30 MAG 2014 11:16
- 1. IL CAPOLAVORO DI RENZI NON E’ NEL 40% DEI VOTI, E’ NELL’AVER SILENZIATO IL SUO PD -
2. DUE ANNI FA NON C’ERA UN PARLAMENTARE DISPOSTO A SOSTENERLO E IL PARTITO ERA UNA POLVERIERA DI CORRENTI: OGGI TUTTI ALLINEATI E COPERTI AI SUOI PIEDI -
3. ANCHE SEL, “SCIOLTA CIVICA” E PEZZI DI CINQUESTELLE VOGLIONO ENTRARE NEL PD. LO STESSO PARLAMENTO, UNA VOLTA PALUDE DI TRANELLI E COSPIRAZIONI, ADESSO E’ PRECETTATO FINO AL 2018, COSTRETTO AD ADEGUARSI AI RITMI DELLE RIFORME -
4. E PITTIBIMBO HA IL MACHETE DALLA PARTE DEL MANICO: SI MOSTRA MAGNANIMO E UMILE, TENDE LA MANO AI SUOI EX NEMICI, APRE LE STANZE DEI BOTTONI AGLI EX BERSANIANI, E’ DISPOSTO A RIVEDERE INCARICHI E POLTRONE (A PARTIRE DALLA PRESIDENZA DEL PARTITO) MA IN CAMBIO PRENDE TUTTO IL CUCUZZARO: ADORAZIONE, OBBEDIENZA, FEDELTA’ IN SAECULA SAECULORUM -
1. RENZI DETTA LEGGE AL PD: PER MANTENERE IL 40% DOVETE SOLO SEGUIRMI
Laura Cesaretti per "il Giornale"
La fotografia la scatta ironico Roberto Giachetti, renziano della prima ora in casa Pd: «Due anni fa ci voleva il binocolo per vedere un parlamentare che stesse con Renzi. Ora non basta il più potente grandangolo a inquadrarli tutti».
E la battuta non vale solo all'interno del partito del premier, ma anche fuori: non ci sono più maggioranza e minoranze nel Pd, non c'è più una coalizione di governo e anche pezzi di opposizione stanno smottando, per confluire tutti in quello che non è tanto il Pd quanto una sorta di magnetica «ForzaRenzi».
La fila è lunga, da Sel a Scelta civica passando per il frastornato Ncd («Bisogna riconoscere che l'unico che ha vinto è Renzi», constata la capogruppo Nunzia Di Girolamo, gelando i trionfalismi un po' surreali di Alfano) e pezzi di Cinque Stelle in fuga. E lui, il premier, sorride accogliente: «Non facciamo nessuna campagna acquisti in Parlamento», dice, ben sapendo di non aver bisogno di farla, «ma non c'è dubbio che la disponibilità ad avvicinarsi al Pd sia fisiologica, in una legislatura che guarda al 2018 e con partiti che sono scomparsi nelle urne».
La maggioranza insomma è destinata ad allargarsi e rafforzarsi. Anche perché, nota sarcastico Renzi, «la voglia di votare è passata a tutti». A tutti gli altri, sottinteso: «Quanto a noi, non abbiamo ansie di prestazione». E questa diffusa avversione per le urne il premier ha tutte le intenzioni di usarla a suo vantaggio, per domare un Parlamento che finora è stato lento, malmostoso e ha fatto ostruzionismo alle sue riforme. D'ora in poi, invece, si deve andare avanti spediti, secondo il calendario dettato da Renzi alla Direzione di ieri: subito il Senato, ma entro l'estate l'Italicum. Che è la partita più difficile ma più necessaria, visto che come spiega il professor D'Alimonte neppure il 40% basterebbe a vincere le elezioni con il famigerato Consultellum.
Ieri la Direzione Pd sembrava ipnotizzata e soggiogata dal suo leader del 40%. Applausi scroscianti, risate a ogni battuta renziana, gara a stringergli la mano o dargli una pacca sulle spalle. «Nessuno di noi avrebbe immaginato questo risultato», sottolinea lui, ma avverte: «È solo un accidente della storia o diventerà un punteggio stabile? Insomma, vogliamo vivere l'istante o metterci la residenza, in quel 40%?». Sottinteso: dipende da voi, e da quanto vi darete da fare per mandare avanti la mia agenda.
Ma il Matteo Renzi del 40% si mostra ecumenico e generoso, per nulla gradasso: non solo cita le «belle parole» di Reichlin, padre nobile della sinistra post-Pci, che sull'Unità ha parlato del Pd di Renzi come del «partito della Nazione», non solo saluta affettuoso Pier Luigi Bersani seduto di fronte a lui in platea, ma benedice la famosa «foto di gruppo» della notte del voto, piena zeppa di suoi ex acerrimi avversari: «Trovo allucinanti le polemiche, non c'è stato nessun salto della quaglia verso la maggioranza interna, quella foto è il Pd che ora ha, tutto insieme, la responsabilità di continuare il cambiamento».
D'altronde è stato proprio lui, quella notte, mentre exit poll sempre più trionfali affluivano al Nazareno, a far irruzione nella stanza dove erano riuniti i bersanian-dalemiani della minoranza, da Fassina a D'Attorre a Stumpo, e a tuonare allegramente: «Ragazzi, mi pare il caso che anche voi andiate a spiegare ai giornalisti che abbiamo vinto, no?».
E ancora lui a spedire tutti in sala stampa per la foto di gruppo. E anche sulle riforme il premier è pronto a tendere la mano e a dimostrare di saper vincere: il senatore renziano Marcucci ha depositato ieri la proposta di mediazione, che dovrebbe chiudere lo scontro sul Senato: i suoi membri verranno eletti secondo il «modello francese», da un'ampia platea di sindaci e consiglieri regionali.
2. DA BERSANI A MARINI E D'ALEMA MATTEO AMMUTOLISCE I ROTTAMATI
Carlo Bertini per "La Stampa"
«Dobbiamo parlare un linguaggio di verità: il 40% è un accidente della storia, un colpo di fortuna o un obiettivo stabile?». Di fronte ad un simile domanda del leader, carne al fuoco per imbastire una bella discussione ce ne sarebbe stata tanta, ma a dispetto delle attese è andato in sostanza in onda un monologo, in cui nessuno ha voluto imbarcarsi o in un controcanto o in una qualche critica che sarebbe potuta apparire stonata in un giorno come questo.
Per la celebrazione della vittoria sono arrivati tutti puntuali all'appuntamento, alle quattordici la Direzione è convocata, il premier si presenterà un'ora dopo in ritardo, gli ex big ci sono tutti, o quasi. Arriva Walter Veltroni, poi Massimo D'Alema, Franco Marini, Pierluigi Bersani, come d'abitudine presenti alle riunioni del parlamentino Pd. Unico assente, Enrico Letta, all'estero per un convegno.
E dopo più di mezz'ora di fuochi d'artificio del premier, nessuno di loro prende la parola in diretta streaming, tutti ammutoliti; e in buona compagnia, perché neppure i renziani doc intervengono, la riunione ha il timbro della «festa» come dice un «giovane turco» della corrente più lealista. E del resto «Renzi è stato anche oggi un fuoriclasse, che vuoi dirgli?», commenta più tardi il bersaniano Alfredo D'Attorre, uno di quelli finiti nella «foto di gruppo» della sera della vittoria.
Il premier dice essenzialmente due cose ad uso interno e una di queste, l'offerta alle minoranze di entrare nella stanza dei bottoni del partito, la dice bene, «in modo inclusivo», insomma senza ultimatum agli occhi degli interessati. Anche se avverte che lui vuole «un nuovo inizio», che le cariche non devono essere «una spartizione delle correnti» e che una gestione unitaria va vissuta come «corresponsabilizzazione e se vogliono starci ci stanno».
Il pacchetto di nomine che comprende la presidenza a una donna, nuova segreteria e rinnovo di alcune cariche apicali nei gruppi parlamentari, va considerato una mano tesa del leader ma non a costo zero: insomma richiede lealtà e sostegno e verrà votato tutto insieme all'assemblea nazionale del 14 giugno.
La seconda cosa, che in ordine di importanza viene prima ma è legata a stretto giro, è uno sprone a far in fretta le riforme, in primis quella del Senato e la legge elettorale entro l'estate, puntando però i riflettori su quella del lavoro, «la madre di tutte le battaglie». E per portare a casa più in fretta possibile quell'abolizione del Senato cui ha legato la sua carriera politica, Renzi fa una mossa che subito rimbalza al salone al terzo piano del Nazareno come segnale di distensione.
Fa sapere che accetta gli emendamenti della minoranza bersaniana per un Senato eletto alla francese, una dimostrazione di flessibilità per sminare le richieste di Chiti e dei pasdaran dell'elezione diretta. Una mediazione che assegna ad una vasta platea di consiglieri regionali e comunali l'onere di eleggere i membri da mandare nel nuovo organo che verrà fuori dalla riforma. Messe così le cose e visto il clima di celebrazione, dopo la relazione del premier gli ex big se ne vanno via uno ad uno senza dire nulla: «l' analisi del voto», un tempo rito solenne è rinviata ad altra sede.
Solo Bersani lascia agli atti alcune battute prima di entrare, gli altri zero. «Lo sfondamento c'è stato, ora è chiaro che bisogna consegnare la merce e dare le risposte al paese», dice l'ex segretario in bersanese. Detto questo, «noi siamo un partito», come a dire, si discute ma poi si lotta tutti assieme. Concetto espresso pure da Renzi e scagliato contro Grillo. «Questa grande responsabilità va colta in pieno e non immiserita per scontri interni, non c'è nessun salto sul carro, ma un partito consapevole di poter discutere con serenità: vedo qui Pierluigi e quando persi le primarie nessuno mi ha fatto un post per sbattermi fuori...».