Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Quanto sostiene Vladimiro Giacchè nella Premessa del suo libro “LA FABBRICA DEL FALSO”, ce lo troviamo di fronte ad ogni piè sospinto nella politica praticata nella REPUBBLICA DEI BROCCHI.
Oggi, nell’epoca dei mezzi di comunicazione di massa e della politica medializzata, il silenzio e il segreto sono armi spuntate.
Perciò, quando serve(e serve sempre più spesso) la verità deve essere occultata o neutralizzata in altro modo.
Quindi si offrono versioni di comodo dei fatti, si distrae l’attenzione dei problemi reali dando il massimo rilievo a questioni di scarsa importanza, si inventano pericoli e nemici inesistenti per eludere quelli veri.
Ma soprattutto, le verità scomode vengono neutralizzate riformulandole in maniera appropriata.
Non possiamo non chiederci perché il NYT ha pubblicato soltanto ora la notizia in cui si sostiene che Obama abbia trasmesso a suo tempo la documentazione al governo italiano.
Il Fatto Quotidiano pubblica con rilievo, in prima pagina, oggi:
RENZI, GENTILONI E ALFANO NYT: “Obama passò a Roma le prove su Al-Sisi”
Regeni, silenzio di tomba
1. Che cosa ha rivelato la Casa Bianca a Palazzo Chigi sui responsabili dell’omicidio? Perché il governo Renzi decise di ignorare quelle informazioni? In che senso le definisce “non prove di fatto né esplosive”?
2.Quale ruolo hanno avuto i nostri Servizi, che rispondono direttamente al premier? È vero che l’intelligence e l’Eni temevano la rottura col regime egiziano? E che ci furono forti attriti con la Farnesina?
3. È vero che fin dall’inizio l’indagine della Procura di Roma non poteva ottenere atti utili né risultati concreti perché tutto è sempre dipeso dal livello politico?
> CURZI E RODANO A PAG. 2 - 3
Mentre Dagospia pubblica, sempre oggi, un intervento di Alessandro Gilioli, collaboratore de L’Espresso, estratto dalla sua bacheca Facebook :
17 ago 2017 16:19
CICCHITTO DORATO E FRITTO
- ALESSANDRO GILIOLI: “LA SUA TESI È CHE GIULIO REGENI SIA STATO UCCISO DA "QUALCUNO" CHE VOLEVA FAR SALTARE GLI ACCORDI ITALO EGIZIANI SUL GAS. UN QUALCUNO NEMICO DI AL SISI. SOLO CHE CICCHITTO FA FINTA CHE IL REGIME NON ABBIA MAI ORGANIZZATO UNA MEZZA DOZZINA DI DEPISTAGGI SULL'OMICIDIO E FINGE CHE…”
Dalla bacheca facebook di Alessandro Gilioli
La tesi di Fabrizio Cicchitto, presidente della Commissione Esteri della Camera, è che Giulio Regeni sia stato ucciso da "qualcuno" che voleva far saltare gli accordi italo egiziani sul gas e quindi abbia ammazzato il ragazzo italiano per creare tensione tra Roma e il Cairo. Questo "qualcuno" sarebbe quindi un nemico di al Sisi - altro che delitto di Stato - ma il povero dittatore «non ha la forza di sanzionarlo». Complice indiretto di questo qualcuno, secondo Cicchitto, sarebbe anche chi ha fatto uscire la «polpetta avvelenata» (così la chiama lui) sul Nyt, cioè l'articolo dell'altro giorno sul caso Regeni.
Tutto questo argomentare pro al Sisi è sulla Stampa di oggi, dove Cicchitto sorvola sulle dozzine e dozzine di altre sparizioni di dissidenti che avvengono in Egitto con le stesse modalità - tutte operate dalla Sicurezza - così come fa finta che il regime non abbia mai organizzato una mezza dozzina di depistaggi sull'omicidio Regeni (compreso uno che ha causato alcuni morti ammazzati).
Allo stesso modo, Cicchitto finge che non vi sia stato alcun ostacolo nella collaborazione tra giudici italiani e inquirenti egiziani: quando invece, se gli assassini di Regeni fossero stati davvero avversari di al Sisi, questa collaborazione sarebbe stata ovvia.
Insomma, a me pare giustissimo perculare quelli delle scie chimiche, delle sirene e del caldo che fa aumentare il Pil. Ma questo è il presidente della commissione esteri italiana, parlamentare da sette legislature, nonché rilevante esponente della maggioranza del nostro governo: e tutti zitti, anziché sghignazzargli dietro.
CONTINUA
Oggi, nell’epoca dei mezzi di comunicazione di massa e della politica medializzata, il silenzio e il segreto sono armi spuntate.
Perciò, quando serve(e serve sempre più spesso) la verità deve essere occultata o neutralizzata in altro modo.
Quindi si offrono versioni di comodo dei fatti, si distrae l’attenzione dei problemi reali dando il massimo rilievo a questioni di scarsa importanza, si inventano pericoli e nemici inesistenti per eludere quelli veri.
Ma soprattutto, le verità scomode vengono neutralizzate riformulandole in maniera appropriata.
Non possiamo non chiederci perché il NYT ha pubblicato soltanto ora la notizia in cui si sostiene che Obama abbia trasmesso a suo tempo la documentazione al governo italiano.
Il Fatto Quotidiano pubblica con rilievo, in prima pagina, oggi:
RENZI, GENTILONI E ALFANO NYT: “Obama passò a Roma le prove su Al-Sisi”
Regeni, silenzio di tomba
1. Che cosa ha rivelato la Casa Bianca a Palazzo Chigi sui responsabili dell’omicidio? Perché il governo Renzi decise di ignorare quelle informazioni? In che senso le definisce “non prove di fatto né esplosive”?
2.Quale ruolo hanno avuto i nostri Servizi, che rispondono direttamente al premier? È vero che l’intelligence e l’Eni temevano la rottura col regime egiziano? E che ci furono forti attriti con la Farnesina?
3. È vero che fin dall’inizio l’indagine della Procura di Roma non poteva ottenere atti utili né risultati concreti perché tutto è sempre dipeso dal livello politico?
> CURZI E RODANO A PAG. 2 - 3
Mentre Dagospia pubblica, sempre oggi, un intervento di Alessandro Gilioli, collaboratore de L’Espresso, estratto dalla sua bacheca Facebook :
17 ago 2017 16:19
CICCHITTO DORATO E FRITTO
- ALESSANDRO GILIOLI: “LA SUA TESI È CHE GIULIO REGENI SIA STATO UCCISO DA "QUALCUNO" CHE VOLEVA FAR SALTARE GLI ACCORDI ITALO EGIZIANI SUL GAS. UN QUALCUNO NEMICO DI AL SISI. SOLO CHE CICCHITTO FA FINTA CHE IL REGIME NON ABBIA MAI ORGANIZZATO UNA MEZZA DOZZINA DI DEPISTAGGI SULL'OMICIDIO E FINGE CHE…”
Dalla bacheca facebook di Alessandro Gilioli
La tesi di Fabrizio Cicchitto, presidente della Commissione Esteri della Camera, è che Giulio Regeni sia stato ucciso da "qualcuno" che voleva far saltare gli accordi italo egiziani sul gas e quindi abbia ammazzato il ragazzo italiano per creare tensione tra Roma e il Cairo. Questo "qualcuno" sarebbe quindi un nemico di al Sisi - altro che delitto di Stato - ma il povero dittatore «non ha la forza di sanzionarlo». Complice indiretto di questo qualcuno, secondo Cicchitto, sarebbe anche chi ha fatto uscire la «polpetta avvelenata» (così la chiama lui) sul Nyt, cioè l'articolo dell'altro giorno sul caso Regeni.
Tutto questo argomentare pro al Sisi è sulla Stampa di oggi, dove Cicchitto sorvola sulle dozzine e dozzine di altre sparizioni di dissidenti che avvengono in Egitto con le stesse modalità - tutte operate dalla Sicurezza - così come fa finta che il regime non abbia mai organizzato una mezza dozzina di depistaggi sull'omicidio Regeni (compreso uno che ha causato alcuni morti ammazzati).
Allo stesso modo, Cicchitto finge che non vi sia stato alcun ostacolo nella collaborazione tra giudici italiani e inquirenti egiziani: quando invece, se gli assassini di Regeni fossero stati davvero avversari di al Sisi, questa collaborazione sarebbe stata ovvia.
Insomma, a me pare giustissimo perculare quelli delle scie chimiche, delle sirene e del caldo che fa aumentare il Pil. Ma questo è il presidente della commissione esteri italiana, parlamentare da sette legislature, nonché rilevante esponente della maggioranza del nostro governo: e tutti zitti, anziché sghignazzargli dietro.
CONTINUA
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Re: Diario della caduta di un regime.
Non solo gli STRUMPTRUPPEN sono fabbricanti professionisti di odio a buon mercato, ma ci si dedicano con entusiasmo loro stessi.
18 ago 2017 13:35
1. “LA BOLDRINI ATTESA SULLA RAMBLA”. IL TWEET DEL CRONISTA DE “IL GIORNALE”, PAOLO GIORDANO, SCATENA UNA SHIT-STORM IN RETE PRO E CONTRO IL PRESIDENTE DELLA CAMERA
2. A CHI GLI FACEVA NOTARE DI AVER ESAGERATO, GIORDANO HA RISPOSTO CON BENZINA SUL FUOCO: “CREDO CHE CIASCUNO DEBBA PRENDERSI LA RESPONSABILITÀ DELLE PROPRIE POSIZIONI. A PRESCINDERE DA CARICA O PARTITO POLITICO”. RANDELLATA ANCHE DA SALLUSTI: “BARCELLONA, CHIUNQUE SIA STATO E’ UNA FOTTUTISSIMA BELVA. E CHE LA BOLDRINI E I SUOI AMICI MI DENUNCINO PURE”. LA "PRESIDENTA" CONTRO IL GOVERNO SUL CASO REGENI
Per articolo e documentazione vedi:
http://www.dagospia.com/rubrica-2/media ... 154547.htm
18 ago 2017 13:35
1. “LA BOLDRINI ATTESA SULLA RAMBLA”. IL TWEET DEL CRONISTA DE “IL GIORNALE”, PAOLO GIORDANO, SCATENA UNA SHIT-STORM IN RETE PRO E CONTRO IL PRESIDENTE DELLA CAMERA
2. A CHI GLI FACEVA NOTARE DI AVER ESAGERATO, GIORDANO HA RISPOSTO CON BENZINA SUL FUOCO: “CREDO CHE CIASCUNO DEBBA PRENDERSI LA RESPONSABILITÀ DELLE PROPRIE POSIZIONI. A PRESCINDERE DA CARICA O PARTITO POLITICO”. RANDELLATA ANCHE DA SALLUSTI: “BARCELLONA, CHIUNQUE SIA STATO E’ UNA FOTTUTISSIMA BELVA. E CHE LA BOLDRINI E I SUOI AMICI MI DENUNCINO PURE”. LA "PRESIDENTA" CONTRO IL GOVERNO SUL CASO REGENI
Per articolo e documentazione vedi:
http://www.dagospia.com/rubrica-2/media ... 154547.htm
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Re: Diario della caduta di un regime.
RILEGGENDO MI SONO ACCORTO DI AVER POSTATO ERRONEAMENTE GLI ARTICOLI RELATIVI A REGENI NEL 3D DI GIULIANI.
ME NE SCUSO
L’ordine di Palazzo Chigi è: Negare, Negare, Negare, altrimenti la nave affonda.
Regeni, “Obama diede a Renzi prove esplosive”
Palazzo Chigi: “Mai ricevuti elementi di fatto”
Il New York Times scrive che l’intelligence Usa fornì all’Italia informazioni schiaccianti sulle responsabilità
di funzionari della sicurezza egiziana. Fonti del governo Gentiloni: “Non fu trasmesso nulla di clamoroso”
Mondo
“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è stata riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dalla decisione del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che non furono mai trasmessi “elementi di fatto” sul ruolo dei servizi egiziani
di F. Q.
ME NE SCUSO
L’ordine di Palazzo Chigi è: Negare, Negare, Negare, altrimenti la nave affonda.
Regeni, “Obama diede a Renzi prove esplosive”
Palazzo Chigi: “Mai ricevuti elementi di fatto”
Il New York Times scrive che l’intelligence Usa fornì all’Italia informazioni schiaccianti sulle responsabilità
di funzionari della sicurezza egiziana. Fonti del governo Gentiloni: “Non fu trasmesso nulla di clamoroso”
Mondo
“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è stata riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dalla decisione del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che non furono mai trasmessi “elementi di fatto” sul ruolo dei servizi egiziani
di F. Q.
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Re: Diario della caduta di un regime.
IlFattoQuotidiano.it / Mondo
Regeni, Nyt: “Da governo Usa a quello di Renzi prove sul ruolo dei servizi egiziani”. P.Chigi: “Nessun elemento di fatto”
di F. Q. | 16 agosto 2017
Mondo
Secondo il quotidiano statunitense "informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto sul fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso il ricercatore italiano" furono girate dallo staff di Obama all'esecutivo di Roma. La guerra dei servizi, il ruolo dell'Eni e i timori dell'allora ambasciatore italiano. Fonti dell'esecutivo Gentiloni: "Nessuna prova esplosiva". La madre: "Sempre più a lutto"
di F. Q. | 16 agosto 2017
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Più informazioni su: Barack Obama, Egitto, Eni, Giulio Regeni, Matteo Renzi, Usa
“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dall’annuncio del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che, nei contatti tra amministrazione Usa e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’assassinio del ricercatore, non furono mai trasmessi “elementi di fatto”, come ricorda lo stesso giornalista del New York Times, né “tantomeno prove esplosive”.
Il corpo di Regeni fu ritrovato il 3 febbraio del 2016. Secondo la ricostruzione del New York Times, gli Stati Uniti acquisirono delle “informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto: prove del fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso” il ricercatore italiano e, “su raccomandazione del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono queste conclusioni al governo Renzi”. In un lungo articolo il giornalista Declan Walsh cita come fonti tre ex funzionari dell’amministrazione Obama. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana” e “non c’era dubbio”, ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero per intero le informazioni di intelligence, né dissero all’Italia quale agenzia di sicurezza ritenevano fosse dietro alla morte di Regeni, spiega ancora il giornale. “Non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, ucciderlo”, ha detto al giornalista del Nyt un altro ex funzionario Usa.
“Quello che gli americani sapevano per certo l’hanno detto agli italiani, cioè che la leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze intorno alla morte di Regeni”, scrive il giornale statunitense, citando poi altri virgolettati: “Non avevamo dubbi che questo fosse noto molto in alto”, dice uno dei funzionari dell’amministrazione Obama, aggiungendo che “non so se fossero responsabili. Ma sapevano. Loro sapevano”. Secondo l’articolo, alcuni funzionari di Obama erano convinti che qualcuno “di alto grado” del governo egiziano potesse avere ordinato l’uccisione di Regeni “per mandare un messaggio ad altri stranieri e governi stranieri, cioè di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”.
Fra i retroscena ricostruiti dal New York Times Magazine, inoltre, uno parla di screzi interni allo Stato italiano. “Secondo un funzionario del ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano giunti alla conclusione che l’Eni“, che nell’agosto 2015 “aveva annunciato la scoperta del giacimento di gas di Zohr 120 miglia a nord della costa egiziana”, “si era unita alle forze del servizio di intelligence dell’Italia nel tentativo di trovare una rapida risoluzione del caso”, si legge. Del resto, ricorda l’articolo, “nel 2014 Renzi definì Eni “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, estera e di intelligence”.
Ma “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo italiano. Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”. Al punto che un funzionario italiano citato avrebbe detto: “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani“. Per il giornale americano, inoltre, “i diplomatici sospettavano che le spie italiane, nel tentativo di chiudere il caso, avessero mediato per l’intervista fatta dal quotidiano La Repubblica ad Al Sisi il 16 marzo 2016, sei settimane dopo la morte di Regeni (il direttore Mario Calabresi, autore dell’intervista, afferma che la richiesta è partita dal giornale)”. In quella intervista il presidente egiziano aveva promesso “la verità” sulla morte. Otto giorni dopo furono uccisi cinque egiziani con precedenti penali e la polizia locale sostenne di aver trovato prove che li legavano all’omicidio Regeni. Compreso il passaporto del ricercatore, rinvenuto in un appartamento di uno dei membri della gang. Presto però la narrazione ufficiale fu smentita e lo scorso autunno il procuratore capo egiziano fece sapere che due ufficiali di polizia erano stati accusati di omicidio per aver sparato a sangue freddo ai cinque.
L’inchiesta dà conto anche dei timori dell’allora ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, che dopo la morte di Regeni “iniziò a preoccuparsi della sicurezza dell’ambasciata” e “smise di usare email e telefono per argomenti sensibili, ripiegando, per inviare messaggi a Roma, su una vecchia macchina per la crittografia. I rappresentati italiani temevano che gli egiziani che lavoravano in ambasciata passassero informazioni alle forze di sicurezza egiziane. Notarono che le luci erano sempre spente in un appartamento davanti all’ambasciata, un buon posto dove piazzare un microfono direzionale. Massari, traumatizzato dalla memoria delle ferite sul corpo di Regeni, era diventato un recluso e evitava incontri con gli altri diplomatici”. Nell’aprile 2016 l’ambasciatore fu richiamato a Roma.
“Fiumicello, 15 agosto 2017, sempre più lutto!”, ha scritto su Facebook la sera di Ferragosto la madre di Giulio Regeni, Paola Deffendi. Il post è accompagnato dalle foto di una bandiera italiana a lutto, che Deffendi ha anche impostato l’immagine come foto del profilo.
di F. Q. | 16 agosto 2017
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/08 ... o/3796055/
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Gentiloni ci fa una doppia brutta figura. Primo perché all’epoca era il ministro degli Esteri del governo Renzi, secondo, oggi da premier italiano
le novità
Milano, 15 agosto 2017 - 20:51
Regeni, il New York Times: «Obama avvertì Renzi sulle responsabilità degli apparati egiziani». Palazzo Chigi: «Mai ricevuto le prove»
Lo scrive il New York Times in un articolo citando fonti dell’ex amministrazione Obama: «Prove che dimostravano» la responsabilità di «elementi della sicurezza egiziana»
di Davide Casati
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Sin dalle prime settimane seguenti alla morte di Giulio Regeni, l’amministrazione americana era entrata in possesso di «prove esplosive» sulle responsabilità degli apparati dello Stato egiziano nel rapimento, nella tortura e nell’uccisione del giovane italiano, e ha comunicato al governo italiano, con certezza assoluta, che i vertici del Cairo erano a conoscenza delle circostanze relative alla morte del ricercatore. A scriverlo è il New York Times in un lungo articolo dedicato proprio al caso del giovane italiano massacrato in Egitto nel 2016.
La rivelazione arriva il giorno successivo alla decisione del governo italiano di inviare di nuovo un ambasciatore al Cairo. La scelta ha causato una dura reazione da parte della famiglia Regeni, che l’ha definita una mossa che «calpesta la nostra dignità».
Il governo italiano, dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times, ha spiegato, tramite «fonti» citate dalle agenzie di stampa, di non aver mai ricevuto dagli Usa «elementi di fatto, né tantomeno “prove esplosive”», come peraltro correttamente indicato dall’articolo. «La collaborazione con la Procura di Roma — continuano le stesse fonti — in tutti questi mesi è stata piena e completa»: anche questo un dettaglio presente nell’inchiesta del Times.
Che cosa scrive esattamente il «New York Times»
Nella lunga e dettagliatissima inchiesta, firmata dal corrispondente dal Cairo Declan Walsh e pubblicata il 15 agosto, il New York Times ricostruisce con precisione — risalendo anche a messaggi privati — la vita di Giulio Regeni, il suo lavoro, i contatti in Egitto, le sue passioni. Fornisce anche un quadro delle tre agenzie di sicurezza e di intelligence egiziane — la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service, «l’equivalente egiziano della Cia» — che, se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come «in competizione tra loro». Il paragrafo che ha attirato maggiori attenzioni da parte del governo italiano è quello relativo alle informazioni raccolte dagli Stati Uniti e passate al governo italiano. «Nelle settimane successive alla morte di Regeni», si legge, «gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana». «“Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane”, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. “Non c’erano dubbi”», scrive il Times. Che continua: «Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di “bruciare” la propria fonte, gli americani non condivisero i materiali di intelligence, né dissero quale delle agenzie di sicurezza e intelligence ritenevano fosse dietro la morte di Regeni. “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”».
I nodi e i dubbi aperti
Il paragrafo del Times tocca alcuni punti molto importanti:
— l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
— nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
— i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
— anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).
La rabbia del dipartimento di Stato Usa
L’articolo del New York Times rivela che il caso Regeni — e le prove raccolte dagli Stati Uniti — furono alla base di una burrascosa conversazione avuta dall’allora segretario di Stato americano, John Kerry, con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Kerry — che pure «aveva la fama di trattare l’Egitto con i guanti bianchi» — approcciò duramente Shoukry, anche se non riuscì a determinare se questi stesse erigendo un muro di gomma o «semplicemente non fosse a conoscenza della verità». L’atteggiamento dell’amministrazione americana è cambiato radicalmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha già provveduto a ricevere Al Sisi.
I depistaggi e il ruolo di Massari
L’inchiesta del New York Times rivela anche che i magistrati italiani inviati al Cairo vennero «depistati ad ogni pie’ sospinto», e spiega come l’allora ambasciatore italiano Massari — angosciato dopo aver visto con i propri occhi il cadavere martoriato di Giulio: «la bocca spalancata, i capelli zuppi di sangue, l’orecchio destro mozzato, le ossa di spalle, piedi e polsi sbriciolate, un dente mancante e molti altri spezzati, le bruciature di sigaretta sulla pelle, le ferite profonde alla schiena», frutto di una tortura durata quattro giorni — iniziò a temere per la sicurezza dell’ambasciata. «Presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate», si legge, «ricorrendo ad una soluzione vecchio stile, per comunicare con Roma: una macchina che scriveva messaggi criptati su carta». Anche perché «si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane, e che in un appartamento posto accanto all’ambasciata, le cui luci erano costantemente spente», fosse stato piazzato quanto necessario per spiare le mosse dei rappresentanti italiani.
Il ruolo dell’Eni e le tensioni nel governo italiano
L’articolo del New York Times parla poi apertamente di fratture all’interno delle autorità italiane, alle prese anche con «altre priorità». «Le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la minaccia di Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo». Non solo: Eni — che poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto aveva annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas, Zohr, proprio al largo delle coste egiziane — entrò in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, ad di Eni, «parlò almeno tre volte con il presidente egiziano al Sisi» del caso Regeni. «Quella che veniva percepita come una collaborazione tra Eni e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensioni all’interno del governo italiano», scrive il Times. «Membri del ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni«. «Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani», spiega una delle fonti al quotidiano.
Le tesi sulla morte
L’articolo non offre risposte alla domanda che gli dà il titolo («Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?»). Registra però quattro teorie (insieme a molti dubbi). La prima: a causare la morte di Regeni ci sarebbe stata l’azione di apparati deviati dei Servizi egiziani, che avrebbero agito senza l’approvazione di Sisi. Secondo questa teoria, il presidente egiziano avrebbe saputo della morte di Regeni, ma non sarebbe responsabile di aver dato il suo via libera. Se così fosse, però — si chiede l’articolo — perché far ritrovare il corpo di Regeni, e non farlo svanire nel nulla? La seconda teoria, ventilata da Hossam Zaki, ex viceministro degli Esteri egiziano, è l’azione di «elementi esterni» nel tentativo di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia: «Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto», ha detto al Times. La terza teoria è che Regeni sia finito nel fuoco incrociato delle diverse agenzie di sicurezza e intelligence egiziane. La quarta teoria, «la più allarmante», è che la morte di Regeni fosse «un messaggio chiaro: il segnale che, sotto al Sisi, anche un occidentale poteva essere sottoposto» a torture brutali. «Alti rappresentanti del governo egiziano potrebbero aver ordinato la morte di Giulio» per «mandare un messaggio ai governi stranieri: piantatela di giocare con la sicurezza egiziana». Il che spiegherebbe un dettaglio rivelato al Times da una fonte a Roma: «Quando fu recuperato, il cadavere di Giulio era stato puntellato a un muro. “Volevano che venisse ritrovato?”».
15 agosto 2017 (modifica il 16 agosto 2017 | 08:00)
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http://www.corriere.it/cronache/17_agos ... 2341.shtml
Regeni, Nyt: “Da governo Usa a quello di Renzi prove sul ruolo dei servizi egiziani”. P.Chigi: “Nessun elemento di fatto”
di F. Q. | 16 agosto 2017
Mondo
Secondo il quotidiano statunitense "informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto sul fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso il ricercatore italiano" furono girate dallo staff di Obama all'esecutivo di Roma. La guerra dei servizi, il ruolo dell'Eni e i timori dell'allora ambasciatore italiano. Fonti dell'esecutivo Gentiloni: "Nessuna prova esplosiva". La madre: "Sempre più a lutto"
di F. Q. | 16 agosto 2017
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Più informazioni su: Barack Obama, Egitto, Eni, Giulio Regeni, Matteo Renzi, Usa
“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dall’annuncio del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che, nei contatti tra amministrazione Usa e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’assassinio del ricercatore, non furono mai trasmessi “elementi di fatto”, come ricorda lo stesso giornalista del New York Times, né “tantomeno prove esplosive”.
Il corpo di Regeni fu ritrovato il 3 febbraio del 2016. Secondo la ricostruzione del New York Times, gli Stati Uniti acquisirono delle “informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto: prove del fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso” il ricercatore italiano e, “su raccomandazione del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono queste conclusioni al governo Renzi”. In un lungo articolo il giornalista Declan Walsh cita come fonti tre ex funzionari dell’amministrazione Obama. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana” e “non c’era dubbio”, ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero per intero le informazioni di intelligence, né dissero all’Italia quale agenzia di sicurezza ritenevano fosse dietro alla morte di Regeni, spiega ancora il giornale. “Non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, ucciderlo”, ha detto al giornalista del Nyt un altro ex funzionario Usa.
“Quello che gli americani sapevano per certo l’hanno detto agli italiani, cioè che la leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze intorno alla morte di Regeni”, scrive il giornale statunitense, citando poi altri virgolettati: “Non avevamo dubbi che questo fosse noto molto in alto”, dice uno dei funzionari dell’amministrazione Obama, aggiungendo che “non so se fossero responsabili. Ma sapevano. Loro sapevano”. Secondo l’articolo, alcuni funzionari di Obama erano convinti che qualcuno “di alto grado” del governo egiziano potesse avere ordinato l’uccisione di Regeni “per mandare un messaggio ad altri stranieri e governi stranieri, cioè di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”.
Fra i retroscena ricostruiti dal New York Times Magazine, inoltre, uno parla di screzi interni allo Stato italiano. “Secondo un funzionario del ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano giunti alla conclusione che l’Eni“, che nell’agosto 2015 “aveva annunciato la scoperta del giacimento di gas di Zohr 120 miglia a nord della costa egiziana”, “si era unita alle forze del servizio di intelligence dell’Italia nel tentativo di trovare una rapida risoluzione del caso”, si legge. Del resto, ricorda l’articolo, “nel 2014 Renzi definì Eni “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, estera e di intelligence”.
Ma “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo italiano. Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”. Al punto che un funzionario italiano citato avrebbe detto: “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani“. Per il giornale americano, inoltre, “i diplomatici sospettavano che le spie italiane, nel tentativo di chiudere il caso, avessero mediato per l’intervista fatta dal quotidiano La Repubblica ad Al Sisi il 16 marzo 2016, sei settimane dopo la morte di Regeni (il direttore Mario Calabresi, autore dell’intervista, afferma che la richiesta è partita dal giornale)”. In quella intervista il presidente egiziano aveva promesso “la verità” sulla morte. Otto giorni dopo furono uccisi cinque egiziani con precedenti penali e la polizia locale sostenne di aver trovato prove che li legavano all’omicidio Regeni. Compreso il passaporto del ricercatore, rinvenuto in un appartamento di uno dei membri della gang. Presto però la narrazione ufficiale fu smentita e lo scorso autunno il procuratore capo egiziano fece sapere che due ufficiali di polizia erano stati accusati di omicidio per aver sparato a sangue freddo ai cinque.
L’inchiesta dà conto anche dei timori dell’allora ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, che dopo la morte di Regeni “iniziò a preoccuparsi della sicurezza dell’ambasciata” e “smise di usare email e telefono per argomenti sensibili, ripiegando, per inviare messaggi a Roma, su una vecchia macchina per la crittografia. I rappresentati italiani temevano che gli egiziani che lavoravano in ambasciata passassero informazioni alle forze di sicurezza egiziane. Notarono che le luci erano sempre spente in un appartamento davanti all’ambasciata, un buon posto dove piazzare un microfono direzionale. Massari, traumatizzato dalla memoria delle ferite sul corpo di Regeni, era diventato un recluso e evitava incontri con gli altri diplomatici”. Nell’aprile 2016 l’ambasciatore fu richiamato a Roma.
“Fiumicello, 15 agosto 2017, sempre più lutto!”, ha scritto su Facebook la sera di Ferragosto la madre di Giulio Regeni, Paola Deffendi. Il post è accompagnato dalle foto di una bandiera italiana a lutto, che Deffendi ha anche impostato l’immagine come foto del profilo.
di F. Q. | 16 agosto 2017
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/08 ... o/3796055/
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Gentiloni ci fa una doppia brutta figura. Primo perché all’epoca era il ministro degli Esteri del governo Renzi, secondo, oggi da premier italiano
le novità
Milano, 15 agosto 2017 - 20:51
Regeni, il New York Times: «Obama avvertì Renzi sulle responsabilità degli apparati egiziani». Palazzo Chigi: «Mai ricevuto le prove»
Lo scrive il New York Times in un articolo citando fonti dell’ex amministrazione Obama: «Prove che dimostravano» la responsabilità di «elementi della sicurezza egiziana»
di Davide Casati
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Sin dalle prime settimane seguenti alla morte di Giulio Regeni, l’amministrazione americana era entrata in possesso di «prove esplosive» sulle responsabilità degli apparati dello Stato egiziano nel rapimento, nella tortura e nell’uccisione del giovane italiano, e ha comunicato al governo italiano, con certezza assoluta, che i vertici del Cairo erano a conoscenza delle circostanze relative alla morte del ricercatore. A scriverlo è il New York Times in un lungo articolo dedicato proprio al caso del giovane italiano massacrato in Egitto nel 2016.
La rivelazione arriva il giorno successivo alla decisione del governo italiano di inviare di nuovo un ambasciatore al Cairo. La scelta ha causato una dura reazione da parte della famiglia Regeni, che l’ha definita una mossa che «calpesta la nostra dignità».
Il governo italiano, dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times, ha spiegato, tramite «fonti» citate dalle agenzie di stampa, di non aver mai ricevuto dagli Usa «elementi di fatto, né tantomeno “prove esplosive”», come peraltro correttamente indicato dall’articolo. «La collaborazione con la Procura di Roma — continuano le stesse fonti — in tutti questi mesi è stata piena e completa»: anche questo un dettaglio presente nell’inchiesta del Times.
Che cosa scrive esattamente il «New York Times»
Nella lunga e dettagliatissima inchiesta, firmata dal corrispondente dal Cairo Declan Walsh e pubblicata il 15 agosto, il New York Times ricostruisce con precisione — risalendo anche a messaggi privati — la vita di Giulio Regeni, il suo lavoro, i contatti in Egitto, le sue passioni. Fornisce anche un quadro delle tre agenzie di sicurezza e di intelligence egiziane — la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service, «l’equivalente egiziano della Cia» — che, se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come «in competizione tra loro». Il paragrafo che ha attirato maggiori attenzioni da parte del governo italiano è quello relativo alle informazioni raccolte dagli Stati Uniti e passate al governo italiano. «Nelle settimane successive alla morte di Regeni», si legge, «gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana». «“Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane”, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. “Non c’erano dubbi”», scrive il Times. Che continua: «Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di “bruciare” la propria fonte, gli americani non condivisero i materiali di intelligence, né dissero quale delle agenzie di sicurezza e intelligence ritenevano fosse dietro la morte di Regeni. “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”».
I nodi e i dubbi aperti
Il paragrafo del Times tocca alcuni punti molto importanti:
— l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
— nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
— i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
— anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).
La rabbia del dipartimento di Stato Usa
L’articolo del New York Times rivela che il caso Regeni — e le prove raccolte dagli Stati Uniti — furono alla base di una burrascosa conversazione avuta dall’allora segretario di Stato americano, John Kerry, con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Kerry — che pure «aveva la fama di trattare l’Egitto con i guanti bianchi» — approcciò duramente Shoukry, anche se non riuscì a determinare se questi stesse erigendo un muro di gomma o «semplicemente non fosse a conoscenza della verità». L’atteggiamento dell’amministrazione americana è cambiato radicalmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha già provveduto a ricevere Al Sisi.
I depistaggi e il ruolo di Massari
L’inchiesta del New York Times rivela anche che i magistrati italiani inviati al Cairo vennero «depistati ad ogni pie’ sospinto», e spiega come l’allora ambasciatore italiano Massari — angosciato dopo aver visto con i propri occhi il cadavere martoriato di Giulio: «la bocca spalancata, i capelli zuppi di sangue, l’orecchio destro mozzato, le ossa di spalle, piedi e polsi sbriciolate, un dente mancante e molti altri spezzati, le bruciature di sigaretta sulla pelle, le ferite profonde alla schiena», frutto di una tortura durata quattro giorni — iniziò a temere per la sicurezza dell’ambasciata. «Presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate», si legge, «ricorrendo ad una soluzione vecchio stile, per comunicare con Roma: una macchina che scriveva messaggi criptati su carta». Anche perché «si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane, e che in un appartamento posto accanto all’ambasciata, le cui luci erano costantemente spente», fosse stato piazzato quanto necessario per spiare le mosse dei rappresentanti italiani.
Il ruolo dell’Eni e le tensioni nel governo italiano
L’articolo del New York Times parla poi apertamente di fratture all’interno delle autorità italiane, alle prese anche con «altre priorità». «Le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la minaccia di Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo». Non solo: Eni — che poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto aveva annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas, Zohr, proprio al largo delle coste egiziane — entrò in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, ad di Eni, «parlò almeno tre volte con il presidente egiziano al Sisi» del caso Regeni. «Quella che veniva percepita come una collaborazione tra Eni e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensioni all’interno del governo italiano», scrive il Times. «Membri del ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni«. «Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani», spiega una delle fonti al quotidiano.
Le tesi sulla morte
L’articolo non offre risposte alla domanda che gli dà il titolo («Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?»). Registra però quattro teorie (insieme a molti dubbi). La prima: a causare la morte di Regeni ci sarebbe stata l’azione di apparati deviati dei Servizi egiziani, che avrebbero agito senza l’approvazione di Sisi. Secondo questa teoria, il presidente egiziano avrebbe saputo della morte di Regeni, ma non sarebbe responsabile di aver dato il suo via libera. Se così fosse, però — si chiede l’articolo — perché far ritrovare il corpo di Regeni, e non farlo svanire nel nulla? La seconda teoria, ventilata da Hossam Zaki, ex viceministro degli Esteri egiziano, è l’azione di «elementi esterni» nel tentativo di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia: «Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto», ha detto al Times. La terza teoria è che Regeni sia finito nel fuoco incrociato delle diverse agenzie di sicurezza e intelligence egiziane. La quarta teoria, «la più allarmante», è che la morte di Regeni fosse «un messaggio chiaro: il segnale che, sotto al Sisi, anche un occidentale poteva essere sottoposto» a torture brutali. «Alti rappresentanti del governo egiziano potrebbero aver ordinato la morte di Giulio» per «mandare un messaggio ai governi stranieri: piantatela di giocare con la sicurezza egiziana». Il che spiegherebbe un dettaglio rivelato al Times da una fonte a Roma: «Quando fu recuperato, il cadavere di Giulio era stato puntellato a un muro. “Volevano che venisse ritrovato?”».
15 agosto 2017 (modifica il 16 agosto 2017 | 08:00)
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Re: Diario della caduta di un regime.
Editoriale
Caso Regeni, la verità e il teatro: l'editoriale di Tommaso Cerno
Abbiamo riaperto i rapporti diplomatici con l'Egitto, nonostante abbiano provato a rifilarci una fandonia irricevibile sulla morte di Giulio. E per questo viene da chiedersi: quanto sarà mai credibile ogni altra verità che ci verrà proposta? Sull'Espresso in edicola da domenica 20 agosto un lungo dossier sulle ragioni del nostro riavvicinamento ad al-Sisi
di Tommaso Cerno
18 agosto 2017
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Siamo l’Italia, il Paese che negli ultimi cinquant’anni non ha chiarito nessuno dei propri misteri di Stato. Abbiamo seminato dubbi e congetture, riempito libri di depistaggi, da Moro a Pasolini, insomma siamo i campioni del bluff.
Ora abbiamo ristabilito piene relazioni diplomatiche con l’Egitto, che cercò di fregarci - noi che siamo gli originali - raccontandoci una fandonia sulla morte di Giulio Regeni così strampalata da essere irricevibile perfino per il Paese degli omissis nei processi di Stato. Chi si stupisce è un idealista o è un fesso, perché la Farnesina sempre ha voluto che l’ambasciatore tornasse al Cairo.
E, pur senza poterlo dire, nel mondo di mezzo fra democrazia e regime, la scelta di chiudere la sede diplomatica non era mai andata giù. Facciamo una scommessa: dietro questa operazione c’è qualche garanzia egiziana sul caso Regeni. Ma la domanda è questa: noi, con il nostro passato, e loro con il comportamento tenuto fin qui, possiamo credere d’ora in avanti che qualsiasi cosa emerga, come ne emergono ogni giorno, sia la verità? In teoria, ci dicono da palazzo Chigi, sì.
Giulio Regeni crocefisso sulla copertina: un'immagine forte per poter raccontare come è cambiata la politica del governo nei confronti dell'Egitto e la riapertura del dialogo diplomatico con Al-Sisi con il ritorno dell'ambasciatore italiano al Cairo. Una decisione legata alla necessità di trovare un accordo per arginare il flusso dei migranti e che riporta in primo piano la distanza tra battaglie ideali, come quella per la ricerca della verità sull'assassinio del ricercatore Regeni, e la realpolitik degli interessi di Stato. Poi: gli scenari della politica del 2018 raccontati da Marco Damilano; l'inchiesta sulla salute dell'Arma dei Carabinieri di Emiliano Fittipaldi; il dossier sui malati che ancora oggi vengono curati con l'elettroshock; il test semiserio su "quale sinistra sei?" da giocare sotto l'ombrellone. Il direttore Tommaso Cerno racconta cosa c'è sul nuovo numero dell'Espresso in edicola da domenica 20 agosto
E siamo sicuri che tutti sperano di chiudere la vicenda. Ma non basta più nemmeno un nome, non basta una chiusura ufficiale. Non ci si fida più, come quando la Commissione Warren impose la verità di Stato sull’assassinio di Jfk, purché l’America potesse ripartire. Sull’omicidio di Stato di Giulio Regeni si attende una ricostruzione certo meno farsesca di quella che ci fu ammannita un anno e mezzo fa, che rasentava il ridicolo proprio perché raccontata a un Paese come il nostro, esperto internazionale di bugie ufficiali, quando ci dissero che cinque criminali comuni vennero ammazzati dalla polizia.
La stessa che poi sistemò nel covo i documenti di Giulio per mettere in scena quel macabro depistaggio. Ci arrabbiammo perfino noi. Ma con questi nuovi precedenti, che autorevolezza avrà ormai “La verità per Giulio Regeni”?
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
Caso Regeni, la verità e il teatro: l'editoriale di Tommaso Cerno
Abbiamo riaperto i rapporti diplomatici con l'Egitto, nonostante abbiano provato a rifilarci una fandonia irricevibile sulla morte di Giulio. E per questo viene da chiedersi: quanto sarà mai credibile ogni altra verità che ci verrà proposta? Sull'Espresso in edicola da domenica 20 agosto un lungo dossier sulle ragioni del nostro riavvicinamento ad al-Sisi
di Tommaso Cerno
18 agosto 2017
Siamo l’Italia, il Paese che negli ultimi cinquant’anni non ha chiarito nessuno dei propri misteri di Stato. Abbiamo seminato dubbi e congetture, riempito libri di depistaggi, da Moro a Pasolini, insomma siamo i campioni del bluff.
Ora abbiamo ristabilito piene relazioni diplomatiche con l’Egitto, che cercò di fregarci - noi che siamo gli originali - raccontandoci una fandonia sulla morte di Giulio Regeni così strampalata da essere irricevibile perfino per il Paese degli omissis nei processi di Stato. Chi si stupisce è un idealista o è un fesso, perché la Farnesina sempre ha voluto che l’ambasciatore tornasse al Cairo.
E, pur senza poterlo dire, nel mondo di mezzo fra democrazia e regime, la scelta di chiudere la sede diplomatica non era mai andata giù. Facciamo una scommessa: dietro questa operazione c’è qualche garanzia egiziana sul caso Regeni. Ma la domanda è questa: noi, con il nostro passato, e loro con il comportamento tenuto fin qui, possiamo credere d’ora in avanti che qualsiasi cosa emerga, come ne emergono ogni giorno, sia la verità? In teoria, ci dicono da palazzo Chigi, sì.
Giulio Regeni crocefisso sulla copertina: un'immagine forte per poter raccontare come è cambiata la politica del governo nei confronti dell'Egitto e la riapertura del dialogo diplomatico con Al-Sisi con il ritorno dell'ambasciatore italiano al Cairo. Una decisione legata alla necessità di trovare un accordo per arginare il flusso dei migranti e che riporta in primo piano la distanza tra battaglie ideali, come quella per la ricerca della verità sull'assassinio del ricercatore Regeni, e la realpolitik degli interessi di Stato. Poi: gli scenari della politica del 2018 raccontati da Marco Damilano; l'inchiesta sulla salute dell'Arma dei Carabinieri di Emiliano Fittipaldi; il dossier sui malati che ancora oggi vengono curati con l'elettroshock; il test semiserio su "quale sinistra sei?" da giocare sotto l'ombrellone. Il direttore Tommaso Cerno racconta cosa c'è sul nuovo numero dell'Espresso in edicola da domenica 20 agosto
E siamo sicuri che tutti sperano di chiudere la vicenda. Ma non basta più nemmeno un nome, non basta una chiusura ufficiale. Non ci si fida più, come quando la Commissione Warren impose la verità di Stato sull’assassinio di Jfk, purché l’America potesse ripartire. Sull’omicidio di Stato di Giulio Regeni si attende una ricostruzione certo meno farsesca di quella che ci fu ammannita un anno e mezzo fa, che rasentava il ridicolo proprio perché raccontata a un Paese come il nostro, esperto internazionale di bugie ufficiali, quando ci dissero che cinque criminali comuni vennero ammazzati dalla polizia.
La stessa che poi sistemò nel covo i documenti di Giulio per mettere in scena quel macabro depistaggio. Ci arrabbiammo perfino noi. Ma con questi nuovi precedenti, che autorevolezza avrà ormai “La verità per Giulio Regeni”?
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Re: Diario della caduta di un regime.
Gentiloni ci fa una doppia brutta figura. Primo perché all’epoca era il ministro degli Esteri del governo Renzi, secondo, oggi da premier italiano
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Milano, 15 agosto 2017 - 20:51
Regeni, il New York Times: «Obama avvertì Renzi sulle responsabilità degli apparati egiziani». Palazzo Chigi: «Mai ricevuto le prove»
Lo scrive il New York Times in un articolo citando fonti dell’ex amministrazione Obama: «Prove che dimostravano» la responsabilità di «elementi della sicurezza egiziana»
di Davide Casati
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Sin dalle prime settimane seguenti alla morte di Giulio Regeni, l’amministrazione americana era entrata in possesso di «prove esplosive» sulle responsabilità degli apparati dello Stato egiziano nel rapimento, nella tortura e nell’uccisione del giovane italiano, e ha comunicato al governo italiano, con certezza assoluta, che i vertici del Cairo erano a conoscenza delle circostanze relative alla morte del ricercatore. A scriverlo è il New York Times in un lungo articolo dedicato proprio al caso del giovane italiano massacrato in Egitto nel 2016.
La rivelazione arriva il giorno successivo alla decisione del governo italiano di inviare di nuovo un ambasciatore al Cairo. La scelta ha causato una dura reazione da parte della famiglia Regeni, che l’ha definita una mossa che «calpesta la nostra dignità».
Il governo italiano, dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times, ha spiegato, tramite «fonti» citate dalle agenzie di stampa, di non aver mai ricevuto dagli Usa «elementi di fatto, né tantomeno “prove esplosive”», come peraltro correttamente indicato dall’articolo. «La collaborazione con la Procura di Roma — continuano le stesse fonti — in tutti questi mesi è stata piena e completa»: anche questo un dettaglio presente nell’inchiesta del Times.
Che cosa scrive esattamente il «New York Times»
Nella lunga e dettagliatissima inchiesta, firmata dal corrispondente dal Cairo Declan Walsh e pubblicata il 15 agosto, il New York Times ricostruisce con precisione — risalendo anche a messaggi privati — la vita di Giulio Regeni, il suo lavoro, i contatti in Egitto, le sue passioni. Fornisce anche un quadro delle tre agenzie di sicurezza e di intelligence egiziane — la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service, «l’equivalente egiziano della Cia» — che, se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come «in competizione tra loro». Il paragrafo che ha attirato maggiori attenzioni da parte del governo italiano è quello relativo alle informazioni raccolte dagli Stati Uniti e passate al governo italiano. «Nelle settimane successive alla morte di Regeni», si legge, «gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana». «“Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane”, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. “Non c’erano dubbi”», scrive il Times. Che continua: «Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di “bruciare” la propria fonte, gli americani non condivisero i materiali di intelligence, né dissero quale delle agenzie di sicurezza e intelligence ritenevano fosse dietro la morte di Regeni. “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”».
I nodi e i dubbi aperti
Il paragrafo del Times tocca alcuni punti molto importanti:
— l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
— nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
— i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
— anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).
La rabbia del dipartimento di Stato Usa
L’articolo del New York Times rivela che il caso Regeni — e le prove raccolte dagli Stati Uniti — furono alla base di una burrascosa conversazione avuta dall’allora segretario di Stato americano, John Kerry, con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Kerry — che pure «aveva la fama di trattare l’Egitto con i guanti bianchi» — approcciò duramente Shoukry, anche se non riuscì a determinare se questi stesse erigendo un muro di gomma o «semplicemente non fosse a conoscenza della verità». L’atteggiamento dell’amministrazione americana è cambiato radicalmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha già provveduto a ricevere Al Sisi.
I depistaggi e il ruolo di Massari
L’inchiesta del New York Times rivela anche che i magistrati italiani inviati al Cairo vennero «depistati ad ogni pie’ sospinto», e spiega come l’allora ambasciatore italiano Massari — angosciato dopo aver visto con i propri occhi il cadavere martoriato di Giulio: «la bocca spalancata, i capelli zuppi di sangue, l’orecchio destro mozzato, le ossa di spalle, piedi e polsi sbriciolate, un dente mancante e molti altri spezzati, le bruciature di sigaretta sulla pelle, le ferite profonde alla schiena», frutto di una tortura durata quattro giorni — iniziò a temere per la sicurezza dell’ambasciata. «Presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate», si legge, «ricorrendo ad una soluzione vecchio stile, per comunicare con Roma: una macchina che scriveva messaggi criptati su carta». Anche perché «si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane, e che in un appartamento posto accanto all’ambasciata, le cui luci erano costantemente spente», fosse stato piazzato quanto necessario per spiare le mosse dei rappresentanti italiani.
Il ruolo dell’Eni e le tensioni nel governo italiano
L’articolo del New York Times parla poi apertamente di fratture all’interno delle autorità italiane, alle prese anche con «altre priorità». «Le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la minaccia di Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo». Non solo: Eni — che poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto aveva annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas, Zohr, proprio al largo delle coste egiziane — entrò in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, ad di Eni, «parlò almeno tre volte con il presidente egiziano al Sisi» del caso Regeni. «Quella che veniva percepita come una collaborazione tra Eni e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensioni all’interno del governo italiano», scrive il Times. «Membri del ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni«. «Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani», spiega una delle fonti al quotidiano.
Le tesi sulla morte
L’articolo non offre risposte alla domanda che gli dà il titolo («Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?»). Registra però quattro teorie (insieme a molti dubbi). La prima: a causare la morte di Regeni ci sarebbe stata l’azione di apparati deviati dei Servizi egiziani, che avrebbero agito senza l’approvazione di Sisi. Secondo questa teoria, il presidente egiziano avrebbe saputo della morte di Regeni, ma non sarebbe responsabile di aver dato il suo via libera. Se così fosse, però — si chiede l’articolo — perché far ritrovare il corpo di Regeni, e non farlo svanire nel nulla? La seconda teoria, ventilata da Hossam Zaki, ex viceministro degli Esteri egiziano, è l’azione di «elementi esterni» nel tentativo di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia: «Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto», ha detto al Times. La terza teoria è che Regeni sia finito nel fuoco incrociato delle diverse agenzie di sicurezza e intelligence egiziane. La quarta teoria, «la più allarmante», è che la morte di Regeni fosse «un messaggio chiaro: il segnale che, sotto al Sisi, anche un occidentale poteva essere sottoposto» a torture brutali. «Alti rappresentanti del governo egiziano potrebbero aver ordinato la morte di Giulio» per «mandare un messaggio ai governi stranieri: piantatela di giocare con la sicurezza egiziana». Il che spiegherebbe un dettaglio rivelato al Times da una fonte a Roma: «Quando fu recuperato, il cadavere di Giulio era stato puntellato a un muro. “Volevano che venisse ritrovato?”».
15 agosto 2017 (modifica il 16 agosto 2017 | 08:00)
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Regeni, il New York Times: «Obama avvertì Renzi sulle responsabilità degli apparati egiziani». Palazzo Chigi: «Mai ricevuto le prove»
Lo scrive il New York Times in un articolo citando fonti dell’ex amministrazione Obama: «Prove che dimostravano» la responsabilità di «elementi della sicurezza egiziana»
di Davide Casati
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Sin dalle prime settimane seguenti alla morte di Giulio Regeni, l’amministrazione americana era entrata in possesso di «prove esplosive» sulle responsabilità degli apparati dello Stato egiziano nel rapimento, nella tortura e nell’uccisione del giovane italiano, e ha comunicato al governo italiano, con certezza assoluta, che i vertici del Cairo erano a conoscenza delle circostanze relative alla morte del ricercatore. A scriverlo è il New York Times in un lungo articolo dedicato proprio al caso del giovane italiano massacrato in Egitto nel 2016.
La rivelazione arriva il giorno successivo alla decisione del governo italiano di inviare di nuovo un ambasciatore al Cairo. La scelta ha causato una dura reazione da parte della famiglia Regeni, che l’ha definita una mossa che «calpesta la nostra dignità».
Il governo italiano, dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times, ha spiegato, tramite «fonti» citate dalle agenzie di stampa, di non aver mai ricevuto dagli Usa «elementi di fatto, né tantomeno “prove esplosive”», come peraltro correttamente indicato dall’articolo. «La collaborazione con la Procura di Roma — continuano le stesse fonti — in tutti questi mesi è stata piena e completa»: anche questo un dettaglio presente nell’inchiesta del Times.
Che cosa scrive esattamente il «New York Times»
Nella lunga e dettagliatissima inchiesta, firmata dal corrispondente dal Cairo Declan Walsh e pubblicata il 15 agosto, il New York Times ricostruisce con precisione — risalendo anche a messaggi privati — la vita di Giulio Regeni, il suo lavoro, i contatti in Egitto, le sue passioni. Fornisce anche un quadro delle tre agenzie di sicurezza e di intelligence egiziane — la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service, «l’equivalente egiziano della Cia» — che, se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come «in competizione tra loro». Il paragrafo che ha attirato maggiori attenzioni da parte del governo italiano è quello relativo alle informazioni raccolte dagli Stati Uniti e passate al governo italiano. «Nelle settimane successive alla morte di Regeni», si legge, «gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana». «“Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane”, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. “Non c’erano dubbi”», scrive il Times. Che continua: «Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di “bruciare” la propria fonte, gli americani non condivisero i materiali di intelligence, né dissero quale delle agenzie di sicurezza e intelligence ritenevano fosse dietro la morte di Regeni. “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”».
I nodi e i dubbi aperti
Il paragrafo del Times tocca alcuni punti molto importanti:
— l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
— nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
— i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
— anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).
La rabbia del dipartimento di Stato Usa
L’articolo del New York Times rivela che il caso Regeni — e le prove raccolte dagli Stati Uniti — furono alla base di una burrascosa conversazione avuta dall’allora segretario di Stato americano, John Kerry, con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Kerry — che pure «aveva la fama di trattare l’Egitto con i guanti bianchi» — approcciò duramente Shoukry, anche se non riuscì a determinare se questi stesse erigendo un muro di gomma o «semplicemente non fosse a conoscenza della verità». L’atteggiamento dell’amministrazione americana è cambiato radicalmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha già provveduto a ricevere Al Sisi.
I depistaggi e il ruolo di Massari
L’inchiesta del New York Times rivela anche che i magistrati italiani inviati al Cairo vennero «depistati ad ogni pie’ sospinto», e spiega come l’allora ambasciatore italiano Massari — angosciato dopo aver visto con i propri occhi il cadavere martoriato di Giulio: «la bocca spalancata, i capelli zuppi di sangue, l’orecchio destro mozzato, le ossa di spalle, piedi e polsi sbriciolate, un dente mancante e molti altri spezzati, le bruciature di sigaretta sulla pelle, le ferite profonde alla schiena», frutto di una tortura durata quattro giorni — iniziò a temere per la sicurezza dell’ambasciata. «Presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate», si legge, «ricorrendo ad una soluzione vecchio stile, per comunicare con Roma: una macchina che scriveva messaggi criptati su carta». Anche perché «si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane, e che in un appartamento posto accanto all’ambasciata, le cui luci erano costantemente spente», fosse stato piazzato quanto necessario per spiare le mosse dei rappresentanti italiani.
Il ruolo dell’Eni e le tensioni nel governo italiano
L’articolo del New York Times parla poi apertamente di fratture all’interno delle autorità italiane, alle prese anche con «altre priorità». «Le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la minaccia di Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo». Non solo: Eni — che poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto aveva annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas, Zohr, proprio al largo delle coste egiziane — entrò in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, ad di Eni, «parlò almeno tre volte con il presidente egiziano al Sisi» del caso Regeni. «Quella che veniva percepita come una collaborazione tra Eni e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensioni all’interno del governo italiano», scrive il Times. «Membri del ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni«. «Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani», spiega una delle fonti al quotidiano.
Le tesi sulla morte
L’articolo non offre risposte alla domanda che gli dà il titolo («Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?»). Registra però quattro teorie (insieme a molti dubbi). La prima: a causare la morte di Regeni ci sarebbe stata l’azione di apparati deviati dei Servizi egiziani, che avrebbero agito senza l’approvazione di Sisi. Secondo questa teoria, il presidente egiziano avrebbe saputo della morte di Regeni, ma non sarebbe responsabile di aver dato il suo via libera. Se così fosse, però — si chiede l’articolo — perché far ritrovare il corpo di Regeni, e non farlo svanire nel nulla? La seconda teoria, ventilata da Hossam Zaki, ex viceministro degli Esteri egiziano, è l’azione di «elementi esterni» nel tentativo di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia: «Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto», ha detto al Times. La terza teoria è che Regeni sia finito nel fuoco incrociato delle diverse agenzie di sicurezza e intelligence egiziane. La quarta teoria, «la più allarmante», è che la morte di Regeni fosse «un messaggio chiaro: il segnale che, sotto al Sisi, anche un occidentale poteva essere sottoposto» a torture brutali. «Alti rappresentanti del governo egiziano potrebbero aver ordinato la morte di Giulio» per «mandare un messaggio ai governi stranieri: piantatela di giocare con la sicurezza egiziana». Il che spiegherebbe un dettaglio rivelato al Times da una fonte a Roma: «Quando fu recuperato, il cadavere di Giulio era stato puntellato a un muro. “Volevano che venisse ritrovato?”».
15 agosto 2017 (modifica il 16 agosto 2017 | 08:00)
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Giulio Regeni non c’entra, il governo dica chiaramente perché rimanda l’ambasciatore in Egitto
di Riccardo Noury | 16 agosto 2017
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Uno dei fatti temporalmente coincidenti con la decisione (per me intempestiva e immorale), presa nell’afa pre-ferragostana dal governo Gentiloni, di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo è ampiamente noto e se ne parla altrove sul portale del Fatto Quotidiano. Mi riferisco all’inchiesta del New York Times sull’uccisione di Giulio Regeni.
La seconda coincidenza temporale è meno conosciuta. Ha a che fare con la Libia, con la violazione dei diritti umani in quel paese e col ritorno dell’ambasciatore.
Il 15 agosto la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto per crimini di guerra nei confronti di Mahmoud el-Wefelli, comandante della brigata Al-Saiqa, le Forze speciali affiliate all’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar. Quello che dobbiamo blandire. Dopo Serraj e le tribù della frontiera sud, è la “terza Libia” che ancora ci sfugge.
Cercare di trovare un accordo, attraverso il suo sponsor egiziano, col generale della Cirenaica – sì, quello che giorni fa minacciò di bombardare le navi italiane – per poter portare avanti senza intoppi né ritardi la collaborazione con la Libia al fine d’impedire le partenze di migranti e richiedenti asilo verso l’Italia: questo è uno dei principali moventi della decisione annunciata dal ministro degli Esteri, Angelino Alfano, il 14 agosto.
Una decisione pensata da mesi, programmata per settembre (così si era impegnato col presidente egiziano al-Sisi il senatore Nicola La Torre) e che però è stata anticipata prendendo a pretesto il periodico comunicato di reciproca soddisfazione delle procure di Roma e del Cairo, relativo a qualche altra carta arrivata dall’Egitto e ora da tradurre dall’arabo.
Trasparentemente, il governo Gentiloni dovrebbe dire che l’ambasciata del Cairo torna a ranghi completi per ragioni d’interesse nazionale (la Libia, il petrolio, il terrorismo, il turismo ecc). E aggiungere, sempre per trasparenza, che la difesa dei diritti umani non rientra in quell’interesse nazionale, neanche quando si tratta di quelli di un cittadino italiano ucciso in modo barbaro (e figuriamoci quando si tratta dei tanti egiziani che fanno la stessa fine ogni anno).
In maniera altrettanto trasparente, il governo italiano dovrebbe dire che tra l’amicizia con Abdel Fattah al-Sisi e Khalifa Haftar e la verità per Giulio Regeni, ha deciso cosa è più importante e da che parte stare.
Tutto come prima, allora. Il governo del Cairo sentitamente ringrazia. Non pochi anche in Italia.
di Riccardo Noury | 16 agosto 2017
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La seconda coincidenza temporale è meno conosciuta. Ha a che fare con la Libia, con la violazione dei diritti umani in quel paese e col ritorno dell’ambasciatore.
Il 15 agosto la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto per crimini di guerra nei confronti di Mahmoud el-Wefelli, comandante della brigata Al-Saiqa, le Forze speciali affiliate all’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar. Quello che dobbiamo blandire. Dopo Serraj e le tribù della frontiera sud, è la “terza Libia” che ancora ci sfugge.
Cercare di trovare un accordo, attraverso il suo sponsor egiziano, col generale della Cirenaica – sì, quello che giorni fa minacciò di bombardare le navi italiane – per poter portare avanti senza intoppi né ritardi la collaborazione con la Libia al fine d’impedire le partenze di migranti e richiedenti asilo verso l’Italia: questo è uno dei principali moventi della decisione annunciata dal ministro degli Esteri, Angelino Alfano, il 14 agosto.
Una decisione pensata da mesi, programmata per settembre (così si era impegnato col presidente egiziano al-Sisi il senatore Nicola La Torre) e che però è stata anticipata prendendo a pretesto il periodico comunicato di reciproca soddisfazione delle procure di Roma e del Cairo, relativo a qualche altra carta arrivata dall’Egitto e ora da tradurre dall’arabo.
Trasparentemente, il governo Gentiloni dovrebbe dire che l’ambasciata del Cairo torna a ranghi completi per ragioni d’interesse nazionale (la Libia, il petrolio, il terrorismo, il turismo ecc). E aggiungere, sempre per trasparenza, che la difesa dei diritti umani non rientra in quell’interesse nazionale, neanche quando si tratta di quelli di un cittadino italiano ucciso in modo barbaro (e figuriamoci quando si tratta dei tanti egiziani che fanno la stessa fine ogni anno).
In maniera altrettanto trasparente, il governo italiano dovrebbe dire che tra l’amicizia con Abdel Fattah al-Sisi e Khalifa Haftar e la verità per Giulio Regeni, ha deciso cosa è più importante e da che parte stare.
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Re: Diario della caduta di un regime.
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La verità sul caso Regeni sacrificata sull’altare libico. E l’opinione pubblica si infiamma a comando
di Pierfranco Pellizzetti | 16 agosto 2017
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Ancora non mi rendo ben conto (forse la calura africana dei giorni scorsi?) la ragione per cui mi sono cacciato nell’impresa di ragionare su un piccolo politicante di lungo corso, ma sempre in terza classe, quale Marco Minniti. Un tipo che sino a oggi era noto quale accompagnatore in calzoleria del suo capo agli albori della Seconda Repubblica – Massimo d’Alema – intenzionato a farsi un paio di scarpe su misura; poi per la frequentazione in penombre delle barbe finte dei servizi segreti nostrani. Oggi il tipetto si gode il canonico quarto d’ora di celebrità andando “a musetto duro” contro quei torvi macellai delle ong e negoziando con i gentlemen libici una joint venture (non del tutto disinteressata e neppure a costo zero per l’Italia) allo scopo di ingabbiare dall’altro lato del Mediterraneo un po’ di negracci in fregola di cercare salvezza oltremare. Operazione i cui chiari effetti umanitari si riscontrano nell’accantonamento del disturbante affaire Regeni e, previo ripristino delle rappresentanze d’ambasciata, nella ricucitura con il premier egiziano, il ben noto gandhiano non-violento generale Al-Sisi.
Mal me ne incolse, vista l’onda anomala di melma sotto forma di commenti da cui sono stato sommerso. E se non vi sono annegato è solo per l’inveterato masochismo di non volermi allineare al luogo comune dilagante. E sì. Perché buona parte dei commenti ripetevano, in varie tonalità insultanti, lo stesso concetto: “Prenditeli in casa tua, questi immigrati!”. Non di rado specificando trattarsi di esponenti della media borghesia africana, spinta dal fancazzismo a farsi mantenere qui da noi.
Al di là del momentaneo orrore per questi spurghi di odio, trovo una continuità, almeno da alcuni decenni, in queste insorgenze mentali di massa; che ogni volta individuano il mostro contro cui indirizzare ondate di risentimento. Guarda caso, ripetendo pappagallescamente lessici e metafore dei loro aizzatori: se oggi la canea attizzata dal trio Salvini-Di Maio-Minniti (con Matteo Renzi all’inseguimento) ripete l’identico rosario di invettive contro gli immigrati traghettati dai taxi del mare e ospitati al Grand Hotel, gli adepti della setta grillesca scimmiottavano il Guru con un florilegio di “onestà” contro cui andranno a sbattere i “rosiconi”.
Trattasi dell’operazione mentale definita “pavlovizzazione”, un tempo praticata sui cani (che iniziavano a salivare al suono della campana cui erano condizionati) e che ormai si esercita sulle persone. Come è successo, dalle nostre parti? Varrebbe la pena di approfondirlo, visto che è fenomeno di lunga durata. Potremmo farlo incominciare al tempo delle bombe e della strategia della tensione, quando per la strage nella milanese Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 venne subito indicata senza tentennamenti la pista anarchica che portava fino a Pietro Valpreda, la cui posizione era aggravata dall’essere “un ballerino”. Poi rivelatosi del tutto estraneo alla vicenda terroristica; mentre si provvedeva a cancellare le impronte di altre mani, al servizio degli equilibri minacciati del potere.
La trasformazione dell’opinione pubblica in un gregge facilmente capace di imbizzarrirsi si è acuita nella Seconda Repubblica: abbiamo assistito alla parabola discendente di Mani Pulite e dei suoi magistrati, prima acclamati come paladini della giustizia e poi trasformati in killer della legalità; se avanzavi sospetti sull’essenza dipietrista di Italia dei Valori (già incubatore fanatizzante di biografie grilline, ma anche shopping center per campagne acquisto berlusconiano di parlamentari con il cartellino del prezzo) venivi crocefisso in effige dagli adepti; quando giunse la stagione dei mercatisti liberisti – da Mario Monti a Michele Boldrin – e timidamente si diceva che le loro ricette pro-establishment (dal salvataggio delle banche come priorità, al buono-scuola per favorire quelle religiose private) avrebbero fatto dilagare la disuguaglianza, i loro supporters, economisti immaginari, ti zittivano sbattendoti in faccia i palmares scientifici dei loro eroi (per una breve stagione). Poi è arrivata l’Europa e l’Euro, un tempo àncora di salvezza italica, trasformati nevroticamente nella summa di ogni peccato. Però ora, stante che criticare Bruxelles presenta qualche pericolo per chi aspira a Palazzo Chigi, il mirino si sposta sui dannati della terra e su chi vorrebbe salvarli da morte certa.
Chiamasi “distrazione di massa”. Quanto questo dipende da un sistema mediatico degenerato, al servizio permanente del “pensiero pensabile”? Quanto dipende da un potere che sentendosi minacciato produce diversivi a ripetizione?
Comunque: italiani brava gente? Ma per favore…
di Pierfranco Pellizzetti | 16 agosto 2017
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Mal me ne incolse, vista l’onda anomala di melma sotto forma di commenti da cui sono stato sommerso. E se non vi sono annegato è solo per l’inveterato masochismo di non volermi allineare al luogo comune dilagante. E sì. Perché buona parte dei commenti ripetevano, in varie tonalità insultanti, lo stesso concetto: “Prenditeli in casa tua, questi immigrati!”. Non di rado specificando trattarsi di esponenti della media borghesia africana, spinta dal fancazzismo a farsi mantenere qui da noi.
Al di là del momentaneo orrore per questi spurghi di odio, trovo una continuità, almeno da alcuni decenni, in queste insorgenze mentali di massa; che ogni volta individuano il mostro contro cui indirizzare ondate di risentimento. Guarda caso, ripetendo pappagallescamente lessici e metafore dei loro aizzatori: se oggi la canea attizzata dal trio Salvini-Di Maio-Minniti (con Matteo Renzi all’inseguimento) ripete l’identico rosario di invettive contro gli immigrati traghettati dai taxi del mare e ospitati al Grand Hotel, gli adepti della setta grillesca scimmiottavano il Guru con un florilegio di “onestà” contro cui andranno a sbattere i “rosiconi”.
Trattasi dell’operazione mentale definita “pavlovizzazione”, un tempo praticata sui cani (che iniziavano a salivare al suono della campana cui erano condizionati) e che ormai si esercita sulle persone. Come è successo, dalle nostre parti? Varrebbe la pena di approfondirlo, visto che è fenomeno di lunga durata. Potremmo farlo incominciare al tempo delle bombe e della strategia della tensione, quando per la strage nella milanese Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 venne subito indicata senza tentennamenti la pista anarchica che portava fino a Pietro Valpreda, la cui posizione era aggravata dall’essere “un ballerino”. Poi rivelatosi del tutto estraneo alla vicenda terroristica; mentre si provvedeva a cancellare le impronte di altre mani, al servizio degli equilibri minacciati del potere.
La trasformazione dell’opinione pubblica in un gregge facilmente capace di imbizzarrirsi si è acuita nella Seconda Repubblica: abbiamo assistito alla parabola discendente di Mani Pulite e dei suoi magistrati, prima acclamati come paladini della giustizia e poi trasformati in killer della legalità; se avanzavi sospetti sull’essenza dipietrista di Italia dei Valori (già incubatore fanatizzante di biografie grilline, ma anche shopping center per campagne acquisto berlusconiano di parlamentari con il cartellino del prezzo) venivi crocefisso in effige dagli adepti; quando giunse la stagione dei mercatisti liberisti – da Mario Monti a Michele Boldrin – e timidamente si diceva che le loro ricette pro-establishment (dal salvataggio delle banche come priorità, al buono-scuola per favorire quelle religiose private) avrebbero fatto dilagare la disuguaglianza, i loro supporters, economisti immaginari, ti zittivano sbattendoti in faccia i palmares scientifici dei loro eroi (per una breve stagione). Poi è arrivata l’Europa e l’Euro, un tempo àncora di salvezza italica, trasformati nevroticamente nella summa di ogni peccato. Però ora, stante che criticare Bruxelles presenta qualche pericolo per chi aspira a Palazzo Chigi, il mirino si sposta sui dannati della terra e su chi vorrebbe salvarli da morte certa.
Chiamasi “distrazione di massa”. Quanto questo dipende da un sistema mediatico degenerato, al servizio permanente del “pensiero pensabile”? Quanto dipende da un potere che sentendosi minacciato produce diversivi a ripetizione?
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Re: Diario della caduta di un regime.
COMMENTI sabato 19/08/2017
La realpolitik che lega Barcellona e caso Regeni
di Angelo Cannatà | 19 agosto 2017
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Realpolitik. Si chiama così e significa che le questioni umanitarie non contano nulla se la ragion di Stato va nella direzione opposta.
Giovedì pomeriggio, intorno alle 17, un furgone lanciato a tutta velocità, a Barcellona, compie l’ennesima strage dopo il Bataclan, le 86 vittime di Nizza, i 12 morti di Berlino, l’assalto al ponte di Westminster.
Si può capire qualcosa del caso Regeni se non lo si colloca nel contesto della lotta al terrorismo internazionale?
L’assassinio del giovane ricercatore va inquadrato negli anni bui che stiamo vivendo; solo così diventa comprensibile.
Che non significa giustificabile.
Il caso Regeni è in realtà il caso Italia.
Che Paese è il nostro?
Lo racconta con fredda lucidità Declan Walsh del New York Times: “Nel 2014, Matteo Renzi, allora primo ministro, è diventato il primo leader occidentale ad accogliere Al-Sisi nella sua Capitale e l’Italia ha continuato a vendere armi in Egitto, nonostante testimonianze di violazione dei diritti umani”.
Questa è la verità sui nostri “statisti”: prediche umanitarie e affari col dittatore dalle mani insanguinate.
Ora emerge che non hanno più l’alibi dell’ignoranza. Sapevano.
Il premier Renzi, Gentiloni e Alfano hanno avuto informazioni dall’Amministrazione Obama: “La prova che i funzionari di sicurezza egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni”.
Sapevano. Hanno taciuto.
E adesso l’ambasciatore italiano ritorna in Egitto.
Si temono insabbiamenti e la famiglia di Giulio è preoccupata.
Basta mettere in fila i fatti per vedere quanto questa orrenda vicenda riveli le ambiguità e la colpevole innocenza del nostro Paese.
Si può tendere la mano a un Paese che sull’omicidio Regeni ci ha negato tutto?
È ciò che ha fatto il premier Gentiloni.
“Il ritorno del nostro ambasciatore in Egitto – scrive Furio Colombo – rappresenta un’offesa alla famiglia Regeni… e alla Repubblica italiana che si accontenta di essere riammessa alla corte del Paese assassino”.
La verità è che ci sono interessi da tutelare. Denaro.
Il New York Times accosta i fatti: “Il giacimento di gas di Zohr (dell’Eni) si prepara ad avviare la produzione nel mese di dicembre.
A Fiumicello, Giulio Regeni è sepolto sotto una linea di cipressi”.
È sepolta anche la speranza di scoprire la verità su questo omicidio di Stato?
I genitori del giovane studente lottano ancora, e noi con essi; crediamo nella giustizia; pensiamo – illudendoci? – che non sia “l’utile del più forte”.
Ma in verità è solo una speranza: “La ragion di Stato uccide e non fornisce spiegazioni” (Sartre).
La ragion di Stato ha le sue regole, terribili, di fronte alle quali siamo impotenti; hanno ucciso un nostro figlio perché non abbiamo saputo proteggerlo; la rinnovata amicizia con l’Egitto dice che non sappiamo, oggi, nemmeno difenderne la memoria.
C’è un senso in tutto questo?
Una ragione che spieghi l’oblio – spero di sbagliarmi – che s’appresta a scendere su Giulio Regeni?
Vedo che così vanno le cose: si protesta, ci si indigna, si lotta, poi cala il silenzio e s’impone la ragion di Stato.
È l’altra lettura dei fatti.
Su Regeni possiamo/dobbiamo ancora chiedere giustizia e smascherare quanti (politici e giornalisti) hanno occultato la verità.
Ma per quanto?
E poi: ha senso chiedere giustizia al dittatore egiziano se sappiamo che è stato il suo regime a torturare e uccidere Giulio?
Il terrorismo jihadista dilaga, l’attentato di Barcellona è lì a ricordarlo, occorre stringere alleanze anche col dittatore Al-Sisi se serve a contrastare il terrorismo.
È crudele? Sì, ma è la realtà. Realpolitik.
Stringere compromessi per l’utile e il necessario.
Viviamo della/nella contraddizione (Hegel).
Non è per realismo che noi – idealisti, pacifisti, innamorati della vita – accettiamo il codice Minniti, al di là delle pur comprensibili ragioni di Msf?
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium ... so-regeni/
RILEGGENDO MI SONO ACCORTO DI AVER POSTATO ERRONEAMENTE GLI ARTICOLI RELATIVI A REGENI NEL 3D DI GIULIANI.
ME NE SCUSO
La realpolitik che lega Barcellona e caso Regeni
di Angelo Cannatà | 19 agosto 2017
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Realpolitik. Si chiama così e significa che le questioni umanitarie non contano nulla se la ragion di Stato va nella direzione opposta.
Giovedì pomeriggio, intorno alle 17, un furgone lanciato a tutta velocità, a Barcellona, compie l’ennesima strage dopo il Bataclan, le 86 vittime di Nizza, i 12 morti di Berlino, l’assalto al ponte di Westminster.
Si può capire qualcosa del caso Regeni se non lo si colloca nel contesto della lotta al terrorismo internazionale?
L’assassinio del giovane ricercatore va inquadrato negli anni bui che stiamo vivendo; solo così diventa comprensibile.
Che non significa giustificabile.
Il caso Regeni è in realtà il caso Italia.
Che Paese è il nostro?
Lo racconta con fredda lucidità Declan Walsh del New York Times: “Nel 2014, Matteo Renzi, allora primo ministro, è diventato il primo leader occidentale ad accogliere Al-Sisi nella sua Capitale e l’Italia ha continuato a vendere armi in Egitto, nonostante testimonianze di violazione dei diritti umani”.
Questa è la verità sui nostri “statisti”: prediche umanitarie e affari col dittatore dalle mani insanguinate.
Ora emerge che non hanno più l’alibi dell’ignoranza. Sapevano.
Il premier Renzi, Gentiloni e Alfano hanno avuto informazioni dall’Amministrazione Obama: “La prova che i funzionari di sicurezza egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni”.
Sapevano. Hanno taciuto.
E adesso l’ambasciatore italiano ritorna in Egitto.
Si temono insabbiamenti e la famiglia di Giulio è preoccupata.
Basta mettere in fila i fatti per vedere quanto questa orrenda vicenda riveli le ambiguità e la colpevole innocenza del nostro Paese.
Si può tendere la mano a un Paese che sull’omicidio Regeni ci ha negato tutto?
È ciò che ha fatto il premier Gentiloni.
“Il ritorno del nostro ambasciatore in Egitto – scrive Furio Colombo – rappresenta un’offesa alla famiglia Regeni… e alla Repubblica italiana che si accontenta di essere riammessa alla corte del Paese assassino”.
La verità è che ci sono interessi da tutelare. Denaro.
Il New York Times accosta i fatti: “Il giacimento di gas di Zohr (dell’Eni) si prepara ad avviare la produzione nel mese di dicembre.
A Fiumicello, Giulio Regeni è sepolto sotto una linea di cipressi”.
È sepolta anche la speranza di scoprire la verità su questo omicidio di Stato?
I genitori del giovane studente lottano ancora, e noi con essi; crediamo nella giustizia; pensiamo – illudendoci? – che non sia “l’utile del più forte”.
Ma in verità è solo una speranza: “La ragion di Stato uccide e non fornisce spiegazioni” (Sartre).
La ragion di Stato ha le sue regole, terribili, di fronte alle quali siamo impotenti; hanno ucciso un nostro figlio perché non abbiamo saputo proteggerlo; la rinnovata amicizia con l’Egitto dice che non sappiamo, oggi, nemmeno difenderne la memoria.
C’è un senso in tutto questo?
Una ragione che spieghi l’oblio – spero di sbagliarmi – che s’appresta a scendere su Giulio Regeni?
Vedo che così vanno le cose: si protesta, ci si indigna, si lotta, poi cala il silenzio e s’impone la ragion di Stato.
È l’altra lettura dei fatti.
Su Regeni possiamo/dobbiamo ancora chiedere giustizia e smascherare quanti (politici e giornalisti) hanno occultato la verità.
Ma per quanto?
E poi: ha senso chiedere giustizia al dittatore egiziano se sappiamo che è stato il suo regime a torturare e uccidere Giulio?
Il terrorismo jihadista dilaga, l’attentato di Barcellona è lì a ricordarlo, occorre stringere alleanze anche col dittatore Al-Sisi se serve a contrastare il terrorismo.
È crudele? Sì, ma è la realtà. Realpolitik.
Stringere compromessi per l’utile e il necessario.
Viviamo della/nella contraddizione (Hegel).
Non è per realismo che noi – idealisti, pacifisti, innamorati della vita – accettiamo il codice Minniti, al di là delle pur comprensibili ragioni di Msf?
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium ... so-regeni/
RILEGGENDO MI SONO ACCORTO DI AVER POSTATO ERRONEAMENTE GLI ARTICOLI RELATIVI A REGENI NEL 3D DI GIULIANI.
ME NE SCUSO
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Re: Diario della caduta di un regime.
UN'ITALIA TUTTA DA RIFARE,.......MA CHI E' IN GRADO DI RIMETTERLA IN PIEDI?????
22 ago 2017 12:55
INCHIESTE BOMBA SULL'ARMA DEI CARABINIERI
- FITTIPALDI SULL’”ESPRESSO: ''LO SCANDALO CONSIP HA TRAMORTITO TUTTI. DAL COMANDANTE GENERALE TULLIO DEL SETTE (INDAGATO PER FAVOREGGIAMENTO) AI CAPI DI STATO MAGGIORE, ASCOLTATI COME TESTIMONI; PASSANDO AI COMANDANTI DI REPARTI SPECIALIZZATI, ACCUSATI DI DEPISTAGGIO; E AI CARABINIERI ISCRITTI NEL REGISTRO PER FALSO IDEOLOGICO E MATERIALE; PER FINIRE CON LA CADUTA DI EROI SIMBOLO DELL’ARMA COME IL COLONNELLO SERGIO DE CAPRIO, MEGLIO CONOSCIUTO COME “CAPITANO ULTIMO”
Emiliano Fittipaldi per l’Espresso
Chiunque arriverà, «dovrà rimboccarsi le maniche. Perché troverà macerie: erano decenni che l’Arma dei Carabinieri non soffriva di una crisi così grave». Il militare che lavora al Comando Generale di Roma forse esagera, ma non è l’unico a pensare che la Benemerita stia vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia recente.
Una crisi latente da tempo, esplosa con l’indagine Consip. Uno scandalo che ha tramortito, in un domino di cui ancora non si vede la fine, tutti. Dal comandante generale Tullio Del Sette (indagato per favoreggiamento) ai capi di stato maggiore, ascoltati come testimoni; passando ai comandanti di reparti specializzati, accusati di depistaggio; e ai carabinieri iscritti nel registro per falso ideologico e materiale; per finire con la caduta di eroi simbolo dell’Arma come il colonnello Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “Capitano Ultimo” per aver arrestato Totò Riina, allontanato su due piedi lo scorso mese da una delle nostre agenzie di intelligence perché considerato improvvisamente «non più affidabile».
Leggendo le carte e le accuse dei magistrati - tutte ancora da provare - sembra che sul caso Consip l’Arma si sia spaccata a metà. Con il vertice della piramide impegnato a rovinare attraverso fughe di notizie insistite un’indagine giudiziaria che rischiava di compromettere l’immagine del Giglio magico di Matteo Renzi, e la base - rappresentata dagli investigatori del Noe - concentrata al contrario a costruire prove false pur di inchiodare Tiziano Renzi, il padre del segretario del Pd.
Un cortocircuito mai visto nel Corpo, un disastro giudiziario e mediatico che ha indebolito ancor di più la posizione del numero uno Tullio De Sette, indagato dallo scorso dicembre a Roma per favoreggiamento e divulgazione di segreto istruttorio, con l’accusa di aver fatto trapelare a soggetti terzi (come l’ex presidente della Consip Luigi Ferrara) l’indagine sulla stazione appaltante dello Stato su cui stavano lavorando i pm di Napoli.
Per lo stesso reato sono iscritti anche il ministro Luca Lotti e il generale Emanuele Saltalamacchia: il comandante della Legione Toscana, è stato accusato di aver spifferato informazioni segrete sia da Luigi Marroni (l’ex ad di Consip ha detto che era stato anche Saltalamacchia, suo amico, a dirgli «che il mio cellulare era sotto controllo») sia dall’ex sindaco Pd di Rignano sull’Arno Daniele Lorenzini. «Durante una cena a casa di Tiziano», ha specificato in una deposizione, «sentii Saltalamacchia» suggerire al papà dell’ex premier «di non frequentare un soggetto, di cui tuttavia non ho sentito il nome, perché era oggetto di indagine».
Se gli ultimi mesi sono stati difficilissimi, va evidenziato che Del Sette, nato 66 anni fa in Umbria, a Bevagna, era inviso a pezzi dell’Arma anche prima dell’iscrizione nei registri della procura, e che fonti del Comando generale non negano come molti generali, davanti ai guai giudiziari del loro capo, non si siano certo stracciati le vesti.
Già: il comandante generale, arrivato al posto di Leonardo Gallitelli all’inizio del 2015, è infatti stato giudicato fin da subito “troppo” vicino alla politica: anche se la lunga carriera dell’Arma ne faceva un candidato autorevole, in molti non gli perdonavano (e non gli perdonano) i sette anni in cui è stato capo ufficio legislativo del ministero della Difesa, sotto governi sia di destra sia di sinistra; né la scelta, nel 2014, di accettare la chiamata del ministro Roberta Pinotti, per diventarne capo di gabinetto. Non era mai accaduto prima che un carabiniere assumesse quell’incarico fiduciario.
A Del Sette viene poi contestato un carattere non facile. Se Gallitelli, mente fredda e raffinata, ha puntato su una guida inclusiva e meritocratica, seppur giudicata da alcuni troppo “curiale”, Del Sette ha preferito un comando verticistico, che per i critici ha finito con l’essere divisivo. «Del Sette è persona di grande valore, molto leale con le istituzioni. Ha lavorato bene con i ministri di ogni partito, come Martino, Parisi, anche con Ignazio La Russa.
Molte delle leggi vigenti portano la sua “firma”, compreso l’accorpamento del Corpo forestale ai carabinieri», spiega chi lo stima e ha lavorato con lui al dicastero della Difesa. «Cosa lo ha penalizzato negli ultimi tempi? Su Consip credo si sia trattato di un’ingenuità, e la sua posizione sarà archiviata. Al comando generale invece, non l’ha mai aiutato il suo carattere fumantino. È un uomo capace, che però si arrabbia facilmente. Soprattutto quando si convince che il suo interlocutore non rispetta le gerarchie e i ruoli che lui ha definito».
Del Sette viene definito sia dai suoi estimatori (che sono molti) sia dai suoi nemici (che sono ancor di più) un uomo schivo, persino timido, ma poco propenso alla mediazione. Appena nominato dai renziani a numero uno dei carabinieri, ha deciso in effetti di spazzare via la vecchia nomenclatura costruita in sei anni dal suo predecessore, scegliendo di andare allo scontro frontale con alcuni generali fedelissimi di Gallitelli. Molto stimati, però, dalla base dell’Arma.
Così, se il Capo di Stato maggiore Ilio Ciceri è stato sostituto da Vincenzo Maruccia (anche lui sentito come testimone dai pm di Roma per la vicenda Consip), e il generale Marco Minicucci è stato sottoutilizzato, un altro pezzo da novanta come Alberto Mosca ha dovuto cedere la poltrona di comandante della Legione Toscana a uno dei pupilli di Del Sette, proprio Saltalamacchia, dovendosi accontentare del comando della Legione Allievi Carabinieri.
Clamorosa poi la scelta del colonnello Roberto Massi: l’ex comandante dei Ros considerato uno degli ufficiali più brillanti dell’Arma, e promosso da Gallitelli capo dell’ufficio legislativo nel 2014, dopo una breve convivenza con Del Sette ha preferito fare armi e bagagli e trasferirsi all’Anas nel 2016. All’ente nazionale per le strade Massi ricopre l’incarico di “responsabile della tutela aziendale”. L’unico gallitelliano che è riuscito a stringere un patto di ferro con il comandante umbro è stato Claudio Domizi, ancora influente capo del personale del primo reparto.
«Le tensioni interne sono iniziate fin dal suo arrivo, ma sono peggiorate nel tempo. La crisi Consip le ha fatte solo esplodere», ragiona preoccupato un militare con le stellette, che considera i colleghi gallitelliani veri responsabili della spaccatura, perché nostalgici e incapaci di accettare il nuovo corso.
Tutti, però, mettono sul banco degli imputati anche il sistema della rotazione obbligatoria degli ufficiali (che costringe pure i carabinieri più esperti e capaci a cambiare reparto dopo due anni) e l’assenza di una vera meritocrazia interna. «Qualche tempo fa a Reggio Calabria durante un giuramento a passare in rassegna i reparti, oltre agli ufficiali, è stato anche un appuntato del Cocer, il sindacato interno dei carabinieri a cui Del Sette si è molto appoggiato dall’inizio del suo mandato», racconta uno degli scontenti «Forse a voi civili sembra una sciocchezza, ma nell’Arma è una cosa inverosimile, che ha fatto accapponare moltissime divise».
Ottimi rapporti con Maria Elena Boschi e lo stesso Lotti, qualche incontro con l’imprenditore renziano Marco Carrai (tra cui una cena a casa del compagno di Mara Carfagna, Alessandro Ruben, che ama invitare mimetiche e stellette nel suo salotto), Del Sette ha dovuto gestire anche la patata bollente del colonnello Sergio De Caprio, “Ultimo”.
L’attivismo “anarchico” dell’ex vice comandante del Noe (che ha collaborato con il pm John Woodcock a quasi tutte le inchieste più delicate degli ultimi anni su politica e potere, da quelle sulle tangenti di Finmeccanica alla P4 di Luigi Bisignani, passando dalle tangenti della Lega Nord a quelle sulla Cpl Concordia) non è mai stato amato dai piani alti della Benemerita.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è caduta proprio nel luglio del 2015, quando una delle intercettazioni del fascicolo sulla Cpl (una telefonata privata tra il generale della Finanza Michele Adinolfi e Matteo Renzi in cui il segretario del Pd definiva il suo predecessore Enrico Letta «un incapace») è finita in prima pagina sul “Fatto Quotidiano”.
Del Sette, dopo un mese di buriane politiche e polemiche infuocate, deciderà di firmare una circolare che toglie ai vicecomandanti dei reparti le funzioni di polizia giudiziaria. Una norma considerata da molti “contra personam”. «Continuerete la lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che le sostengono e contro quei servi sciocchi che, abusando delle attribuzioni che gli sono state conferite, prevaricano e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere», polemizzò senza mezzi termini “Ultimo” in una lettera di saluto ai suoi uomini.
Poi grazie alla mediazione dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti e del capo dell’Aise Alberto Manenti, De Caprio a fine 2016 viene distaccato ai servizi segreti. Per la precisione all’ufficio Affari interni, quello che controlla gli 007 italiani che righino dritto.
Se malumori e dissapori sono una costante di ogni struttura gerarchica, la crisi dell’Arma supera i livelli di guardia a inizio del 2017. Alle indagini sulla fuga di notizie si aggiungono prima quelle sul capitano Gianpaolo Scafarto del Noe, accusato dai pm di Roma di aver falsificato le prove nell’informativa. Poi quelle al suo capo Alessandro Sessa, numero due del reparto, incolpato nientemeno per “depistaggio” per non aver detto la verità (questa l’ipotesi della procura) durante un’audizione con i magistrati.
Infine il tentativo di ritrattazione dello scorso giugno di Luigi Ferrara, il manager Consip che aveva tirato in ballo Del Sette come colui che lo aveva messo sull’avviso in merito a un’indagine giudiziaria sull’imprenditore Alfredo Romeo e la stessa Consip: dopo un confuso interrogatorio, in cui probabilmente il manager ha cercato di proteggere proprio Del Sette, i pm hanno iscritto anche Ferrara nel registro degli indagati. Per falsa testimonianza.
La crisi strutturale del corpo “Nei Secoli Fedele” ha toccato nuove vette qualche giorno fa, quando i pm romani hanno scoperto che Scafarto mandava documenti riservati sull’inchiesta Consip a ufficiali ex Noe traslocati con “Ultimo” ai servizi segreti. L’ipotesi investigativa è che questi stessero ancora collaborando alle indagini su Consip portate avanti dagli ex colleghi. “Ultimo” e tutti i suoi uomini (De Caprio aveva portato con se due dozzine di fedelissimi, di cui la gran parte provenienti dal Noe) sono stati così allontanati dal nuovo incarico, e sono rientrati nell’Arma.
Un allontanamento avvenuto senza accuse formali da parte della magistratura, e senza una richiesta esplicita di Manenti. È stato Marco Mancini, un alto funzionario del Dis (il dipartimento che coordina le agenzie d’intelligence) coinvolto in passato nel sequestro dell’imam Abu Omar a chiederne la testa. Dopo aver scoperto che Scafarto e gli investigatori del Noe, sempre nell’ambito dell’inchiesta Consip, lo avevano seguito e fotografato, mandando ai collaboratori di “Ultimo” all’Aise le risultanze dei loro appostamenti.
L’incarico di Del Sette terminerà il prossimo gennaio. Ed è probabile che il suo successore verrà nominato non dal governo Gentiloni, ma da quello che entrerà in carica dopo le elezioni politiche, previste per la prossima primavera. In pole position ci sono il numero uno del comando interregionale Ogaden Giovanni Nistri (romano, tre lauree, giornalista pubblicista, ex comandante del comando per la Tutela del patrimonio e direttore del Grande Progetto Pompei, che ha ottimi rapporti con il Pd) e il generale Riccardo Amato, numero uno della divisione Pastrengo ed esperto di antimafia, che gode dell’appoggio del Quirinale.
Subito dietro c’è Vincenzo Coppola (chiamato “il paracadutista”, una vita in prima linea nelle missioni di peacekeeping e da marzo promosso numero due dell’Arma), mentre il generale Ilio Ciceri e Riccardo Galletta, capo della Legione Sicilia, sembrano avere tutti i titoli necessari, ma meno chance. Il primo, considerato il miglior uomo macchina possibile, sconta il peccato di essere considerato un gallitelliano, mentre il secondo - all’inverso - un uomo di Del Sette. A chiunque toccherà, risollevare l’Arma non sarà impresa facile.
22 ago 2017 12:55
INCHIESTE BOMBA SULL'ARMA DEI CARABINIERI
- FITTIPALDI SULL’”ESPRESSO: ''LO SCANDALO CONSIP HA TRAMORTITO TUTTI. DAL COMANDANTE GENERALE TULLIO DEL SETTE (INDAGATO PER FAVOREGGIAMENTO) AI CAPI DI STATO MAGGIORE, ASCOLTATI COME TESTIMONI; PASSANDO AI COMANDANTI DI REPARTI SPECIALIZZATI, ACCUSATI DI DEPISTAGGIO; E AI CARABINIERI ISCRITTI NEL REGISTRO PER FALSO IDEOLOGICO E MATERIALE; PER FINIRE CON LA CADUTA DI EROI SIMBOLO DELL’ARMA COME IL COLONNELLO SERGIO DE CAPRIO, MEGLIO CONOSCIUTO COME “CAPITANO ULTIMO”
Emiliano Fittipaldi per l’Espresso
Chiunque arriverà, «dovrà rimboccarsi le maniche. Perché troverà macerie: erano decenni che l’Arma dei Carabinieri non soffriva di una crisi così grave». Il militare che lavora al Comando Generale di Roma forse esagera, ma non è l’unico a pensare che la Benemerita stia vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia recente.
Una crisi latente da tempo, esplosa con l’indagine Consip. Uno scandalo che ha tramortito, in un domino di cui ancora non si vede la fine, tutti. Dal comandante generale Tullio Del Sette (indagato per favoreggiamento) ai capi di stato maggiore, ascoltati come testimoni; passando ai comandanti di reparti specializzati, accusati di depistaggio; e ai carabinieri iscritti nel registro per falso ideologico e materiale; per finire con la caduta di eroi simbolo dell’Arma come il colonnello Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “Capitano Ultimo” per aver arrestato Totò Riina, allontanato su due piedi lo scorso mese da una delle nostre agenzie di intelligence perché considerato improvvisamente «non più affidabile».
Leggendo le carte e le accuse dei magistrati - tutte ancora da provare - sembra che sul caso Consip l’Arma si sia spaccata a metà. Con il vertice della piramide impegnato a rovinare attraverso fughe di notizie insistite un’indagine giudiziaria che rischiava di compromettere l’immagine del Giglio magico di Matteo Renzi, e la base - rappresentata dagli investigatori del Noe - concentrata al contrario a costruire prove false pur di inchiodare Tiziano Renzi, il padre del segretario del Pd.
Un cortocircuito mai visto nel Corpo, un disastro giudiziario e mediatico che ha indebolito ancor di più la posizione del numero uno Tullio De Sette, indagato dallo scorso dicembre a Roma per favoreggiamento e divulgazione di segreto istruttorio, con l’accusa di aver fatto trapelare a soggetti terzi (come l’ex presidente della Consip Luigi Ferrara) l’indagine sulla stazione appaltante dello Stato su cui stavano lavorando i pm di Napoli.
Per lo stesso reato sono iscritti anche il ministro Luca Lotti e il generale Emanuele Saltalamacchia: il comandante della Legione Toscana, è stato accusato di aver spifferato informazioni segrete sia da Luigi Marroni (l’ex ad di Consip ha detto che era stato anche Saltalamacchia, suo amico, a dirgli «che il mio cellulare era sotto controllo») sia dall’ex sindaco Pd di Rignano sull’Arno Daniele Lorenzini. «Durante una cena a casa di Tiziano», ha specificato in una deposizione, «sentii Saltalamacchia» suggerire al papà dell’ex premier «di non frequentare un soggetto, di cui tuttavia non ho sentito il nome, perché era oggetto di indagine».
Se gli ultimi mesi sono stati difficilissimi, va evidenziato che Del Sette, nato 66 anni fa in Umbria, a Bevagna, era inviso a pezzi dell’Arma anche prima dell’iscrizione nei registri della procura, e che fonti del Comando generale non negano come molti generali, davanti ai guai giudiziari del loro capo, non si siano certo stracciati le vesti.
Già: il comandante generale, arrivato al posto di Leonardo Gallitelli all’inizio del 2015, è infatti stato giudicato fin da subito “troppo” vicino alla politica: anche se la lunga carriera dell’Arma ne faceva un candidato autorevole, in molti non gli perdonavano (e non gli perdonano) i sette anni in cui è stato capo ufficio legislativo del ministero della Difesa, sotto governi sia di destra sia di sinistra; né la scelta, nel 2014, di accettare la chiamata del ministro Roberta Pinotti, per diventarne capo di gabinetto. Non era mai accaduto prima che un carabiniere assumesse quell’incarico fiduciario.
A Del Sette viene poi contestato un carattere non facile. Se Gallitelli, mente fredda e raffinata, ha puntato su una guida inclusiva e meritocratica, seppur giudicata da alcuni troppo “curiale”, Del Sette ha preferito un comando verticistico, che per i critici ha finito con l’essere divisivo. «Del Sette è persona di grande valore, molto leale con le istituzioni. Ha lavorato bene con i ministri di ogni partito, come Martino, Parisi, anche con Ignazio La Russa.
Molte delle leggi vigenti portano la sua “firma”, compreso l’accorpamento del Corpo forestale ai carabinieri», spiega chi lo stima e ha lavorato con lui al dicastero della Difesa. «Cosa lo ha penalizzato negli ultimi tempi? Su Consip credo si sia trattato di un’ingenuità, e la sua posizione sarà archiviata. Al comando generale invece, non l’ha mai aiutato il suo carattere fumantino. È un uomo capace, che però si arrabbia facilmente. Soprattutto quando si convince che il suo interlocutore non rispetta le gerarchie e i ruoli che lui ha definito».
Del Sette viene definito sia dai suoi estimatori (che sono molti) sia dai suoi nemici (che sono ancor di più) un uomo schivo, persino timido, ma poco propenso alla mediazione. Appena nominato dai renziani a numero uno dei carabinieri, ha deciso in effetti di spazzare via la vecchia nomenclatura costruita in sei anni dal suo predecessore, scegliendo di andare allo scontro frontale con alcuni generali fedelissimi di Gallitelli. Molto stimati, però, dalla base dell’Arma.
Così, se il Capo di Stato maggiore Ilio Ciceri è stato sostituto da Vincenzo Maruccia (anche lui sentito come testimone dai pm di Roma per la vicenda Consip), e il generale Marco Minicucci è stato sottoutilizzato, un altro pezzo da novanta come Alberto Mosca ha dovuto cedere la poltrona di comandante della Legione Toscana a uno dei pupilli di Del Sette, proprio Saltalamacchia, dovendosi accontentare del comando della Legione Allievi Carabinieri.
Clamorosa poi la scelta del colonnello Roberto Massi: l’ex comandante dei Ros considerato uno degli ufficiali più brillanti dell’Arma, e promosso da Gallitelli capo dell’ufficio legislativo nel 2014, dopo una breve convivenza con Del Sette ha preferito fare armi e bagagli e trasferirsi all’Anas nel 2016. All’ente nazionale per le strade Massi ricopre l’incarico di “responsabile della tutela aziendale”. L’unico gallitelliano che è riuscito a stringere un patto di ferro con il comandante umbro è stato Claudio Domizi, ancora influente capo del personale del primo reparto.
«Le tensioni interne sono iniziate fin dal suo arrivo, ma sono peggiorate nel tempo. La crisi Consip le ha fatte solo esplodere», ragiona preoccupato un militare con le stellette, che considera i colleghi gallitelliani veri responsabili della spaccatura, perché nostalgici e incapaci di accettare il nuovo corso.
Tutti, però, mettono sul banco degli imputati anche il sistema della rotazione obbligatoria degli ufficiali (che costringe pure i carabinieri più esperti e capaci a cambiare reparto dopo due anni) e l’assenza di una vera meritocrazia interna. «Qualche tempo fa a Reggio Calabria durante un giuramento a passare in rassegna i reparti, oltre agli ufficiali, è stato anche un appuntato del Cocer, il sindacato interno dei carabinieri a cui Del Sette si è molto appoggiato dall’inizio del suo mandato», racconta uno degli scontenti «Forse a voi civili sembra una sciocchezza, ma nell’Arma è una cosa inverosimile, che ha fatto accapponare moltissime divise».
Ottimi rapporti con Maria Elena Boschi e lo stesso Lotti, qualche incontro con l’imprenditore renziano Marco Carrai (tra cui una cena a casa del compagno di Mara Carfagna, Alessandro Ruben, che ama invitare mimetiche e stellette nel suo salotto), Del Sette ha dovuto gestire anche la patata bollente del colonnello Sergio De Caprio, “Ultimo”.
L’attivismo “anarchico” dell’ex vice comandante del Noe (che ha collaborato con il pm John Woodcock a quasi tutte le inchieste più delicate degli ultimi anni su politica e potere, da quelle sulle tangenti di Finmeccanica alla P4 di Luigi Bisignani, passando dalle tangenti della Lega Nord a quelle sulla Cpl Concordia) non è mai stato amato dai piani alti della Benemerita.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è caduta proprio nel luglio del 2015, quando una delle intercettazioni del fascicolo sulla Cpl (una telefonata privata tra il generale della Finanza Michele Adinolfi e Matteo Renzi in cui il segretario del Pd definiva il suo predecessore Enrico Letta «un incapace») è finita in prima pagina sul “Fatto Quotidiano”.
Del Sette, dopo un mese di buriane politiche e polemiche infuocate, deciderà di firmare una circolare che toglie ai vicecomandanti dei reparti le funzioni di polizia giudiziaria. Una norma considerata da molti “contra personam”. «Continuerete la lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che le sostengono e contro quei servi sciocchi che, abusando delle attribuzioni che gli sono state conferite, prevaricano e calpestano le persone che avrebbero il dovere di aiutare e sostenere», polemizzò senza mezzi termini “Ultimo” in una lettera di saluto ai suoi uomini.
Poi grazie alla mediazione dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti e del capo dell’Aise Alberto Manenti, De Caprio a fine 2016 viene distaccato ai servizi segreti. Per la precisione all’ufficio Affari interni, quello che controlla gli 007 italiani che righino dritto.
Se malumori e dissapori sono una costante di ogni struttura gerarchica, la crisi dell’Arma supera i livelli di guardia a inizio del 2017. Alle indagini sulla fuga di notizie si aggiungono prima quelle sul capitano Gianpaolo Scafarto del Noe, accusato dai pm di Roma di aver falsificato le prove nell’informativa. Poi quelle al suo capo Alessandro Sessa, numero due del reparto, incolpato nientemeno per “depistaggio” per non aver detto la verità (questa l’ipotesi della procura) durante un’audizione con i magistrati.
Infine il tentativo di ritrattazione dello scorso giugno di Luigi Ferrara, il manager Consip che aveva tirato in ballo Del Sette come colui che lo aveva messo sull’avviso in merito a un’indagine giudiziaria sull’imprenditore Alfredo Romeo e la stessa Consip: dopo un confuso interrogatorio, in cui probabilmente il manager ha cercato di proteggere proprio Del Sette, i pm hanno iscritto anche Ferrara nel registro degli indagati. Per falsa testimonianza.
La crisi strutturale del corpo “Nei Secoli Fedele” ha toccato nuove vette qualche giorno fa, quando i pm romani hanno scoperto che Scafarto mandava documenti riservati sull’inchiesta Consip a ufficiali ex Noe traslocati con “Ultimo” ai servizi segreti. L’ipotesi investigativa è che questi stessero ancora collaborando alle indagini su Consip portate avanti dagli ex colleghi. “Ultimo” e tutti i suoi uomini (De Caprio aveva portato con se due dozzine di fedelissimi, di cui la gran parte provenienti dal Noe) sono stati così allontanati dal nuovo incarico, e sono rientrati nell’Arma.
Un allontanamento avvenuto senza accuse formali da parte della magistratura, e senza una richiesta esplicita di Manenti. È stato Marco Mancini, un alto funzionario del Dis (il dipartimento che coordina le agenzie d’intelligence) coinvolto in passato nel sequestro dell’imam Abu Omar a chiederne la testa. Dopo aver scoperto che Scafarto e gli investigatori del Noe, sempre nell’ambito dell’inchiesta Consip, lo avevano seguito e fotografato, mandando ai collaboratori di “Ultimo” all’Aise le risultanze dei loro appostamenti.
L’incarico di Del Sette terminerà il prossimo gennaio. Ed è probabile che il suo successore verrà nominato non dal governo Gentiloni, ma da quello che entrerà in carica dopo le elezioni politiche, previste per la prossima primavera. In pole position ci sono il numero uno del comando interregionale Ogaden Giovanni Nistri (romano, tre lauree, giornalista pubblicista, ex comandante del comando per la Tutela del patrimonio e direttore del Grande Progetto Pompei, che ha ottimi rapporti con il Pd) e il generale Riccardo Amato, numero uno della divisione Pastrengo ed esperto di antimafia, che gode dell’appoggio del Quirinale.
Subito dietro c’è Vincenzo Coppola (chiamato “il paracadutista”, una vita in prima linea nelle missioni di peacekeeping e da marzo promosso numero due dell’Arma), mentre il generale Ilio Ciceri e Riccardo Galletta, capo della Legione Sicilia, sembrano avere tutti i titoli necessari, ma meno chance. Il primo, considerato il miglior uomo macchina possibile, sconta il peccato di essere considerato un gallitelliano, mentre il secondo - all’inverso - un uomo di Del Sette. A chiunque toccherà, risollevare l’Arma non sarà impresa facile.
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