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Regeni, Nyt: “Da governo Usa a quello di Renzi prove sul ruolo dei servizi egiziani”. P.Chigi: “Nessun elemento di fatto”
di F. Q. | 16 agosto 2017
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Secondo il quotidiano statunitense "informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto sul fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso il ricercatore italiano" furono girate dallo staff di Obama all'esecutivo di Roma. La guerra dei servizi, il ruolo dell'Eni e i timori dell'allora ambasciatore italiano. Fonti dell'esecutivo Gentiloni: "Nessuna prova esplosiva". La madre: "Sempre più a lutto"
di F. Q. | 16 agosto 2017
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Più informazioni su: Barack Obama, Egitto, Eni, Giulio Regeni, Matteo Renzi, Usa
“Prove esplosive sul coinvolgimento degli apparati egiziani nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni. Prove raccolte dall’amministrazione Obama e girate al governo Renzi nelle settimane successive al ritrovamento del corpo”. La clamorosa rivelazione è riferita dal New York Times Magazine a 24 ore dall’annuncio del governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo, tra le proteste della famiglia del ricercatore italiano. Fonti di Palazzo Chigi hanno replicato sostenendo che, nei contatti tra amministrazione Usa e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’assassinio del ricercatore, non furono mai trasmessi “elementi di fatto”, come ricorda lo stesso giornalista del New York Times, né “tantomeno prove esplosive”.
Il corpo di Regeni fu ritrovato il 3 febbraio del 2016. Secondo la ricostruzione del New York Times, gli Stati Uniti acquisirono delle “informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto: prove del fatto che funzionari della sicurezza egiziana avevano rapito, torturato e ucciso” il ricercatore italiano e, “su raccomandazione del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono queste conclusioni al governo Renzi”. In un lungo articolo il giornalista Declan Walsh cita come fonti tre ex funzionari dell’amministrazione Obama. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana” e “non c’era dubbio”, ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero per intero le informazioni di intelligence, né dissero all’Italia quale agenzia di sicurezza ritenevano fosse dietro alla morte di Regeni, spiega ancora il giornale. “Non era chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, ucciderlo”, ha detto al giornalista del Nyt un altro ex funzionario Usa.
“Quello che gli americani sapevano per certo l’hanno detto agli italiani, cioè che la leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze intorno alla morte di Regeni”, scrive il giornale statunitense, citando poi altri virgolettati: “Non avevamo dubbi che questo fosse noto molto in alto”, dice uno dei funzionari dell’amministrazione Obama, aggiungendo che “non so se fossero responsabili. Ma sapevano. Loro sapevano”. Secondo l’articolo, alcuni funzionari di Obama erano convinti che qualcuno “di alto grado” del governo egiziano potesse avere ordinato l’uccisione di Regeni “per mandare un messaggio ad altri stranieri e governi stranieri, cioè di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto”.
Fra i retroscena ricostruiti dal New York Times Magazine, inoltre, uno parla di screzi interni allo Stato italiano. “Secondo un funzionario del ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano giunti alla conclusione che l’Eni“, che nell’agosto 2015 “aveva annunciato la scoperta del giacimento di gas di Zohr 120 miglia a nord della costa egiziana”, “si era unita alle forze del servizio di intelligence dell’Italia nel tentativo di trovare una rapida risoluzione del caso”, si legge. Del resto, ricorda l’articolo, “nel 2014 Renzi definì Eni “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, estera e di intelligence”.
Ma “l’avvertita collaborazione fra Eni e servizi di intelligence italiani diventò fonte di tensione all’interno del governo italiano. Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a essere prudenti gli uni con gli altri, talvolta trattenendo informazioni”. Al punto che un funzionario italiano citato avrebbe detto: “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani“. Per il giornale americano, inoltre, “i diplomatici sospettavano che le spie italiane, nel tentativo di chiudere il caso, avessero mediato per l’intervista fatta dal quotidiano La Repubblica ad Al Sisi il 16 marzo 2016, sei settimane dopo la morte di Regeni (il direttore Mario Calabresi, autore dell’intervista, afferma che la richiesta è partita dal giornale)”. In quella intervista il presidente egiziano aveva promesso “la verità” sulla morte. Otto giorni dopo furono uccisi cinque egiziani con precedenti penali e la polizia locale sostenne di aver trovato prove che li legavano all’omicidio Regeni. Compreso il passaporto del ricercatore, rinvenuto in un appartamento di uno dei membri della gang. Presto però la narrazione ufficiale fu smentita e lo scorso autunno il procuratore capo egiziano fece sapere che due ufficiali di polizia erano stati accusati di omicidio per aver sparato a sangue freddo ai cinque.
L’inchiesta dà conto anche dei timori dell’allora ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, che dopo la morte di Regeni “iniziò a preoccuparsi della sicurezza dell’ambasciata” e “smise di usare email e telefono per argomenti sensibili, ripiegando, per inviare messaggi a Roma, su una vecchia macchina per la crittografia. I rappresentati italiani temevano che gli egiziani che lavoravano in ambasciata passassero informazioni alle forze di sicurezza egiziane. Notarono che le luci erano sempre spente in un appartamento davanti all’ambasciata, un buon posto dove piazzare un microfono direzionale. Massari, traumatizzato dalla memoria delle ferite sul corpo di Regeni, era diventato un recluso e evitava incontri con gli altri diplomatici”. Nell’aprile 2016 l’ambasciatore fu richiamato a Roma.
“Fiumicello, 15 agosto 2017, sempre più lutto!”, ha scritto su Facebook la sera di Ferragosto la madre di Giulio Regeni, Paola Deffendi. Il post è accompagnato dalle foto di una bandiera italiana a lutto, che Deffendi ha anche impostato l’immagine come foto del profilo.
di F. Q. | 16 agosto 2017
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/08 ... o/3796055/
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Gentiloni ci fa una doppia brutta figura. Primo perché all’epoca era il ministro degli Esteri del governo Renzi, secondo, oggi da premier italiano
le novità
Milano, 15 agosto 2017 - 20:51
Regeni, il New York Times: «Obama avvertì Renzi sulle responsabilità degli apparati egiziani». Palazzo Chigi: «Mai ricevuto le prove»
Lo scrive il New York Times in un articolo citando fonti dell’ex amministrazione Obama: «Prove che dimostravano» la responsabilità di «elementi della sicurezza egiziana»
di Davide Casati
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Sin dalle prime settimane seguenti alla morte di Giulio Regeni, l’amministrazione americana era entrata in possesso di «prove esplosive» sulle responsabilità degli apparati dello Stato egiziano nel rapimento, nella tortura e nell’uccisione del giovane italiano, e ha comunicato al governo italiano, con certezza assoluta, che i vertici del Cairo erano a conoscenza delle circostanze relative alla morte del ricercatore. A scriverlo è il New York Times in un lungo articolo dedicato proprio al caso del giovane italiano massacrato in Egitto nel 2016.
La rivelazione arriva il giorno successivo alla decisione del governo italiano di inviare di nuovo un ambasciatore al Cairo. La scelta ha causato una dura reazione da parte della famiglia Regeni, che l’ha definita una mossa che «calpesta la nostra dignità».
Il governo italiano, dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times, ha spiegato, tramite «fonti» citate dalle agenzie di stampa, di non aver mai ricevuto dagli Usa «elementi di fatto, né tantomeno “prove esplosive”», come peraltro correttamente indicato dall’articolo. «La collaborazione con la Procura di Roma — continuano le stesse fonti — in tutti questi mesi è stata piena e completa»: anche questo un dettaglio presente nell’inchiesta del Times.
Che cosa scrive esattamente il «New York Times»
Nella lunga e dettagliatissima inchiesta, firmata dal corrispondente dal Cairo Declan Walsh e pubblicata il 15 agosto, il New York Times ricostruisce con precisione — risalendo anche a messaggi privati — la vita di Giulio Regeni, il suo lavoro, i contatti in Egitto, le sue passioni. Fornisce anche un quadro delle tre agenzie di sicurezza e di intelligence egiziane — la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service, «l’equivalente egiziano della Cia» — che, se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come «in competizione tra loro». Il paragrafo che ha attirato maggiori attenzioni da parte del governo italiano è quello relativo alle informazioni raccolte dagli Stati Uniti e passate al governo italiano. «Nelle settimane successive alla morte di Regeni», si legge, «gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana». «“Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane”, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. “Non c’erano dubbi”», scrive il Times. Che continua: «Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di “bruciare” la propria fonte, gli americani non condivisero i materiali di intelligence, né dissero quale delle agenzie di sicurezza e intelligence ritenevano fosse dietro la morte di Regeni. “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”».
I nodi e i dubbi aperti
Il paragrafo del Times tocca alcuni punti molto importanti:
— l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
— nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
— i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
— anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).
La rabbia del dipartimento di Stato Usa
L’articolo del New York Times rivela che il caso Regeni — e le prove raccolte dagli Stati Uniti — furono alla base di una burrascosa conversazione avuta dall’allora segretario di Stato americano, John Kerry, con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Kerry — che pure «aveva la fama di trattare l’Egitto con i guanti bianchi» — approcciò duramente Shoukry, anche se non riuscì a determinare se questi stesse erigendo un muro di gomma o «semplicemente non fosse a conoscenza della verità». L’atteggiamento dell’amministrazione americana è cambiato radicalmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha già provveduto a ricevere Al Sisi.
I depistaggi e il ruolo di Massari
L’inchiesta del New York Times rivela anche che i magistrati italiani inviati al Cairo vennero «depistati ad ogni pie’ sospinto», e spiega come l’allora ambasciatore italiano Massari — angosciato dopo aver visto con i propri occhi il cadavere martoriato di Giulio: «la bocca spalancata, i capelli zuppi di sangue, l’orecchio destro mozzato, le ossa di spalle, piedi e polsi sbriciolate, un dente mancante e molti altri spezzati, le bruciature di sigaretta sulla pelle, le ferite profonde alla schiena», frutto di una tortura durata quattro giorni — iniziò a temere per la sicurezza dell’ambasciata. «Presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate», si legge, «ricorrendo ad una soluzione vecchio stile, per comunicare con Roma: una macchina che scriveva messaggi criptati su carta». Anche perché «si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane, e che in un appartamento posto accanto all’ambasciata, le cui luci erano costantemente spente», fosse stato piazzato quanto necessario per spiare le mosse dei rappresentanti italiani.
Il ruolo dell’Eni e le tensioni nel governo italiano
L’articolo del New York Times parla poi apertamente di fratture all’interno delle autorità italiane, alle prese anche con «altre priorità». «Le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la minaccia di Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo». Non solo: Eni — che poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto aveva annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas, Zohr, proprio al largo delle coste egiziane — entrò in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, ad di Eni, «parlò almeno tre volte con il presidente egiziano al Sisi» del caso Regeni. «Quella che veniva percepita come una collaborazione tra Eni e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensioni all’interno del governo italiano», scrive il Times. «Membri del ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni«. «Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani», spiega una delle fonti al quotidiano.
Le tesi sulla morte
L’articolo non offre risposte alla domanda che gli dà il titolo («Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?»). Registra però quattro teorie (insieme a molti dubbi). La prima: a causare la morte di Regeni ci sarebbe stata l’azione di apparati deviati dei Servizi egiziani, che avrebbero agito senza l’approvazione di Sisi. Secondo questa teoria, il presidente egiziano avrebbe saputo della morte di Regeni, ma non sarebbe responsabile di aver dato il suo via libera. Se così fosse, però — si chiede l’articolo — perché far ritrovare il corpo di Regeni, e non farlo svanire nel nulla? La seconda teoria, ventilata da Hossam Zaki, ex viceministro degli Esteri egiziano, è l’azione di «elementi esterni» nel tentativo di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia: «Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto», ha detto al Times. La terza teoria è che Regeni sia finito nel fuoco incrociato delle diverse agenzie di sicurezza e intelligence egiziane. La quarta teoria, «la più allarmante», è che la morte di Regeni fosse «un messaggio chiaro: il segnale che, sotto al Sisi, anche un occidentale poteva essere sottoposto» a torture brutali. «Alti rappresentanti del governo egiziano potrebbero aver ordinato la morte di Giulio» per «mandare un messaggio ai governi stranieri: piantatela di giocare con la sicurezza egiziana». Il che spiegherebbe un dettaglio rivelato al Times da una fonte a Roma: «Quando fu recuperato, il cadavere di Giulio era stato puntellato a un muro. “Volevano che venisse ritrovato?”».
15 agosto 2017 (modifica il 16 agosto 2017 | 08:00)
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http://www.corriere.it/cronache/17_agos ... 2341.shtml