Re: Fermate il treno, voglio scendere.
Inviato: 13/04/2018, 11:07
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Amoroso: Federico Caffè visse a lungo, dopo la scomparsa
Scritto il 13/4/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.
Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente alla Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzionalisti. Un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrapposto al darwinismo schumpeteriano», detto con parole sue. Il suo credo: l’economia dev’essere al servizio del benessere della comunità, partendo dai bisogni dei più deboli. Come economista, scrive Da Rin, era affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola nordica di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. Teoria e pratica del welfare universale, per demolire le diseguaglianze: «In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione liberista». Gli allievi ne parlano così: «Le sue lezioni esondavano dall’economia, lambivano la politica, la letteratura, la storia, la musica». La sua umanità rivestiva un aspetto centrale, «qualcosa di spiritualmente indefinibile che sprigionava dalla sua persona». Il professor Caffè «era capace di domandarti di te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe andare». Tra gli ex allievi, proprio Bruno Amoroso è stato l’erede designato del grande patrimonio culturale e umano di Caffè.
Amoroso ha vissuto e insegnato in Danimarca per 40 anni, dopo essere sbarcato in Scandinavia con il proposito di approfondire gli studi sui sistemi di welfare e sulla loro esportabilità. Aveva in tasca le lettere di presentazione di Caffè, già allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi. In un bellissimo libro, “Memorie di un intruso”, edito da Castelvecchi, Amoroso racconta tutto della sua vita, «e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè», sottolinea Da Rin sul “Sole”. «Pur con le lettere di presentazione di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un permesso di soggiorno per vivere in Danimarca». Laureato a pieni voti e impegnato nella ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di politica economica della Sapienza, trovò lavoro come “assistente lavapiatti”, facendo poi anche il portiere di notte. Due anni dopo, divenne finalmente “professore associato” in una università danese. Sempre in “Memorie di un intruso”, Amoroso scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, “Come è profondo il mare”. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler».
Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci ha consegnato un segreto: scrive di averlo visto e frequentato, il maestro, dopo la sua scomparsa. «A quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita, acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né suicidio né rapimento», scrive Da Rin, a cui Amoroso ha rilasciato un’intervista decisiva, parlando dell’antico maestro con il sussiego e l’ammirazione di sempre: «I meriti di Caffè – ha ribadito Amoroso – sono riconducibili al piano etico, oltre che a quello scientifico». Tra gli allievi più noti del professore ci sono Mario Draghi, Ignazio Visco di Bankitalia, Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, Guido Rey, Enrico Giovannini, Nino Galloni. Da “allievo prediletto”, Bruno Amoroso è stato il destinatario di centinaia di lettere confidenziali. Per Amoroso, è importante ribadire il primo assioma del Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone».
È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti, ammette il “Sole 24 Ore”. «L’allarme per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o 50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste settimane», scrive Da Rin. Profonda capacità di analisi, una lucidità previsiva. «Perché credi che i sistemi di welfare siano in crisi?», ha domandato Amoroso al giornalista. «Certo, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in modo esponenziale, così come sono aumentati i fruitori dei servizi pubblici. Ma in modo inversamente proporzionale è cambiata la disposizione delle persone per la solidarietà e i sentimenti». Una riflessione di straordinaria attualità, scrive il “Sole”, nei giorni in cui Europa e Stati Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli. L’ipotesi suicidio – aggiunge Da Rin – si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile. «E il ritiro in convento emerge in tutta evidenza», con la copertura offerta da un ordine religioso. «La Chiesa è disponibile a offrire protezioni di questo genere, purché ricorrano determinate condizioni». Così rispose il padre Jesus Torres, autorevole rappresentante della “Congregazione per gli istituti di vita consacracata e le società di vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 27 anni fa cercò di risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro “L’ultima lezione”.
In un altro bel libro, “La Stanza rossa”, pubblicato nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso decine di lettere autografe e riflessioni scientifiche. «Anche qui ci sono conferme importanti del ritiro del maestro: confessioni vergate dal professore al suo allievo preferito», sggiunge Da Rin sul “Sole”. Già nei primi anni Ottanta, pochi anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita: «Sono triste e depresso; e solo; e angosciato; e malinconico; e trepidante». Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora una volta all’ultima pagina, si riporta una confessione premonitrice di Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabili alla comprensione e all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta della meditazione esistenziale». Il convento, appunto. «Pochi anni dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori ruolo”, lontano dai suoi collaboratori, dai suoi studenti», osserva Da Rin. Federico Caffè cita Giuseppe Ungaretti: «Mi pesano gli anni futuri».
Una decisione, quella di scomparire, che sarebbe maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, “La scomparsa di Majorana”, che Caffè leggeva prima di uscire di casa per l’ultima volta. Quella stessa copia del libro è finita a casa di Bruno Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. Convincente e plausibile, il parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudini forti: per Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito, quello del «rifiuto della scienza». Per Amoroso, aggiunge il “Sole”, quella di Caffè è la solitudine di un riformista che non accetta il dissolvimento dei valori, la regressione culturale in atto. L’altro mistero – riflette Giorgio Lunghini, un economista importante con cui Caffè ha intrattenuto rapporti di lavoro e di amicizia – è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso su un quotidiano “comunista”, come il “Manifesto”? Lunghini ne dà una risposta ironica e persuasiva, coerente con il pensiero di Caffè. «Una spiegazione ragionevole è che Caffè vedeva nel “Manifesto” l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero».
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Amoroso: Federico Caffè visse a lungo, dopo la scomparsa
Scritto il 13/4/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet
«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.
Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente alla Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzionalisti. Un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrapposto al darwinismo schumpeteriano», detto con parole sue. Il suo credo: l’economia dev’essere al servizio del benessere della comunità, partendo dai bisogni dei più deboli. Come economista, scrive Da Rin, era affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola nordica di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. Teoria e pratica del welfare universale, per demolire le diseguaglianze: «In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione liberista». Gli allievi ne parlano così: «Le sue lezioni esondavano dall’economia, lambivano la politica, la letteratura, la storia, la musica». La sua umanità rivestiva un aspetto centrale, «qualcosa di spiritualmente indefinibile che sprigionava dalla sua persona». Il professor Caffè «era capace di domandarti di te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe andare». Tra gli ex allievi, proprio Bruno Amoroso è stato l’erede designato del grande patrimonio culturale e umano di Caffè.
Amoroso ha vissuto e insegnato in Danimarca per 40 anni, dopo essere sbarcato in Scandinavia con il proposito di approfondire gli studi sui sistemi di welfare e sulla loro esportabilità. Aveva in tasca le lettere di presentazione di Caffè, già allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi. In un bellissimo libro, “Memorie di un intruso”, edito da Castelvecchi, Amoroso racconta tutto della sua vita, «e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè», sottolinea Da Rin sul “Sole”. «Pur con le lettere di presentazione di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un permesso di soggiorno per vivere in Danimarca». Laureato a pieni voti e impegnato nella ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di politica economica della Sapienza, trovò lavoro come “assistente lavapiatti”, facendo poi anche il portiere di notte. Due anni dopo, divenne finalmente “professore associato” in una università danese. Sempre in “Memorie di un intruso”, Amoroso scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, “Come è profondo il mare”. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler».
Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci ha consegnato un segreto: scrive di averlo visto e frequentato, il maestro, dopo la sua scomparsa. «A quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita, acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né suicidio né rapimento», scrive Da Rin, a cui Amoroso ha rilasciato un’intervista decisiva, parlando dell’antico maestro con il sussiego e l’ammirazione di sempre: «I meriti di Caffè – ha ribadito Amoroso – sono riconducibili al piano etico, oltre che a quello scientifico». Tra gli allievi più noti del professore ci sono Mario Draghi, Ignazio Visco di Bankitalia, Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, Guido Rey, Enrico Giovannini, Nino Galloni. Da “allievo prediletto”, Bruno Amoroso è stato il destinatario di centinaia di lettere confidenziali. Per Amoroso, è importante ribadire il primo assioma del Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone».
È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti, ammette il “Sole 24 Ore”. «L’allarme per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o 50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste settimane», scrive Da Rin. Profonda capacità di analisi, una lucidità previsiva. «Perché credi che i sistemi di welfare siano in crisi?», ha domandato Amoroso al giornalista. «Certo, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in modo esponenziale, così come sono aumentati i fruitori dei servizi pubblici. Ma in modo inversamente proporzionale è cambiata la disposizione delle persone per la solidarietà e i sentimenti». Una riflessione di straordinaria attualità, scrive il “Sole”, nei giorni in cui Europa e Stati Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli. L’ipotesi suicidio – aggiunge Da Rin – si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile. «E il ritiro in convento emerge in tutta evidenza», con la copertura offerta da un ordine religioso. «La Chiesa è disponibile a offrire protezioni di questo genere, purché ricorrano determinate condizioni». Così rispose il padre Jesus Torres, autorevole rappresentante della “Congregazione per gli istituti di vita consacracata e le società di vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 27 anni fa cercò di risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro “L’ultima lezione”.
In un altro bel libro, “La Stanza rossa”, pubblicato nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso decine di lettere autografe e riflessioni scientifiche. «Anche qui ci sono conferme importanti del ritiro del maestro: confessioni vergate dal professore al suo allievo preferito», sggiunge Da Rin sul “Sole”. Già nei primi anni Ottanta, pochi anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita: «Sono triste e depresso; e solo; e angosciato; e malinconico; e trepidante». Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora una volta all’ultima pagina, si riporta una confessione premonitrice di Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabili alla comprensione e all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta della meditazione esistenziale». Il convento, appunto. «Pochi anni dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori ruolo”, lontano dai suoi collaboratori, dai suoi studenti», osserva Da Rin. Federico Caffè cita Giuseppe Ungaretti: «Mi pesano gli anni futuri».
Una decisione, quella di scomparire, che sarebbe maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, “La scomparsa di Majorana”, che Caffè leggeva prima di uscire di casa per l’ultima volta. Quella stessa copia del libro è finita a casa di Bruno Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. Convincente e plausibile, il parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudini forti: per Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito, quello del «rifiuto della scienza». Per Amoroso, aggiunge il “Sole”, quella di Caffè è la solitudine di un riformista che non accetta il dissolvimento dei valori, la regressione culturale in atto. L’altro mistero – riflette Giorgio Lunghini, un economista importante con cui Caffè ha intrattenuto rapporti di lavoro e di amicizia – è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso su un quotidiano “comunista”, come il “Manifesto”? Lunghini ne dà una risposta ironica e persuasiva, coerente con il pensiero di Caffè. «Una spiegazione ragionevole è che Caffè vedeva nel “Manifesto” l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero».