UncleTom ha scritto:Italia
martedì 23/05/2017
Giovanni Falcone 25 anni dopo. Scarpinato: “Una verità a brandelli. Interessi politici oscuri tramano ancora”
Il Procuratore generale di Palermo: "Ancora ombre. Gli ‘amici di Roma’ e la minaccia a Di Matteo"
Lenzuola anti-mafia
Ignoti frugarono nel pc di Giovanni, l’agenda rossa di Borsellino sparì pochi minuti dopo via D’Amelio: è un quadro inquietante
Elio Ciolini – Legato all’eversione nera, a marzo ‘92 anticipò le stragi ai pm
Giulio Andreotti – Capaci azzerò le manovre per portarlo al Quirinale
Messina Denaro – Avrebbe imposto un artificiere segreto per colpire Di Matteo
Gaspare Spatuzza – Un uomo non della mafia vide caricare il tritolo di via D’Amelio
Totò Riina – Il Ros non perquisì il covo, altri lo ripulirono. Chi ha quei documenti?
Lenzuola anti-mafia
Ignoti frugarono nel pc di Giovanni, l’agenda rossa di Borsellino sparì pochi minuti dopo via D’Amelio: è un quadro inquietante
Elio Ciolini – Legato all’eversione nera, a marzo ‘92 anticipò le stragi ai pm
Giulio Andreotti – Capaci azzerò le manovre per portarlo al Quirinale
Messina Denaro – Avrebbe imposto un artificiere segreto per colpire Di Matteo
Gaspare Spatuzza – Un uomo non della mafia vide caricare il tritolo di via D’Amelio
Totò Riina – Il Ros non perquisì il covo, altri lo ripulirono. Chi ha quei documenti?
di Marco Travaglio | 23 maggio 2017
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Roberto Scarpinato, lei dov’era il 23 maggio 1992, quando esplose l’autostrada di Capaci e si portò via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta?
Alla Procura di Palermo, dove ero entrato un anno prima nel pool antimafia.
Oggi, come ogni anno, anzi di più perché siamo al quarto di secolo, su Capaci si abbatte la solita cascata di lacrime e retorica. A che punto siamo nella ricerca della verità su quella strage e sulle altre del biennio orribile 1992-’93?
In questi 25 anni abbiamo raggiunto l’importante risultato di condannare all’ergastolo gli esecutori mafiosi delle stragi e i componenti della “commissione” di Cosa Nostra che le deliberarono. Ma restano ancora impermeabili alle indagini rilevanti zone d’ombra: un cumulo di fonti processuali, tali e tante da non potere essere neppure accennate tutte, convergono nel fare ritenere che la strategia stragista del 1992-’93 ebbe matrici e finalità miste, frutto di una convergenza di interessi tra la mafia e altre forze criminali.
Forze criminali di che tipo?
Lo diceva già in un’informativa del 1993 la Dia (Direzione Investigativa Antimafia): dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
Traduzione?
Insieme a personaggi come Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano e altri boss che perseguivano interessi propri di Cosa Nostra, si mossero altre forze che utilizzarono la mafia come braccio armato, come instrumentum regni e come causale di copertura per i loro sofisticati disegni finalizzati a destabilizzare la politica.
Come fa a dirlo?
Questa convergenza di interessi criminali la rivelò per primo Elio Ciolini, un ambiguo personaggio implicato nelle indagini per la strage di Bologna, legato al mondo dei servizi segreti, della massoneria e dell’eversione nera. Nel 1992 era in carcere a Bologna e il 4 marzo e il 18 marzo, poco prima che si scatenasse l’inferno, anticipò ai magistrati che nel marzo-luglio del ’92 sarebbe stato ucciso un importante esponente della Dc, sarebbero state compiute stragi e poi si sarebbe distolto “l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia”. Tutti quegli eventi puntualmente si verificarono: il 12 marzo ’92 fu assassinato l’eurodeputato Salvo Lima, proconsole di Andreotti in Sicilia; il 23 maggio fu consumata la strage di Capaci; il 19 luglio quella di via D’Amelio; poi – sempre come Ciolini aveva anticipato – la strategia stragista si spostò al Centro-Nord con le mattanze di Milano e Firenze e gli attentati a Roma. Tutte azioni rivendicate da comunicati a nome della “Falange Armata”, sigla di un’organizzazione eversiva che serviva appunto a distogliere l’opinione pubblica dal pericolo mafioso. Ma Ciolini non fu l’unico ad avere la “sfera di cristallo” che gli consentì di rivelare con così largo anticipo l’unitarietà e il respiro strategico della lunga campagna stragista.
Chi altri sapeva tutto in anticipo?
Il 21 e il 22 maggio 1992 l’agenzia di stampa “Repubblica”, vicina ai servizi segreti, pronosticò che di lì a poco ci sarebbe stato un bel “botto esterno” per giustificare uno voto di emergenza che avrebbe sparigliato i giochi di potere in corso per la elezione del nuovo presidente della Repubblica. Anche questo evento puntualmente si verificò il 23 maggio: il botto esterno di Capaci azzerò le manovre per portare alla presidenza della Repubblica il senatore Giulio Andreotti e contribuì all’elezione dell’outsider Oscar Luigi Scalfaro.
All’epoca si pensava a una serie di fatti criminali isolati, che invece facevano parte di un unico piano molto articolato e a lunga gittata.
Molti collaboratori di giustizia ci hanno confermato in seguito che un selezionato numero di capi della Commissione regionale di Cosa Nostra, riuniti alla fine del 1991 in un casolare della campagna di Enna, avevano discusso per vari giorni quel complesso progetto politico che stava dietro alle stragi. Un progetto che fu tenuto segreto ad altri capi e ai ranghi inferiori dell’organizzazione, ai quali venne fatto credere che le stragi servivano solo a scopi interni alla mafia, cioè a costringere lo Stato a scendere a patti, garantendo in vari modi impunità e benefici penitenziari.
E invece?
E invece – come la Dia evidenziò già nel 1993 – dietro quella campagna si celavano menti raffinate e soggetti esterni il cui ruolo attivo emerge anche nella fase esecutiva delle stragi. Purtroppo, dopo 25 anni di indagini, non è stato ancora possibile identificarli.
Per esempio?
Sono ancora ignoti i personaggi che, dopo la strage di Capaci, si affrettarono a ispezionare i file del computer di Falcone (riguardanti Gladio e i delitti politico-mafiosi) nel suo ufficio romano al ministero della Giustizia, alla ricerca di documenti scottanti di cui evidentemente conoscevano l’esistenza. E restano senza nome anche gli uomini degli apparati di sicurezza che fornirono ai mafiosi le riservatissime informazioni logistiche indispensabili per uccidere Falcone già nel 1989 nel momento in cui si sarebbe concesso un bagno sulla scogliera del suo villino all’Addaura.
Da Falcone si passa poi a Borsellino, appena 57 giorni dopo.
Chi era il personaggio non appartenente alla mafia che, come ha rivelato il collaboratore Gaspare Spatuzza, reo confesso della strage di via D’Amelio, assistette alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per l’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta? Chi conosce le regole della mafia sa bene che tenere segreta a uomini d’onore l’identità degli altri compartecipi alla fase esecutiva di una strage è un’anomalia evidentissima: la prova dell’esistenza di un livello superiore che deve restare noto solo a pochi capi.
Altri pezzi mancanti su via D’Amelio?
Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, in un colloquio intercettato il 14 dicembre ’93, poco dopo il rapimento del loro figlio Giuseppe (avvenuto il 23 novembre), scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati” nell’esecuzione della strage di via D’Amelio. Quell’intercettazione è agli atti del processo, ma quegli “infiltrati” è stato impossibile identificarli e assicurarli alla giustizia.
Andiamo avanti.
Chi è in possesso dell’agenda rossa di Paolo Borsellino trafugata, con una straordinaria e lucida tempistica, pochi minuti dopo l’immane esplosione di via D’Amelio? Su quell’agenda è noto che Paolo aveva annotato i terribili segreti intravisti negli ultimi mesi di vita. Segreti che l’avevano sconvolto e convinto di non avere scampo, perché – come confidò alla moglie Agnese – sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma solo quando altri lo avessero deciso. Chi erano questi “altri”? L’elenco delle domande che sinora non hanno avuto risposta disegna i contorni di un iceberg ancora sommerso che né le inchieste parlamentari né i processi sono mai riusciti a portare alla luce, per una pluralità di fattori che si sommano e delineano un quadro inquietante.
Possibile che i magistrati che indagano da 25 anni non siano riusciti a fare luce su tutto questo?
E come si fa quando vengono sottratti ai magistrati documenti decisivi per l’accertamento di retroscena occulti? Ho già accennato alle carte di Falcone e all’agenda di Borsellino, episodi che si inscrivono in una lunga tradizione di carte rubate sui misteri d’Italia: dalla sparizione delle bobine con gli interrogatori di Aldo Moro nella prigione delle Br al trafugamento dei documenti segreti del generale Carlo Alberto dalla Chiesa dopo il suo assassinio. Ma penso anche alla miniera di tracce documentali custodita nella villa di via Bernini a Palermo, dove Salvatore Riina aveva abitato negli ultimi anni della sua latitanza.
La famigerata, mancata perquisizione del covo da parte del Ros.
Si impedì ai magistrati di perquisire l’abitazione di Riina immediatamente dopo il suo arresto il 15 gennaio 1993: ci assicurarono che il luogo era strettamente sorvegliato giorno e notte, mentre in realtà fu abbandonato poche ore dopo quella stessa assicurazione, lasciando campo libero a squadre di “solerti pulitori” che ebbero agio per diversi giorni di far sparire ogni cosa, smurando persino la cassaforte e ridipingendo le pareti per eliminare eventuali tracce di Dna. Chi è in possesso da 24 anni di quei documenti e che uso ne ha fatto?
Decine di mafiosi, anche boss di prima grandezza, hanno collaborato con la giustizia. Certamente più di molti uomini delle istituzioni.
Purtroppo tacciono ancora tanti boss che sanno tutto: i fratelli Graviano, Santapaola, Madonia e altri capi detenuti. E anche alcuni collaboratori danno l’impressione di sapere molto più di quel che dicono, ma di autocensurarsi. E penso anche ai silenzi prolungati e all’amnesia generalizzata di alcuni esponenti delle istituzioni, che solo con il forcipe delle indagini penali si sono decisi, a distanza di anni, a rivelare brandelli di verità.
Si intravede, dalle sue parole, un grande armadio dei segreti indicibili, delle carte trafugate, dei ricatti incrociati ai piani alti di quello che chiamiamo “Stato”. Un circuito di “verità parallele” che deve restare inaccessibile a voi magistrati e a noi cittadini.
Le faccio ancora un esempio. Quali erano i segreti sul coinvolgimento di apparati deviati dello Stato in stragi e omicidi eseguiti dalla mafia che Giovanni Ilardo, capomafia legato ai servizi segreti e alla destra eversiva, aveva promesso di rivelare ai magistrati pochi giorni prima di essere assassinato il 10 maggio 1996, proprio mentre si apprestava a mettere a verbale le sue dichiarazioni iniziando a collaborare? Lo stesso Ilardo era stato il primo a indicare Pietro Rampulla, anch’egli mafioso ed estremista di destra, come l’artificiere della strage di Capaci, che infatti sarebbe stato poi condannato con sentenza definitiva.
Intanto il tempo passa, la polvere si accumula, le carte ingialliscono, le memorie evaporano, i protagonisti invecchiano o muoiono portandosi i segreti nelle rispettive tombe. Non resta che seppellire quelle domande, sperare nella selezione naturale e alzare le braccia in segno di resa?
Alcuni eventi recenti, ancora in corso di verifica processuale, sembrano dimostrare che purtroppo questa non è solo una tragica storia del passato. Per esempio le recenti rivelazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, capo dell’importante mandamento di Resuttana, membro di una famiglia mafiosa implicata in stragi e delitti eccellenti del passato e vecchia amica di apparati deviati delle istituzioni. Racconta Galatolo che alla fine del 2012 il capo latitante di Cosa Nostra, Messina Denaro, protagonista della stagione stragista del 1992-’93, ha ordinato l’omicidio del pm Nino Di Matteo, impegnato nelle indagini sulla trattativa fra Stato e mafia, con un’autobomba. Galatolo ha dichiarato che sia lui sia altri capi erano rimasti colpiti dal fatto che l’identità dell’artificiere messo a disposizione da Messina Denaro, doveva restare ignota a tutti, compresi i capi di Cosa Nostra. Una circostanza che, ancora una volta, contrastava palesemente con le regole mafiose e indicava la partecipazione anche in quel progetto stragista di soggetti esterni, portatori di interessi criminali convergenti con quelli della mafia. Prima che Galatolo iniziasse a collaborare rivelando l’episodio, un esposto anonimo aveva già messo al corrente la magistratura che Messina Denaro aveva ordinato una strage su richiesta di suoi “amici romani” per interessi politici che andavano oltre quelli di Cosa Nostra.
Quindi lei non si arrende?
Continuare a ricercare la verità è un dovere non solo istituzionale, ma anche morale. Il modo più autentico per onorare la memoria, per dare un senso al sacrificio dei tanti servitori dello Stato e alla morte di tante vittime innocenti le cui vite sono state inghiottite nei gorghi tumultuosi di quello che Giovanni Falcone definì “il gioco grande del potere” una guerra sporca giocata con tutti i mezzi nel “fuori scena” della storia.
Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Giovanni Falcone, chi lo chiamava “cretino” e chi non lo votò al Csm: ecco i nemici del giudice ucciso nella strage di Capaci
Mafie
Dalle offese di Carnevale agli attacchi in diretta televisiva fino all'ultima provocazione di Berlusconi. A 25 anni dalla strage di Capaci ecco i nomi di chi ha provato in tutti i modi a rendere difficile l'esistenza del magistrato palermitano. Come Lino Jannuzzi che ai tempi della Superprocura definiva lui e De Gennaro "i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia. Una coppia la cui strategia ha approdato al più completo fallimento"
di Giuseppe Pipitone | 23 maggio 2017
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Più informazioni su: Antimafia, Cosa Nostra, Giovanni Falcone, Mafia
C’è chi non si è pentito delle offese lanciate persino quando l’avevano già assassinato, ma anche chi ha chiesto scusa. Chi ha fatto delle scelte poi rivelatesi errate e adesso porta in tribunale i giornali che le ricordano, chi non ha mai più commentato certe critiche lanciate a favor di telecamera e chi invece nega persino le sue stesse parole. Sono i nemici di Giovanni Falcone, quelli che lo hanno osteggiato in vita rendendogli impossibile l’esistenza. Una categoria che non viene mai – o quasi mai – citata nelle decine di eventi organizzati ogni anno per commemorare il giudice palermitano. “I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Tanti furono gli attacchi e le sconfitte tanto che fu chiamato il giudice più trombato d’Italia e purtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo”, ha ricordato la sorella Maria alla vigilia dell’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Un quarto di secolo dopo quel maledetto 23 maggio del 1992, tante, tantissime cose sono cambiate: a cominciare dalla stessa Cosa nostra e dall’Antimafia, fenomeni che sono addirittura arrivati a confondersi e compenetrarsi. Un gioco di specchi di cui sono piene le cronache degli ultimi anni e che soltanto nell’isola dei paradossi poteva andare in scena.
I nemici di Falcone – Confusa tra mille riflessi è stata anche la figura stessa di Falcone: la storia del giudice più trombato d’Italia, per citare la sorella Maria, è stata trasformata – spesso dai suoi stessi detrattori – in quella perfetta del magistrato sempre appoggiato da superiori e opinionisti lungo la sua intera esistenza. Venticinque anni dopo la sua morte, il ricordo del giudice siciliano è finito annacquato da fiumi di retorica: oggi sembra quasi che Falcone sia stato in vita un uomo amato da tutti, mai attaccato o ostacolato da nessuno. E pazienza se i fatti siano andati in maniera diversa. D’altra parte la figura del magistrato palermitano viene usata oggi come una sorta di santino: un nome da citare per dare solidità a qualsiasi tipo di ragionamento o di ragionatore. Solo per fare un esempio, rivendica di aver conosciuto Falcone persino quello che è considerato il capo dei capi di Mafia capitale. “Una volta mi accollarono un reato in Sicilia (il delitto di Piersanti Mattarella ndr), presi l’avvocato e andai da Falcone, il giudice Falcone a Palermo”, dice in un’intercettazione Massimo Carminati. “Ma Falcone lo hai conosciuto di persona te?”, gli chiedono i suoi compari, come racconta il giornalista Lirio Abbate. “Mi ha interrogato. Persona intelligentissima, si vedeva proprio, aveva l’intelligenza che che gli sprizzava dagli occhi. Era anche una persona amabile nei modi”, risponde il Cecato dando vita a un dialogo grottesco.
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2. L'ultima provocazione di Silvio: citarlo come esempio
Mafie
Dalle offese di Carnevale agli attacchi in diretta televisiva fino all'ultima provocazione di Berlusconi. A 25 anni dalla strage di Capaci ecco i nomi di chi ha provato in tutti i modi a rendere difficile l'esistenza del magistrato palermitano. Come Lino Jannuzzi che ai tempi della Superprocura definiva lui e De Gennaro "i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia. Una coppia la cui strategia ha approdato al più completo fallimento"
di Giuseppe Pipitone | 23 maggio 2017
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C’è chi non si è pentito delle offese lanciate persino quando l’avevano già assassinato, ma anche chi ha chiesto scusa. Chi ha fatto delle scelte poi rivelatesi errate e adesso porta in tribunale i giornali che le ricordano, chi non ha mai più commentato certe critiche lanciate a favor di telecamera e chi invece nega persino le sue stesse parole. Sono i nemici di Giovanni Falcone, quelli che lo hanno osteggiato in vita rendendogli impossibile l’esistenza. Una categoria che non viene mai – o quasi mai – citata nelle decine di eventi organizzati ogni anno per commemorare il giudice palermitano. “I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Tanti furono gli attacchi e le sconfitte tanto che fu chiamato il giudice più trombato d’Italia e purtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo”, ha ricordato la sorella Maria alla vigilia dell’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Un quarto di secolo dopo quel maledetto 23 maggio del 1992, tante, tantissime cose sono cambiate: a cominciare dalla stessa Cosa nostra e dall’Antimafia, fenomeni che sono addirittura arrivati a confondersi e compenetrarsi. Un gioco di specchi di cui sono piene le cronache degli ultimi anni e che soltanto nell’isola dei paradossi poteva andare in scena.
I nemici di Falcone – Confusa tra mille riflessi è stata anche la figura stessa di Falcone: la storia del giudice più trombato d’Italia, per citare la sorella Maria, è stata trasformata – spesso dai suoi stessi detrattori – in quella perfetta del magistrato sempre appoggiato da superiori e opinionisti lungo la sua intera esistenza. Venticinque anni dopo la sua morte, il ricordo del giudice siciliano è finito annacquato da fiumi di retorica: oggi sembra quasi che Falcone sia stato in vita un uomo amato da tutti, mai attaccato o ostacolato da nessuno. E pazienza se i fatti siano andati in maniera diversa. D’altra parte la figura del magistrato palermitano viene usata oggi come una sorta di santino: un nome da citare per dare solidità a qualsiasi tipo di ragionamento o di ragionatore. Solo per fare un esempio, rivendica di aver conosciuto Falcone persino quello che è considerato il capo dei capi di Mafia capitale. “Una volta mi accollarono un reato in Sicilia (il delitto di Piersanti Mattarella ndr), presi l’avvocato e andai da Falcone, il giudice Falcone a Palermo”, dice in un’intercettazione Massimo Carminati. “Ma Falcone lo hai conosciuto di persona te?”, gli chiedono i suoi compari, come racconta il giornalista Lirio Abbate. “Mi ha interrogato. Persona intelligentissima, si vedeva proprio, aveva l’intelligenza che che gli sprizzava dagli occhi. Era anche una persona amabile nei modi”, risponde il Cecato dando vita a un dialogo grottesco.
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di Giuseppe Pipitone | 23 maggio 2017
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Sono al limite dell’imbarazzo, invece, le ultime dichiarazioni di Silvio Berlusconi.”Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”, ha detto l’ex cavaliere, intervistato dal Foglio. Chi magari pensava che il magistrato simbolo per Berlusconi dovesse somigliare al corrotto Vittorio Metta è dunque rimasto deluso. Ma l’ex premier ha addirittura rilanciato: “Al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Il magistrato siciliano purtroppo non può replicare. In alternativa avrebbe respinto al mittente qualsiasi connessione con la ex Cirielli, il lodo Alfano, e la depenalizzazione del falso in bilancio, solo per citare qualche “idea sulla giustizia” di Forza Italia, partito fondato da Marcello Dell’Utri, detenuto a Rebibbia dopo la condanna in via definitiva per concorso esterno. Vale la pena di ricordare che Berlusconi – tra le altre cose – è stato lungamente indagato come mandante a volto coperto delle stragi del 1992 e 1993. “So che ci sono fermenti di procure che ricominciano a guardare a fatti del ’92, ’93, ’94: follia pura. Quello che mi fa male è che c’è chi sta cospirando contro di noi“, disse invece il leader di Forza Italia da presidente del consiglio in carica, quando la procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di via d’Amelio, depistate dal falso pentito Vincenzo Scarantino.
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3. L'Ammazzasentenze che lo offendeva anche da morto
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di Giuseppe Pipitone | 23 maggio 2017
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Sono al limite dell’imbarazzo, invece, le ultime dichiarazioni di Silvio Berlusconi.”Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”, ha detto l’ex cavaliere, intervistato dal Foglio. Chi magari pensava che il magistrato simbolo per Berlusconi dovesse somigliare al corrotto Vittorio Metta è dunque rimasto deluso. Ma l’ex premier ha addirittura rilanciato: “Al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Il magistrato siciliano purtroppo non può replicare. In alternativa avrebbe respinto al mittente qualsiasi connessione con la ex Cirielli, il lodo Alfano, e la depenalizzazione del falso in bilancio, solo per citare qualche “idea sulla giustizia” di Forza Italia, partito fondato da Marcello Dell’Utri, detenuto a Rebibbia dopo la condanna in via definitiva per concorso esterno. Vale la pena di ricordare che Berlusconi – tra le altre cose – è stato lungamente indagato come mandante a volto coperto delle stragi del 1992 e 1993. “So che ci sono fermenti di procure che ricominciano a guardare a fatti del ’92, ’93, ’94: follia pura. Quello che mi fa male è che c’è chi sta cospirando contro di noi“, disse invece il leader di Forza Italia da presidente del consiglio in carica, quando la procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di via d’Amelio, depistate dal falso pentito Vincenzo Scarantino.
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3. L'Ammazzasentenze che lo offendeva anche da morto
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Corrado Carnevale
D’altra parte è sempre uno dei governi di Berlusconi che nel 2003 inserì un comma in Finanziaria per concedere al giudice Corrado Carnevale di essere reintegrato, recuperando gli anni di contributi pensionistici persi a causa delle inchieste a suo carico. Carnevale era stato lo storico presidente della prima corte di Cassazione che nel 1992 avrebbe dovuto giudicare le sentenze del primo Maxi processo a Cosa nostra. Per il gran numero di annullamenti decisi negli anni precedenti si era guadagnato un soprannome evocativo: l’Ammazzasentenze. Ed è per evitare di ammazzare pure gli ergastoli del primo Maxi processo che Falcone – nel frattempo approdato alla direzione degli Affari Penali del ministero della Giustizia – ottenne l’applicazione di un criterio di rotazione per i casi di mafia approdati alla Suprema corte. Carnevale non la prese bene. “I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone: perché i morti li rispetto, ma certi morti no“, diceva in una conversazione l’8 marzo del 1994, a meno di due anni dalla strage di Capaci. Un’intercettazione in cui il giudice non risparmia neanche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo. “Io sono convinto che la mafia abbia voluto uccidere anche la moglie di Falcone che stava alla prima sezione penale della Corte d’Appello di Palermo per farle fare i processi che gli interessavano per fregare qualche mafioso“, dirà senza un minimo di compassione per la coppia appena assassinata da Cosa nostra.
Il risentimento dell’Ammazzasentenze – Quando il 10 novembre dello stesso anno gli investigatori gli danno lettura di quelle conversazioni, l’Ammazzasentenze confida: “Devo ammettere che io ho avuto del risentimento nei confronti del dottor Falcone”. Gli chiedono: “Neppure dopo la morte di Falcone si è placato quel suo grave risentimento?”. “No, devo ammettere di no”. Processato per concorso esterno, Carnevale è stato assolto in primo grado, condannato in appello a sei anni, prosciolto definitivamente in Cassazione. Dopo l’assoluzione torna a fare il giudice della corte di Cassazione, pensa di ricandidarsi come presidente della prima sezione ma lascia perdere. Poteva rimanere in servizio fino al 2015, ma decide di andare in pensione nel 2013 quando ha ormai 83 anni. Alcuni mesi dopo va a testimoniare al processo Capaci bis – quello nato dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza – e dice incredibilmente: “Non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo”. Ai giornalisti del Foglio e del Giornale che lo vanno a trovare a casa per intervistarlo, invece, racconta: “La casta a cui appartengo fin dal primo momento non mi ha visto di buon occhio. Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell’invidia“.
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4. Il Csm e i professionisti delle carte apposto
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di Giuseppe Pipitone | 23 maggio 2017
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D’altra parte è sempre uno dei governi di Berlusconi che nel 2003 inserì un comma in Finanziaria per concedere al giudice Corrado Carnevale di essere reintegrato, recuperando gli anni di contributi pensionistici persi a causa delle inchieste a suo carico. Carnevale era stato lo storico presidente della prima corte di Cassazione che nel 1992 avrebbe dovuto giudicare le sentenze del primo Maxi processo a Cosa nostra. Per il gran numero di annullamenti decisi negli anni precedenti si era guadagnato un soprannome evocativo: l’Ammazzasentenze. Ed è per evitare di ammazzare pure gli ergastoli del primo Maxi processo che Falcone – nel frattempo approdato alla direzione degli Affari Penali del ministero della Giustizia – ottenne l’applicazione di un criterio di rotazione per i casi di mafia approdati alla Suprema corte. Carnevale non la prese bene. “I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone: perché i morti li rispetto, ma certi morti no“, diceva in una conversazione l’8 marzo del 1994, a meno di due anni dalla strage di Capaci. Un’intercettazione in cui il giudice non risparmia neanche la moglie di Falcone, Francesca Morvillo. “Io sono convinto che la mafia abbia voluto uccidere anche la moglie di Falcone che stava alla prima sezione penale della Corte d’Appello di Palermo per farle fare i processi che gli interessavano per fregare qualche mafioso“, dirà senza un minimo di compassione per la coppia appena assassinata da Cosa nostra.
Il risentimento dell’Ammazzasentenze – Quando il 10 novembre dello stesso anno gli investigatori gli danno lettura di quelle conversazioni, l’Ammazzasentenze confida: “Devo ammettere che io ho avuto del risentimento nei confronti del dottor Falcone”. Gli chiedono: “Neppure dopo la morte di Falcone si è placato quel suo grave risentimento?”. “No, devo ammettere di no”. Processato per concorso esterno, Carnevale è stato assolto in primo grado, condannato in appello a sei anni, prosciolto definitivamente in Cassazione. Dopo l’assoluzione torna a fare il giudice della corte di Cassazione, pensa di ricandidarsi come presidente della prima sezione ma lascia perdere. Poteva rimanere in servizio fino al 2015, ma decide di andare in pensione nel 2013 quando ha ormai 83 anni. Alcuni mesi dopo va a testimoniare al processo Capaci bis – quello nato dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza – e dice incredibilmente: “Non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo”. Ai giornalisti del Foglio e del Giornale che lo vanno a trovare a casa per intervistarlo, invece, racconta: “La casta a cui appartengo fin dal primo momento non mi ha visto di buon occhio. Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell’invidia“.
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4. Il Csm e i professionisti delle carte apposto
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Re: Diario della caduta di un regime.
Il Csm e i professionisti delle carte apposto - 4/7
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di Giuseppe Pipitone | 23 maggio 2017
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Giovanni Falcone
Ha azzerato praticamente gli interventi mediatici Vincenzo Geraci, altro nome che ha un ruolo nella carriera di Giovanni Falcone. Insieme al magistrato siciliano, infatti, era presente ai primi interrogatori di Tommaso Buscetta nel 1984. Pochi anni dopo Geraci è tra i consiglieri del Csm che la sera del 19 gennaio del 1988 bocciano la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Era lo stesso posto ricoperto da Antonino Caponnetto, l’inventore del pool antimafia: sembrava scontato che la successione toccasse a Falcone. In quella notte di gennaio, però, accade l’imponderabile: accanto ai professionisti dell’antimafia – locuzione inventata appena dodici mesi prima per titolare il ben noto articolo di Leonardo Sciascia – ecco spuntare i professionisti delle carte apposto. “Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però dì ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni. In tali condizioni vi chiedo pertanto di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato ad esprimere il mio voto di favore”, dirà Geraci annunciando il suo sostegno alla candidatura dell’anziano Antonino Meli: di mafia sapeva poco o nulla ma era stato internato dai tedeschi. In più vantava un’anzianità superiore a quella di Falcone: venne dunque nominato consigliere istruttore con 14 voti a favore, 10 contrari (tra i quali Gian Carlo Caselli) e 5 astenuti.
“Un giuda ci ha traditi” – “Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Csm, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli”, si sfogherà Paolo Borsellino, nel suo ultimo intervento pubblico il 25 giugno del 1992. Borsellino non indicherà mai chi fosse quel Giuda: venne ucciso in via d’Amelio, infatti, meno di tre settimane dopo quel discorso. Molti anni dopo, quindi, quando il giornalista Rino Giacalone tirerà in ballo Geraci, quest’ultimo lo querelerà per diffamazione. Oggi Geraci è procuratore generale aggiunto della Cassazione: in pratica è il vice di Pasquale Ciccolo, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.
Il Corvo senza nome – Sempre per rimanere nel campo delle toghe non si può non citare il famoso caso del Corvo di Palermo, l’anonimo autore di lettere in cui si accusava Falcone di avere gestito illegalmente il pentito Totuccio Contorno: addirittura di averlo chiamato a Palermo per mandarlo a caccia dei boss del clan dei corleonesi. Accusato di essere il Corvo fu il giudice Alberto Di Pisa, condannato in primo grado a un anno a sei mesi e poi assolto definitivamente nel 1993. L’identità del Corvo non sarà mai individuata mentre tra i detrattori di Falcone si possono annoverare anche personaggi estranei alla magistratura. A cominciare magari da semplici e normali privati cittadini.
Prossimo Capitolo
5. Quando i vicini di casa non lo volevano
Mafie
di Giuseppe Pipitone | 23 maggio 2017
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Ha azzerato praticamente gli interventi mediatici Vincenzo Geraci, altro nome che ha un ruolo nella carriera di Giovanni Falcone. Insieme al magistrato siciliano, infatti, era presente ai primi interrogatori di Tommaso Buscetta nel 1984. Pochi anni dopo Geraci è tra i consiglieri del Csm che la sera del 19 gennaio del 1988 bocciano la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Era lo stesso posto ricoperto da Antonino Caponnetto, l’inventore del pool antimafia: sembrava scontato che la successione toccasse a Falcone. In quella notte di gennaio, però, accade l’imponderabile: accanto ai professionisti dell’antimafia – locuzione inventata appena dodici mesi prima per titolare il ben noto articolo di Leonardo Sciascia – ecco spuntare i professionisti delle carte apposto. “Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però dì ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni. In tali condizioni vi chiedo pertanto di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato ad esprimere il mio voto di favore”, dirà Geraci annunciando il suo sostegno alla candidatura dell’anziano Antonino Meli: di mafia sapeva poco o nulla ma era stato internato dai tedeschi. In più vantava un’anzianità superiore a quella di Falcone: venne dunque nominato consigliere istruttore con 14 voti a favore, 10 contrari (tra i quali Gian Carlo Caselli) e 5 astenuti.
“Un giuda ci ha traditi” – “Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Csm, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli”, si sfogherà Paolo Borsellino, nel suo ultimo intervento pubblico il 25 giugno del 1992. Borsellino non indicherà mai chi fosse quel Giuda: venne ucciso in via d’Amelio, infatti, meno di tre settimane dopo quel discorso. Molti anni dopo, quindi, quando il giornalista Rino Giacalone tirerà in ballo Geraci, quest’ultimo lo querelerà per diffamazione. Oggi Geraci è procuratore generale aggiunto della Cassazione: in pratica è il vice di Pasquale Ciccolo, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.
Il Corvo senza nome – Sempre per rimanere nel campo delle toghe non si può non citare il famoso caso del Corvo di Palermo, l’anonimo autore di lettere in cui si accusava Falcone di avere gestito illegalmente il pentito Totuccio Contorno: addirittura di averlo chiamato a Palermo per mandarlo a caccia dei boss del clan dei corleonesi. Accusato di essere il Corvo fu il giudice Alberto Di Pisa, condannato in primo grado a un anno a sei mesi e poi assolto definitivamente nel 1993. L’identità del Corvo non sarà mai individuata mentre tra i detrattori di Falcone si possono annoverare anche personaggi estranei alla magistratura. A cominciare magari da semplici e normali privati cittadini.
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Quando i vicini di casa non lo volevano - 5/7
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Falcone – Borsellino
“Spostate i magistrati in periferia” – La Palermo in cui ha vissuto Giovanni Falcone era molto diversa dalla Palermo che si è svegliata dopo quello che i mafiosi battezzarono come l’Attentatuni. Un esempio? Una lettera pubblicata dal Giornale di Sicilia negli anni ’80. A scriverla è una donna che abita nelle vicinanze del condominio in cui Falcone fa ritorno ogni sera, blindato dalle auto della scorta. Il motivo della missiva? “Regolarmente tutti i giorni, al mattino, nel primissimo pomeriggio e la sera, vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora mi domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?”; scriveva la vicina di casa del giudice che poi lanciava un invito: “Perché i magistrati non si trasferiscono in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione”. Parole che fanno un certo effetto. Soprattutto oggi che l’albero Falcone – nei pressi dell’abitazione del magistrato – sarà invaso da persone arrivate a Palermo da tutta Italia.
L’attacco in diretta tv – Le cose per Falcone non andavano meglio quando accettava di partecipare a qualche trasmissione televisiva. Nota, anzi notissima, è la puntata che Michele Santoro e Maurizio Costanzo dedicano in tandem alla memoria dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso nell’agosto del 1991. In studio tra gli ospiti c’è il giudice palermitano, attaccato più volte in quell’occasione da personaggi che avranno storie future completamente diverse. “Falcone ha dichiarato che è notorio che l’onorevole Salvo Lima utilizzava la macchina degli esattori Salvo“, è l’intervento – in collegamento da Palermo – di Leoluca Orlando. “C’era bisogno che lo dicessi io perché si sapesse dei rapporti tra i Salvo e Lima”, risponde Falcone, raccogliendo la replica dell’allora leader della Rete. “Ecco un’ulteriore conferma“, dice in diretta televisiva Orlando, che in pratica accusava il giudice di nascondere le prove sull’europarlamentare della Dc. Gli attacchi a Falcone saranno rinfacciati per anni al primo cittadino palermitano, il quale chiederà poi scusa per le sue parole. Quella trasmissione, però, è passata alla storia anche per le parole di Totò Cuffaro. “Ho assistito ad una volgare aggressione alla classe migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia. Il giornalismo mafioso che è stato fatto stasera fa più male di dieci anni delitti”, è una parte del concitato intervento del futuro governatore della Sicilia, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia. Per il video di quel discorso – intitolato su youtube “Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone” – l’ex presidente siciliano ha querelato Antonio Di Pietro, che lo aveva pubblicato sul suo blog: il tribunale ha deciso di dare ragione a Cuffaro.
VIDEO:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05 ... 3595352/5/
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6. "Falcone, chi la protegge?". L'attacco di giornali e tv
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Falcone – Borsellino
“Spostate i magistrati in periferia” – La Palermo in cui ha vissuto Giovanni Falcone era molto diversa dalla Palermo che si è svegliata dopo quello che i mafiosi battezzarono come l’Attentatuni. Un esempio? Una lettera pubblicata dal Giornale di Sicilia negli anni ’80. A scriverla è una donna che abita nelle vicinanze del condominio in cui Falcone fa ritorno ogni sera, blindato dalle auto della scorta. Il motivo della missiva? “Regolarmente tutti i giorni, al mattino, nel primissimo pomeriggio e la sera, vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora mi domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?”; scriveva la vicina di casa del giudice che poi lanciava un invito: “Perché i magistrati non si trasferiscono in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione”. Parole che fanno un certo effetto. Soprattutto oggi che l’albero Falcone – nei pressi dell’abitazione del magistrato – sarà invaso da persone arrivate a Palermo da tutta Italia.
L’attacco in diretta tv – Le cose per Falcone non andavano meglio quando accettava di partecipare a qualche trasmissione televisiva. Nota, anzi notissima, è la puntata che Michele Santoro e Maurizio Costanzo dedicano in tandem alla memoria dell’imprenditore Libero Grassi, ucciso nell’agosto del 1991. In studio tra gli ospiti c’è il giudice palermitano, attaccato più volte in quell’occasione da personaggi che avranno storie future completamente diverse. “Falcone ha dichiarato che è notorio che l’onorevole Salvo Lima utilizzava la macchina degli esattori Salvo“, è l’intervento – in collegamento da Palermo – di Leoluca Orlando. “C’era bisogno che lo dicessi io perché si sapesse dei rapporti tra i Salvo e Lima”, risponde Falcone, raccogliendo la replica dell’allora leader della Rete. “Ecco un’ulteriore conferma“, dice in diretta televisiva Orlando, che in pratica accusava il giudice di nascondere le prove sull’europarlamentare della Dc. Gli attacchi a Falcone saranno rinfacciati per anni al primo cittadino palermitano, il quale chiederà poi scusa per le sue parole. Quella trasmissione, però, è passata alla storia anche per le parole di Totò Cuffaro. “Ho assistito ad una volgare aggressione alla classe migliore che abbia la Democrazia Cristiana in Sicilia. Il giornalismo mafioso che è stato fatto stasera fa più male di dieci anni delitti”, è una parte del concitato intervento del futuro governatore della Sicilia, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia. Per il video di quel discorso – intitolato su youtube “Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone” – l’ex presidente siciliano ha querelato Antonio Di Pietro, che lo aveva pubblicato sul suo blog: il tribunale ha deciso di dare ragione a Cuffaro.
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6. "Falcone, chi la protegge?". L'attacco di giornali e tv
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Re: Diario della caduta di un regime.
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La strage di Capaci
E se oggi tutti concordano nel valutare come un salto di qualità nella lotta alla mafia il passaggio di Falcone a Roma per dirigere gli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, così non era in quel 1992. “Secondo me Falcone farebbe bene ad andarsene il più presto possibile dai palazzi ministeriali, perché l’aria non gli fa bene proprio“, disse l’avvocato Alfredo Galasso – poi deputato della Rete – nella stessa puntata del Maurizio Costanzo Show, nota per l’esordio televisivo di Cuffaro. “Questo mi sembra scarso senso dello Stato. Al ministero di Grazia e Giustizia ci sono posti espressamente previsti per i magistrati”, fu la replica di Falcone, attaccato spesso per il suo trasferimento nella Capitale anche in altri salotti televisivi.
“Per essere credibili bisogna morire?” –“Noi abbiamo imparato a conoscerla quando viveva barricato laggiù e forse l’abbiamo un po’ mitizzata. Adesso che sta al ministero e che scrive editoriali sulla Stampa, le sue posizioni sembrano più morbide, più sfumate. Non vorrei dire che ci ha un po’ deluso negli ultimi tempi, ma sicuramente è cambiato: lei lo sa? Ne è consapevole?”, gli chiede il 12 gennaio del 1992 Corrado Augias durante una puntata di Telefono Giallo. Una trasmissione che passa alla storia soprattutto per la domanda posta da una componente del pubblico. “Lei – chiederà una donna a Falcone – dice nel suo libro che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei fortunatamente è ancora con noi: chi la protegge?” La reazione del magistrato è amara: “Questo vuol dire che per essere credibili bisogna essere ammazzati?”
VIDEO :
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05 ... 3595352/6/
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7. I veleni di Jannuzzi: attacco al Maxi e alla Dna
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di Giuseppe Pipitone | 23 maggio 2017
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La strage di Capaci
E se oggi tutti concordano nel valutare come un salto di qualità nella lotta alla mafia il passaggio di Falcone a Roma per dirigere gli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia, così non era in quel 1992. “Secondo me Falcone farebbe bene ad andarsene il più presto possibile dai palazzi ministeriali, perché l’aria non gli fa bene proprio“, disse l’avvocato Alfredo Galasso – poi deputato della Rete – nella stessa puntata del Maurizio Costanzo Show, nota per l’esordio televisivo di Cuffaro. “Questo mi sembra scarso senso dello Stato. Al ministero di Grazia e Giustizia ci sono posti espressamente previsti per i magistrati”, fu la replica di Falcone, attaccato spesso per il suo trasferimento nella Capitale anche in altri salotti televisivi.
“Per essere credibili bisogna morire?” –“Noi abbiamo imparato a conoscerla quando viveva barricato laggiù e forse l’abbiamo un po’ mitizzata. Adesso che sta al ministero e che scrive editoriali sulla Stampa, le sue posizioni sembrano più morbide, più sfumate. Non vorrei dire che ci ha un po’ deluso negli ultimi tempi, ma sicuramente è cambiato: lei lo sa? Ne è consapevole?”, gli chiede il 12 gennaio del 1992 Corrado Augias durante una puntata di Telefono Giallo. Una trasmissione che passa alla storia soprattutto per la domanda posta da una componente del pubblico. “Lei – chiederà una donna a Falcone – dice nel suo libro che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei fortunatamente è ancora con noi: chi la protegge?” La reazione del magistrato è amara: “Questo vuol dire che per essere credibili bisogna essere ammazzati?”
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7. I veleni di Jannuzzi: attacco al Maxi e alla Dna
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I veleni di Jannuzzi: attacco al Maxi e alla Dna - 7/7
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Lino Jannuzzi
Critiche al vetriolo arriveranno a Falcone nello stesso periodo anche sulla stampa. È il momento in cui il magistrato siciliano è candidato a dirigere la cosiddetta Superprocura (cioè la procura nazionale antimafia) e il poliziotto Gianni De Gennaro la Dia. Lino Jannuzzi, però, sul Giornale di Napoli li indicherà come i “maggiori responsabili della debacle dello Stato di fronte alla mafia… una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento. Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”. Jannuzzi in seguito sarà senatore di Forza Italia per ben due legislature. In precedenza, tra l’altro – lo ricorda Caselli sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa – erano stati altri due futuri parlamentari di centrodestra ad attaccare Falcone dalle colonne del Giornale e del Giornale di Sicilia: Ombretta Fumagalli Carulli e Guido Lo Porto. Nei loro articoli il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme, un meccanismo spacciato come giuridico”, mentre i procedimenti genericamente contro Cosa nostra vengono bollati come “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”.
“Un mediocre pubblicista” – Gli opinionisti non saranno teneri neanche quando Falcone darà alle stampe un libro – Cose di Cosa nostra – scritto alla fine del 1991 insieme a Marcelle Padovani. “Scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”, scriverà Sandro Viola in un’editoriale durissimo pubblicato da Repubblica il 9 gennaio del 1992. “A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre particolari illuminazioni: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista“, sarà la chiusa di quell’articolo, che oggi è quasi introvabile online. Come i nemici di Falcone: attivissimi quando il giudice era vivo, evaporati dopo il botto di Capaci. E in qualche caso diventati amici intimi del magistrato assassinato. Ma – ovviamente – soltanto post mortem.
Twitter: @pipitone87
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Lino Jannuzzi
Critiche al vetriolo arriveranno a Falcone nello stesso periodo anche sulla stampa. È il momento in cui il magistrato siciliano è candidato a dirigere la cosiddetta Superprocura (cioè la procura nazionale antimafia) e il poliziotto Gianni De Gennaro la Dia. Lino Jannuzzi, però, sul Giornale di Napoli li indicherà come i “maggiori responsabili della debacle dello Stato di fronte alla mafia… una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento. Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”. Jannuzzi in seguito sarà senatore di Forza Italia per ben due legislature. In precedenza, tra l’altro – lo ricorda Caselli sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa – erano stati altri due futuri parlamentari di centrodestra ad attaccare Falcone dalle colonne del Giornale e del Giornale di Sicilia: Ombretta Fumagalli Carulli e Guido Lo Porto. Nei loro articoli il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme, un meccanismo spacciato come giuridico”, mentre i procedimenti genericamente contro Cosa nostra vengono bollati come “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”.
“Un mediocre pubblicista” – Gli opinionisti non saranno teneri neanche quando Falcone darà alle stampe un libro – Cose di Cosa nostra – scritto alla fine del 1991 insieme a Marcelle Padovani. “Scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”, scriverà Sandro Viola in un’editoriale durissimo pubblicato da Repubblica il 9 gennaio del 1992. “A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre particolari illuminazioni: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista“, sarà la chiusa di quell’articolo, che oggi è quasi introvabile online. Come i nemici di Falcone: attivissimi quando il giudice era vivo, evaporati dopo il botto di Capaci. E in qualche caso diventati amici intimi del magistrato assassinato. Ma – ovviamente – soltanto post mortem.
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Re: Diario della caduta di un regime.
IN FONDO AL POZZO NERO,…..A DESTRA,…..SOTTO LE MACERIE…..
C.A.R.A TI AMO
Il rapporto speciale di Leonardo Sacco con Dorina Bianchi e il partito di Angelino Alfano
Mr Misericordia provò ad assumere il consuocero dell'attuale ministro degli Esteri venendo bloccato dal prefetto Morcone. E dalle intercettazioni emerge il ruolo della Bianchi nel mantenere i rapporti tra l'imprenditore e i politici
DI GIOVANNI TIZIAN
25 maggio 2017
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Dorina Bianchi«Senti una cosa, ma come ti è venuto in testa di pigliare a questo come direttore di Lampedusa?...tu lo capisci bene che quello è il centro più visibile d’Italia... come l’avete scelto?».
Il prefetto Mario Morcone è furioso. Dall’altra parte del telefono c’è Leonardo Sacco, Mr Misericordia. Morcone non gli perdona la nomina del consuocero di Angelino Alfano a direttore del centro di accoglienza di Lampedusa, gestito dalla confraternita della Misericordia.
È il 4 ottobre 2014. Mancano pochi mesi alla bomba di mafia Capitale, alle inchieste sulle mazzette nella gestione del centro per rifugiati di Mineo, in Sicilia. Siamo prima, dunque, dell’inchiesta che coinvolgerà il sottosegretario del Nuovo centro destra Giuseppe Castiglione. Mario Morcone all’epoca è il vertice dell’Immigrazione del Viminale. Sopra di lui c’è solo il ministro Angelino Alfano. L’ufficio del superprefetto svolge un compito delicato. Supervisiona, controlla, monitora flussi, gestisce l’emergenza e verifica che tutto vada per il verso giusto.
In quel periodo, tra sbarchi e primi scandali, la pressione su di lui è altissima. E Morcone - oggi capo di gabinetto del ministro dell’Interno Marco Minniti - non ci sta a finire di nuovo nel tritacarne mediatico. Per questo reagisce duramente alla mossa azzardata di Mr Misericordia, detto anche “Gabibbo” o Mr Cento milioni. Un uomo dalle mille risorse. Che da dieci anni guadagna con i migranti, ma anche con gli aeroporti, con le barche e persino con la squadra di calcio in Eccellenza, che poche settimane fa ha festeggiato il triplete locale, conquistando tre competizioni di fila.
Con una facilità disarmante, Sacco, passa da summit con i boss a incontri istituzionali. Un giorno è il padrino al battesimo del figlio di un personaggio del clan, un altro discute con gli imprenditori affiliati alla cosca e dopo poche ore chiama prefetti e sottosegretari. Come Mario Morcone, appunto. Tutto documentato in alcune informative, di cui L’Espresso è venuto a conoscenza, che fanno parte del fascicolo “Jonny”, l’inchiesta della procura di Catanzaro che ha svelato il giro d’affari della ’ndrangheta intorno al centro di accoglienza in provincia di Crotone, secondo per capienza solo a quello siciliano di Mineo.
Una settantina di arresti, tra cui proprio Sacco e anche il sacerdote fondatore della Misericordia locale, e sequestri per 70 milioni di euro. Inchiesta coordinata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e dall’aggiunto Vincenzo Luberto e condotta dal Ros dei carabinieri insieme alla Guardia di finanza. Un business, secondo l’accusa, gestito dalla ’ndrangheta.
Tramite il re Mida dell’accoglienza, Leonardo Sacco, appunto, che ha fatto della solidarietà una grande azienda di famiglia. Governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, già vicepresidente nazionale della confraternita che ha visto la luce nel lontano 1244 e oggi conta su 800 cellule sparse per l’Italia, Sacco è anche presidente regionale della medesima associazione. Ma per l’antimafia è uomo di potere, relazioni e di mafia.
Angelino Alfano
Il suo book fotografico è una sfilza di sorrisi e abbracci con varie personalità della politica: da Matteo Renzi ad Angelino Alfano, passando per Matteo Salvini. Sono solo scatti durante eventi pubblici, ci mancherebbe. Utili, però, per comprendere il personaggio, scaltro nell’avventarsi sull’affare del secolo, esempio lampante di come la gestione dell’accoglienza in regime di emergenza perenne possa trasformarsi in uno strumento di consenso.
Così Leonardo Sacco è diventato il ras nazionale del settore gestendo per oltre 10 anni il più grande hub dell’accoglienza d’Europa. Dallo Stato, cioè ministero e prefetture, la sua organizzazione ha incassato oltre 100 milioni di euro. Di questi, almeno un terzo, sostengono gli inquirenti, è finito direttamente nelle mani delle cosche locali, in primis la famiglia Arena.
È il 4 ottobre, dunque, quando gli investigatori ascoltano la telefonata con il super prefetto dell’Immigrazione. Il tema è, appunto, la nomina a direttore del centro di Lampedusa (sotto la gestione di Sacco e la Misericordia) del consuocero del ministro Alfano, Lorenzo Montana. Morcone è teso, irritato e preoccupato: «Anche perché capisci l’effetto di tutto questo... è che ogni settimana ti devo fare un’ispezione perché sennò ci fanno un culo come una campana, quindi trova una soluzione garbata che risolva il problema».
Sacco ribatte senza scomporsi: «Tranquillo Eccellenza, io stavo cercando la figura del direttore però poi quando venerdì ci hanno fatto l’aggiudicazione definitiva per iniziare non avevo dove arrampicarmi... tant’è vero che ho dovuto mandare i miei da Isola per i primi giorni per avviare il lavoro... ma lui lo voglio lasciare coordinatore dei servizi, anche perché sull’isola conosce».
Tranquillizzato Morcone, passa all’attacco: «Eccellenza mercoledì ci vediamo?», «vieni, vieni, vieni». Della sfuriata, Sacco, informa subito i sui collaboratori. Uno dei più fidati sostiene di aver presentato Lorenzo Montana al Prefetto di Agrigento, al quale ha sottolineato che la scelta è ricaduta su di lui per l’esperienza maturata nell’Agenzia delle Entrate. Tuttavia il rappresentante del governo aveva sollevato alcuni dubbi perché temeva che Montana non fosse molto pratico del settore. Timori placati dalla proposta dell’uomo della Misericordia: il parente di Alfano sarebbe stato affiancato dagli uomini di Sacco.
Mario Morcone
Non se ne farà nulla, nel frattempo Montana aveva dato le dimissioni. Caso risolto? Non per il prefetto Morcone, che chiama Sacco per suggerirgli di scrivere un comunicato: «Bisogna comunque fare un’agenzia, sta succedendo un bordello su internet, nel quale dite quello che hai detto a me». Sacco è subito operativo, non vuole deludere Morcone: «La facciamo subito e le mando una copia via mail». Due ore dopo il prefetto ricontatta Mr Misericordia per chiedergli alcune modifiche nel comunicato: «... E se puoi mettere sulla base del suo curriculum e delle sue esperienze, aggiungere che è stato assessore al Bilancio al Comune di Lampedusa...il resto va bene».
Una volta superato il check prefettizio la comunicazione alla stampa può partire. Il prefetto ha risolto una situazione potenzialmente esplosiva. Salvando la faccia dell’istituzione che rappresenta. Dietro la dura reprimenda di Morcone, però, affiora un’insofferenza per i troppi giochini di potere e di nomine politiche che ruotano attorno al grande business dell’accoglienza. Un sistema che prima Mineo, poi Crotone e Lampedusa incarnano alla perfezione. E sul quale aleggia sempre l’ombra della spartizione politica.
I contatti tra l’imprenditore del clan e Morcone proseguono e non hanno riguardato solo il Lampedusagate. È soprattutto Sacco a chiamare, per fargli gli auguri, per questioni di lavoro e per alcuni crediti vantati dal centro di Crotone. «Eccellenza buongiorno, nell’augurarle buon Ferragosto le rinnovo il nostro invito a venirci a trovare o istituzionalmente con una visita al C.a.r.a. o privatamente magari in barca. Un abbraccio. Leonardo Sacco».
È la mattina del 14 agosto 2014, e Mr 100 milioni scrive al prefetto Morcone. Poi a metà settembre manda due sms al prefetto, con una richiesta di aiuto: «Eccellenza siamo in grosse difficoltà con i pagamenti delle presenze extra. Solo degli extra su Crotone siamo a 4 milioni. Le chiedo un intervento perché stiamo affondando. Un abbraccio».
Sacco andrà anche a Roma da Morcone. Gli investigatori del Ros apprenderanno i contenuti dell’incontro dalle reazioni dell’uomo della cosca Arena. Un incontro «andato bene», commenterà Sacco, in cui Morcone avrebbe parlato «molto apertamente». Il tema è quello di alcune contestazioni mosse alla Misericordia dalla prefettura di Crotone. Secondo l’imprenditore del clan, l’ex capo dell’Immigrazione si sarebbe mostrato disponibile a intervenire in qualche modo. «Domani dovrei vederla e gli dico qualcosa, però nel frattempo chiamo il capo ufficio mio che è quella che rompe i coglioni e gli dico», è sempre Sacco che riferisce le parole di Morcone. Oltretutto, aggiunge, il prefetto gli avrebbe dato un suggerimento prezioso, ossia che di Lampedusa devono avere cura perché è una vetrina internazionale, «qua capisci cosa sono le pressioni, ma statti tranquillo». Invece, sulle contestazioni della prefettura, 20 mila euro, Morcone avrebbe minimizzato: «Cosa vuoi che siano 20 mila euro su tre milioni». E in effetti per Mr 100 milioni sono pochi spiccioli.
L’area politica di riferimento dell’imprenditore Sacco è il centrodestra. In particolare il partito guidato dal ministro Alfano, di cui fa parte anche il sottosegretario siciliano Giuseppe Castiglione, invischiato nell’inchiesta sul centro per rifugiati di Mineo. Lo dimostrano i contatti di Mr Misericordia, che viene intercettato più volte mentre parla con l’attuale sottosegretaria ai Beni Culturali Dorina Bianchi, all’epoca, siamo sempre nel 2014, era vicepresidente del gruppo Ncd alla Camera.
“Pronto Dorì”
Telefonate e messaggi che proseguono per alcuni mesi e che vertono soprattutto sull’altro grande affare che interessa all’uomo del clan: l’aeroporto di Crotone. Il 12 settembre 2014 dal telefono di Sacco parte una telefonata. «Più o meno quando scendi Dorì?», chiede. «Io la prossima settimana devo scendere... poi la prossima viene Lupi» è la risposta della deputata. Mr Misericordia però ha urgenza di incontrarla e insiste:«Fammi sapere, è urgente». Dorina Bianchi è di Crotone, a questa città deve la sua prima elezione in Parlamento nel 2001, la coalizione di cui faceva parte era la Casa delle libertà e all’epoca militava nel Ccd. Da allora è sempre stata rieletta tra Camera e Senato. E ha cambiato schieramento varie volte. Nell’ordine è passata dall’Udc al Pd al Pdl, infine, all’Ncd, ora Alternativa popolare. Sei anni fa si è candidata a sindaco di Crotone senza fortuna. È in quel territorio però che nascono i rapporti con Sacco.
Leonardo Sacco al centro con Angelino Alfano alla sua sinistra
L’imprenditore dell’accoglienza sembra in confidenza con la parlamentare. Per esempio il 2 novembre le scrive un messaggino:«Cara Dorina, mi dicono che domani il ministro Alfano sarà a Crotone e Isola, riusciamo a farlo passare dal Centro di accoglienza?». Ma con la futura sottosegretaria, l’imprenditore crotonese spera di ottenere rassicurazioni soprattutto sul salvataggio del piccolo aeroporto di Crotone. Sacco, infatti, sedeva nel Cda della società di gestione del terminal calabrese. E dello scalo crotonese i due parlano tra il 5 e il 12 novembre di tre anni fa. Prima la sottosegretaria dice a Sacco che sta ancora «aspettando il punto sull’aeroporto», l’imprenditore sostiene di averle mandato tre mail con anche il «punto». Pochi giorni dopo e i due si risentono. La deputata voleva informarlo dell’imminente viaggio a Crotone dell’allora ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi per affrontare la questione dello scalo aeroportuale. «Arriva direttamente con la Ryan air e fa la conferenza in aeroporto... e poi rimane anche la sera con noi».
Ma l’uomo della Misericordia vuole conferme anche su un’altra visita istituzionale da programmare: «E Alfano invece?». Bianchi non è impreparata: «Stasera vado da lui al ministero... mi dà la data... sua». Finalmente l’imprenditore è soddisfatto, la cerchia del Nuovo centro destra si sta attivando. Sei giorni prima dell’arrivo di Lupi a Crotone, gli investigatori registrano una nuova telefonata in cui Sacco segnala a Dorina Bianchi che sull’aereo «non ci sono posti». La parlamentare allora suggerisce che«bisogna prenotare subito, per me e anche per Lupi». Sacco è ben felice di farlo, «mandami i dati che me la vedo io». Alle sette di sera dallo stesso 14 novembre la deputata del centrodestra chiama Sacco, parlano ancora dello scalo di Crotone: «Il problema è l’assetto societario non i fondi, il problema sarà l’assetto e quello che verrà fuori...poi te lo spiego meglio». Mr Misericordia, tuttavia, non molla l’osso e ribatte che «Enac aveva fatto marcia indietro...perché aveva accettato il concordato». «Però Enac non lo ha comunicato al ministero... e se non lo comunica è come se non ci fosse nulla, non so se rendo l’idea», aggiunge la parlamentare.
L’ansia di Sacco è placata: «L’importante è che non abbiamo problemi». Tuttavia affinché tutti siano più tranquilli Bianchi suggerisce a Sacco «di mandarle comunque la lettera». Ciò che preoccupava Sacco in veste di membro del Cda dell’aeroporto erano gli oneri di servizio pubblico, ossia quelle clausole che permettono a uno scalo periferico - o comunque non attraente per le compagnie aeree perché con una bassa intensità di traffico - di godere di voli con continuità e tariffe non esorbitanti. Oneri, quindi, che vanno oltre il puro interesse commerciale delle società.
Di questo discutono Sacco e Bianchi nelle telefonate successive. «Ti ho girato una nota del 3 novembre del ministero che revoca gli oneri di servizio», dice l’imprenditore. L’attesa finisce e finalmente è il giorno di Lupi a Crotone. Sacco ne riferisce gli esiti al presidente di Confindustria Crotone Michele Lucente: «Gli oneri sono a posto, siamo aeroporto di interesse nazionale, da quando sottoscriviamo il nuovo contratto di servizio».
Gli investigatori del Ros hanno annotato molti altri contatti, sms e telefonate tra la parlamentare e Mr Misericordia. Nulla di penalmente rilevante, ma, di certo, dimostrano che tra i due c’è una certa confidenza e che, Sacco la considera un punto di riferimento, lo strumento necessario per tentare di avvicinare i ministri che si occupano dei settori a lui cari.
«Le relazioni con le realtà e i soggetti operanti sul territorio crotonese sono sempre state improntate nella massima correttezza e nel pieno rispetto dei ruoli istituzionali», ha dichiarato il sottosegretario quando ha appreso della notizia della maxi retata sulla ’ndrangheta dell’accoglienza. Nessun dubbio sulla correttezza, tuttavia si tratta di capire se è opportuno per un deputato della Repubblica instaurare un rapporto così stretto con Mr Misericordia, già ai tempi molto chiacchierato.
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© Riproduzione riservata25 maggio 2017
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C.A.R.A TI AMO
Il rapporto speciale di Leonardo Sacco con Dorina Bianchi e il partito di Angelino Alfano
Mr Misericordia provò ad assumere il consuocero dell'attuale ministro degli Esteri venendo bloccato dal prefetto Morcone. E dalle intercettazioni emerge il ruolo della Bianchi nel mantenere i rapporti tra l'imprenditore e i politici
DI GIOVANNI TIZIAN
25 maggio 2017
Dorina Bianchi«Senti una cosa, ma come ti è venuto in testa di pigliare a questo come direttore di Lampedusa?...tu lo capisci bene che quello è il centro più visibile d’Italia... come l’avete scelto?».
Il prefetto Mario Morcone è furioso. Dall’altra parte del telefono c’è Leonardo Sacco, Mr Misericordia. Morcone non gli perdona la nomina del consuocero di Angelino Alfano a direttore del centro di accoglienza di Lampedusa, gestito dalla confraternita della Misericordia.
È il 4 ottobre 2014. Mancano pochi mesi alla bomba di mafia Capitale, alle inchieste sulle mazzette nella gestione del centro per rifugiati di Mineo, in Sicilia. Siamo prima, dunque, dell’inchiesta che coinvolgerà il sottosegretario del Nuovo centro destra Giuseppe Castiglione. Mario Morcone all’epoca è il vertice dell’Immigrazione del Viminale. Sopra di lui c’è solo il ministro Angelino Alfano. L’ufficio del superprefetto svolge un compito delicato. Supervisiona, controlla, monitora flussi, gestisce l’emergenza e verifica che tutto vada per il verso giusto.
In quel periodo, tra sbarchi e primi scandali, la pressione su di lui è altissima. E Morcone - oggi capo di gabinetto del ministro dell’Interno Marco Minniti - non ci sta a finire di nuovo nel tritacarne mediatico. Per questo reagisce duramente alla mossa azzardata di Mr Misericordia, detto anche “Gabibbo” o Mr Cento milioni. Un uomo dalle mille risorse. Che da dieci anni guadagna con i migranti, ma anche con gli aeroporti, con le barche e persino con la squadra di calcio in Eccellenza, che poche settimane fa ha festeggiato il triplete locale, conquistando tre competizioni di fila.
Con una facilità disarmante, Sacco, passa da summit con i boss a incontri istituzionali. Un giorno è il padrino al battesimo del figlio di un personaggio del clan, un altro discute con gli imprenditori affiliati alla cosca e dopo poche ore chiama prefetti e sottosegretari. Come Mario Morcone, appunto. Tutto documentato in alcune informative, di cui L’Espresso è venuto a conoscenza, che fanno parte del fascicolo “Jonny”, l’inchiesta della procura di Catanzaro che ha svelato il giro d’affari della ’ndrangheta intorno al centro di accoglienza in provincia di Crotone, secondo per capienza solo a quello siciliano di Mineo.
Una settantina di arresti, tra cui proprio Sacco e anche il sacerdote fondatore della Misericordia locale, e sequestri per 70 milioni di euro. Inchiesta coordinata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e dall’aggiunto Vincenzo Luberto e condotta dal Ros dei carabinieri insieme alla Guardia di finanza. Un business, secondo l’accusa, gestito dalla ’ndrangheta.
Tramite il re Mida dell’accoglienza, Leonardo Sacco, appunto, che ha fatto della solidarietà una grande azienda di famiglia. Governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, già vicepresidente nazionale della confraternita che ha visto la luce nel lontano 1244 e oggi conta su 800 cellule sparse per l’Italia, Sacco è anche presidente regionale della medesima associazione. Ma per l’antimafia è uomo di potere, relazioni e di mafia.
Angelino Alfano
Il suo book fotografico è una sfilza di sorrisi e abbracci con varie personalità della politica: da Matteo Renzi ad Angelino Alfano, passando per Matteo Salvini. Sono solo scatti durante eventi pubblici, ci mancherebbe. Utili, però, per comprendere il personaggio, scaltro nell’avventarsi sull’affare del secolo, esempio lampante di come la gestione dell’accoglienza in regime di emergenza perenne possa trasformarsi in uno strumento di consenso.
Così Leonardo Sacco è diventato il ras nazionale del settore gestendo per oltre 10 anni il più grande hub dell’accoglienza d’Europa. Dallo Stato, cioè ministero e prefetture, la sua organizzazione ha incassato oltre 100 milioni di euro. Di questi, almeno un terzo, sostengono gli inquirenti, è finito direttamente nelle mani delle cosche locali, in primis la famiglia Arena.
È il 4 ottobre, dunque, quando gli investigatori ascoltano la telefonata con il super prefetto dell’Immigrazione. Il tema è, appunto, la nomina a direttore del centro di Lampedusa (sotto la gestione di Sacco e la Misericordia) del consuocero del ministro Alfano, Lorenzo Montana. Morcone è teso, irritato e preoccupato: «Anche perché capisci l’effetto di tutto questo... è che ogni settimana ti devo fare un’ispezione perché sennò ci fanno un culo come una campana, quindi trova una soluzione garbata che risolva il problema».
Sacco ribatte senza scomporsi: «Tranquillo Eccellenza, io stavo cercando la figura del direttore però poi quando venerdì ci hanno fatto l’aggiudicazione definitiva per iniziare non avevo dove arrampicarmi... tant’è vero che ho dovuto mandare i miei da Isola per i primi giorni per avviare il lavoro... ma lui lo voglio lasciare coordinatore dei servizi, anche perché sull’isola conosce».
Tranquillizzato Morcone, passa all’attacco: «Eccellenza mercoledì ci vediamo?», «vieni, vieni, vieni». Della sfuriata, Sacco, informa subito i sui collaboratori. Uno dei più fidati sostiene di aver presentato Lorenzo Montana al Prefetto di Agrigento, al quale ha sottolineato che la scelta è ricaduta su di lui per l’esperienza maturata nell’Agenzia delle Entrate. Tuttavia il rappresentante del governo aveva sollevato alcuni dubbi perché temeva che Montana non fosse molto pratico del settore. Timori placati dalla proposta dell’uomo della Misericordia: il parente di Alfano sarebbe stato affiancato dagli uomini di Sacco.
Mario Morcone
Non se ne farà nulla, nel frattempo Montana aveva dato le dimissioni. Caso risolto? Non per il prefetto Morcone, che chiama Sacco per suggerirgli di scrivere un comunicato: «Bisogna comunque fare un’agenzia, sta succedendo un bordello su internet, nel quale dite quello che hai detto a me». Sacco è subito operativo, non vuole deludere Morcone: «La facciamo subito e le mando una copia via mail». Due ore dopo il prefetto ricontatta Mr Misericordia per chiedergli alcune modifiche nel comunicato: «... E se puoi mettere sulla base del suo curriculum e delle sue esperienze, aggiungere che è stato assessore al Bilancio al Comune di Lampedusa...il resto va bene».
Una volta superato il check prefettizio la comunicazione alla stampa può partire. Il prefetto ha risolto una situazione potenzialmente esplosiva. Salvando la faccia dell’istituzione che rappresenta. Dietro la dura reprimenda di Morcone, però, affiora un’insofferenza per i troppi giochini di potere e di nomine politiche che ruotano attorno al grande business dell’accoglienza. Un sistema che prima Mineo, poi Crotone e Lampedusa incarnano alla perfezione. E sul quale aleggia sempre l’ombra della spartizione politica.
I contatti tra l’imprenditore del clan e Morcone proseguono e non hanno riguardato solo il Lampedusagate. È soprattutto Sacco a chiamare, per fargli gli auguri, per questioni di lavoro e per alcuni crediti vantati dal centro di Crotone. «Eccellenza buongiorno, nell’augurarle buon Ferragosto le rinnovo il nostro invito a venirci a trovare o istituzionalmente con una visita al C.a.r.a. o privatamente magari in barca. Un abbraccio. Leonardo Sacco».
È la mattina del 14 agosto 2014, e Mr 100 milioni scrive al prefetto Morcone. Poi a metà settembre manda due sms al prefetto, con una richiesta di aiuto: «Eccellenza siamo in grosse difficoltà con i pagamenti delle presenze extra. Solo degli extra su Crotone siamo a 4 milioni. Le chiedo un intervento perché stiamo affondando. Un abbraccio».
Sacco andrà anche a Roma da Morcone. Gli investigatori del Ros apprenderanno i contenuti dell’incontro dalle reazioni dell’uomo della cosca Arena. Un incontro «andato bene», commenterà Sacco, in cui Morcone avrebbe parlato «molto apertamente». Il tema è quello di alcune contestazioni mosse alla Misericordia dalla prefettura di Crotone. Secondo l’imprenditore del clan, l’ex capo dell’Immigrazione si sarebbe mostrato disponibile a intervenire in qualche modo. «Domani dovrei vederla e gli dico qualcosa, però nel frattempo chiamo il capo ufficio mio che è quella che rompe i coglioni e gli dico», è sempre Sacco che riferisce le parole di Morcone. Oltretutto, aggiunge, il prefetto gli avrebbe dato un suggerimento prezioso, ossia che di Lampedusa devono avere cura perché è una vetrina internazionale, «qua capisci cosa sono le pressioni, ma statti tranquillo». Invece, sulle contestazioni della prefettura, 20 mila euro, Morcone avrebbe minimizzato: «Cosa vuoi che siano 20 mila euro su tre milioni». E in effetti per Mr 100 milioni sono pochi spiccioli.
L’area politica di riferimento dell’imprenditore Sacco è il centrodestra. In particolare il partito guidato dal ministro Alfano, di cui fa parte anche il sottosegretario siciliano Giuseppe Castiglione, invischiato nell’inchiesta sul centro per rifugiati di Mineo. Lo dimostrano i contatti di Mr Misericordia, che viene intercettato più volte mentre parla con l’attuale sottosegretaria ai Beni Culturali Dorina Bianchi, all’epoca, siamo sempre nel 2014, era vicepresidente del gruppo Ncd alla Camera.
“Pronto Dorì”
Telefonate e messaggi che proseguono per alcuni mesi e che vertono soprattutto sull’altro grande affare che interessa all’uomo del clan: l’aeroporto di Crotone. Il 12 settembre 2014 dal telefono di Sacco parte una telefonata. «Più o meno quando scendi Dorì?», chiede. «Io la prossima settimana devo scendere... poi la prossima viene Lupi» è la risposta della deputata. Mr Misericordia però ha urgenza di incontrarla e insiste:«Fammi sapere, è urgente». Dorina Bianchi è di Crotone, a questa città deve la sua prima elezione in Parlamento nel 2001, la coalizione di cui faceva parte era la Casa delle libertà e all’epoca militava nel Ccd. Da allora è sempre stata rieletta tra Camera e Senato. E ha cambiato schieramento varie volte. Nell’ordine è passata dall’Udc al Pd al Pdl, infine, all’Ncd, ora Alternativa popolare. Sei anni fa si è candidata a sindaco di Crotone senza fortuna. È in quel territorio però che nascono i rapporti con Sacco.
Leonardo Sacco al centro con Angelino Alfano alla sua sinistra
L’imprenditore dell’accoglienza sembra in confidenza con la parlamentare. Per esempio il 2 novembre le scrive un messaggino:«Cara Dorina, mi dicono che domani il ministro Alfano sarà a Crotone e Isola, riusciamo a farlo passare dal Centro di accoglienza?». Ma con la futura sottosegretaria, l’imprenditore crotonese spera di ottenere rassicurazioni soprattutto sul salvataggio del piccolo aeroporto di Crotone. Sacco, infatti, sedeva nel Cda della società di gestione del terminal calabrese. E dello scalo crotonese i due parlano tra il 5 e il 12 novembre di tre anni fa. Prima la sottosegretaria dice a Sacco che sta ancora «aspettando il punto sull’aeroporto», l’imprenditore sostiene di averle mandato tre mail con anche il «punto». Pochi giorni dopo e i due si risentono. La deputata voleva informarlo dell’imminente viaggio a Crotone dell’allora ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi per affrontare la questione dello scalo aeroportuale. «Arriva direttamente con la Ryan air e fa la conferenza in aeroporto... e poi rimane anche la sera con noi».
Ma l’uomo della Misericordia vuole conferme anche su un’altra visita istituzionale da programmare: «E Alfano invece?». Bianchi non è impreparata: «Stasera vado da lui al ministero... mi dà la data... sua». Finalmente l’imprenditore è soddisfatto, la cerchia del Nuovo centro destra si sta attivando. Sei giorni prima dell’arrivo di Lupi a Crotone, gli investigatori registrano una nuova telefonata in cui Sacco segnala a Dorina Bianchi che sull’aereo «non ci sono posti». La parlamentare allora suggerisce che«bisogna prenotare subito, per me e anche per Lupi». Sacco è ben felice di farlo, «mandami i dati che me la vedo io». Alle sette di sera dallo stesso 14 novembre la deputata del centrodestra chiama Sacco, parlano ancora dello scalo di Crotone: «Il problema è l’assetto societario non i fondi, il problema sarà l’assetto e quello che verrà fuori...poi te lo spiego meglio». Mr Misericordia, tuttavia, non molla l’osso e ribatte che «Enac aveva fatto marcia indietro...perché aveva accettato il concordato». «Però Enac non lo ha comunicato al ministero... e se non lo comunica è come se non ci fosse nulla, non so se rendo l’idea», aggiunge la parlamentare.
L’ansia di Sacco è placata: «L’importante è che non abbiamo problemi». Tuttavia affinché tutti siano più tranquilli Bianchi suggerisce a Sacco «di mandarle comunque la lettera». Ciò che preoccupava Sacco in veste di membro del Cda dell’aeroporto erano gli oneri di servizio pubblico, ossia quelle clausole che permettono a uno scalo periferico - o comunque non attraente per le compagnie aeree perché con una bassa intensità di traffico - di godere di voli con continuità e tariffe non esorbitanti. Oneri, quindi, che vanno oltre il puro interesse commerciale delle società.
Di questo discutono Sacco e Bianchi nelle telefonate successive. «Ti ho girato una nota del 3 novembre del ministero che revoca gli oneri di servizio», dice l’imprenditore. L’attesa finisce e finalmente è il giorno di Lupi a Crotone. Sacco ne riferisce gli esiti al presidente di Confindustria Crotone Michele Lucente: «Gli oneri sono a posto, siamo aeroporto di interesse nazionale, da quando sottoscriviamo il nuovo contratto di servizio».
Gli investigatori del Ros hanno annotato molti altri contatti, sms e telefonate tra la parlamentare e Mr Misericordia. Nulla di penalmente rilevante, ma, di certo, dimostrano che tra i due c’è una certa confidenza e che, Sacco la considera un punto di riferimento, lo strumento necessario per tentare di avvicinare i ministri che si occupano dei settori a lui cari.
«Le relazioni con le realtà e i soggetti operanti sul territorio crotonese sono sempre state improntate nella massima correttezza e nel pieno rispetto dei ruoli istituzionali», ha dichiarato il sottosegretario quando ha appreso della notizia della maxi retata sulla ’ndrangheta dell’accoglienza. Nessun dubbio sulla correttezza, tuttavia si tratta di capire se è opportuno per un deputato della Repubblica instaurare un rapporto così stretto con Mr Misericordia, già ai tempi molto chiacchierato.
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Re: Diario della caduta di un regime.
IN FONDO AL POZZO NERO,…..A DESTRA,…..SOTTO LE MACERIE…..
TAJA E MEDEGA
(Detto milanese)
L’è on taja e medega.
Certamente che tagliare o tagliarsi un dito fa male, medicare questa ferita è fare del bene, ma l’adagio non è proprio così, sostanzialmente si definisce così una persona che magari anche involontariamente commette un errore che si ripercuote un di un'altra persona, accortosi dell’errore, voluto o non voluto, non sappiamo quanto, l’autore di questa azione tenta di porci un rimedio, quindi cerca di medicare, facendo il pentito e far dimenticare lo sproposito. Quanto poi sia sincero questo suo pentimento, saranno poi gli altri a scoprirlo.
Musei, spunta l’emendamento salva-direttori
Il tentativo Pd per azzerare la sentenza del Tar
Proposta di modifica alla manovrina firmata dal relatore Guerra: “Nella procedura di selezione pubblica
internazionale non si applichino i limiti previsti dall’ordinamento della pubblica amministrazione”
Politica
Nella manovrina spunta il salva-direttori. A distanza di 24 ore dalla sentenza del Tar che ha bocciato le nomine del ministro Dario Franceschini per la direzione di cinque musei ecco che arriva il rimedio: tra gli emendamenti alla manovra correttiva in discussione in Commissione Bilancio è spuntato in serata un comma all’articolo 22: il 7bis, che supera la sentenza del tribunale amministrativo del Lazio
di Thomas Mackinson
TAJA E MEDEGA
(Detto milanese)
L’è on taja e medega.
Certamente che tagliare o tagliarsi un dito fa male, medicare questa ferita è fare del bene, ma l’adagio non è proprio così, sostanzialmente si definisce così una persona che magari anche involontariamente commette un errore che si ripercuote un di un'altra persona, accortosi dell’errore, voluto o non voluto, non sappiamo quanto, l’autore di questa azione tenta di porci un rimedio, quindi cerca di medicare, facendo il pentito e far dimenticare lo sproposito. Quanto poi sia sincero questo suo pentimento, saranno poi gli altri a scoprirlo.
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