzi non è un Principe”
Il professore è tra i promotori della manifestazione in difesa della Costituzione, il 2 giugno a Modena che ilfattoquotidiano.it trasmetterà in streaming. "Le regole ci sono indipendentemente dai successi elettorali"
di Silvia Truzzi | 1 giugno 2014
L’anno scorso incombeva la minaccia di scardinare l’articolo architrave, il 138 della Costituzione. Oggi il pericolo arriva dal combinato disposto di Italicum più riforma del Senato: Libertà e Giustizia organizza anche quest’anno una manifestazione in difesa della Carta, il 2 giugno a Modena. Tra i “professoroni” che parteciperanno c’è anche Stefano Rodotà: “L’anno scorso, dopo la festa della Repubblica, prese avvio un lavoro sfociato nella manifestazione del 12 ottobre, La via maestra. In quei mesi si era diffuso un orientamento, largamente condiviso, contro la modifica del 138. Quell’ipotesi poi cadde: dunque non è stato un lavoro inutile”.
E oggi?
L’attacco ai “professoroni” ha prodotto una discussione ricca, sfociata in audizioni parlamentari, che ha prodotto proposte puntuali. I progetti del governo sono stati sottoposti a valutazioni che dovrebbero essere considerate contributi da cui non si può prescindere. Approvare un testo di riforma del Senato senza tener conto di modalità di elezione e competenze della Camera è un modo improprio e pericoloso di affrontare il problema. L’Italicum va verso una democrazia d’investitura – “la sera delle elezioni deve essere chiaro chi governerà” – e una democrazia di ratifica, in cui il Parlamento semplicemente prende atto delle volontà del governo. Il combinarsi di questi due elementi, democrazia d’investitura e di ratifica, cambia radicalmente il nostro sistema: si esce dalla logica della democrazia rappresentativa, su cui si basa la sentenza con cui la Consulta ha dichiarato illegittimo il Porcellum. L’Italicum riprende la logica del Porcellum: ed è una logica conservatrice che tende a concentrare nelle mani del governo un potere assoluto, con una Camera non più in grado di controllare. La democrazia rappresentativa va salvaguardata, garantendo equilibri costituzionali adeguati.
Il successo elettorale sembra esser diventato una legittimazione universale. L’idea, berlusconiana, del voto-lavacro …
Certamente. Berlusconi diceva: se i cittadini mi hanno votato pur sapendo che sono indagato, significa che a loro non importa. Dire “i cittadini conoscevano la linea del governo quindi l’hanno legittimata con il voto” è un’assoluta forzatura. In ballo c’è la legalità costituzionale da due punti di vista, il rispetto della democrazia rappresentativa e degli equilibri costituzionali. Che non sono materia disponibile e non dipendono da alcun eventuale plebiscito.
Pensare che il vincitore delle elezioni abbia carta bianca su tutto è poco rispettoso di un sistema che si basa anche sulla tutela delle minoranze e quindi sul pluralismo.
Non sono tra quelli che sottovalutano il risultato delle urne, e nemmeno tra quelli che lo interpretano attraverso improbabili confronti con il passato. Il risultato è stato importante, ma non significa che ora Renzi sia un Principe sciolto da ogni vincolo rispetto alle regole costituzionali!
Anche ieri il premier ha ribadito: riforme subito, entro l’estate.
Le riforme della Pa e della giustizia, che ora il governo intende affrontare, possono anche essere accompagnate da accelerazioni politiche. Ma una riforma costituzionale è cosa diversa perché riscrive il patto con i cittadini. Il patto con i cittadini non può uscire dalla logica della democrazia parlamentare rappresentativa. Non è accettabile sentire il premier dire “dopo di me il diluvio” a proposito delle riforme costituzionali.
Si sa assai poco del patto del Nazareno.
Quando Renzi annunciò la volontà di levare il segreto di Stato, dissi che il primo segreto che doveva togliere era sul patto con Berlusconi, di cui non conosciamo i contenuti. Adesso il voto europeo è usato per esaltare il premier, ma si fa finta di non vedere la sconfitta dell’altro contraente di quel patto. O si dice che il risultato è indifferente per tutti, ma se è un voto pesante si deve ridimensionare il ruolo di Berlusconi. Sono possibili maggioranze diverse se si è disponibili a vedere nel Senato non una camera irrilevante, ma un’istituzione fondamentale negli equilibri democratici.
Che pensa della mediazione maturata nel Pd sul “Senato alla francese”, cioè eletto indirettamente?
Il problema, sulla Camera alta, non è solo quale legge elettorale, ma anche quali funzioni. Avrà competenza su materie costituzionali, diritti fondamentali, commissioni parlamentari? Si possono anche considerare modalità di elezione diverse da un sistema diretto e proporzionale che a mio avviso sarebbe il migliore, ma a patto di garantire gli equilibri costituzionali complessivi.
Riforme, Stefano Rodotà: “La Carta esiste, Renzi non è un Principe”
Il professore è tra i promotori della manifestazione in difesa della Costituzione, il 2 giugno a Modena che ilfattoquotidiano.it trasmetterà in streaming. "Le regole ci sono indipendentemente dai successi elettorali"
di Silvia Truzzi | 1 giugno 2014
L’anno scorso incombeva la minaccia di scardinare l’articolo architrave, il 138 della Costituzione. Oggi il pericolo arriva dal combinato disposto di Italicum più riforma del Senato: Libertà e Giustizia organizza anche quest’anno una manifestazione in difesa della Carta, il 2 giugno a Modena. Tra i “professoroni” che parteciperanno c’è anche Stefano Rodotà: “L’anno scorso, dopo la festa della Repubblica, prese avvio un lavoro sfociato nella manifestazione del 12 ottobre, La via maestra. In quei mesi si era diffuso un orientamento, largamente condiviso, contro la modifica del 138. Quell’ipotesi poi cadde: dunque non è stato un lavoro inutile”.
E oggi?
L’attacco ai “professoroni” ha prodotto una discussione ricca, sfociata in audizioni parlamentari, che ha prodotto proposte puntuali. I progetti del governo sono stati sottoposti a valutazioni che dovrebbero essere considerate contributi da cui non si può prescindere. Approvare un testo di riforma del Senato senza tener conto di modalità di elezione e competenze della Camera è un modo improprio e pericoloso di affrontare il problema. L’Italicum va verso una democrazia d’investitura – “la sera delle elezioni deve essere chiaro chi governerà” – e una democrazia di ratifica, in cui il Parlamento semplicemente prende atto delle volontà del governo. Il combinarsi di questi due elementi, democrazia d’investitura e di ratifica, cambia radicalmente il nostro sistema: si esce dalla logica della democrazia rappresentativa, su cui si basa la sentenza con cui la Consulta ha dichiarato illegittimo il Porcellum. L’Italicum riprende la logica del Porcellum: ed è una logica conservatrice che tende a concentrare nelle mani del governo un potere assoluto, con una Camera non più in grado di controllare. La democrazia rappresentativa va salvaguardata, garantendo equilibri costituzionali adeguati.
Il successo elettorale sembra esser diventato una legittimazione universale. L’idea, berlusconiana, del voto-lavacro …
Certamente. Berlusconi diceva: se i cittadini mi hanno votato pur sapendo che sono indagato, significa che a loro non importa. Dire “i cittadini conoscevano la linea del governo quindi l’hanno legittimata con il voto” è un’assoluta forzatura. In ballo c’è la legalità costituzionale da due punti di vista, il rispetto della democrazia rappresentativa e degli equilibri costituzionali. Che non sono materia disponibile e non dipendono da alcun eventuale plebiscito.
Pensare che il vincitore delle elezioni abbia carta bianca su tutto è poco rispettoso di un sistema che si basa anche sulla tutela delle minoranze e quindi sul pluralismo.
Non sono tra quelli che sottovalutano il risultato delle urne, e nemmeno tra quelli che lo interpretano attraverso improbabili confronti con il passato. Il risultato è stato importante, ma non significa che ora Renzi sia un Principe sciolto da ogni vincolo rispetto alle regole costituzionali!
Anche ieri il premier ha ribadito: riforme subito, entro l’estate.
Le riforme della Pa e della giustizia, che ora il governo intende affrontare, possono anche essere accompagnate da accelerazioni politiche. Ma una riforma costituzionale è cosa diversa perché riscrive il patto con i cittadini. Il patto con i cittadini non può uscire dalla logica della democrazia parlamentare rappresentativa. Non è accettabile sentire il premier dire “dopo di me il diluvio” a proposito delle riforme costituzionali.
Si sa assai poco del patto del Nazareno.
Quando Renzi annunciò la volontà di levare il segreto di Stato, dissi che il primo segreto che doveva togliere era sul patto con Berlusconi, di cui non conosciamo i contenuti. Adesso il voto europeo è usato per esaltare il premier, ma si fa finta di non vedere la sconfitta dell’altro contraente di quel patto. O si dice che il risultato è indifferente per tutti, ma se è un voto pesante si deve ridimensionare il ruolo di Berlusconi. Sono possibili maggioranze diverse se si è disponibili a vedere nel Senato non una camera irrilevante, ma un’istituzione fondamentale negli equilibri democratici.
Che pensa della mediazione maturata nel Pd sul “Senato alla francese”, cioè eletto indirettamente?
Il problema, sulla Camera alta, non è solo quale legge elettorale, ma anche quali funzioni. Avrà competenza su materie costituzionali, diritti fondamentali, commissioni parlamentari? Si possono anche considerare modalità di elezione diverse da un sistema diretto e proporzionale che a mio avviso sarebbe il migliore, ma a patto di garantire gli equilibri costituzionali complessivi.
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Re: Quale Senato ?
Per quale motivo alle camere non prendono visione della proposta del M5S
Che ha elaborato.
Ciao
Paolo11
Che ha elaborato.
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Paolo11
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Re: Quale Senato ?
dal Fatto quotidiano...una parte
Alla domanda se nel Pd si troverà l’intesa tra una minoranza che insiste per l’elezione diretta e gli altri senatori? Finocchiaro ha espresso grandissimo ottimismo: “Ci può giurare”.
Sarà così? Non proprio. “Che devo fare, mettermi a ridere?”. E’ il commento di Corradino Mineo sulla propria pagina Facebook all’ipotesi di modello francese per la riforma del Senato. “Nella Costituzione francese del 58 – ha spiegato Mineo – tutto gioca intorno all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, dominus del governo (ma senza sporcarsi le mani, per quello c’è il primo ministro) e soprattutto garante della Costituzione e dello spirito repubblicano. Un sovrano costituzionale. Però, siccome elezione diretta e doppio turno suscitano, in Francia soprattutto, una dinamica giacobina e parigina, ecco che la Costituzione gollista pensò di offrire una tribuna alla pancia profonda e trascurata del paese, ai piccoli amministratori che non toccano palla nella politica nazionale ma fanno i conti con tanti Asterix locali”. “Noi abbiamo, semmai, il problema opposto – ha proseguito il senatore della minoranza Pd – troppe incombenze sono state trasferite alla autonomie in modo confuso. Non a caso il governo voleva centralizzare (riforma della riforma del titolo V) e irretire sindaci e governatori promuovendoli per qualche giorno senatori. Ora però, per non dare ragione a Chiti (e proteggere Berlusconi dalla fronda interna) si pensa di affidare le garanzie costituzionale a un Parlamento per metà eletto con legge maggioritaria e partitocratica, per l’altra metà nominato dalla casta degli amministratori”.
Già, Chiti. Sul campo, infatti, rimangono i venti senatori della minoranza Pd che convergono sulla proposta di Vannino Chiti, il quale punta ancora sull’elezione diretta dei rappresentanti di Palazzo Madama. Ai rappresentanti dem non va bene la proposta di modello francese, tanto che hanno annunciato la presentazione dei contenuti del ddl Chiti sotto forma di emendamenti. Emblematica, in tal senso, la presa di posizione di Massimo Mucchetti, che ha detto no alla mediazione per le riforme sul modello francese. Il presidente della commissione Industria di Palazzo Madama ha spiegato di aver riproposto sotto forma di emendamenti il ddl Chiti, “assieme agli altri 19 che lo avevano firmato”.
Mucchetti ha usato parole chiare: “Sui casi Telecom e Banca d’Italia, si può anche rinunciare alle proprie ragioni per disciplina di gruppo parlamentare, ancorché sul primo caso ci fosse l’unanimità non del gruppo, ma del Senato – ha detto - ma ora è in gioco la Costituzione e sulla Costituzione nessun governo può chiedere la fiducia e nessun partito può imporre una disciplina militare. Altrimenti bisogna avere il coraggio di proporre l’abolizione dell’articolo 67 della Carta. La riforma costituzionale, insomma, interpella la coscienza di ciascun parlamentare. E lo pone davanti all’eterna domanda: siamo uomini o caporali?”. Mucchetti ha poi bocciato di netto il modello francese: “La parola mediazione non può mascherare un pasticcio che non cambia la sostanza, anzi la peggiora. Gli eletti negli enti locali – ha spiegato il senatore della minoranza Pd – deputati a scegliere il Senato di Parigi sono ben più numerosi, 180mila, e soprattutto possono eleggere chiunque abbia compiuto i 24 anni. Di più, da marzo scorso non saranno candidabili sindaci e presidenti di regione per evitare il doppio mandato, che ha dato prova negativa. Al senato francese infine si giustappone l’Assemblea nazionale con i deputati eletti con doppio turno di collegio, e non la Camera dei deputati dell’Italicum, con premio di maggioranza a chi supera il 37% o vince il ballottaggio di coalizione con liste decise dall’alto. E un sistema, quello francese, con una forte coerenza interna – ha attaccato Mucchetti – Vogliamo copiare invece di incollare, come stiamo facendo parti di costituzioni altrui in una sperimentazione di pop art strapaesana? Ottimo – ha concluso – purché si copi bene: non costruiamo un corpo elettorale autoreferenziale che si aggiunge ai governatori”.
Alla domanda se nel Pd si troverà l’intesa tra una minoranza che insiste per l’elezione diretta e gli altri senatori? Finocchiaro ha espresso grandissimo ottimismo: “Ci può giurare”.
Sarà così? Non proprio. “Che devo fare, mettermi a ridere?”. E’ il commento di Corradino Mineo sulla propria pagina Facebook all’ipotesi di modello francese per la riforma del Senato. “Nella Costituzione francese del 58 – ha spiegato Mineo – tutto gioca intorno all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, dominus del governo (ma senza sporcarsi le mani, per quello c’è il primo ministro) e soprattutto garante della Costituzione e dello spirito repubblicano. Un sovrano costituzionale. Però, siccome elezione diretta e doppio turno suscitano, in Francia soprattutto, una dinamica giacobina e parigina, ecco che la Costituzione gollista pensò di offrire una tribuna alla pancia profonda e trascurata del paese, ai piccoli amministratori che non toccano palla nella politica nazionale ma fanno i conti con tanti Asterix locali”. “Noi abbiamo, semmai, il problema opposto – ha proseguito il senatore della minoranza Pd – troppe incombenze sono state trasferite alla autonomie in modo confuso. Non a caso il governo voleva centralizzare (riforma della riforma del titolo V) e irretire sindaci e governatori promuovendoli per qualche giorno senatori. Ora però, per non dare ragione a Chiti (e proteggere Berlusconi dalla fronda interna) si pensa di affidare le garanzie costituzionale a un Parlamento per metà eletto con legge maggioritaria e partitocratica, per l’altra metà nominato dalla casta degli amministratori”.
Già, Chiti. Sul campo, infatti, rimangono i venti senatori della minoranza Pd che convergono sulla proposta di Vannino Chiti, il quale punta ancora sull’elezione diretta dei rappresentanti di Palazzo Madama. Ai rappresentanti dem non va bene la proposta di modello francese, tanto che hanno annunciato la presentazione dei contenuti del ddl Chiti sotto forma di emendamenti. Emblematica, in tal senso, la presa di posizione di Massimo Mucchetti, che ha detto no alla mediazione per le riforme sul modello francese. Il presidente della commissione Industria di Palazzo Madama ha spiegato di aver riproposto sotto forma di emendamenti il ddl Chiti, “assieme agli altri 19 che lo avevano firmato”.
Mucchetti ha usato parole chiare: “Sui casi Telecom e Banca d’Italia, si può anche rinunciare alle proprie ragioni per disciplina di gruppo parlamentare, ancorché sul primo caso ci fosse l’unanimità non del gruppo, ma del Senato – ha detto - ma ora è in gioco la Costituzione e sulla Costituzione nessun governo può chiedere la fiducia e nessun partito può imporre una disciplina militare. Altrimenti bisogna avere il coraggio di proporre l’abolizione dell’articolo 67 della Carta. La riforma costituzionale, insomma, interpella la coscienza di ciascun parlamentare. E lo pone davanti all’eterna domanda: siamo uomini o caporali?”. Mucchetti ha poi bocciato di netto il modello francese: “La parola mediazione non può mascherare un pasticcio che non cambia la sostanza, anzi la peggiora. Gli eletti negli enti locali – ha spiegato il senatore della minoranza Pd – deputati a scegliere il Senato di Parigi sono ben più numerosi, 180mila, e soprattutto possono eleggere chiunque abbia compiuto i 24 anni. Di più, da marzo scorso non saranno candidabili sindaci e presidenti di regione per evitare il doppio mandato, che ha dato prova negativa. Al senato francese infine si giustappone l’Assemblea nazionale con i deputati eletti con doppio turno di collegio, e non la Camera dei deputati dell’Italicum, con premio di maggioranza a chi supera il 37% o vince il ballottaggio di coalizione con liste decise dall’alto. E un sistema, quello francese, con una forte coerenza interna – ha attaccato Mucchetti – Vogliamo copiare invece di incollare, come stiamo facendo parti di costituzioni altrui in una sperimentazione di pop art strapaesana? Ottimo – ha concluso – purché si copi bene: non costruiamo un corpo elettorale autoreferenziale che si aggiunge ai governatori”.
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Re: Quale Senato ?
Corriere 29.6.14
«Bisogna tagliare anche i deputati» La mina trasversale sul nuovo Senato
La proposta della minoranza pd ha molti consensi nell’opposizione
di Dino Martirano
ROMA — A meno di 24 ore dal primo voto sulle riforme previsto per domani pomeriggio in commissione, al Senato si apre il derby con la Camera. E la partita si profila insidiosissima per il governo, che con la legge costituzionale Renzi-Boschi intende falcidiare solo l’assemblea di Palazzo Madama (da 315 a 100 seggi) lasciando invece intatta quella di Montecitorio (630 seggi).
Sulla strada intrapresa dal ministro Maria Elena Boschi (Riforme) si profila la presenza di un vero macigno: perché, oltre la minoranza interna guidata da Vannino Chiti (14 senatori del Pd), anche l’«area riformista» (Bersani-Letta, forte di almeno 27 senatori) punta dritta sulla cura dimagrante contestuale delle due assemblee legislative. E questo «doppio taglio» è molto popolare anche nelle opposizioni (Lega, FI, M5S, Sel) tanto da rappresentare il più insidioso ostacolo per il governo che, anche su questo terreno, non intende cambiare una sola virgola del suo testo base. Perché, come ha sempre ripetuto Renzi ai suoi, se si tocca anche la Camera la riforma del Senato e del Titolo V rischia veramente di insabbiarsi.
La questione sarà affrontata martedì nell’ennesima riunione dei senatori del Pd convocata dal capogruppo Luigi Zanda che, a votazioni ormai aperte, dovrà tentare di indicare un punto di mediazione. Già domani mattina è prevista una riunione dell’«area riformista» del Pd che dovrà decidere come utilizzare l’«arma atomica» rappresentata dall’emendamento 1.011 — firmato da Doris Lo Moro, Miguel Gotor, Francesco Russo, Maurizio Migliavacca, Giorgio Pagliari e altri 22 colleghi del Pd — che propone la modifica dell’articolo 56 della Costituzione per ridurre i deputati da 630 a 500 (più 8 eletti all’estero). Il governo ha già monitorato il pericolo e probabilmente, visto che l’emendamento Lo Moro potrebbe essere messo in votazione già domani pomeriggio, si accinge a chiederne l’accantonamento. Sperando poi che nella riunione del Pd di martedì nessuno intenda mettere ai voti il tema riduzione del numero dei parlamentari.
La questione posta dai 27 di «area riformista» (che in prima commissione sono in 5 mentre i renziani sono due) è molto delicata perché non ha solo il sapore della rivalsa sui colleghi deputati. Il bilanciamento dei numeri tra Camera e Senato, infatti, incide sul plenum in seduta comune del Parlamento che elegge gli organi di garanzia e in particolare il capo dello Stato. Gotor , Migliavacca e la stessa capogruppo Lo Moro hanno esposto in commissione qual è il punto debole della riforma del Senato combinata con la legge elettorale maggioritaria: a un solo partito, infatti, basterebbe vincere il premio di maggioranza alla Camera e controllare il 33% del Senato per eleggere da solo il presidente della Repubblica: «E poi c’è anche la variante russa — insiste da giorni Gotor — col premier che si fa eleggere capo dello Stato dalla Camera, che controlla grazie al premio di maggioranza, e dal mini Senato».
Ecco allora che, oltre alla riduzione contestuale di senatori e deputati, spunta un altro emendamento dei 27 dell’«area riformista» del Pd che alza il quorum per l’elezione del capo dello Stato (la maggioranza assoluta scatta solo al 7° scrutinio e non al 4°).
Domani, dunque, è il giorno della verità. Alle 16 il presidente della commissione Anna Finocchiaro darà il via alle votazioni. I rapporti di forza sono 15 voti a favore della maggioranza, 14 per l’opposizione anche sulla questione dell’elezione diretta del Senato sostenuta dalla minoranza del Pd guidata da Vannino Chiti, che però ha perso la funzione dell’ago della bilancia in commissione: «Dopo la mia sostituzione continuo ad andare in commissione con Chiti e Casson per illustrare i nostri emendamenti anche se, ovviamente non possiamo votare», osserva il dissidente Corradino Mineo. Che aggiunge: «Io dico che non bisognava arrivare a tutto questo, il governo avrebbe dovuto aprire sull’elezione diretta con il listino presentato alle regionali». Ora però la questione dell’elezione dei senatori rischia di passare in secondo piano per lasciare la ribalta alla riduzione del numero dei parlamentari.
il Fatto 29.6.14
Nella trincea del Senato tra Chiti, Razzi e Scilipoti
La battaglia per l’elezione diretta dei componenti di Palazzo Madama ha un fronte bipartisan: Mucchetti: “Non abbiamo nulla da perdere”
di Fabrizio d’Esposito
Gli anticorpi al renzismo hanno generato nella pancia parlamentare una nuova specie: l’Homo Senatus, l’Uomo del Senato. L’Homo Senatus è un Frankenstein costituzionale che assembla spezzoni di tutti i partiti e ha soprattutto una caratteristica: di fronte al renzismo imperante mette insieme uomini e donne che non hanno più nulla da perdere e si ritengono più liberi dei tantissimi che sono saliti sul carro del vincitore di Firenze. La linea di confine tra loro e il resto del mondo è il Senato elettivo. Capofila di questa battaglia nel Pd è Vannino Chiti, ex ministro. Ma ci sono, per esempio, anche Casson, Mucchetti, Tocci e Mi-neo. In tutto sono 35 i senatori, tra democrat, ex grillini e Sel, che si battono per il suffragio universale, e non un’elezione indiretta.
Ecco cosa significa non aver nulla da perdere secondo Massimo Mucchetti, già firma di peso del Corriere della Sera poi senatore nel Pd bersaniano: “Io mi sono impegnato in questa battaglia nel momento in cui hanno messo fuori la testa persone con una notevole cultura istituzionale. Questa è la principale molla che li spinge. Ovviamente ho messo nel conto un prezzo da pagare. Un prezzo si paga sempre in certi frangenti, già mi è capitato professionalmente e non mi sono mai spaventato. Non credo quindi che il Pd mi chiamerà più a fare il capolista in Lombardia come è successo l’anno scorso”.
È come se l’Homo Senatus, a differenza degli abolizionisti che vogliono
riempire Palazzo Madama di sindaci e consiglieri regionali, si fosse liberato allo stesso tempo di due ossessioni, legate tra di loro. Quella di dire sì al Capo di turno (ieri Berlusconi,
oggi Renzi) e quella della poltrona a tutti i costi. Almeno a sentire Mucchetti, che conclude con un’osservazione acuta sulla propaganda tipica dei partiti padronali-carismatici o semplicemente carismatici: “C’è una vera e propria manipolazione del reale. Noi che stiamo denunciando tutti i rischi di questa operazione siamo la palude, chi invece dà ragione al Capo diventa un riformista”. Ma chi vincerà alla fine? Risposta: “Il sentimento sul Senato elettivo è maggioritario tra tutti i miei colleghi, ma non so come finirà. Comunque reputo difficile il raggiungimento dei due terzi come prevede la Costituzione” .
I dissidenti del Pd, più ex grillini e Sel, sono per il momento un iceberg di medie dimensioni che minaccia la navigazione del Transatlantico renziano. Ma non è l’unico.
Dentro Forza Italia c’è un consistente movimento che non va nel verso renziano. Il volto più noto di questo schieramento è Augusto Minzolini, giornalista come Mucchetti. Anche lui ha la sensazione che in giro per Palazzo Madama siano in tanti a non avere più nulla da perdere, compresi quelli che, realisticamente, non credono più nella possibilità di un altro giro parlamentare. La pubblicistica corrente individua solo quattri azzurri contrari alla riforma del Senato (oltre Minzolini: Tarquinio, D’Ambrosio, Lettieri e Caliendo), ma il numero è molto più alto. Dice Minzolini: “Il mio ddl costituzionale su Camera e Senato ha raccolto 37 firme, quella è la base che potrebbe fare sponda con chi è dall’altro lato”. Un totale di 73 senatori, sommando 35 più 38.
L’Homo Senatus sul versante berlusconiano include, a leggere le firme sul ddl di Minzolini, Cinzia Bonfrisco, Francesco Giro, Paola Pelino, Alessandra Mussolini, i famigerati Razzi e Scilipoti (sì anche loro, in fondo chi mai potrebbe riportarli in Parlamento?), Riccardo Villari, Francesco Compagna, Pietro Langella (da poco passato con Ncd) e quasi tutto il gruppo degli autonomisti di Gal capeggiato dal socialista Barani e dal cosentiniano D’Anna. Anche Minzolini è convinto che Renzi non riuscirà ad avere i due terzi e a quel punto il referendum sulla riforma, nel 2015, si potrebbe trasformare in un referendum sul premier, peraltro non più in luna di miele con il Paese. Il senatore azzurro, già principe dei retroscenisti politici, ha pure un sospetto: “Il disegno di Renzi è perverso. Dopo la riforma potrebbe mandare a casa questo Senato ed eleggere il nuovo capo dello Stato con la Camera attuale e il Senato a elezione indiretta. I mille giorni che ha annunciato si possono spiegare così”.
«Bisogna tagliare anche i deputati» La mina trasversale sul nuovo Senato
La proposta della minoranza pd ha molti consensi nell’opposizione
di Dino Martirano
ROMA — A meno di 24 ore dal primo voto sulle riforme previsto per domani pomeriggio in commissione, al Senato si apre il derby con la Camera. E la partita si profila insidiosissima per il governo, che con la legge costituzionale Renzi-Boschi intende falcidiare solo l’assemblea di Palazzo Madama (da 315 a 100 seggi) lasciando invece intatta quella di Montecitorio (630 seggi).
Sulla strada intrapresa dal ministro Maria Elena Boschi (Riforme) si profila la presenza di un vero macigno: perché, oltre la minoranza interna guidata da Vannino Chiti (14 senatori del Pd), anche l’«area riformista» (Bersani-Letta, forte di almeno 27 senatori) punta dritta sulla cura dimagrante contestuale delle due assemblee legislative. E questo «doppio taglio» è molto popolare anche nelle opposizioni (Lega, FI, M5S, Sel) tanto da rappresentare il più insidioso ostacolo per il governo che, anche su questo terreno, non intende cambiare una sola virgola del suo testo base. Perché, come ha sempre ripetuto Renzi ai suoi, se si tocca anche la Camera la riforma del Senato e del Titolo V rischia veramente di insabbiarsi.
La questione sarà affrontata martedì nell’ennesima riunione dei senatori del Pd convocata dal capogruppo Luigi Zanda che, a votazioni ormai aperte, dovrà tentare di indicare un punto di mediazione. Già domani mattina è prevista una riunione dell’«area riformista» del Pd che dovrà decidere come utilizzare l’«arma atomica» rappresentata dall’emendamento 1.011 — firmato da Doris Lo Moro, Miguel Gotor, Francesco Russo, Maurizio Migliavacca, Giorgio Pagliari e altri 22 colleghi del Pd — che propone la modifica dell’articolo 56 della Costituzione per ridurre i deputati da 630 a 500 (più 8 eletti all’estero). Il governo ha già monitorato il pericolo e probabilmente, visto che l’emendamento Lo Moro potrebbe essere messo in votazione già domani pomeriggio, si accinge a chiederne l’accantonamento. Sperando poi che nella riunione del Pd di martedì nessuno intenda mettere ai voti il tema riduzione del numero dei parlamentari.
La questione posta dai 27 di «area riformista» (che in prima commissione sono in 5 mentre i renziani sono due) è molto delicata perché non ha solo il sapore della rivalsa sui colleghi deputati. Il bilanciamento dei numeri tra Camera e Senato, infatti, incide sul plenum in seduta comune del Parlamento che elegge gli organi di garanzia e in particolare il capo dello Stato. Gotor , Migliavacca e la stessa capogruppo Lo Moro hanno esposto in commissione qual è il punto debole della riforma del Senato combinata con la legge elettorale maggioritaria: a un solo partito, infatti, basterebbe vincere il premio di maggioranza alla Camera e controllare il 33% del Senato per eleggere da solo il presidente della Repubblica: «E poi c’è anche la variante russa — insiste da giorni Gotor — col premier che si fa eleggere capo dello Stato dalla Camera, che controlla grazie al premio di maggioranza, e dal mini Senato».
Ecco allora che, oltre alla riduzione contestuale di senatori e deputati, spunta un altro emendamento dei 27 dell’«area riformista» del Pd che alza il quorum per l’elezione del capo dello Stato (la maggioranza assoluta scatta solo al 7° scrutinio e non al 4°).
Domani, dunque, è il giorno della verità. Alle 16 il presidente della commissione Anna Finocchiaro darà il via alle votazioni. I rapporti di forza sono 15 voti a favore della maggioranza, 14 per l’opposizione anche sulla questione dell’elezione diretta del Senato sostenuta dalla minoranza del Pd guidata da Vannino Chiti, che però ha perso la funzione dell’ago della bilancia in commissione: «Dopo la mia sostituzione continuo ad andare in commissione con Chiti e Casson per illustrare i nostri emendamenti anche se, ovviamente non possiamo votare», osserva il dissidente Corradino Mineo. Che aggiunge: «Io dico che non bisognava arrivare a tutto questo, il governo avrebbe dovuto aprire sull’elezione diretta con il listino presentato alle regionali». Ora però la questione dell’elezione dei senatori rischia di passare in secondo piano per lasciare la ribalta alla riduzione del numero dei parlamentari.
il Fatto 29.6.14
Nella trincea del Senato tra Chiti, Razzi e Scilipoti
La battaglia per l’elezione diretta dei componenti di Palazzo Madama ha un fronte bipartisan: Mucchetti: “Non abbiamo nulla da perdere”
di Fabrizio d’Esposito
Gli anticorpi al renzismo hanno generato nella pancia parlamentare una nuova specie: l’Homo Senatus, l’Uomo del Senato. L’Homo Senatus è un Frankenstein costituzionale che assembla spezzoni di tutti i partiti e ha soprattutto una caratteristica: di fronte al renzismo imperante mette insieme uomini e donne che non hanno più nulla da perdere e si ritengono più liberi dei tantissimi che sono saliti sul carro del vincitore di Firenze. La linea di confine tra loro e il resto del mondo è il Senato elettivo. Capofila di questa battaglia nel Pd è Vannino Chiti, ex ministro. Ma ci sono, per esempio, anche Casson, Mucchetti, Tocci e Mi-neo. In tutto sono 35 i senatori, tra democrat, ex grillini e Sel, che si battono per il suffragio universale, e non un’elezione indiretta.
Ecco cosa significa non aver nulla da perdere secondo Massimo Mucchetti, già firma di peso del Corriere della Sera poi senatore nel Pd bersaniano: “Io mi sono impegnato in questa battaglia nel momento in cui hanno messo fuori la testa persone con una notevole cultura istituzionale. Questa è la principale molla che li spinge. Ovviamente ho messo nel conto un prezzo da pagare. Un prezzo si paga sempre in certi frangenti, già mi è capitato professionalmente e non mi sono mai spaventato. Non credo quindi che il Pd mi chiamerà più a fare il capolista in Lombardia come è successo l’anno scorso”.
È come se l’Homo Senatus, a differenza degli abolizionisti che vogliono
riempire Palazzo Madama di sindaci e consiglieri regionali, si fosse liberato allo stesso tempo di due ossessioni, legate tra di loro. Quella di dire sì al Capo di turno (ieri Berlusconi,
oggi Renzi) e quella della poltrona a tutti i costi. Almeno a sentire Mucchetti, che conclude con un’osservazione acuta sulla propaganda tipica dei partiti padronali-carismatici o semplicemente carismatici: “C’è una vera e propria manipolazione del reale. Noi che stiamo denunciando tutti i rischi di questa operazione siamo la palude, chi invece dà ragione al Capo diventa un riformista”. Ma chi vincerà alla fine? Risposta: “Il sentimento sul Senato elettivo è maggioritario tra tutti i miei colleghi, ma non so come finirà. Comunque reputo difficile il raggiungimento dei due terzi come prevede la Costituzione” .
I dissidenti del Pd, più ex grillini e Sel, sono per il momento un iceberg di medie dimensioni che minaccia la navigazione del Transatlantico renziano. Ma non è l’unico.
Dentro Forza Italia c’è un consistente movimento che non va nel verso renziano. Il volto più noto di questo schieramento è Augusto Minzolini, giornalista come Mucchetti. Anche lui ha la sensazione che in giro per Palazzo Madama siano in tanti a non avere più nulla da perdere, compresi quelli che, realisticamente, non credono più nella possibilità di un altro giro parlamentare. La pubblicistica corrente individua solo quattri azzurri contrari alla riforma del Senato (oltre Minzolini: Tarquinio, D’Ambrosio, Lettieri e Caliendo), ma il numero è molto più alto. Dice Minzolini: “Il mio ddl costituzionale su Camera e Senato ha raccolto 37 firme, quella è la base che potrebbe fare sponda con chi è dall’altro lato”. Un totale di 73 senatori, sommando 35 più 38.
L’Homo Senatus sul versante berlusconiano include, a leggere le firme sul ddl di Minzolini, Cinzia Bonfrisco, Francesco Giro, Paola Pelino, Alessandra Mussolini, i famigerati Razzi e Scilipoti (sì anche loro, in fondo chi mai potrebbe riportarli in Parlamento?), Riccardo Villari, Francesco Compagna, Pietro Langella (da poco passato con Ncd) e quasi tutto il gruppo degli autonomisti di Gal capeggiato dal socialista Barani e dal cosentiniano D’Anna. Anche Minzolini è convinto che Renzi non riuscirà ad avere i due terzi e a quel punto il referendum sulla riforma, nel 2015, si potrebbe trasformare in un referendum sul premier, peraltro non più in luna di miele con il Paese. Il senatore azzurro, già principe dei retroscenisti politici, ha pure un sospetto: “Il disegno di Renzi è perverso. Dopo la riforma potrebbe mandare a casa questo Senato ed eleggere il nuovo capo dello Stato con la Camera attuale e il Senato a elezione indiretta. I mille giorni che ha annunciato si possono spiegare così”.
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