L'arma (segreta) di Berlusconi:
ripartire con la lista «L'Italia che lavora»
Ma i primi sondaggi la collocano al 4-5 per cento
(Ap/Tarantino)
Credeva di aver trovato la soluzione, «ho trovato un coniglio nel cilindro», diceva Berlusconi, convinto di poter rovesciare le sorti avverse mettendosi alla testa di imprenditori, di giovani e persino di intellettuali: «L'Italia che lavora, così si chiamerà la mia lista». Perciò voleva far saltare l'intesa sulla riforma della legge elettorale, in modo da scegliere chi nominare in Parlamento, per questo aveva affidato ad alcune fedelissime deputate il compito di costituire un gruppo alla Camera.
L'avanguardia berlusconiana in Parlamento non avrebbe avuto solo il compito di testimoniare la nascita del progetto, sarebbe servita anche a evitare - grazie proprio alle norme del Porcellum - la macchinosa raccolta di firme in giro per l'Italia per la presentazione della lista. Il Cavaliere pensava davvero di aver risolto così ogni problema e di poter tornare a vincere, ricostruendo il fronte con la Lega e lasciando al Pdl gli oneri passivi insieme all'apparato. Era convinto che, trasformando il partito di cui è fondatore in una bad company, si sarebbe liberato dai debiti di una stagione fallimentare culminata con la caduta del suo governo.
Ma l'eugenetica non può essere applicata alla politica, non basta una lista dell'«Italia che lavora» per competere con le novità di Renzi e Grillo. Ancor più banalmente, non è cambiando l'ordine (e il nome) degli addendi che può cambiare la somma dei voti nelle urne. Anzi, è una regola che certe operazioni abbiano un saldo negativo. Anche perché i debiti finiscono comunque per ricadere sul leader e lo inseguono.
L'aveva avvisato per tempo Gianni Letta, «guarda Silvio che così non prenderesti più del 15%». E i sondaggi hanno dato ragione all'antico consigliere di Berlusconi, siccome
la lista non raccoglierebbe più del 4-6%, e sarebbe superata persino dal Pdl, quotato in caso di spacchettamento tra l'8 e il 10%. Sono numeri che raccontano il paradosso di un Cavaliere che rottamerebbe il Cavaliere, condannandosi all'irrilevanza politica, «a una triste uscita di scena», come dice Matteoli. Di più: quei numeri evidenziano come il Pdl riuscirebbe a sopravvivere al suo leader, che continua a marcare la distanza dal suo partito.
Per questo motivo il gruppo dirigente ha deciso di sfruttare l'intervista della Santanchè al Foglio come casus belli: per quanto i rapporti tra Alfano e Berlusconi siano tesi, l'offensiva non va infatti interpretata come un gesto ostile verso il Cavaliere, semmai come un appello a rompere gli indugi, per farsi interprete e protagonista del rilancio del Pdl. «Bisogna portarlo a ragionare, senza mai rompere», spiegava sere fa Verdini nel corso di una riunione. Nessuno lavora a un 25 luglio, tuttavia c'è una bella differenza tra l'idea di «rottamare» e quella di «resettare» il Pdl.
Il fatto è che il capo per ora non ci sente e continua a cercare ispirazione nei colloqui con persone estranee alla politica. Nei giorni scorsi gli sono brillati gli occhi quando un imprenditore suo ospite lo ha esortato a un «grande gesto»: «Berlusconi deve fare Berlusconi». «E come?», gli ha chiesto il Cavaliere. «Tu devi denunciare il patto che ha portato alla nascita del governo Monti, dire che sei stato costretto ad appoggiarlo». «Ma così perderei le elezioni». «Sì, ma saresti coerente». Avanti un altro. Perché c'è sempre qualcuno che è pronto a vellicarne l'ego, perciò l'ex premier non si cura dei suggerimenti di chi lo segue da decenni. Gianni Letta più volte lo ha esortato a fare i conti con la cruda realtà, una settimana fa lo ha invitato a prendere per esempio in considerazione l'ipotesi di puntare sull'ex sindaco di Milano Albertini come candidato a Palazzo Chigi: sarebbe un modo per sfidare i centristi di Casini. Niente.
E siccome Berlusconi non ha bloccato l'opera di demolizione del Pdl da parte dei suoi fedelissimi, Alfano ha deciso di reagire. Perché era ormai chiaro il disegno: se è vero che il voto siciliano rappresenta un test politico, com'è possibile che il partito venga screditato dai suoi stessi dirigenti mentre è in corso la campagna elettorale? L'obiettivo era (e resta) quello di scaricare sul segretario la responsabilità dell'eventuale sconfitta, per chiederne poi la testa.
Si vedrà se il candidato del centrodestra Musumeci riuscirà a battere anche quanti dovrebbero stargli al fianco nella sfida con Crocetta. Intanto è stata preparata la contromossa, di cui peraltro Berlusconi è a conoscenza. È il progetto che Alfano aveva già presentato al Cavaliere, un po' modificato.
Il segretario è pronto a varare il programma del partito, le nuove regole e una nuova squadra, nel segno di un «profondo ricambio». Non ha ancora deciso se muovere il passo già prima del voto in Sicilia, per giocare d'anticipo, ma la road map - concordata con il resto del gruppo dirigente - porterà il Pdl alla convention del 2 dicembre, quando si discuterà anche il cambio del nome e del simbolo.
«Il partito non si scioglie», su questo Alfano è stato chiaro con
Casini, che mira a un patto solo con una parte del Pdl, depurata dagli ex An. Un'opzione scartata da Alfano, che ha fissato i confini della sua forza politica, «ancorata all'europeismo e al Ppe» e che non accetta «analisi del sangue». In attesa del risultato in Sicilia, sono a sua volta evidenti le difficoltà del progetto centrista, incapace di sfondare elettoralmente e ora colpito dal «caso Montecarlo» in cui è coinvolto Fini. Il leader di Fli si è rattristato per il modo in cui Casini lo ha invitato a dimettersi da presidente della Camera. È un ulteriore segno dello sgretolamento di un'area che un tempo fu maggioranza nel Paese.
Difficile immaginare una ricomposizione nel rassemblement dei moderati, è certo che il Pdl vuole giocarsi la partita della sopravvivenza. Con o senza Berlusconi, questo è il rebus tuttora irrisolto. Ma se il Cavaliere non ha ancora dato il via al suo progetto, c'è un motivo: all'operazione «Italia che lavora» manca il quid.
Francesco Verderami
20 ottobre 2012 (modifica il 21 ottobre 2012)
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