ITALIA-EMERGENZA LAVORO
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Sfascisti - 218
2014 a schede
Scheda – 13 – La crisi aziendale
13 – 2 – 29 gennaio 2014
Repubblica 29.1.14
Il tweet del finanziere: “Si salvano azienda e lavoratori”. Madia: governo trovi mediazione
Il sì di Serra, sostenitore di Renzi. Bufera Pd: inaccettabile metà salario
di Luisa Grion
ROMA — Il caso Electrolux esce dai capannoni e infiamma la politica, Pd compreso che da ieri dibatte — anche a colpi di tweet — sul piano del gruppo.
Per restare in Italia, la multinazionale svedese ha infatti chiesto ai dipendenti tagli drastici sul salario, facendo capire che questo potrebbe comunque non bastare per tenere in vita tutti i quattro siti.
Una proposta che il sindacato ha definito «irricevibile», ma che Davide Serra, fondatore e amministrazione del fondo speculativo Algebris e noto sostenitore di Matteo Renzo, ha invece difeso: «Electrolux prova a salvare lavoro e azienda con taglio salari — ha twittato — oppure chiude come altre 300 mila aziende e aggiunge disoccupazione. Realtà».
Proposta «razionale» ha commentato, anche se qualche ora dopo, visto il fiorire delle critiche ha precisato che «razionale non vuol dire auspicabile».
Un commento che non è andato giù a molti, anime renziane comprese, visto che poco dopo, sul caso, è partito un botta-risposta fuori e dentro il social network.
Sempre su Twitter, per esempio ha contrattaccato Francesco Nicodemo, responsabile per la comunicazione del partito che riprendendo un commento già espresso da Deborah Serracchiani, presidente del Friuli Venezia Giulia, ha scritto: «No al ricatto sulla pelle degli operai e della popolazione».
C’è chi come l’eurodeputato Pd Frigo chiede che «lo Stato netta la differenza degli stipendi», chi come l’ex ministro del Lavoro Damiano giudica «irricevibile» la proposta aziendale e vede in Electrolux un caso «che purtroppo potrebbe fare scuola».
A trarre le fila del dibattito ci prova Marianna Madia, responsabile Lavoro del Pd. «Non si possono dimezzare i salari e far ricadere tutto il peso della mancata competitività sui lavoratori — precisa — ma é chiaro che l’emergenza Electrolux è l’emergenza di un Paese e di un sistema.
Spero che il tavolo al governo trovi un compromesso, ma per trattenere qui il lavoro dovremo fornire alle aziende condizione adatte».
Una via da praticare, sottolinea Madia, potrebbe essere quella auspicata proprio dalla Confindustria di Pordenone che, assieme ad una rosa di esperti fra i quali Treu e Cipolletta, sta lavorando ad un accordo territoriale dove, ad un taglio dei salari del 20 per cento, corrisponda una compensazione in servizi e welfare.
2014 a schede
Scheda – 13 – La crisi aziendale
13 – 2 – 29 gennaio 2014
Repubblica 29.1.14
Il tweet del finanziere: “Si salvano azienda e lavoratori”. Madia: governo trovi mediazione
Il sì di Serra, sostenitore di Renzi. Bufera Pd: inaccettabile metà salario
di Luisa Grion
ROMA — Il caso Electrolux esce dai capannoni e infiamma la politica, Pd compreso che da ieri dibatte — anche a colpi di tweet — sul piano del gruppo.
Per restare in Italia, la multinazionale svedese ha infatti chiesto ai dipendenti tagli drastici sul salario, facendo capire che questo potrebbe comunque non bastare per tenere in vita tutti i quattro siti.
Una proposta che il sindacato ha definito «irricevibile», ma che Davide Serra, fondatore e amministrazione del fondo speculativo Algebris e noto sostenitore di Matteo Renzo, ha invece difeso: «Electrolux prova a salvare lavoro e azienda con taglio salari — ha twittato — oppure chiude come altre 300 mila aziende e aggiunge disoccupazione. Realtà».
Proposta «razionale» ha commentato, anche se qualche ora dopo, visto il fiorire delle critiche ha precisato che «razionale non vuol dire auspicabile».
Un commento che non è andato giù a molti, anime renziane comprese, visto che poco dopo, sul caso, è partito un botta-risposta fuori e dentro il social network.
Sempre su Twitter, per esempio ha contrattaccato Francesco Nicodemo, responsabile per la comunicazione del partito che riprendendo un commento già espresso da Deborah Serracchiani, presidente del Friuli Venezia Giulia, ha scritto: «No al ricatto sulla pelle degli operai e della popolazione».
C’è chi come l’eurodeputato Pd Frigo chiede che «lo Stato netta la differenza degli stipendi», chi come l’ex ministro del Lavoro Damiano giudica «irricevibile» la proposta aziendale e vede in Electrolux un caso «che purtroppo potrebbe fare scuola».
A trarre le fila del dibattito ci prova Marianna Madia, responsabile Lavoro del Pd. «Non si possono dimezzare i salari e far ricadere tutto il peso della mancata competitività sui lavoratori — precisa — ma é chiaro che l’emergenza Electrolux è l’emergenza di un Paese e di un sistema.
Spero che il tavolo al governo trovi un compromesso, ma per trattenere qui il lavoro dovremo fornire alle aziende condizione adatte».
Una via da praticare, sottolinea Madia, potrebbe essere quella auspicata proprio dalla Confindustria di Pordenone che, assieme ad una rosa di esperti fra i quali Treu e Cipolletta, sta lavorando ad un accordo territoriale dove, ad un taglio dei salari del 20 per cento, corrisponda una compensazione in servizi e welfare.
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Sfascisti - 219
2014 a schede
Scheda – 13 – La crisi aziendale
13 – 3 – 29 gennaio 2014
Repubblica 29.1.14
L’amaca
di Michele Serra
“Proposta di Electrolux razionale.
Costo del lavoro per azienda è triplo dopo oneri sociali.
Per salvare lavoro deve abbassare 40% stipendi”.
Sono le parole twittate dal finanziere Davide Serra, area renziana.
Lo ringrazio perché le considero la prova provata di quanto avevo scritto qui ieri: il peggiore uso mondiale dei social network è quello fatto dai maschi di potere che sgomitano per farsi sentire.
Se l’autore avesse riletto solo per un paio di secondi il suo testo, respirando forte per ossigenare i neuroni, si sarebbe immediatamente domandato: ma se gli stipendi si abbassano del 40 per cento e i prezzi rimangono uguali, come fanno a campare gli operai?
E i consumi, con la progressiva erosione dei salari, come potranno mai ripartire?
E quel “costo del lavoro triplo” è triplo rispetto a che cosa, agli stipendi bielorussi, al costo del lavoro senza oneri sociali, all’età della cognata, a una cifra a caso?
Ma come accidenti si fa, santo cielo, a sparare un paio di belinate veloci veloci su una faccenda che è lacrime e sangue, questione sociale gigantesca, vita delle persone?
Poi si finisce sui giornali, certo.
Ma non si fa mica una bella figura.
2014 a schede
Scheda – 13 – La crisi aziendale
13 – 3 – 29 gennaio 2014
Repubblica 29.1.14
L’amaca
di Michele Serra
“Proposta di Electrolux razionale.
Costo del lavoro per azienda è triplo dopo oneri sociali.
Per salvare lavoro deve abbassare 40% stipendi”.
Sono le parole twittate dal finanziere Davide Serra, area renziana.
Lo ringrazio perché le considero la prova provata di quanto avevo scritto qui ieri: il peggiore uso mondiale dei social network è quello fatto dai maschi di potere che sgomitano per farsi sentire.
Se l’autore avesse riletto solo per un paio di secondi il suo testo, respirando forte per ossigenare i neuroni, si sarebbe immediatamente domandato: ma se gli stipendi si abbassano del 40 per cento e i prezzi rimangono uguali, come fanno a campare gli operai?
E i consumi, con la progressiva erosione dei salari, come potranno mai ripartire?
E quel “costo del lavoro triplo” è triplo rispetto a che cosa, agli stipendi bielorussi, al costo del lavoro senza oneri sociali, all’età della cognata, a una cifra a caso?
Ma come accidenti si fa, santo cielo, a sparare un paio di belinate veloci veloci su una faccenda che è lacrime e sangue, questione sociale gigantesca, vita delle persone?
Poi si finisce sui giornali, certo.
Ma non si fa mica una bella figura.
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
http://www.milanofinanza.it/news/dettag ... enzie=TMFI
Ue, con nuovo calcolo pil Italia +1/2%
La Commissione europea oggi ha pubblicato un documento (http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-14-21_en.htm) in cui delinea la nuova metodologia per il calcolo delle statistiche pubbliche dei Paesi membri da parte di Eurostat, che potrebbe tramutarsi per l'Italia in un incremento tra l'1% e il 2% del dato pregresso del pil 2011.
Una previsione analoga viene fatta per la Spagna e il Portogallo. Mentre per la Germania e la Francia il beneficio sarebbe maggiore, compreso tra 2 e 3 punti percentuali di pil. Addirittura per la Finlandia e la Svezia il contributo positivo della nuova metodologia potrebbe arrivare fino al 5% del pil 2011.
La nuova metodologia ha già portato negli Usa, dove è stata adottata nell'agosto 2013, a un incremento del pil del 3,5% per gli anni dal 2010 al 2012. L'Europa intende recepirla nel 2014, in modo coordinato. Ma quali sono i principali cambiamenti che verranno introdotti?
In primis, il riconoscimento che la spesa in ricerca e sviluppo ha natura di investimento. Le spese in ricerca e sviluppo sono registrate come investimenti fissi lordi e non più come spesa corrente. Ciò permetterà di aumentare il prodotto interno lordo dell'Unione europea di circa l'1,9%. L'identificazione e il trattamento delle spese di ricerca e sviluppo come investimento è molto importante nel contesto della strategia europea 2020.
In secondo luogo, il riconoscimento che la spesa per gli armamenti ha carattere di investimento. A causa della loro natura potenzialmente distruttiva, in precedenza gli armamenti venivano registrati come consumi immediati. Il nuovo sistema, invece, riconosce realisticamente il loro potenziale produttivo per la sicurezza esterna di un Paese, nell'arco di diversi anni. Questo li identifica come investimenti fissi lordi. Ciò consentirà di aumentare il prodotto interno lordo dell'Unione europea di circa lo 0,1%.
In terzo luogo, il valore dei beni inviati all'estero per l'elaborazione non avrà più un impatto sulle esportazioni lorde e sui dati delle importazioni perché il sistema ESA 2010, alla luce della globalizzazione, ha cambiato l'approccio e non è più basato sui movimenti fisici. ESA 2010 registra solo un servizio di esportazione. Ciò ridurrà leggermente il livello delle esportazioni e delle importazioni, ma non influenzerà il saldo globale.
In quarto luogo, è stata presentata un'analisi più dettagliata dei regimi pensionistici. Una tabella complementare obbligatoria mostrerà infatti in modo trasparente le responsabilità di tutti i regimi pensionistici, al fine di migliorare la comparabilità tra i Paesi. ESA 2010 dovrebbe anche migliorare significativamente la misura del contributo dei servizi assicurativi al pil.
In base al sistema precedente, questo contributo era basato sulla differenza tra premi e sinistri. Dato che il livello dei sinistri può essere molto volatile (le catastrofi sono sempre più frequenti), il risultato era volatile. In ESA 2010 la formula per il calcolo del rendimento dell'assicurazione non vita è stata modificata al fine di regolare il livello di questo rendimento.
Infine, il nuovo programma di trasmissione dell'ESA 2010 consentirà un migliore monitoraggio dei cambiamenti economici nei prossimi 15 anni. Saranno disponibili dati più completi di bilancio, anche le trimestrali, con maggiore tempestività, e una nuova serie completa di dati sulle potenziali obbligazioni governative.
................
Ciao
Paoo11
Ue, con nuovo calcolo pil Italia +1/2%
La Commissione europea oggi ha pubblicato un documento (http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-14-21_en.htm) in cui delinea la nuova metodologia per il calcolo delle statistiche pubbliche dei Paesi membri da parte di Eurostat, che potrebbe tramutarsi per l'Italia in un incremento tra l'1% e il 2% del dato pregresso del pil 2011.
Una previsione analoga viene fatta per la Spagna e il Portogallo. Mentre per la Germania e la Francia il beneficio sarebbe maggiore, compreso tra 2 e 3 punti percentuali di pil. Addirittura per la Finlandia e la Svezia il contributo positivo della nuova metodologia potrebbe arrivare fino al 5% del pil 2011.
La nuova metodologia ha già portato negli Usa, dove è stata adottata nell'agosto 2013, a un incremento del pil del 3,5% per gli anni dal 2010 al 2012. L'Europa intende recepirla nel 2014, in modo coordinato. Ma quali sono i principali cambiamenti che verranno introdotti?
In primis, il riconoscimento che la spesa in ricerca e sviluppo ha natura di investimento. Le spese in ricerca e sviluppo sono registrate come investimenti fissi lordi e non più come spesa corrente. Ciò permetterà di aumentare il prodotto interno lordo dell'Unione europea di circa l'1,9%. L'identificazione e il trattamento delle spese di ricerca e sviluppo come investimento è molto importante nel contesto della strategia europea 2020.
In secondo luogo, il riconoscimento che la spesa per gli armamenti ha carattere di investimento. A causa della loro natura potenzialmente distruttiva, in precedenza gli armamenti venivano registrati come consumi immediati. Il nuovo sistema, invece, riconosce realisticamente il loro potenziale produttivo per la sicurezza esterna di un Paese, nell'arco di diversi anni. Questo li identifica come investimenti fissi lordi. Ciò consentirà di aumentare il prodotto interno lordo dell'Unione europea di circa lo 0,1%.
In terzo luogo, il valore dei beni inviati all'estero per l'elaborazione non avrà più un impatto sulle esportazioni lorde e sui dati delle importazioni perché il sistema ESA 2010, alla luce della globalizzazione, ha cambiato l'approccio e non è più basato sui movimenti fisici. ESA 2010 registra solo un servizio di esportazione. Ciò ridurrà leggermente il livello delle esportazioni e delle importazioni, ma non influenzerà il saldo globale.
In quarto luogo, è stata presentata un'analisi più dettagliata dei regimi pensionistici. Una tabella complementare obbligatoria mostrerà infatti in modo trasparente le responsabilità di tutti i regimi pensionistici, al fine di migliorare la comparabilità tra i Paesi. ESA 2010 dovrebbe anche migliorare significativamente la misura del contributo dei servizi assicurativi al pil.
In base al sistema precedente, questo contributo era basato sulla differenza tra premi e sinistri. Dato che il livello dei sinistri può essere molto volatile (le catastrofi sono sempre più frequenti), il risultato era volatile. In ESA 2010 la formula per il calcolo del rendimento dell'assicurazione non vita è stata modificata al fine di regolare il livello di questo rendimento.
Infine, il nuovo programma di trasmissione dell'ESA 2010 consentirà un migliore monitoraggio dei cambiamenti economici nei prossimi 15 anni. Saranno disponibili dati più completi di bilancio, anche le trimestrali, con maggiore tempestività, e una nuova serie completa di dati sulle potenziali obbligazioni governative.
................
Ciao
Paoo11
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Per la serie “Enrico in the wonderland,”
Trasmettiamo la “barza-Letta”:
"Siamo a un punto di svolta, i mercati sono pronti, la situazione sta cambiando verso la stabilità".
Per la serie “landing on real life” trasmettiamo:
“per grazia divina la situazione economica del Paese non cambierà.
Bisognerà fare le riforme che sono necessarie:
mettere mano ad una politica industriale seria, cosa che da anni non si fa, una magistratura che funziona, una semplificazione burocratica".
Giorgio Squinzi
http://www.repubblica.it/politica/2014/ ... ref=HREA-1
Trasmettiamo la “barza-Letta”:
"Siamo a un punto di svolta, i mercati sono pronti, la situazione sta cambiando verso la stabilità".
Per la serie “landing on real life” trasmettiamo:
“per grazia divina la situazione economica del Paese non cambierà.
Bisognerà fare le riforme che sono necessarie:
mettere mano ad una politica industriale seria, cosa che da anni non si fa, una magistratura che funziona, una semplificazione burocratica".
Giorgio Squinzi
http://www.repubblica.it/politica/2014/ ... ref=HREA-1
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Avessi la fantasia di letta farei lo scrittore.
Quegli altri, squinzi e compagnia, comincino a piantarla di nascondere i soldi all'estero e spostarvi industrie
Quegli altri, squinzi e compagnia, comincino a piantarla di nascondere i soldi all'estero e spostarvi industrie
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
Robert Harris, "Archangel"
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Sfascisti - 230
2014 a schede
Scheda – 13 – La crisi aziendale
13 – 4 – 3 febbraio 2014
L'esercito degli sfascisti e degli indifferenti - 1
OCCUPAZIONE
Dieci anni per sfuggire alla crisi
Intanto meglio mettersi in proprio
La grandi aziende chiudono sotto i colpi della recessione. Eppure il 2013 ha registrato il boom di aperture di nuove società, soprattutto piccole. Gli esperti: nel 2024 l’occupazione tornerà ai livelli pre-crisi
di Stefano Livadiotti
I numeri a volte possono ingannare. È il caso, per esempio, di quelli su natalità e mortalità delle aziende contenuti nel report Movimprese, la rilevazione statistica di InfoCamere, che è una sorta di anagrafe del sistema economico italiano.
«Imprese: nel 2013 le aperture superano le chiusure; 12 mila attività in più (più 0,2 per cento)», recitava un comunicato datato 22 gennaio, che dava dunque un saldo positivo del mondo imprenditoriale per il nono anno consecutivo, con 371.802 cessazioni nei 12 mesi a fronte di 384.483 nuove iscrizioni. Come a dire che l’Azienda Italia avrebbe compiuto un mezzo miracolo, riuscendo in qualche modo a galleggiare sulla crisi partita nel 2008.
Ma il dato fa a pugni con tutti i più importanti indicatori della situazione economica del Paese. Con un prodotto interno lordo che, secondo una nota del centro studi della Confindustria del 25 gennaio, ha lasciato sul campo il 9,1 per cento dal picco pre-crisi del 2007 (ci vorranno cinque anni per recuperarne la metà; sull’altro 50 per cento nessuno azzarda scommesse).
Con una produzione industriale che, secondo i calcoli contenuti nel paper “Scenari industriali”, messo a punto nel giugno scorso sempre dagli analisti di viale dell’Astronomia, è crollata del 25 per cento. Con un calo del potenziale di almeno il 20 per cento in 14 settori del manifatturiero su 22. Con la perdita di 1.158.000 posti si lavoro, che non si fermerà neanche nel 2014, anno per il quale il governo ha previsto (nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza dello scorso 20 settembre) un ulteriore calo dell’occupazione dello 0,1 per cento, nonostante la fine della recessione con la previsione di un aumento del Pil dell’uno per cento: vuol dire, secondo uno studio della Confartigianato, che l’occupazione misurata in termini di unità di lavoro a tempo pieno scenderà intorno ai 23,5 milioni, ritornando al di sotto del livello raggiunto nel 2000 e che per riconquistare la vetta del 2007 bisognerà attendere dieci anni.
Il fatto è che le rilevazioni statistiche di Infocamere vanno lette al di là del saldo puro e semplice tra natalità e mortalità delle aziende, che comunque è in costante riduzione: dal più 1,61 del 2005 al più 0,21 del 2013 (con una pausa nel biennio 2010-2011: rispettivamente, più 1,19 e più 0,82). Non solo. Se si va a guardare alle cifre assolute, il dato del 2013 sull’anno precedente diventa negativo: le aziende infatti scendono da 6.093.158 a 6.061.960. Questo perché, semplicemente, alla voce cessazioni non vengono conteggiate le cancellazioni d’ufficio che colpiscono, per esempio, le aziende colte in violazione dell’obbligo di depositare il bilancio. E queste nel solo 2013 sono state 43 mila
Ma anche così depurato il dato di Infocamere non fotografa la crisi in tutta la sua gravità. Perché a soffrire di più è stato il settore manifatturiero, quello che ha il peso più rilevante in termini di occupazione.
I numeri dello stesso Movimprese rielaborati dagli uomini del centro studi di viale dell’Astronomia dicono che tra il 2008 e il 2013 il saldo tra cessazioni e iscrizioni di imprese manifatturiere è negativo per ben 64.512 unità (con un picco di 13.628 nel primo anno). Cifra che, calcolata su uno stock di partenza di 389.899 unità, rappresenta un calo del 16,54 per cento.
Aziende di medie e grandi dimensioni che hanno chiuso i battenti e che, numericamente, sono state rimpiazzate da piccole società di servizi o esercizi commerciali: ecco come si spiega l’apparente contraddizione tra i dati delle camere di commercio e quelli sul Pil, sulla produzione industriale e sulla disoccupazione. Così la pensa Nicola Rossi, economista, già parlamentare del Pd: «Il fatto è che chi perde il posto di lavoro in fabbrica si autoimpiega, inventandosi un’attività. Se chiude un’azienda con mille dipendenti, 100 di questi si trasformano in imprenditori di se stessi e 900 vanno a ingrossare le fila dell’esercito dei disoccupati». Dice ancora Rossi: «È un fenomeno non solo italiano: in Grecia molta gente è tornata all’agricoltura. Da noi poi la difficoltà a ricollocarsi senza mettersi in proprio è stata accentuata dalle rigidità che la sciagurata riforma targata Fornero ha reintrodotto nel mercato del lavoro». D’accordo con Rossi è Alberto Bombassei, imprenditore a cinque stelle (Brembo) e presidente (oltreché parlamentare) di Scelta Civica: «L’occupazione classica è destinata a ridursi ulteriormente e questo fattore non può certo essere compensato dalla nascita di aziendine che si lanciano in settori totalmente nuovi, partendo magari con 3 o 4 addetti e vendendo i loro prodotti sulla rete: ben vengano, è chiaro, ma non risolvono certo i problemi dei senza lavoro». Conclude il leader mondiale dei freni per auto: «Bisogna trovare una soluzione nuova a livello politico, magari ricorrendo a anche a formule immaginate nel passato, come quella che prevede una riduzione dell’orario per ripartire il lavoro che c’è tra più persone»
Luca Paolazzi, capo del centro-studi degli imprenditori italiani, si aggiunge in qualche modo al coro: «Francamente non sono poi così stupito dall’apparente contraddizione tra l’aumento del numero delle imprese e lo scenario economico: i manager rispediti a casa dalle aziende mettono su imprese di consulenza; con la crisi ti inventi un lavoro da solo: è un modo di ricominciare a guadagnarsi la pagnotta altrove. Certo, bisogna vedere quante di queste nuove realtà restano in piedi più di qualche anno. E comunque in Italia il lavoro autonomo, quello che genera le micro-imprese, ha sempre avuto un peso percentuale molto più alto che nella media degli altri Paesi.
La situazione non cambia dall’angolo visuale di un sindacalista: «Il problema è che sono saltate le grandi aziende, schiacciate da un costo del lavoro reso esorbitante dal cuneo fiscale e contributivo», dice il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni. Che propone di adottare la ricetta francese, puntando su un taglio della spesa pubblica che consenta di ridurre le tasse sul lavoro. Per Giuseppe Roma, direttore del Censis, il fenomeno della natalità di nuove aziende in un periodo di vacche così magre è dovuto essenzialmente a tre fattori. Primo: gli immigrati impegnati nei lavori di manutenzione, che con la crisi crescono di importanza perché quel che si rompe non si sostituisce ma si aggiusta. Secondo: i giovani, che stanno puntando in massa su tutto ciò che è più innovativo. Terzo: le donne, titolari di uno stock di aziende pari a 1,4 milioni che tra il giugno 2012 e quello successivo è cresciuto del 3,3 per cento nella sanità e assistenza, del 3 nell’istruzione e del 2,8 per cento nella ristorazione. «Sono comunque segnali di vitalità», dice Roma. Un modo per vedere il bicchiere bicchiere mezzo pieno.
31 gennaio 2014© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://espresso.repubblica.it/affari/20 ... o-1.150754
2014 a schede
Scheda – 13 – La crisi aziendale
13 – 4 – 3 febbraio 2014
L'esercito degli sfascisti e degli indifferenti - 1
OCCUPAZIONE
Dieci anni per sfuggire alla crisi
Intanto meglio mettersi in proprio
La grandi aziende chiudono sotto i colpi della recessione. Eppure il 2013 ha registrato il boom di aperture di nuove società, soprattutto piccole. Gli esperti: nel 2024 l’occupazione tornerà ai livelli pre-crisi
di Stefano Livadiotti
I numeri a volte possono ingannare. È il caso, per esempio, di quelli su natalità e mortalità delle aziende contenuti nel report Movimprese, la rilevazione statistica di InfoCamere, che è una sorta di anagrafe del sistema economico italiano.
«Imprese: nel 2013 le aperture superano le chiusure; 12 mila attività in più (più 0,2 per cento)», recitava un comunicato datato 22 gennaio, che dava dunque un saldo positivo del mondo imprenditoriale per il nono anno consecutivo, con 371.802 cessazioni nei 12 mesi a fronte di 384.483 nuove iscrizioni. Come a dire che l’Azienda Italia avrebbe compiuto un mezzo miracolo, riuscendo in qualche modo a galleggiare sulla crisi partita nel 2008.
Ma il dato fa a pugni con tutti i più importanti indicatori della situazione economica del Paese. Con un prodotto interno lordo che, secondo una nota del centro studi della Confindustria del 25 gennaio, ha lasciato sul campo il 9,1 per cento dal picco pre-crisi del 2007 (ci vorranno cinque anni per recuperarne la metà; sull’altro 50 per cento nessuno azzarda scommesse).
Con una produzione industriale che, secondo i calcoli contenuti nel paper “Scenari industriali”, messo a punto nel giugno scorso sempre dagli analisti di viale dell’Astronomia, è crollata del 25 per cento. Con un calo del potenziale di almeno il 20 per cento in 14 settori del manifatturiero su 22. Con la perdita di 1.158.000 posti si lavoro, che non si fermerà neanche nel 2014, anno per il quale il governo ha previsto (nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza dello scorso 20 settembre) un ulteriore calo dell’occupazione dello 0,1 per cento, nonostante la fine della recessione con la previsione di un aumento del Pil dell’uno per cento: vuol dire, secondo uno studio della Confartigianato, che l’occupazione misurata in termini di unità di lavoro a tempo pieno scenderà intorno ai 23,5 milioni, ritornando al di sotto del livello raggiunto nel 2000 e che per riconquistare la vetta del 2007 bisognerà attendere dieci anni.
Il fatto è che le rilevazioni statistiche di Infocamere vanno lette al di là del saldo puro e semplice tra natalità e mortalità delle aziende, che comunque è in costante riduzione: dal più 1,61 del 2005 al più 0,21 del 2013 (con una pausa nel biennio 2010-2011: rispettivamente, più 1,19 e più 0,82). Non solo. Se si va a guardare alle cifre assolute, il dato del 2013 sull’anno precedente diventa negativo: le aziende infatti scendono da 6.093.158 a 6.061.960. Questo perché, semplicemente, alla voce cessazioni non vengono conteggiate le cancellazioni d’ufficio che colpiscono, per esempio, le aziende colte in violazione dell’obbligo di depositare il bilancio. E queste nel solo 2013 sono state 43 mila
Ma anche così depurato il dato di Infocamere non fotografa la crisi in tutta la sua gravità. Perché a soffrire di più è stato il settore manifatturiero, quello che ha il peso più rilevante in termini di occupazione.
I numeri dello stesso Movimprese rielaborati dagli uomini del centro studi di viale dell’Astronomia dicono che tra il 2008 e il 2013 il saldo tra cessazioni e iscrizioni di imprese manifatturiere è negativo per ben 64.512 unità (con un picco di 13.628 nel primo anno). Cifra che, calcolata su uno stock di partenza di 389.899 unità, rappresenta un calo del 16,54 per cento.
Aziende di medie e grandi dimensioni che hanno chiuso i battenti e che, numericamente, sono state rimpiazzate da piccole società di servizi o esercizi commerciali: ecco come si spiega l’apparente contraddizione tra i dati delle camere di commercio e quelli sul Pil, sulla produzione industriale e sulla disoccupazione. Così la pensa Nicola Rossi, economista, già parlamentare del Pd: «Il fatto è che chi perde il posto di lavoro in fabbrica si autoimpiega, inventandosi un’attività. Se chiude un’azienda con mille dipendenti, 100 di questi si trasformano in imprenditori di se stessi e 900 vanno a ingrossare le fila dell’esercito dei disoccupati». Dice ancora Rossi: «È un fenomeno non solo italiano: in Grecia molta gente è tornata all’agricoltura. Da noi poi la difficoltà a ricollocarsi senza mettersi in proprio è stata accentuata dalle rigidità che la sciagurata riforma targata Fornero ha reintrodotto nel mercato del lavoro». D’accordo con Rossi è Alberto Bombassei, imprenditore a cinque stelle (Brembo) e presidente (oltreché parlamentare) di Scelta Civica: «L’occupazione classica è destinata a ridursi ulteriormente e questo fattore non può certo essere compensato dalla nascita di aziendine che si lanciano in settori totalmente nuovi, partendo magari con 3 o 4 addetti e vendendo i loro prodotti sulla rete: ben vengano, è chiaro, ma non risolvono certo i problemi dei senza lavoro». Conclude il leader mondiale dei freni per auto: «Bisogna trovare una soluzione nuova a livello politico, magari ricorrendo a anche a formule immaginate nel passato, come quella che prevede una riduzione dell’orario per ripartire il lavoro che c’è tra più persone»
Luca Paolazzi, capo del centro-studi degli imprenditori italiani, si aggiunge in qualche modo al coro: «Francamente non sono poi così stupito dall’apparente contraddizione tra l’aumento del numero delle imprese e lo scenario economico: i manager rispediti a casa dalle aziende mettono su imprese di consulenza; con la crisi ti inventi un lavoro da solo: è un modo di ricominciare a guadagnarsi la pagnotta altrove. Certo, bisogna vedere quante di queste nuove realtà restano in piedi più di qualche anno. E comunque in Italia il lavoro autonomo, quello che genera le micro-imprese, ha sempre avuto un peso percentuale molto più alto che nella media degli altri Paesi.
La situazione non cambia dall’angolo visuale di un sindacalista: «Il problema è che sono saltate le grandi aziende, schiacciate da un costo del lavoro reso esorbitante dal cuneo fiscale e contributivo», dice il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni. Che propone di adottare la ricetta francese, puntando su un taglio della spesa pubblica che consenta di ridurre le tasse sul lavoro. Per Giuseppe Roma, direttore del Censis, il fenomeno della natalità di nuove aziende in un periodo di vacche così magre è dovuto essenzialmente a tre fattori. Primo: gli immigrati impegnati nei lavori di manutenzione, che con la crisi crescono di importanza perché quel che si rompe non si sostituisce ma si aggiusta. Secondo: i giovani, che stanno puntando in massa su tutto ciò che è più innovativo. Terzo: le donne, titolari di uno stock di aziende pari a 1,4 milioni che tra il giugno 2012 e quello successivo è cresciuto del 3,3 per cento nella sanità e assistenza, del 3 nell’istruzione e del 2,8 per cento nella ristorazione. «Sono comunque segnali di vitalità», dice Roma. Un modo per vedere il bicchiere bicchiere mezzo pieno.
31 gennaio 2014© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Sfascisti - 230
2014 a schede
Scheda – 13 – La crisi aziendale
13 – 4 – 3 febbraio 2014
L'esercito degli sfascisti e degli indifferenti - 1
OCCUPAZIONE
Dieci anni per sfuggire alla crisi
Intanto meglio mettersi in proprio
La grandi aziende chiudono sotto i colpi della recessione. Eppure il 2013 ha registrato il boom di aperture di nuove società, soprattutto piccole. Gli esperti: nel 2024 l’occupazione tornerà ai livelli pre-crisi
di Stefano Livadiotti
I numeri a volte possono ingannare. È il caso, per esempio, di quelli su natalità e mortalità delle aziende contenuti nel report Movimprese, la rilevazione statistica di InfoCamere, che è una sorta di anagrafe del sistema economico italiano.
«Imprese: nel 2013 le aperture superano le chiusure; 12 mila attività in più (più 0,2 per cento)», recitava un comunicato datato 22 gennaio, che dava dunque un saldo positivo del mondo imprenditoriale per il nono anno consecutivo, con 371.802 cessazioni nei 12 mesi a fronte di 384.483 nuove iscrizioni. Come a dire che l’Azienda Italia avrebbe compiuto un mezzo miracolo, riuscendo in qualche modo a galleggiare sulla crisi partita nel 2008.
Ma il dato fa a pugni con tutti i più importanti indicatori della situazione economica del Paese. Con un prodotto interno lordo che, secondo una nota del centro studi della Confindustria del 25 gennaio, ha lasciato sul campo il 9,1 per cento dal picco pre-crisi del 2007 (ci vorranno cinque anni per recuperarne la metà; sull’altro 50 per cento nessuno azzarda scommesse).
Con una produzione industriale che, secondo i calcoli contenuti nel paper “Scenari industriali”, messo a punto nel giugno scorso sempre dagli analisti di viale dell’Astronomia, è crollata del 25 per cento. Con un calo del potenziale di almeno il 20 per cento in 14 settori del manifatturiero su 22. Con la perdita di 1.158.000 posti si lavoro, che non si fermerà neanche nel 2014, anno per il quale il governo ha previsto (nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza dello scorso 20 settembre) un ulteriore calo dell’occupazione dello 0,1 per cento, nonostante la fine della recessione con la previsione di un aumento del Pil dell’uno per cento: vuol dire, secondo uno studio della Confartigianato, che l’occupazione misurata in termini di unità di lavoro a tempo pieno scenderà intorno ai 23,5 milioni, ritornando al di sotto del livello raggiunto nel 2000 e che per riconquistare la vetta del 2007 bisognerà attendere dieci anni.
Il fatto è che le rilevazioni statistiche di Infocamere vanno lette al di là del saldo puro e semplice tra natalità e mortalità delle aziende, che comunque è in costante riduzione: dal più 1,61 del 2005 al più 0,21 del 2013 (con una pausa nel biennio 2010-2011: rispettivamente, più 1,19 e più 0,82). Non solo. Se si va a guardare alle cifre assolute, il dato del 2013 sull’anno precedente diventa negativo: le aziende infatti scendono da 6.093.158 a 6.061.960. Questo perché, semplicemente, alla voce cessazioni non vengono conteggiate le cancellazioni d’ufficio che colpiscono, per esempio, le aziende colte in violazione dell’obbligo di depositare il bilancio. E queste nel solo 2013 sono state 43 mila
Ma anche così depurato il dato di Infocamere non fotografa la crisi in tutta la sua gravità. Perché a soffrire di più è stato il settore manifatturiero, quello che ha il peso più rilevante in termini di occupazione.
I numeri dello stesso Movimprese rielaborati dagli uomini del centro studi di viale dell’Astronomia dicono che tra il 2008 e il 2013 il saldo tra cessazioni e iscrizioni di imprese manifatturiere è negativo per ben 64.512 unità (con un picco di 13.628 nel primo anno). Cifra che, calcolata su uno stock di partenza di 389.899 unità, rappresenta un calo del 16,54 per cento.
Aziende di medie e grandi dimensioni che hanno chiuso i battenti e che, numericamente, sono state rimpiazzate da piccole società di servizi o esercizi commerciali: ecco come si spiega l’apparente contraddizione tra i dati delle camere di commercio e quelli sul Pil, sulla produzione industriale e sulla disoccupazione. Così la pensa Nicola Rossi, economista, già parlamentare del Pd: «Il fatto è che chi perde il posto di lavoro in fabbrica si autoimpiega, inventandosi un’attività. Se chiude un’azienda con mille dipendenti, 100 di questi si trasformano in imprenditori di se stessi e 900 vanno a ingrossare le fila dell’esercito dei disoccupati». Dice ancora Rossi: «È un fenomeno non solo italiano: in Grecia molta gente è tornata all’agricoltura. Da noi poi la difficoltà a ricollocarsi senza mettersi in proprio è stata accentuata dalle rigidità che la sciagurata riforma targata Fornero ha reintrodotto nel mercato del lavoro». D’accordo con Rossi è Alberto Bombassei, imprenditore a cinque stelle (Brembo) e presidente (oltreché parlamentare) di Scelta Civica: «L’occupazione classica è destinata a ridursi ulteriormente e questo fattore non può certo essere compensato dalla nascita di aziendine che si lanciano in settori totalmente nuovi, partendo magari con 3 o 4 addetti e vendendo i loro prodotti sulla rete: ben vengano, è chiaro, ma non risolvono certo i problemi dei senza lavoro». Conclude il leader mondiale dei freni per auto: «Bisogna trovare una soluzione nuova a livello politico, magari ricorrendo a anche a formule immaginate nel passato, come quella che prevede una riduzione dell’orario per ripartire il lavoro che c’è tra più persone»
Luca Paolazzi, capo del centro-studi degli imprenditori italiani, si aggiunge in qualche modo al coro: «Francamente non sono poi così stupito dall’apparente contraddizione tra l’aumento del numero delle imprese e lo scenario economico: i manager rispediti a casa dalle aziende mettono su imprese di consulenza; con la crisi ti inventi un lavoro da solo: è un modo di ricominciare a guadagnarsi la pagnotta altrove. Certo, bisogna vedere quante di queste nuove realtà restano in piedi più di qualche anno. E comunque in Italia il lavoro autonomo, quello che genera le micro-imprese, ha sempre avuto un peso percentuale molto più alto che nella media degli altri Paesi.
La situazione non cambia dall’angolo visuale di un sindacalista: «Il problema è che sono saltate le grandi aziende, schiacciate da un costo del lavoro reso esorbitante dal cuneo fiscale e contributivo», dice il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni. Che propone di adottare la ricetta francese, puntando su un taglio della spesa pubblica che consenta di ridurre le tasse sul lavoro. Per Giuseppe Roma, direttore del Censis, il fenomeno della natalità di nuove aziende in un periodo di vacche così magre è dovuto essenzialmente a tre fattori. Primo: gli immigrati impegnati nei lavori di manutenzione, che con la crisi crescono di importanza perché quel che si rompe non si sostituisce ma si aggiusta. Secondo: i giovani, che stanno puntando in massa su tutto ciò che è più innovativo. Terzo: le donne, titolari di uno stock di aziende pari a 1,4 milioni che tra il giugno 2012 e quello successivo è cresciuto del 3,3 per cento nella sanità e assistenza, del 3 nell’istruzione e del 2,8 per cento nella ristorazione. «Sono comunque segnali di vitalità», dice Roma. Un modo per vedere il bicchiere bicchiere mezzo pieno.
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La grandi aziende chiudono sotto i colpi della recessione. Eppure il 2013 ha registrato il boom di aperture di nuove società, soprattutto piccole. Gli esperti: nel 2024 l’occupazione tornerà ai livelli pre-crisi
di Stefano Livadiotti
I numeri a volte possono ingannare. È il caso, per esempio, di quelli su natalità e mortalità delle aziende contenuti nel report Movimprese, la rilevazione statistica di InfoCamere, che è una sorta di anagrafe del sistema economico italiano.
«Imprese: nel 2013 le aperture superano le chiusure; 12 mila attività in più (più 0,2 per cento)», recitava un comunicato datato 22 gennaio, che dava dunque un saldo positivo del mondo imprenditoriale per il nono anno consecutivo, con 371.802 cessazioni nei 12 mesi a fronte di 384.483 nuove iscrizioni. Come a dire che l’Azienda Italia avrebbe compiuto un mezzo miracolo, riuscendo in qualche modo a galleggiare sulla crisi partita nel 2008.
Ma il dato fa a pugni con tutti i più importanti indicatori della situazione economica del Paese. Con un prodotto interno lordo che, secondo una nota del centro studi della Confindustria del 25 gennaio, ha lasciato sul campo il 9,1 per cento dal picco pre-crisi del 2007 (ci vorranno cinque anni per recuperarne la metà; sull’altro 50 per cento nessuno azzarda scommesse).
Con una produzione industriale che, secondo i calcoli contenuti nel paper “Scenari industriali”, messo a punto nel giugno scorso sempre dagli analisti di viale dell’Astronomia, è crollata del 25 per cento. Con un calo del potenziale di almeno il 20 per cento in 14 settori del manifatturiero su 22. Con la perdita di 1.158.000 posti si lavoro, che non si fermerà neanche nel 2014, anno per il quale il governo ha previsto (nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza dello scorso 20 settembre) un ulteriore calo dell’occupazione dello 0,1 per cento, nonostante la fine della recessione con la previsione di un aumento del Pil dell’uno per cento: vuol dire, secondo uno studio della Confartigianato, che l’occupazione misurata in termini di unità di lavoro a tempo pieno scenderà intorno ai 23,5 milioni, ritornando al di sotto del livello raggiunto nel 2000 e che per riconquistare la vetta del 2007 bisognerà attendere dieci anni.
Il fatto è che le rilevazioni statistiche di Infocamere vanno lette al di là del saldo puro e semplice tra natalità e mortalità delle aziende, che comunque è in costante riduzione: dal più 1,61 del 2005 al più 0,21 del 2013 (con una pausa nel biennio 2010-2011: rispettivamente, più 1,19 e più 0,82). Non solo. Se si va a guardare alle cifre assolute, il dato del 2013 sull’anno precedente diventa negativo: le aziende infatti scendono da 6.093.158 a 6.061.960. Questo perché, semplicemente, alla voce cessazioni non vengono conteggiate le cancellazioni d’ufficio che colpiscono, per esempio, le aziende colte in violazione dell’obbligo di depositare il bilancio. E queste nel solo 2013 sono state 43 mila
Ma anche così depurato il dato di Infocamere non fotografa la crisi in tutta la sua gravità. Perché a soffrire di più è stato il settore manifatturiero, quello che ha il peso più rilevante in termini di occupazione.
I numeri dello stesso Movimprese rielaborati dagli uomini del centro studi di viale dell’Astronomia dicono che tra il 2008 e il 2013 il saldo tra cessazioni e iscrizioni di imprese manifatturiere è negativo per ben 64.512 unità (con un picco di 13.628 nel primo anno). Cifra che, calcolata su uno stock di partenza di 389.899 unità, rappresenta un calo del 16,54 per cento.
Aziende di medie e grandi dimensioni che hanno chiuso i battenti e che, numericamente, sono state rimpiazzate da piccole società di servizi o esercizi commerciali: ecco come si spiega l’apparente contraddizione tra i dati delle camere di commercio e quelli sul Pil, sulla produzione industriale e sulla disoccupazione. Così la pensa Nicola Rossi, economista, già parlamentare del Pd: «Il fatto è che chi perde il posto di lavoro in fabbrica si autoimpiega, inventandosi un’attività. Se chiude un’azienda con mille dipendenti, 100 di questi si trasformano in imprenditori di se stessi e 900 vanno a ingrossare le fila dell’esercito dei disoccupati». Dice ancora Rossi: «È un fenomeno non solo italiano: in Grecia molta gente è tornata all’agricoltura. Da noi poi la difficoltà a ricollocarsi senza mettersi in proprio è stata accentuata dalle rigidità che la sciagurata riforma targata Fornero ha reintrodotto nel mercato del lavoro». D’accordo con Rossi è Alberto Bombassei, imprenditore a cinque stelle (Brembo) e presidente (oltreché parlamentare) di Scelta Civica: «L’occupazione classica è destinata a ridursi ulteriormente e questo fattore non può certo essere compensato dalla nascita di aziendine che si lanciano in settori totalmente nuovi, partendo magari con 3 o 4 addetti e vendendo i loro prodotti sulla rete: ben vengano, è chiaro, ma non risolvono certo i problemi dei senza lavoro». Conclude il leader mondiale dei freni per auto: «Bisogna trovare una soluzione nuova a livello politico, magari ricorrendo a anche a formule immaginate nel passato, come quella che prevede una riduzione dell’orario per ripartire il lavoro che c’è tra più persone»
Luca Paolazzi, capo del centro-studi degli imprenditori italiani, si aggiunge in qualche modo al coro: «Francamente non sono poi così stupito dall’apparente contraddizione tra l’aumento del numero delle imprese e lo scenario economico: i manager rispediti a casa dalle aziende mettono su imprese di consulenza; con la crisi ti inventi un lavoro da solo: è un modo di ricominciare a guadagnarsi la pagnotta altrove. Certo, bisogna vedere quante di queste nuove realtà restano in piedi più di qualche anno. E comunque in Italia il lavoro autonomo, quello che genera le micro-imprese, ha sempre avuto un peso percentuale molto più alto che nella media degli altri Paesi.
La situazione non cambia dall’angolo visuale di un sindacalista: «Il problema è che sono saltate le grandi aziende, schiacciate da un costo del lavoro reso esorbitante dal cuneo fiscale e contributivo», dice il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni. Che propone di adottare la ricetta francese, puntando su un taglio della spesa pubblica che consenta di ridurre le tasse sul lavoro. Per Giuseppe Roma, direttore del Censis, il fenomeno della natalità di nuove aziende in un periodo di vacche così magre è dovuto essenzialmente a tre fattori. Primo: gli immigrati impegnati nei lavori di manutenzione, che con la crisi crescono di importanza perché quel che si rompe non si sostituisce ma si aggiusta. Secondo: i giovani, che stanno puntando in massa su tutto ciò che è più innovativo. Terzo: le donne, titolari di uno stock di aziende pari a 1,4 milioni che tra il giugno 2012 e quello successivo è cresciuto del 3,3 per cento nella sanità e assistenza, del 3 nell’istruzione e del 2,8 per cento nella ristorazione. «Sono comunque segnali di vitalità», dice Roma. Un modo per vedere il bicchiere bicchiere mezzo pieno.
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Fisco, i crediti nei confronti della Pa
utilizzabili per sanare i propri debiti
Al via da domani la procedura che permette di semplificare il rapporto tra Fisco e imprese.
Saccomanni: "E' una innovazione con cui andiamo incontro alle esigenze delle aziende"
http://www.repubblica.it/economia/2014/ ... f=HREC1-17
**************************
è la prima cosa utile e concreta che fa questo governo.
vale quindi la pena sottolinearlo...sperando che il diavolo non si nasconda nei dettagli.
utilizzabili per sanare i propri debiti
Al via da domani la procedura che permette di semplificare il rapporto tra Fisco e imprese.
Saccomanni: "E' una innovazione con cui andiamo incontro alle esigenze delle aziende"
http://www.repubblica.it/economia/2014/ ... f=HREC1-17
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è la prima cosa utile e concreta che fa questo governo.
vale quindi la pena sottolinearlo...sperando che il diavolo non si nasconda nei dettagli.
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
caccia al tesoro :
qualcuno ha trovato il testo del piano per il lavoro di SEL ?
scritto in collaborazione con prof. Gallino, l' integrale sono circa 40 pagine.
Fonzi sembra che abbia presentato il job act oggi
Giannini repubblichino ' Per ora è solo una copertina '
Renzi concentrati per adesso REDDITO MINIMO GARANTITO !!!
1) Proposta movimento 5 stelle
2) Proposta SEL
3) la legge francese ( uguale alle proposte SEL e mov. 5 Stelle)
4) la proposta DETTAGLIATA di Civati
gia questo è troppo per te , lascia perdere lo strafare del boyscout carrierista
#matteostaisereno
qualcuno ha trovato il testo del piano per il lavoro di SEL ?
scritto in collaborazione con prof. Gallino, l' integrale sono circa 40 pagine.
Fonzi sembra che abbia presentato il job act oggi
Giannini repubblichino ' Per ora è solo una copertina '
Renzi concentrati per adesso REDDITO MINIMO GARANTITO !!!
1) Proposta movimento 5 stelle
2) Proposta SEL
3) la legge francese ( uguale alle proposte SEL e mov. 5 Stelle)
4) la proposta DETTAGLIATA di Civati
gia questo è troppo per te , lascia perdere lo strafare del boyscout carrierista
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Re: ITALIA-EMERGENZA LAVORO
Questa esperienza sembra molto interessante una risposta ' attiva' ai datori di lavoro che vogliono delocalizzare .
Crisi e fabbriche recuperate, la Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio (Mi) compie un anno
Una giornata di festeggiamenti per l'iniziativa affatto isolata nel panorama europeo, come testimonia il rafforzamento del network workerscontrol.net di cui sta per essere avviata l'edizione italiana
di Salvatore Cannavò | 1 marzo 2014
Ri-Maflow compie un anno. E l’occasione di festeggiare c’è tutta. Allo stabilimento di Trezzano sul Naviglio, abbandonato dalla Maflow qualche anno fa, dopo anni di produzione componentistica per la Bmw, sabato 1 marzo è in corso la giornata iniziata alle 10 con il concorso fotografico con giuria professionale. Alle 16 sarà la volta del dibattito La Mafia a Milano: ri-legalizziamoci occasione per discutere della ricerca sugli appalti di Expo 2015 e poi concerto e festa fino a mezzanotte. Da festeggiare, dicono i lavoratori, c’è tanto. Dopo mesi di presidio ai cancelli, tra il 2010 e il 2012, sono stati licenziati in 330 con le produzioni trasferite in Polonia. Però, una ventina di loro, non si sono persi d’animo e si sono messi in testa un’idea un po’ folle: iniziare una nuova attività produttiva in autogestione. “Il primo marzo 2013 – racconta Gigi Malabarba, pensionato e tra i principali attivisti del progetto – ci siamo formalmente costituiti nella cooperativa Rimaflow, ispirandoci ai principi delle storiche società operaie di mutuo soccorso dell’800, nate agli albori del movimento operaio: solidarietà, uguaglianza, autogestione”.
Al tempo della crisi e dei licenziamenti a raffica, la risposta è sembrata ai più un’idea bislacca o, nel migliore dei casi, una perfetta ingenuità. Eppure, da allora, Ri-Maflow è diventata il simbolo di una speranza, di una possibilità diversa, di una scommessa innovativa. Decine di trasmissioni tv le sono state dedicate, perfino da Porta a Porta – passando per il Tg2, il Tg3, tutti i principali giornali italiani e anche qualche copertura europea – gli operai che si sono rimessi in gioco hanno girato l’Italia intera dovendo rifiutare decine di inviti per l’impossibilità a presenziare. Dopo decenni in cui alla chiusura della fabbrica e alla prospettiva di rimanere a lungo senza un’occupazione, l’idea, radicale e drastica, di “riprendersela” la fabbrica ha suscitato interesse e simpatia. Gli operai di Ri-Maflow non hanno ovviamente ripreso la vecchia produzione. L’azienda si è portata via i macchinari più importanti e, in ogni caso, non è semplice recuperare un’attività che deve vedersela con la distribuzione, i collegamenti esterni, l’indotto, i canali internazionali. Però i lavoratori hanno occupato i 30mila metri quadrati, 14mila coperti, dello stabilimento, scommettendo su una produzione del tutto diversa. La riconversione ecologicamente sostenibile, il riutilizzo-riciclo a chilometri zero di materiali di scarto – elettrici ed elettronici in particolare – puntando a creare reddito per la cooperativa e ricchezza sociale per il territorio circostante.
E’ così stato redatto un “business plan” ecosostenibile in collaborazione con l’Afol della Provincia di Milano e alcuni giovani studenti e docenti universitari. Non solo. La fabbrica è diventata anche la sede di un Gruppo di acquisto solidale, Fuorimercato, che ha stretto una collaborazione sia con i produttori di prossimità ma anche con i produttori calabresi di SoS Rosarno, l’associazione che combatte caporali e ‘ndrangheta puntando alla solidarietà tra lavoratori italiani e migranti. “Vogliamo realizzare uno spazio in cui i penultimi aiutano gli ultimi, contro l’egoismo dei ‘primi’”, dicono a Ri-Maflow. Tutti i sabati e le domeniche, ad esempio, funziona il Mercatino dell’usato coperto con circa 70 espositori permanenti, nella quasi totalità, disoccupati e/o pensionati al minimo.
Il territorio circostante è costantemente coinvolto e la cooperativa sta curando, a proprie spese, la bonifica della falda acquifera oltre alla rimozione dell’amianto sul tetto per installare pannelli fotovoltaici. A dimostrazione che l’esperimento non è isolato e che la fabbrica non si sente “sola” c’è il piccolo evento che si è svolto il 31 gennaio a Marsiglia quando, nei capannoni di un’altra fabbrica recuperata, la Fralib, si è svolto l’incontro L’economia dei lavoratori, primo appuntamento europeo di una rete che vede coinvolte le fabbriche argentine, sudamericane e quelle europee. La fabbrica ospitante, la Fralib, è una fabbrica di confezionamento per infusi e tè recuperata in seguito alla delocalizzazione della produzione in Belgio e Polonia da parte di Unilever. All’incontro hanno partecipato varie realtà europee e sudamericane: la fabbrica di gelati recuperata Pilpa di Carcassone, le Officine Zero di Roma, la Rimaflow, la Vio.Me, fabbrica recuperata di Salonicco, in Grecia, che produce detersivi ecologici. La due giorni ha avuto il merito di fornire un quadro della situazione europea dei movimenti per l’autogestione, che si rafforzerà con la creazione di una rete di ricerca, organizzata per la mappatura delle imprese recuperate ed autogestite in Europa, e in particolare con il rafforzamento del network workerscontrol.net di cui sta per essere avviata l’edizione italiana.
( il fatto quotidiano)
Crisi e fabbriche recuperate, la Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio (Mi) compie un anno
Una giornata di festeggiamenti per l'iniziativa affatto isolata nel panorama europeo, come testimonia il rafforzamento del network workerscontrol.net di cui sta per essere avviata l'edizione italiana
di Salvatore Cannavò | 1 marzo 2014
Ri-Maflow compie un anno. E l’occasione di festeggiare c’è tutta. Allo stabilimento di Trezzano sul Naviglio, abbandonato dalla Maflow qualche anno fa, dopo anni di produzione componentistica per la Bmw, sabato 1 marzo è in corso la giornata iniziata alle 10 con il concorso fotografico con giuria professionale. Alle 16 sarà la volta del dibattito La Mafia a Milano: ri-legalizziamoci occasione per discutere della ricerca sugli appalti di Expo 2015 e poi concerto e festa fino a mezzanotte. Da festeggiare, dicono i lavoratori, c’è tanto. Dopo mesi di presidio ai cancelli, tra il 2010 e il 2012, sono stati licenziati in 330 con le produzioni trasferite in Polonia. Però, una ventina di loro, non si sono persi d’animo e si sono messi in testa un’idea un po’ folle: iniziare una nuova attività produttiva in autogestione. “Il primo marzo 2013 – racconta Gigi Malabarba, pensionato e tra i principali attivisti del progetto – ci siamo formalmente costituiti nella cooperativa Rimaflow, ispirandoci ai principi delle storiche società operaie di mutuo soccorso dell’800, nate agli albori del movimento operaio: solidarietà, uguaglianza, autogestione”.
Al tempo della crisi e dei licenziamenti a raffica, la risposta è sembrata ai più un’idea bislacca o, nel migliore dei casi, una perfetta ingenuità. Eppure, da allora, Ri-Maflow è diventata il simbolo di una speranza, di una possibilità diversa, di una scommessa innovativa. Decine di trasmissioni tv le sono state dedicate, perfino da Porta a Porta – passando per il Tg2, il Tg3, tutti i principali giornali italiani e anche qualche copertura europea – gli operai che si sono rimessi in gioco hanno girato l’Italia intera dovendo rifiutare decine di inviti per l’impossibilità a presenziare. Dopo decenni in cui alla chiusura della fabbrica e alla prospettiva di rimanere a lungo senza un’occupazione, l’idea, radicale e drastica, di “riprendersela” la fabbrica ha suscitato interesse e simpatia. Gli operai di Ri-Maflow non hanno ovviamente ripreso la vecchia produzione. L’azienda si è portata via i macchinari più importanti e, in ogni caso, non è semplice recuperare un’attività che deve vedersela con la distribuzione, i collegamenti esterni, l’indotto, i canali internazionali. Però i lavoratori hanno occupato i 30mila metri quadrati, 14mila coperti, dello stabilimento, scommettendo su una produzione del tutto diversa. La riconversione ecologicamente sostenibile, il riutilizzo-riciclo a chilometri zero di materiali di scarto – elettrici ed elettronici in particolare – puntando a creare reddito per la cooperativa e ricchezza sociale per il territorio circostante.
E’ così stato redatto un “business plan” ecosostenibile in collaborazione con l’Afol della Provincia di Milano e alcuni giovani studenti e docenti universitari. Non solo. La fabbrica è diventata anche la sede di un Gruppo di acquisto solidale, Fuorimercato, che ha stretto una collaborazione sia con i produttori di prossimità ma anche con i produttori calabresi di SoS Rosarno, l’associazione che combatte caporali e ‘ndrangheta puntando alla solidarietà tra lavoratori italiani e migranti. “Vogliamo realizzare uno spazio in cui i penultimi aiutano gli ultimi, contro l’egoismo dei ‘primi’”, dicono a Ri-Maflow. Tutti i sabati e le domeniche, ad esempio, funziona il Mercatino dell’usato coperto con circa 70 espositori permanenti, nella quasi totalità, disoccupati e/o pensionati al minimo.
Il territorio circostante è costantemente coinvolto e la cooperativa sta curando, a proprie spese, la bonifica della falda acquifera oltre alla rimozione dell’amianto sul tetto per installare pannelli fotovoltaici. A dimostrazione che l’esperimento non è isolato e che la fabbrica non si sente “sola” c’è il piccolo evento che si è svolto il 31 gennaio a Marsiglia quando, nei capannoni di un’altra fabbrica recuperata, la Fralib, si è svolto l’incontro L’economia dei lavoratori, primo appuntamento europeo di una rete che vede coinvolte le fabbriche argentine, sudamericane e quelle europee. La fabbrica ospitante, la Fralib, è una fabbrica di confezionamento per infusi e tè recuperata in seguito alla delocalizzazione della produzione in Belgio e Polonia da parte di Unilever. All’incontro hanno partecipato varie realtà europee e sudamericane: la fabbrica di gelati recuperata Pilpa di Carcassone, le Officine Zero di Roma, la Rimaflow, la Vio.Me, fabbrica recuperata di Salonicco, in Grecia, che produce detersivi ecologici. La due giorni ha avuto il merito di fornire un quadro della situazione europea dei movimenti per l’autogestione, che si rafforzerà con la creazione di una rete di ricerca, organizzata per la mappatura delle imprese recuperate ed autogestite in Europa, e in particolare con il rafforzamento del network workerscontrol.net di cui sta per essere avviata l’edizione italiana.
( il fatto quotidiano)
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