Economia
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Re: Economia
Economia & Lobby | Di F. Q.
Fitch taglia il rating dell’Italia a BBB
“Paese ha fallito su riduzione del debito
Aumentati rischi politici e populismo”
Fitch ci ha declassati a:
Berlusconi, Berlusconi, Berlusconi.
Fitch taglia il rating dell’Italia a BBB
“Paese ha fallito su riduzione del debito
Aumentati rischi politici e populismo”
Fitch ci ha declassati a:
Berlusconi, Berlusconi, Berlusconi.
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Re: Economia
TIRO AL PICCIONE
Da Fitch fino a Moody's: così l'Italia è nel mirino
Il nostro Paese torna nel mirino delle agenzie di rating. Fitch ha tagliato il suo giudizio, portandolo da ’BBB+’ a ’BBB’ con outlook stabile. L'ultimo colpo all'Italia
Luca Romano - Sab, 22/04/2017 - 13:53
commenta
Il nostro Paese torna nel mirino delle agenzie di rating. Fitch ha tagliato il suo giudizio, portandolo da ’BBB+’ a ’BBB’ con outlook stabile.
Qualche mese fa l’agenzia di rating aveva rivista col segno negativo l’outlook legandolo all'ncertezza politica per l'esito del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre.
Adesso Fitch motiva il suo downgrade con la crescita debole e il ritardo nel risanamento dei conti e mette in guardia sull’escalation dei rischi politici legati all’ascesa dei populisti. Dopo il referendum istituzionale e le dimissioni del premier Matteo Renzi, anche Moody’s aveva abbassato da stabile a negativo l’outlook sul debito dell’Italia e aveva lasciato capire che il rating poteva essere rivisto da ’Baa2’ a valori inferiori. S&P per ora prende invece tempo e ha lasciato il merito di credito dell’Italia a ’Bbb-’ con prospettive stabili. Anche la canadese Dbrs, la quarta agenzia di rating al mondo, ha tagliato lo scorso gennaio il giudizio sull’Italia da ’A a ’BBB’ con outlook stabile.
Da Fitch fino a Moody's: così l'Italia è nel mirino
Il nostro Paese torna nel mirino delle agenzie di rating. Fitch ha tagliato il suo giudizio, portandolo da ’BBB+’ a ’BBB’ con outlook stabile. L'ultimo colpo all'Italia
Luca Romano - Sab, 22/04/2017 - 13:53
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Il nostro Paese torna nel mirino delle agenzie di rating. Fitch ha tagliato il suo giudizio, portandolo da ’BBB+’ a ’BBB’ con outlook stabile.
Qualche mese fa l’agenzia di rating aveva rivista col segno negativo l’outlook legandolo all'ncertezza politica per l'esito del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre.
Adesso Fitch motiva il suo downgrade con la crescita debole e il ritardo nel risanamento dei conti e mette in guardia sull’escalation dei rischi politici legati all’ascesa dei populisti. Dopo il referendum istituzionale e le dimissioni del premier Matteo Renzi, anche Moody’s aveva abbassato da stabile a negativo l’outlook sul debito dell’Italia e aveva lasciato capire che il rating poteva essere rivisto da ’Baa2’ a valori inferiori. S&P per ora prende invece tempo e ha lasciato il merito di credito dell’Italia a ’Bbb-’ con prospettive stabili. Anche la canadese Dbrs, la quarta agenzia di rating al mondo, ha tagliato lo scorso gennaio il giudizio sull’Italia da ’A a ’BBB’ con outlook stabile.
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Re: Economia
ALEGHER, ALEGHER,………(vecchio detto milanese)
22 apr 2017 16:05
SARA' IL "SETTEMBRE NERO" DEI CONTI
– MASSIMO GIANNINI: "LA MANOVRINA DI PRIMAVERA È DIVENTATO UN ANTIPASTO DELLA LEGGE DI BILANCIO. CI ASPETTA UN AUTUNNO INFERNALE, QUANDO I MILIARDI DA TROVARE SARANNO BEN 45
– PALAZZO CHIGI NON RIESCE A DECIDERE: RENZI ESERCITA UNA PRESA MICIDIALE SUL GOVERNO, CHE DIVENTERÀ TOTALE DOPO LE PRIMARIE DEL 30 APRILE…
Massimo Giannini per la Repubblica
L' unica cosa certa nella vita, diceva Beniamino Franklin, sono la morte e le tasse. Ma dieci giorni dopo il varo della "manovrina di primavera", famiglie e imprese non sanno ancora di che tasse devono morire. Né al Quirinale, né in Gazzetta ufficiale, c' è traccia di un testo che spieghi come il governo intenda mettere insieme i 3,4 miliardi che ci servono a evitare la procedura d' infrazione europea. Cos' hanno approvato quel martedì 11 aprile, in Consiglio dei ministri, resta un mistero misterioso.
A un crescente deficit pubblico (da riportare quest' anno sotto il tetto del 2,1%) si somma così un inquietante deficit informativo. Ma non è cattiveria, e neanche imperizia. È semplicemente incoscienza.
Camminiamo su un crinale pericolosissimo, come avvertono Bce e Fondo Monetario: la ripresa è molto fragile, il bilancio ancora instabile, il mercato sempre più volatile.
Ci aspetta un autunno infernale, quando i miliardi da trovare saranno ben 45 (tra 19,5 miliardi per correggere il disavanzo all' 1,2% e disinnescare le clausole di salvaguardia sull' Iva, 10 miliardi per le "spese indifferibili", a partire dalle missioni militari, più tutte le misure di "sviluppo", dal cuneo fiscale in poi). E nonostante il "settembre nero" che ci aspetta, alla politica non bastano dieci giorni per trovare un accordo sulle misure da infilare in quello che doveva essere un "decretino- tampone" di pochi commi, e che invece si sta trasformando in un mostruoso "decretone-omnibus" da una settantina di articoli (con il vivo ma inutile disappunto costituzionale del Capo dello Stato).
Una zuppa di balzelli e prebende di ogni genere (dalla ricostruzione per il terremoto alla concessione per il Gratta&Vinci, dallo split payment per i fornitori dello Stato alla maxi-multa per i "portoghesi" sugli autobus). E se queste sono le premesse, c' è da temere il peggio per quello che accadrà quando il provvedimento andrà in pasto al Parlamento, che in piena campagna elettorale per le amministrative dell' 11 giugno avrà sessanta giorni per convertirlo, e quindi per infarcirlo delle rituali mancette a uso e consumo di lobby e cacicchi locali.
Questa incredibile confusione programmatica del governo non nasce per caso. Riflette l' intollerabile pressione politica del Pd. Lo scontro in atto tra tecnici e politici ha ormai raggiunto vette sublimi (se la caduta successiva non fosse inevitabilmente rovinosa per noi cittadini). Il ministro del Tesoro Padoan, domenica scorsa, ha azzardato uno scambio solenne: lasciamo che dal 2018 scatti almeno una parte degli aumenti Iva previsti dalle clausole di salvaguardia (magari quelli sull' aliquota massima, dal 22 al 25%), e con il ricavato ci finanziamo un robusto taglio del cuneo fiscale (cioè meno tasse e contributi sui salari).
Un' idea ardita, per tre buone ragioni: il problema della mancata crescita italiana non deriva dalla qualità dell' offerta ma dalla scarsità della domanda, aumentare l' imposta sul valore aggiunto non aiuta i consumi anche se non penalizza le esportazioni, e infine non è affatto detto che faccia salire un po' l' inflazione, e quindi contenga il costo degli interessi sul debito in rapporto al Pil nominale. Ma insomma, un' idea sulla quale riflettere (tanto più che a certificarne la validità dottrinaria sono istituzioni come Bankitalia e Ocse).
A Matteo Renzi sono bastate ventiquattrore, per affossare Padoan e la sua proposta. "Il Pd le tasse non le aumenta e non le aumenterà: abbiamo rottamato Dracula". E al ministro ne sono bastate altre dodici, per procedere a una disonorevole ritirata: "Nessun aumento Iva: il governo si è impegnato a sostituire l' incremento delle imposte con misure alternative dal lato delle spese e delle entrate". Insomma: eravamo su scherzi a parte.
Al di là delle facili ironie, questo ennesimo gioco al massacro conferma due cose. La prima: Renzi esercita una presa micidiale sul governo, che diventerà totale dopo le primarie del 30 aprile. La seconda: il "manovrone d' autunno" o sarà uno leggero spot elettorale leggero come una piuma (che stavolta ci può costare una vera rottura con l' Europa) o dovrà diventare una "Finanziaria pesante", ma in quel caso coinciderà con il voto anticipato perché le spalle esili di Gentiloni non possono reggerne il peso politico.
L' ex premier, e già neo-segretario in pectore del Partito democratico, per ora si mantiene nel solco della leggerezza. L' ha detto chiaramente, perché l' amico Paolo intenda. Di qui a settembre, nessuno si azzardi a parlare di lacrime e sangue o di buchi di bilancio da riempire. Al contrario, "abbiamo lasciato un bel tesoretto da 47,5 miliardi" da spendere (peccato che si tratti di cifre virtuali di qui al 2032, e che gli investimenti fissi lordi pubblici nel 2016 siano calati del 5,1% perché i 18 miliardi di "flessibilità" concessi dalla Ue li abbiamo sprecati per finanziare bonus a pioggia). E nessuno si azzardi a obbedire ai diktat europei.
Al contrario, a Bruxelles ci dobbiamo andare "a gomiti larghi" (peccato che quando ci abbiamo provato, senza tessere prima le alleanze necessarie, poi abbiamo pagato un conto salato, come dimostra la manovrina primaverile necessaria per rimediare ai bagordi invernali).
Resta da capire che succede in Francia, nell' urna insanguinata dal terrore. Se vincono Macron o Fillon, fermando l' onda sovranista, Renzi andrà dritto a elezioni anticipate, per presentarsi alla sfida d' autunno con un governo investito del mandato popolare e nel pieno delle sue funzioni (al pari di quello francese e di quello tedesco). E a dispetto delle smentite di rito, non potrà che essere un "governo nazareno", che dopo il voto riunisce in coalizione le due debolezze Pd-Forza Italia.
Se invece vince la Le Pen, allora l' Europa chiude i battenti e l' Italia apre le porte a un "governo grillo- leghista", che ci regalerà tragicomiche "monete fiscali" e cervellotiche "flat tax", migranti immediatamente espulsi nella troposfera e redditi di cittadinanza allegramente spesati con i vitalizi dei parlamentari. Parafrasando la legge di Murphy: comunque vada, andrà male.
22 apr 2017 16:05
SARA' IL "SETTEMBRE NERO" DEI CONTI
– MASSIMO GIANNINI: "LA MANOVRINA DI PRIMAVERA È DIVENTATO UN ANTIPASTO DELLA LEGGE DI BILANCIO. CI ASPETTA UN AUTUNNO INFERNALE, QUANDO I MILIARDI DA TROVARE SARANNO BEN 45
– PALAZZO CHIGI NON RIESCE A DECIDERE: RENZI ESERCITA UNA PRESA MICIDIALE SUL GOVERNO, CHE DIVENTERÀ TOTALE DOPO LE PRIMARIE DEL 30 APRILE…
Massimo Giannini per la Repubblica
L' unica cosa certa nella vita, diceva Beniamino Franklin, sono la morte e le tasse. Ma dieci giorni dopo il varo della "manovrina di primavera", famiglie e imprese non sanno ancora di che tasse devono morire. Né al Quirinale, né in Gazzetta ufficiale, c' è traccia di un testo che spieghi come il governo intenda mettere insieme i 3,4 miliardi che ci servono a evitare la procedura d' infrazione europea. Cos' hanno approvato quel martedì 11 aprile, in Consiglio dei ministri, resta un mistero misterioso.
A un crescente deficit pubblico (da riportare quest' anno sotto il tetto del 2,1%) si somma così un inquietante deficit informativo. Ma non è cattiveria, e neanche imperizia. È semplicemente incoscienza.
Camminiamo su un crinale pericolosissimo, come avvertono Bce e Fondo Monetario: la ripresa è molto fragile, il bilancio ancora instabile, il mercato sempre più volatile.
Ci aspetta un autunno infernale, quando i miliardi da trovare saranno ben 45 (tra 19,5 miliardi per correggere il disavanzo all' 1,2% e disinnescare le clausole di salvaguardia sull' Iva, 10 miliardi per le "spese indifferibili", a partire dalle missioni militari, più tutte le misure di "sviluppo", dal cuneo fiscale in poi). E nonostante il "settembre nero" che ci aspetta, alla politica non bastano dieci giorni per trovare un accordo sulle misure da infilare in quello che doveva essere un "decretino- tampone" di pochi commi, e che invece si sta trasformando in un mostruoso "decretone-omnibus" da una settantina di articoli (con il vivo ma inutile disappunto costituzionale del Capo dello Stato).
Una zuppa di balzelli e prebende di ogni genere (dalla ricostruzione per il terremoto alla concessione per il Gratta&Vinci, dallo split payment per i fornitori dello Stato alla maxi-multa per i "portoghesi" sugli autobus). E se queste sono le premesse, c' è da temere il peggio per quello che accadrà quando il provvedimento andrà in pasto al Parlamento, che in piena campagna elettorale per le amministrative dell' 11 giugno avrà sessanta giorni per convertirlo, e quindi per infarcirlo delle rituali mancette a uso e consumo di lobby e cacicchi locali.
Questa incredibile confusione programmatica del governo non nasce per caso. Riflette l' intollerabile pressione politica del Pd. Lo scontro in atto tra tecnici e politici ha ormai raggiunto vette sublimi (se la caduta successiva non fosse inevitabilmente rovinosa per noi cittadini). Il ministro del Tesoro Padoan, domenica scorsa, ha azzardato uno scambio solenne: lasciamo che dal 2018 scatti almeno una parte degli aumenti Iva previsti dalle clausole di salvaguardia (magari quelli sull' aliquota massima, dal 22 al 25%), e con il ricavato ci finanziamo un robusto taglio del cuneo fiscale (cioè meno tasse e contributi sui salari).
Un' idea ardita, per tre buone ragioni: il problema della mancata crescita italiana non deriva dalla qualità dell' offerta ma dalla scarsità della domanda, aumentare l' imposta sul valore aggiunto non aiuta i consumi anche se non penalizza le esportazioni, e infine non è affatto detto che faccia salire un po' l' inflazione, e quindi contenga il costo degli interessi sul debito in rapporto al Pil nominale. Ma insomma, un' idea sulla quale riflettere (tanto più che a certificarne la validità dottrinaria sono istituzioni come Bankitalia e Ocse).
A Matteo Renzi sono bastate ventiquattrore, per affossare Padoan e la sua proposta. "Il Pd le tasse non le aumenta e non le aumenterà: abbiamo rottamato Dracula". E al ministro ne sono bastate altre dodici, per procedere a una disonorevole ritirata: "Nessun aumento Iva: il governo si è impegnato a sostituire l' incremento delle imposte con misure alternative dal lato delle spese e delle entrate". Insomma: eravamo su scherzi a parte.
Al di là delle facili ironie, questo ennesimo gioco al massacro conferma due cose. La prima: Renzi esercita una presa micidiale sul governo, che diventerà totale dopo le primarie del 30 aprile. La seconda: il "manovrone d' autunno" o sarà uno leggero spot elettorale leggero come una piuma (che stavolta ci può costare una vera rottura con l' Europa) o dovrà diventare una "Finanziaria pesante", ma in quel caso coinciderà con il voto anticipato perché le spalle esili di Gentiloni non possono reggerne il peso politico.
L' ex premier, e già neo-segretario in pectore del Partito democratico, per ora si mantiene nel solco della leggerezza. L' ha detto chiaramente, perché l' amico Paolo intenda. Di qui a settembre, nessuno si azzardi a parlare di lacrime e sangue o di buchi di bilancio da riempire. Al contrario, "abbiamo lasciato un bel tesoretto da 47,5 miliardi" da spendere (peccato che si tratti di cifre virtuali di qui al 2032, e che gli investimenti fissi lordi pubblici nel 2016 siano calati del 5,1% perché i 18 miliardi di "flessibilità" concessi dalla Ue li abbiamo sprecati per finanziare bonus a pioggia). E nessuno si azzardi a obbedire ai diktat europei.
Al contrario, a Bruxelles ci dobbiamo andare "a gomiti larghi" (peccato che quando ci abbiamo provato, senza tessere prima le alleanze necessarie, poi abbiamo pagato un conto salato, come dimostra la manovrina primaverile necessaria per rimediare ai bagordi invernali).
Resta da capire che succede in Francia, nell' urna insanguinata dal terrore. Se vincono Macron o Fillon, fermando l' onda sovranista, Renzi andrà dritto a elezioni anticipate, per presentarsi alla sfida d' autunno con un governo investito del mandato popolare e nel pieno delle sue funzioni (al pari di quello francese e di quello tedesco). E a dispetto delle smentite di rito, non potrà che essere un "governo nazareno", che dopo il voto riunisce in coalizione le due debolezze Pd-Forza Italia.
Se invece vince la Le Pen, allora l' Europa chiude i battenti e l' Italia apre le porte a un "governo grillo- leghista", che ci regalerà tragicomiche "monete fiscali" e cervellotiche "flat tax", migranti immediatamente espulsi nella troposfera e redditi di cittadinanza allegramente spesati con i vitalizi dei parlamentari. Parafrasando la legge di Murphy: comunque vada, andrà male.
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Re: Economia
DOSSIER
Banche in pericolo, così i piccoli e medi istituti rischiano il crack
Due istituti su tre tra quelli minori non hanno i conti a posto. Uno studio di R&S Mediobanca sui bilanci del 2015 svela quali sono
DI GIUSEPPE ODDO
24 aprile 2017
1
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Banche in pericolo, così i piccoli e medi istituti rischiano il crack
Sembra di stare in un campo minato. I dati che emergono da uno studio di R&S su 377 banche "minori” con attivi inferiori a 5 miliardi mettono i brividi. Sono per la maggior parte banche di credito cooperativo e, in misura minore, banche popolari e società per azioni, vigilate in modo indiretto dalla Banca centrale europea attraverso Banca d’Italia.
Sono quegli istituti che dovrebbero sostenere l’economia dei territori, erogando il credito alle piccole e piccolissime imprese. Di fatto le centinaia di piccole banche sparse per l’Italia sono strumenti di potere sempre più spesso autoreferenziali e collusi con i partiti, che se ne servono per alimentare su scala locale i loro interessi affaristico-clientelari. Ed è proprio la commistione tra banche, politica e affari (lo stesso tarlo che ha divorato Monte dei Paschi) ad avere messo in ginocchio decine di piccoli istituti salvati a un passo dal baratro con i soldi dei contribuenti.
Mancati crack e salvataggi
Sono passati diciassette mesi dai salvataggi di Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, che hanno incenerito i risparmi di decine di migliaia di famiglie. E nonostante il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, dispensi ottimismo - dichiarando: «La crisi delle banche non esiste, esistono banche in crisi» - i numeri che pubblichiamo sono tutto tranne che rassicuranti. Almeno per i piccoli investitori.
Il 66 per cento delle banche del campione è considerato a rischio: un terzo abbondante a rischio elevato e oltre un quarto mediamente rischioso . Le banche a basso rischio rappresentano il 34 per cento, la minoranza.
Per determinare il livello di rischio, il parametro più frequentemente utilizzato è il rapporto tra crediti deteriorati netti e patrimonio netto tangibile. Quando il rapporto supera il 100 per cento l’equilibrio patrimoniale della banca comincia ad essere compromesso.
PRECISO CHE LA REPLICA DI FEDERCASSE E LA NOSTRA RISPOSTA
Stando a questo indicatore, il peggiore istituto in assoluto è Banca di Teramo, con crediti deteriorati netti pari a quasi otto volte il patrimonio netto tangibile e sofferenze non garantite pari a più di due terzi i mezzi propri: un fallimento evitato per un soffio nel 2016 attraverso l’incorporazione di Banca di Teramo in Banca di Castiglione Messer Raimondo e Pianella, oggi prima Bcc dell’Abruzzo.
L'accusa arriva dai risparmiatori dell'istituto. E le carte lo dimostrano: la vigilanza aveva in mano i documenti da cui emergeva lo stato dei conti. Ma il piano per salvare la situazione dal tracollo è stato un flop
Nella “rossa” Romagna, sorte simile è toccata a Cassa di risparmio di Cesena, una Spa con poco meno di mille dipendenti, oltre 13mila azionisti, attivi per più di 4 miliardi e crediti deteriorati netti pari a sei volte il patrimonio netto tangibile. Nel 2015 CariCesena ha svalutato crediti per un importo pari a due volte e mezzo i ricavi, chiudendo il bilancio con 252 milioni di perdite, e ha quasi azzerato il valore delle proprie azioni, mandando in fumo i risparmi dei soci. È stata salvata dal crack nel 2016 dal Fondo interbancario di tutela dei depositi.
Altre banche emiliano-romagnole sono cadute nel gorgo delle sofferenze: Banca Carim, la Spa con 3,7 miliardi di attivi posseduta al 56 per cento da Fondazione Cassa di risparmio di Rimini e per il resto da 7.600 soci. Tra il 2010 e il 2011, l’istituto è stato commissariato per gravi irregolarità di gestione e forti perdite patrimoniali. Negli anni seguenti ha incorporato Banca etica adriatica. E nel 2015 il suo patrimonio netto è risultato di circa due volte e mezzo inferiore ai crediti deteriorati. Non solo: Carim ha svalutato crediti inesigibili per un ammontare pari all’80 per cento dei ricavi.
Banco Emiliano, 1,6 miliardi di attivi, 1.600 piccoli azionisti, nato nel 2013 dalla fusione tra Banca di Cavola e Sassuolo e Banca Reggiana, aveva nel 2015 crediti deteriorati netti pari a una volta e mezzo il patrimonio netto tangibile e ingenti perdite su crediti. Tra il 2016 e il 2017 l’istituto ha prima cambiato nome in Banco di credito Emiliano per poi farsi incorporare dalla bolognese Emil Banca (attivi per altri 2,8 miliardi). La firma dell’atto di fusione è di circa un mese fa. La nuova Emil Banca, operativa dal primo aprile con 44mila soci e 700 dipendenti, è oggi una delle maggiori banche di credito cooperativo del Nord. Ma l’operazione è potuta avvenire grazie all’intervento del Fondo temporaneo istituito con legge di riforma del governo Renzi per le Bcc in difficoltà.
È a rischio anche la ferrarese Banca di Forlì, che confluirà nella Bcc ravennate e imolese. L’operazione è stata autorizzata da Banca d’Italia il 21 marzo. I crediti deteriorati netti di Banca di Forlì, che ha chiuso in perdita gli ultimi tre esercizi, sono il triplo del suo patrimonio netto, e nel 2015 ne ha svalutati per un ammontare pressoché pari ai ricavi.
Faro acceso su ChiantiBanca
Segnali d’allarme arrivano anche dalla Toscana. Cassa di San Miniato, la Spa con 3,3 miliardi di attivi di cui è amministratore delegato Divo Gronchi, ha crediti deteriorati netti pari a più del triplo del patrimonio netto tangibile e una quota elevata di tali crediti (il 46 per cento dei mezzi propri) non è assistita da garanzie. L’altra faccia della medaglia, che giustifica in parte l’ammontare delle sofferenze, sono gli elevati prestiti alla clientela, che rappresentano più dei due terzi dell’attivo della San Miniato.
La crisi dei grandi gruppi ha messo in secondo piano i guai delle banche popolari, di credito cooperativo e rurali sparse per il territorio. I cui bilanci spesso sono preoccupanti. Scopri con il nostro motore di ricerca qual è lo stato di salute dell'istituto che conserva i tuoi risparmi e investimenti
ChiantiBanca, presieduta da Lorenzo Bini Smaghi (ex comitato esecutivo Bce), è annoverata tra i 107 istituti mediamente rischiosi. Con 2,7 miliardi di attivi, la banca ha crediti deteriorati netti pari al patrimonio netto tangibile, sofferenze non garantite pari all’11 per cento dei mezzi propri e ha svalutato crediti per una somma pari al 41 per cento dei ricavi. ChiantiBanca nel 2012 ha rilevato il Credito cooperativo fiorentino (per la cui insolvenza l’ex presidente e parlamentare di centrodestra, Denis Verdini, è stato condannato a nove anni). E nel 2016 ha incorporato anche Banca di Pistoia e Banca area pratese.
Al termine di un’ispezione della vigilanza, che ha passato al setaccio le operazioni precedenti l’arrivo di Bini Smaghi, il direttore generale e cinque amministratori di ChiantiBanca hanno dovuto dimettersi. La vicenda ha scosso i risparmiatori toscani, già scottati dai dissesti di Etruria e Monte dei Paschi. Così, nell’imminenza dell’assemblea del 14 maggio prossimo per l’approvazione del bilancio 2016, il presidente ha scritto agli azionisti, rassicurandoli sulla solidità dell’istituto. ChiantiBanca ha chiuso infatti il passato esercizio con una perdita di 90 milioni per rettifiche su crediti, anche se il risultato operativo è stato positivo per 33,5 milioni.
Nella lista degli istituti a rischio c’è anche Banca Cambiano 1884, una Spa con 3,7 miliardi di attivi, crediti deteriorati netti pari al patrimonio netto tangibile e rettifiche su crediti pari al 59 per cento dei ricavi. Direzione generale a Castelfiorentino, la Cambiano ha incorporato di recente la bolognese Banca Agci (dell’Associazione generale delle cooperative italiane) ed è considerata vicina a Matteo Renzi. Dopo avere concesso al segretario del Pd un mutuo per le amministrative del 2009, ha fatto da banca d’appoggio per la raccolta fondi per le primarie del 2012. Oltre tutto la filiale di Firenze è diretta da Marco Lotti, padre dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio e attuale ministro per lo Sport, Luca Lotti, fedelissimo di Renzi.
Dal Veneto alla Puglia
In Veneto la maglia nera spetta a Banca Atestina. Il piccolo istituto di Padova con 400 milioni di attivi ha crediti deteriorati per tre volte e mezzo il patrimonio netto e svalutazioni per quasi tre volte i ricavi. È stato salvato nel 2016 grazie alla fusione con la trevigiana Banca Prealpi.
Pressoché analoga per dimensione e rischiosità è la Cassa rurale della Valle dei Laghi, nella provincia autonoma di Trento, incorporata nel 2016 nella Cassa rurale Alto Adige.
Tra le banche a più alto rischio, sempre in provincia di Trento, c’è la Cassa rurale di Rovereto, 1,1 miliardi di attivi, crediti deteriorati netti pari a circa due volte e mezzo il patrimonio netto tangibile, sofferenze non coperte da garanzie pari al 28,5 per cento dei mezzi propri e rettifiche su crediti superiori di una volta e mezzo i ricavi.
E tra le piccole realtà del Sud va citata Banca popolare di Puglia e Basilicata (Bppb), a capo della quale ritroviamo quel Vincenzo De Bustis passato agli annali per avere venduto a Monte dei Paschi nel 2000, alla modica cifra di 2.500 miliardi di lire, Banca del Salento. Bppb, 4,1 miliardi di attivi, ha crediti deteriorati netti superiori di una volta abbondante al patrimonio netto tangibile e sofferenze non garantite pari al 10 per cento dei mezzi propri.
La fregatura dei bond subordinati
Un altro interessante parametro di rischiosità è il rapporto tra strumenti ibridi e capitale di vigilanza: il capitale minimo che una banca deve avere per soddisfare i requisiti di vigilanza prudenziale stabiliti dalla Bce. Gli strumenti ibridi comprendono le obbligazioni subordinate che la vigilanza considera quasi capitale, includendole nella valutazione di sicurezza patrimoniale della banca. Il problema è che questi strumenti ricadono nella norma sul bail in che impone anche ai privati di farsi carico del salvataggio di una banca secondo un ordine prestabilito: azionisti, obbligazionisti subordinati, obbligazionisti senior e correntisti con più di 100 mila euro di depositi. I bond subordinati possono dunque essere convertiti in azioni il cui valore può essere abbattuto, fino al completo azzeramento, per coprire le perdite e ricostituire il capitale della banca. E quanto più è alta nel capitale di vigilanza la percentuale di strumenti ibridi tanto più è alto il rischio per il risparmiatore di perdere l’investimento.
Secondo R&S, l’incidenza di strumenti ibridi è altissima nel caso di Cassa di Cesena, il 54 per cento. Supera il 30 per cento nei casi di Credito salernitano, Cassa di San Miniato, Banca di Frascati, Bcc di Cagliari, Ubae e Banca di Castel Goffredo. Ed è compresa tra il 20 per cento e il 30 per cento nel caso di altre dodici banche, tra cui - con una quota superiore al 25 per cento - Cassa Raiffeisen di Nova Levante, Bcc del veneziano, Cassa rurale di Rovereto, Bcc Toniolo-Genzano di Roma, Cassa rurale valli di Primiero e Vanoi e Banca del Fucino.
Come si sono potute infrangere soglie di rischio così elevate? Il governatore Visco addebita la crescita dei crediti deteriorati alla recessione che ha colpito il paese tra il 2009 e il 2013 con una caduta del 10 per cento del Pil e di un quarto della produzione industriale. Le banche territoriali hanno subito in particolare gli effetti della crisi edilizia, che ha portato al fallimento molti debitori. La verità, però, risiede anche nei metodi di erogazione del credito: nei finanziamenti alle imprese vicine alla politica, nell’uso spregiudicato del denaro da parte di amministratori legati alle cricche affaristiche locali. Come ha operato la banca centrale? La vigilanza ha denunciato le irregolarità? Alcune banche locali sono state ispezionate più volte, ma a far scattare l’allarme sono stati spesso gruppi di piccoli azionisti. Altre volte è stata la magistratura a scoprire il marcio. Sono decenni che Bankitalia arriva ultima sul luogo del delitto. L’esperienza dimostra che le fusioni tra banche dissestate e banche sane possono rinviare e ingigantire i problemi. C’è un male profondo da estirpare nel sistema bancario se vale ancora l’articolo 47 della Costituzione: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme».
Altrimenti altri crack potrebbero abbattersi sui piccoli investitori. E i numeri sono lì apposta, a ricordarcelo.
Aggiornamento 24 aprile
La replica di Federcasse e la nostra risposta sull'inchiesta
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BANCHE BANCHE POPOLARI BANCA D'ITALIA
© Riproduzione riservata 24 aprile 2017
http://espresso.repubblica.it/affari/20 ... =HEF_RULLO
Banche in pericolo, così i piccoli e medi istituti rischiano il crack
Due istituti su tre tra quelli minori non hanno i conti a posto. Uno studio di R&S Mediobanca sui bilanci del 2015 svela quali sono
DI GIUSEPPE ODDO
24 aprile 2017
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Banche in pericolo, così i piccoli e medi istituti rischiano il crack
Sembra di stare in un campo minato. I dati che emergono da uno studio di R&S su 377 banche "minori” con attivi inferiori a 5 miliardi mettono i brividi. Sono per la maggior parte banche di credito cooperativo e, in misura minore, banche popolari e società per azioni, vigilate in modo indiretto dalla Banca centrale europea attraverso Banca d’Italia.
Sono quegli istituti che dovrebbero sostenere l’economia dei territori, erogando il credito alle piccole e piccolissime imprese. Di fatto le centinaia di piccole banche sparse per l’Italia sono strumenti di potere sempre più spesso autoreferenziali e collusi con i partiti, che se ne servono per alimentare su scala locale i loro interessi affaristico-clientelari. Ed è proprio la commistione tra banche, politica e affari (lo stesso tarlo che ha divorato Monte dei Paschi) ad avere messo in ginocchio decine di piccoli istituti salvati a un passo dal baratro con i soldi dei contribuenti.
Mancati crack e salvataggi
Sono passati diciassette mesi dai salvataggi di Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, che hanno incenerito i risparmi di decine di migliaia di famiglie. E nonostante il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, dispensi ottimismo - dichiarando: «La crisi delle banche non esiste, esistono banche in crisi» - i numeri che pubblichiamo sono tutto tranne che rassicuranti. Almeno per i piccoli investitori.
Il 66 per cento delle banche del campione è considerato a rischio: un terzo abbondante a rischio elevato e oltre un quarto mediamente rischioso . Le banche a basso rischio rappresentano il 34 per cento, la minoranza.
Per determinare il livello di rischio, il parametro più frequentemente utilizzato è il rapporto tra crediti deteriorati netti e patrimonio netto tangibile. Quando il rapporto supera il 100 per cento l’equilibrio patrimoniale della banca comincia ad essere compromesso.
PRECISO CHE LA REPLICA DI FEDERCASSE E LA NOSTRA RISPOSTA
Stando a questo indicatore, il peggiore istituto in assoluto è Banca di Teramo, con crediti deteriorati netti pari a quasi otto volte il patrimonio netto tangibile e sofferenze non garantite pari a più di due terzi i mezzi propri: un fallimento evitato per un soffio nel 2016 attraverso l’incorporazione di Banca di Teramo in Banca di Castiglione Messer Raimondo e Pianella, oggi prima Bcc dell’Abruzzo.
L'accusa arriva dai risparmiatori dell'istituto. E le carte lo dimostrano: la vigilanza aveva in mano i documenti da cui emergeva lo stato dei conti. Ma il piano per salvare la situazione dal tracollo è stato un flop
Nella “rossa” Romagna, sorte simile è toccata a Cassa di risparmio di Cesena, una Spa con poco meno di mille dipendenti, oltre 13mila azionisti, attivi per più di 4 miliardi e crediti deteriorati netti pari a sei volte il patrimonio netto tangibile. Nel 2015 CariCesena ha svalutato crediti per un importo pari a due volte e mezzo i ricavi, chiudendo il bilancio con 252 milioni di perdite, e ha quasi azzerato il valore delle proprie azioni, mandando in fumo i risparmi dei soci. È stata salvata dal crack nel 2016 dal Fondo interbancario di tutela dei depositi.
Altre banche emiliano-romagnole sono cadute nel gorgo delle sofferenze: Banca Carim, la Spa con 3,7 miliardi di attivi posseduta al 56 per cento da Fondazione Cassa di risparmio di Rimini e per il resto da 7.600 soci. Tra il 2010 e il 2011, l’istituto è stato commissariato per gravi irregolarità di gestione e forti perdite patrimoniali. Negli anni seguenti ha incorporato Banca etica adriatica. E nel 2015 il suo patrimonio netto è risultato di circa due volte e mezzo inferiore ai crediti deteriorati. Non solo: Carim ha svalutato crediti inesigibili per un ammontare pari all’80 per cento dei ricavi.
Banco Emiliano, 1,6 miliardi di attivi, 1.600 piccoli azionisti, nato nel 2013 dalla fusione tra Banca di Cavola e Sassuolo e Banca Reggiana, aveva nel 2015 crediti deteriorati netti pari a una volta e mezzo il patrimonio netto tangibile e ingenti perdite su crediti. Tra il 2016 e il 2017 l’istituto ha prima cambiato nome in Banco di credito Emiliano per poi farsi incorporare dalla bolognese Emil Banca (attivi per altri 2,8 miliardi). La firma dell’atto di fusione è di circa un mese fa. La nuova Emil Banca, operativa dal primo aprile con 44mila soci e 700 dipendenti, è oggi una delle maggiori banche di credito cooperativo del Nord. Ma l’operazione è potuta avvenire grazie all’intervento del Fondo temporaneo istituito con legge di riforma del governo Renzi per le Bcc in difficoltà.
È a rischio anche la ferrarese Banca di Forlì, che confluirà nella Bcc ravennate e imolese. L’operazione è stata autorizzata da Banca d’Italia il 21 marzo. I crediti deteriorati netti di Banca di Forlì, che ha chiuso in perdita gli ultimi tre esercizi, sono il triplo del suo patrimonio netto, e nel 2015 ne ha svalutati per un ammontare pressoché pari ai ricavi.
Faro acceso su ChiantiBanca
Segnali d’allarme arrivano anche dalla Toscana. Cassa di San Miniato, la Spa con 3,3 miliardi di attivi di cui è amministratore delegato Divo Gronchi, ha crediti deteriorati netti pari a più del triplo del patrimonio netto tangibile e una quota elevata di tali crediti (il 46 per cento dei mezzi propri) non è assistita da garanzie. L’altra faccia della medaglia, che giustifica in parte l’ammontare delle sofferenze, sono gli elevati prestiti alla clientela, che rappresentano più dei due terzi dell’attivo della San Miniato.
La crisi dei grandi gruppi ha messo in secondo piano i guai delle banche popolari, di credito cooperativo e rurali sparse per il territorio. I cui bilanci spesso sono preoccupanti. Scopri con il nostro motore di ricerca qual è lo stato di salute dell'istituto che conserva i tuoi risparmi e investimenti
ChiantiBanca, presieduta da Lorenzo Bini Smaghi (ex comitato esecutivo Bce), è annoverata tra i 107 istituti mediamente rischiosi. Con 2,7 miliardi di attivi, la banca ha crediti deteriorati netti pari al patrimonio netto tangibile, sofferenze non garantite pari all’11 per cento dei mezzi propri e ha svalutato crediti per una somma pari al 41 per cento dei ricavi. ChiantiBanca nel 2012 ha rilevato il Credito cooperativo fiorentino (per la cui insolvenza l’ex presidente e parlamentare di centrodestra, Denis Verdini, è stato condannato a nove anni). E nel 2016 ha incorporato anche Banca di Pistoia e Banca area pratese.
Al termine di un’ispezione della vigilanza, che ha passato al setaccio le operazioni precedenti l’arrivo di Bini Smaghi, il direttore generale e cinque amministratori di ChiantiBanca hanno dovuto dimettersi. La vicenda ha scosso i risparmiatori toscani, già scottati dai dissesti di Etruria e Monte dei Paschi. Così, nell’imminenza dell’assemblea del 14 maggio prossimo per l’approvazione del bilancio 2016, il presidente ha scritto agli azionisti, rassicurandoli sulla solidità dell’istituto. ChiantiBanca ha chiuso infatti il passato esercizio con una perdita di 90 milioni per rettifiche su crediti, anche se il risultato operativo è stato positivo per 33,5 milioni.
Nella lista degli istituti a rischio c’è anche Banca Cambiano 1884, una Spa con 3,7 miliardi di attivi, crediti deteriorati netti pari al patrimonio netto tangibile e rettifiche su crediti pari al 59 per cento dei ricavi. Direzione generale a Castelfiorentino, la Cambiano ha incorporato di recente la bolognese Banca Agci (dell’Associazione generale delle cooperative italiane) ed è considerata vicina a Matteo Renzi. Dopo avere concesso al segretario del Pd un mutuo per le amministrative del 2009, ha fatto da banca d’appoggio per la raccolta fondi per le primarie del 2012. Oltre tutto la filiale di Firenze è diretta da Marco Lotti, padre dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio e attuale ministro per lo Sport, Luca Lotti, fedelissimo di Renzi.
Dal Veneto alla Puglia
In Veneto la maglia nera spetta a Banca Atestina. Il piccolo istituto di Padova con 400 milioni di attivi ha crediti deteriorati per tre volte e mezzo il patrimonio netto e svalutazioni per quasi tre volte i ricavi. È stato salvato nel 2016 grazie alla fusione con la trevigiana Banca Prealpi.
Pressoché analoga per dimensione e rischiosità è la Cassa rurale della Valle dei Laghi, nella provincia autonoma di Trento, incorporata nel 2016 nella Cassa rurale Alto Adige.
Tra le banche a più alto rischio, sempre in provincia di Trento, c’è la Cassa rurale di Rovereto, 1,1 miliardi di attivi, crediti deteriorati netti pari a circa due volte e mezzo il patrimonio netto tangibile, sofferenze non coperte da garanzie pari al 28,5 per cento dei mezzi propri e rettifiche su crediti superiori di una volta e mezzo i ricavi.
E tra le piccole realtà del Sud va citata Banca popolare di Puglia e Basilicata (Bppb), a capo della quale ritroviamo quel Vincenzo De Bustis passato agli annali per avere venduto a Monte dei Paschi nel 2000, alla modica cifra di 2.500 miliardi di lire, Banca del Salento. Bppb, 4,1 miliardi di attivi, ha crediti deteriorati netti superiori di una volta abbondante al patrimonio netto tangibile e sofferenze non garantite pari al 10 per cento dei mezzi propri.
La fregatura dei bond subordinati
Un altro interessante parametro di rischiosità è il rapporto tra strumenti ibridi e capitale di vigilanza: il capitale minimo che una banca deve avere per soddisfare i requisiti di vigilanza prudenziale stabiliti dalla Bce. Gli strumenti ibridi comprendono le obbligazioni subordinate che la vigilanza considera quasi capitale, includendole nella valutazione di sicurezza patrimoniale della banca. Il problema è che questi strumenti ricadono nella norma sul bail in che impone anche ai privati di farsi carico del salvataggio di una banca secondo un ordine prestabilito: azionisti, obbligazionisti subordinati, obbligazionisti senior e correntisti con più di 100 mila euro di depositi. I bond subordinati possono dunque essere convertiti in azioni il cui valore può essere abbattuto, fino al completo azzeramento, per coprire le perdite e ricostituire il capitale della banca. E quanto più è alta nel capitale di vigilanza la percentuale di strumenti ibridi tanto più è alto il rischio per il risparmiatore di perdere l’investimento.
Secondo R&S, l’incidenza di strumenti ibridi è altissima nel caso di Cassa di Cesena, il 54 per cento. Supera il 30 per cento nei casi di Credito salernitano, Cassa di San Miniato, Banca di Frascati, Bcc di Cagliari, Ubae e Banca di Castel Goffredo. Ed è compresa tra il 20 per cento e il 30 per cento nel caso di altre dodici banche, tra cui - con una quota superiore al 25 per cento - Cassa Raiffeisen di Nova Levante, Bcc del veneziano, Cassa rurale di Rovereto, Bcc Toniolo-Genzano di Roma, Cassa rurale valli di Primiero e Vanoi e Banca del Fucino.
Come si sono potute infrangere soglie di rischio così elevate? Il governatore Visco addebita la crescita dei crediti deteriorati alla recessione che ha colpito il paese tra il 2009 e il 2013 con una caduta del 10 per cento del Pil e di un quarto della produzione industriale. Le banche territoriali hanno subito in particolare gli effetti della crisi edilizia, che ha portato al fallimento molti debitori. La verità, però, risiede anche nei metodi di erogazione del credito: nei finanziamenti alle imprese vicine alla politica, nell’uso spregiudicato del denaro da parte di amministratori legati alle cricche affaristiche locali. Come ha operato la banca centrale? La vigilanza ha denunciato le irregolarità? Alcune banche locali sono state ispezionate più volte, ma a far scattare l’allarme sono stati spesso gruppi di piccoli azionisti. Altre volte è stata la magistratura a scoprire il marcio. Sono decenni che Bankitalia arriva ultima sul luogo del delitto. L’esperienza dimostra che le fusioni tra banche dissestate e banche sane possono rinviare e ingigantire i problemi. C’è un male profondo da estirpare nel sistema bancario se vale ancora l’articolo 47 della Costituzione: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme».
Altrimenti altri crack potrebbero abbattersi sui piccoli investitori. E i numeri sono lì apposta, a ricordarcelo.
Aggiornamento 24 aprile
La replica di Federcasse e la nostra risposta sull'inchiesta
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© Riproduzione riservata 24 aprile 2017
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Re: Economia
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Cremaschi: stanno svendendo l’Italia al miglior offerente
Scritto il 13/5/17 • nella Categoria: idee Condividi
Se l’amministratore di un’impresa privata decidesse di regalare beni aziendali e poi regalasse soldi a chi accettasse di appropriarsene, questo amministratore difficilmente riuscirebbe ad evitare il confronto col codice civile e penale. Invece i nostri governanti, amministratori dei beni di tutti, così si comportano con le nostre proprietà e con quelle altrui che finanziano. Per lo Stato, nell’economia debbono valere regole di svantaggio rispetto a qualsiasi grande azienda privata, così vuole l’Unione Europea e così i governanti che ad essa ubbidiscono. Ovviamente con la massima soddisfazione degli imprenditori privati, che si vedono regalate le aziende e che quando le mandano in malora possono fuggire e scaricare di nuovo tutto sullo Stato. Con quanti nostri soldi lo Stato italiano ha finanziato le privatizzazioni? Decine e decine, forse centinaia sono i miliardi spesi per privatizzare il patrimonio produttivo pubblico, nel nome della riduzione di un debito che non si è mai realizzata e di un maggiore efficienza mai ottenuta. Quanti miliardi sono stati regalati a imprenditori e multinazionali che poi hanno sfasciato le aziende?
Questa cifra non viene mai fornita ad una opinione pubblica martellata dalla campagna a favore delle svendite. Svendite come quella delle acciaierie di Piombino, che dopo una lunga trafila di fallimenti imprenditoriali, da Lucchini ai magnati russi, sono state regalate ad un imprenditore algerino che non si è mai fatto vedere. Quella che oggi è l’Ilva è stata regalata alla famiglia Riva dal governo e dall’Iri di Prodi. I Riva hanno accumulato per anni miliardi, poi sono crollati sotto il peso della crisi e dei danni ambientali. Lo Stato da allora finanzia l’azienda a fondo perduto, in attesa di svenderla a qualche multinazionale che saccheggerà ciò che è rimasto, farà un’ecatombe di licenziamenti e lascerà tutti i danni ambientali a carico della comunità e della spesa pubblica. Mentre fallivano in Ilva, i Riva venivano chiamati da Berlusconi a salvare l’Alitalia, assieme a Colaninno, Marcegaglia, Montezemolo e tanti altri bei nomi, tutti coordinati da Passera allora a capo di Banca Intesa. Tutta la crema della imprenditorialità e della finanza italiana ha mostrato il suo reale valore nella gestione della compagnia aerea. E il fallimento è stato totale, come quello del quotidiano che ufficialmente la rappresenta, il “Sole 24 Ore”.
Le poche grandi privatizzazioni che, per ora, non sono fallite hanno consegnato le eccellenze del sistema produttivo italiano, dalla Telecom all’Ansaldo, alle multinazionali. Multinazionali a cui si affidano le aziende private medie, non appena i loro vecchi titolari pensino al futuro, Luxottica insegna. La Fiat della famiglia Agnelli è un’azienda americana con sede legale in Olanda, mentre l’Olivetti non esiste più, è stata sacrificata da De Benedetti per realizzare l’Omnitel, che oggi appartiene alla Vodafone. Le banche, che in gran parte erano pubbliche, o sono già in possesso o sono in attesa di un compratore estero, partner si dice nel mondo bene. Quel sistema industriale e finanziario che era stato in grado di collocare il nostro paese tra quelli più sviluppati, e che si reggeva proprio per il peso ed il ruolo del sistema pubblico, è stato smantellato e svenduto pezzo dopo pezzo. E dopo il fallimento indecoroso della classe imprenditoriale italiana, quel sistema è ora terreno di caccia per tutti i venditori di Colosseo che parlino inglese.
Il vice di Renzi, Martina, ha sfacciatamente confessato che il governo non può nazionalizzare Alitalia, altrimenti dovrebbe fare altrettanto con tutte le aziende che dovessero chiudere. Che evidentemente sono tante per l’ingenuo ministro, che smentisce in tal modo l’ottimismo ufficiale del palazzo. Così, grazie alla fermezza autolesionista del governo, Lufthansa può far sapere di non essere interessata alla nostra compagnia aerea: deve solo aspettare la catastrofe finale dell’azienda e poi raccoglierne gratis i cocci. Lo stesso faranno le multinazionali dell’acciaio interessate all’Ilva: anch’esse devono solo attendere il disastro. Le privatizzazioni sono solo svendita di beni di tutti, una svendita pagata coi soldi di tutti. Non c’è nulla di più falso e in malafede che affermare che lo Stato non può più spendere i soldi dei cittadini per finanziare aziende in crisi. Perché la realtà dimostra che regalare le aziende pubbliche ai privati alla fine costa molto di più. Costa di più sul piano produttivo perché le aziende vanno peggio. Costa di più sul piano sociale per i nuovi disoccupati che si aggiungono ai tanti altri già esistenti. E costa di più perché il conto, per la spesa pubblica che deve riparare ai guasti del privato, è più alto oggi di quando le aziende erano in mano pubblica. Se l’amministratore di un condominio ruba si caccia lui, ma non si butta giù la casa. Le privatizzazioni han buttato giù la casa.
Gli articoli 41e 42 della nostra Costituzione hanno definito i vincoli a cui sono sottoposte la proprietà e l’iniziativa privata e gli spazi riservato all’intervento pubblico. Decenni di politiche liberiste sotto dettatura della Unione Europea hanno rovesciato nel loro opposto questi e tanti altri articoli della nostra Carta. Il privato deve avere tutto e il pubblico lo deve finanziare a fondo perduto. Si regalano 20 miliardi alle banche perché i loro futuri acquirenti non trovino troppe sofferenze, se ne sono versati altri 60 in sede europea per lo stesso scopo. Gentiloni promette a Trump di pagare la bolletta Nato, ma salvare Alitalia, Ilva, Piombino non si può, lì o ci pensa il mercato o si chiude. L’ideologia liberista è già insopportabile in sé, quando poi diventa la giustificazione per lo spreco dei soldi pubblici e per la distruzione del patrimonio industriale diventa un costo insostenibile. Dobbiamo ringraziare i lavoratori Alitalia che con il loro No hanno respinto l’ennesimo regalo ai privati, questa volta concesso agli sceicchi di Etihad, che non sono certo privi di mezzi propri. La nazionalizzazione di Alitalia, dell’Ilva, delle altre aziende strategiche in crisi è la sola via realistica per sottrarsi ai danni dell’incapacità imprenditoriale nazionale e della rapina multinazionale. Il resto è solo servilismo verso i poteri e gli interessi che vogliono il nostro paese in vendita. Low cost.
(Giorgio Cremaschi, “Nazionalizzare o svendere, l’economia italiana in mano ai migliori offerenti”, dall’“Huffington Post” del 28 aprile 2017).
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Cremaschi: stanno svendendo l’Italia al miglior offerente
Scritto il 13/5/17 • nella Categoria: idee Condividi
Se l’amministratore di un’impresa privata decidesse di regalare beni aziendali e poi regalasse soldi a chi accettasse di appropriarsene, questo amministratore difficilmente riuscirebbe ad evitare il confronto col codice civile e penale. Invece i nostri governanti, amministratori dei beni di tutti, così si comportano con le nostre proprietà e con quelle altrui che finanziano. Per lo Stato, nell’economia debbono valere regole di svantaggio rispetto a qualsiasi grande azienda privata, così vuole l’Unione Europea e così i governanti che ad essa ubbidiscono. Ovviamente con la massima soddisfazione degli imprenditori privati, che si vedono regalate le aziende e che quando le mandano in malora possono fuggire e scaricare di nuovo tutto sullo Stato. Con quanti nostri soldi lo Stato italiano ha finanziato le privatizzazioni? Decine e decine, forse centinaia sono i miliardi spesi per privatizzare il patrimonio produttivo pubblico, nel nome della riduzione di un debito che non si è mai realizzata e di un maggiore efficienza mai ottenuta. Quanti miliardi sono stati regalati a imprenditori e multinazionali che poi hanno sfasciato le aziende?
Questa cifra non viene mai fornita ad una opinione pubblica martellata dalla campagna a favore delle svendite. Svendite come quella delle acciaierie di Piombino, che dopo una lunga trafila di fallimenti imprenditoriali, da Lucchini ai magnati russi, sono state regalate ad un imprenditore algerino che non si è mai fatto vedere. Quella che oggi è l’Ilva è stata regalata alla famiglia Riva dal governo e dall’Iri di Prodi. I Riva hanno accumulato per anni miliardi, poi sono crollati sotto il peso della crisi e dei danni ambientali. Lo Stato da allora finanzia l’azienda a fondo perduto, in attesa di svenderla a qualche multinazionale che saccheggerà ciò che è rimasto, farà un’ecatombe di licenziamenti e lascerà tutti i danni ambientali a carico della comunità e della spesa pubblica. Mentre fallivano in Ilva, i Riva venivano chiamati da Berlusconi a salvare l’Alitalia, assieme a Colaninno, Marcegaglia, Montezemolo e tanti altri bei nomi, tutti coordinati da Passera allora a capo di Banca Intesa. Tutta la crema della imprenditorialità e della finanza italiana ha mostrato il suo reale valore nella gestione della compagnia aerea. E il fallimento è stato totale, come quello del quotidiano che ufficialmente la rappresenta, il “Sole 24 Ore”.
Le poche grandi privatizzazioni che, per ora, non sono fallite hanno consegnato le eccellenze del sistema produttivo italiano, dalla Telecom all’Ansaldo, alle multinazionali. Multinazionali a cui si affidano le aziende private medie, non appena i loro vecchi titolari pensino al futuro, Luxottica insegna. La Fiat della famiglia Agnelli è un’azienda americana con sede legale in Olanda, mentre l’Olivetti non esiste più, è stata sacrificata da De Benedetti per realizzare l’Omnitel, che oggi appartiene alla Vodafone. Le banche, che in gran parte erano pubbliche, o sono già in possesso o sono in attesa di un compratore estero, partner si dice nel mondo bene. Quel sistema industriale e finanziario che era stato in grado di collocare il nostro paese tra quelli più sviluppati, e che si reggeva proprio per il peso ed il ruolo del sistema pubblico, è stato smantellato e svenduto pezzo dopo pezzo. E dopo il fallimento indecoroso della classe imprenditoriale italiana, quel sistema è ora terreno di caccia per tutti i venditori di Colosseo che parlino inglese.
Il vice di Renzi, Martina, ha sfacciatamente confessato che il governo non può nazionalizzare Alitalia, altrimenti dovrebbe fare altrettanto con tutte le aziende che dovessero chiudere. Che evidentemente sono tante per l’ingenuo ministro, che smentisce in tal modo l’ottimismo ufficiale del palazzo. Così, grazie alla fermezza autolesionista del governo, Lufthansa può far sapere di non essere interessata alla nostra compagnia aerea: deve solo aspettare la catastrofe finale dell’azienda e poi raccoglierne gratis i cocci. Lo stesso faranno le multinazionali dell’acciaio interessate all’Ilva: anch’esse devono solo attendere il disastro. Le privatizzazioni sono solo svendita di beni di tutti, una svendita pagata coi soldi di tutti. Non c’è nulla di più falso e in malafede che affermare che lo Stato non può più spendere i soldi dei cittadini per finanziare aziende in crisi. Perché la realtà dimostra che regalare le aziende pubbliche ai privati alla fine costa molto di più. Costa di più sul piano produttivo perché le aziende vanno peggio. Costa di più sul piano sociale per i nuovi disoccupati che si aggiungono ai tanti altri già esistenti. E costa di più perché il conto, per la spesa pubblica che deve riparare ai guasti del privato, è più alto oggi di quando le aziende erano in mano pubblica. Se l’amministratore di un condominio ruba si caccia lui, ma non si butta giù la casa. Le privatizzazioni han buttato giù la casa.
Gli articoli 41e 42 della nostra Costituzione hanno definito i vincoli a cui sono sottoposte la proprietà e l’iniziativa privata e gli spazi riservato all’intervento pubblico. Decenni di politiche liberiste sotto dettatura della Unione Europea hanno rovesciato nel loro opposto questi e tanti altri articoli della nostra Carta. Il privato deve avere tutto e il pubblico lo deve finanziare a fondo perduto. Si regalano 20 miliardi alle banche perché i loro futuri acquirenti non trovino troppe sofferenze, se ne sono versati altri 60 in sede europea per lo stesso scopo. Gentiloni promette a Trump di pagare la bolletta Nato, ma salvare Alitalia, Ilva, Piombino non si può, lì o ci pensa il mercato o si chiude. L’ideologia liberista è già insopportabile in sé, quando poi diventa la giustificazione per lo spreco dei soldi pubblici e per la distruzione del patrimonio industriale diventa un costo insostenibile. Dobbiamo ringraziare i lavoratori Alitalia che con il loro No hanno respinto l’ennesimo regalo ai privati, questa volta concesso agli sceicchi di Etihad, che non sono certo privi di mezzi propri. La nazionalizzazione di Alitalia, dell’Ilva, delle altre aziende strategiche in crisi è la sola via realistica per sottrarsi ai danni dell’incapacità imprenditoriale nazionale e della rapina multinazionale. Il resto è solo servilismo verso i poteri e gli interessi che vogliono il nostro paese in vendita. Low cost.
(Giorgio Cremaschi, “Nazionalizzare o svendere, l’economia italiana in mano ai migliori offerenti”, dall’“Huffington Post” del 28 aprile 2017).
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Re: Economia
DAVANTI A QUESTE NOTIZIE GLI ITALIANI FANNO SPALLUCCE. AL MASSIMO DICONO:
"E IO C'AGGIA FA'"
Nuovo record per il debito pubblico: a marzo era di 2260 miliardi
Bankitalia fa i conti in tasca alle amministrazioni pubbliche: a marzo hanno raggiunto un debito pubblico di 2260,30 miliardi di euro
Franco Grilli - Lun, 15/05/2017 - 11:41
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Il debito pubblico italiano segna un nuovo record. Lo rileva la Banca d'Italia nel fascicolo "Finanza pubblica, fabbisogno e debito".
A marzo, infatti, il debito delle amministrazioni pubbliche è arrivato a 2.260,3 miliardi di euro, in aumento di 20,1 miliardi rispetto al mese precedente. L'incremento, spiega via Nazionale, è dovuto al fabbisogno mensile delle amministrazioni pubbliche (23,4 miliardi), parzialmente compensato dalla diminuzione delle disponibilità liquide del Tesoro (per 2,2 miliardi, a 54,6; erano pari a 70 miliardi alla fine di marzo 2016) e dall'effetto complessivo degli scarti e dei premi all'emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all'inflazione e della variazione del tasso di cambio (1,1 miliardi).
Con riferimento ai sottosettori, in particolare, il debito delle amministrazioni centrali è aumentato di 20,3 miliardi, quello degli enti locali è diminuito di 0,2 miliardi; il debito degli Enti di previdenza è rimasto pressoché invariato.
Le entrate tributarie - quelle proveniente cioè dalle tasse - contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state invece pari a 28,6 miliardi (27,8 nello stesso mese del 2016). Più nel dettaglio, nel primo trimestre del 2017 le entrate sono state pari a 92 miliardi, in crescita del 2,7% rispetto al corrispondente periodo del 2016.
"E IO C'AGGIA FA'"
Nuovo record per il debito pubblico: a marzo era di 2260 miliardi
Bankitalia fa i conti in tasca alle amministrazioni pubbliche: a marzo hanno raggiunto un debito pubblico di 2260,30 miliardi di euro
Franco Grilli - Lun, 15/05/2017 - 11:41
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Il debito pubblico italiano segna un nuovo record. Lo rileva la Banca d'Italia nel fascicolo "Finanza pubblica, fabbisogno e debito".
A marzo, infatti, il debito delle amministrazioni pubbliche è arrivato a 2.260,3 miliardi di euro, in aumento di 20,1 miliardi rispetto al mese precedente. L'incremento, spiega via Nazionale, è dovuto al fabbisogno mensile delle amministrazioni pubbliche (23,4 miliardi), parzialmente compensato dalla diminuzione delle disponibilità liquide del Tesoro (per 2,2 miliardi, a 54,6; erano pari a 70 miliardi alla fine di marzo 2016) e dall'effetto complessivo degli scarti e dei premi all'emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all'inflazione e della variazione del tasso di cambio (1,1 miliardi).
Con riferimento ai sottosettori, in particolare, il debito delle amministrazioni centrali è aumentato di 20,3 miliardi, quello degli enti locali è diminuito di 0,2 miliardi; il debito degli Enti di previdenza è rimasto pressoché invariato.
Le entrate tributarie - quelle proveniente cioè dalle tasse - contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state invece pari a 28,6 miliardi (27,8 nello stesso mese del 2016). Più nel dettaglio, nel primo trimestre del 2017 le entrate sono state pari a 92 miliardi, in crescita del 2,7% rispetto al corrispondente periodo del 2016.
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Re: Economia
Draghi che spara cazzate sulla ripresa dell’Eurozona.
Il debito pubblico che a marzo ha raggiunto il record di 2.260 miliardi
Mentre l’Italia dei magna-magna prosegue indisturbata la sua corsa.
Er moviola e il solerte Padoan fanno finta di non vedere.
19 mag 2017 10:33
FINMECCANICA CHE CUCCAGNA: A MAURO MORETTI 9 MILIONI DI LIQUIDAZIONE! - ECCO PERCHE’ AVEVA I DUE INCARICHI (AD E DIR. GEN.). PER QUATTRINI - LA SOMMA COMPRENDE “UN'INDENNITA’ COMPENSATIVA E RISARCITORIA” - IL MANAGER CONDANNATO A 7 ANNI DI GALERA PER LA STRAGE DI VIAREGGIO, DEVE ESSERE RISARCITO DI COSA? -
Il debito pubblico che a marzo ha raggiunto il record di 2.260 miliardi
Mentre l’Italia dei magna-magna prosegue indisturbata la sua corsa.
Er moviola e il solerte Padoan fanno finta di non vedere.
19 mag 2017 10:33
FINMECCANICA CHE CUCCAGNA: A MAURO MORETTI 9 MILIONI DI LIQUIDAZIONE! - ECCO PERCHE’ AVEVA I DUE INCARICHI (AD E DIR. GEN.). PER QUATTRINI - LA SOMMA COMPRENDE “UN'INDENNITA’ COMPENSATIVA E RISARCITORIA” - IL MANAGER CONDANNATO A 7 ANNI DI GALERA PER LA STRAGE DI VIAREGGIO, DEVE ESSERE RISARCITO DI COSA? -
Ultima modifica di UncleTom il 19/05/2017, 12:36, modificato 1 volta in totale.
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Re: Economia
UncleTom ha scritto: Draghi che spara cazzate sulla ripresa dell’Eurozona.
Il debito pubblico che a marzo ha raggiunto il record di 2.260 miliardi
Mentre l’Italia dei magna-magna prosegue indisturbata la sua corsa.
Er moviola e il solerte Padoan fanno finta di non vedere.
19 mag 2017 10:33
FINMECCANICA CHE CUCCAGNA: A MAURO MORETTI 9 MILIONI DI LIQUIDAZIONE!
- ECCO PERCHE’ AVEVA I DUE INCARICHI (AD E DIR. GEN.). PER QUATTRINI
- LA SOMMA COMPRENDE “UN'INDENNITA’ COMPENSATIVA E RISARCITORIA”
- IL MANAGER CONDANNATO A 7 ANNI DI GALERA PER LA STRAGE DI VIAREGGIO, DEVE ESSERE RISARCITO DI COSA? -
Da il Corriere della Sera
L' addio al vertice di Leonardo si traduce per l' ex amministratore delegato, Mauro Moretti, in una buonuscita da 9,26 milioni di euro. La somma include «un' indennità compensativa e risarcitoria». Moretti incasserà il maxi assegno una volta formalizzato il fine rapporto.
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Re: Economia
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PINOCCHIO
http://www.mizi.it/baule/pinocchio.htm
Sopraggiunse, ansante e trafelato anche Geppetto; ma la gente faceva ressa e ... i commenti sfavorevoli a Geppetto che la guardia rimise in libertà Pinocchio e .... me'? Vado nel più bel paese di questo mondo, nel « Paese della Cuccagna » !
Opinioni Libri per Ragazzi Le avventure di Pinocchio (Carlo Collodi ...
m.ciao.it/Le_avventure_di_Pinocchio_Carlo_Collodi__Opinione_1184281
01 mar 2010 - Ma da qui cominciano le disavventure, prima con il gatto e la volpe che ... la crescita dell'albero della cuccagna e poi con Lucignolo, bambino ...
QUEL PINOCCHIO ERA IL BISNONNO DEL PINOCCHIO DI RIGNANO
PINOCCHIO
http://www.mizi.it/baule/pinocchio.htm
Sopraggiunse, ansante e trafelato anche Geppetto; ma la gente faceva ressa e ... i commenti sfavorevoli a Geppetto che la guardia rimise in libertà Pinocchio e .... me'? Vado nel più bel paese di questo mondo, nel « Paese della Cuccagna » !
Opinioni Libri per Ragazzi Le avventure di Pinocchio (Carlo Collodi ...
m.ciao.it/Le_avventure_di_Pinocchio_Carlo_Collodi__Opinione_1184281
01 mar 2010 - Ma da qui cominciano le disavventure, prima con il gatto e la volpe che ... la crescita dell'albero della cuccagna e poi con Lucignolo, bambino ...
QUEL PINOCCHIO ERA IL BISNONNO DEL PINOCCHIO DI RIGNANO
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