La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
BOMBE SENZA FRONTIERE
Repubblica 5.10.15
Bernard Kouchner, il fondatore di Medici senza frontiere: “Non c’è più rispetto per gli operatori umanitari”
“Questo massacro è un crimine di guerra l’America dica la verità per salvare il suo onore”
Un errore è impossibile, a meno che i piloti non guardassero le carte. Quel centro era segnalato da tempo
Un ospedale è fatto per curare tutti, anche i Taliban. E Msf non ha mai fatto differenze tra feriti di diversi gruppi
Il conflitto è diventato feroce e cieco, chi lavora per salvare gli altri è sempre più in pericolo
Msf dopo la strage: “Via da Kunduz”. Il bilancio del raid della Nato è di 22 morti
intervista
di Anais Ginori
Bernard Kouchner ha fondato Médecins Sans Frontières nel 1971 È stato ministro degli Esteri durante il governo Sarkozy e, nei primi Anni ‘90, della Sanità con Mitterrand
PARIGI «Esprimo tutta la mia indignazione. Le condoglianze di Barack Obama sono il minimo, ora bisognerà accertare le responsabilità». Bernard Kouchner ha aspettato qualche ora prima di commentare i raid americani sull’ospedale di Medici Senza Frontiere in Afghanistan, a Kunduz, in cui sono morte 22 persone, tra cui 12 impiegati dell’ong. «Volevo avere più elementi per farmi un’idea, tanto mi sembrava incredibile» spiega l’ex ministro degli Esteri e fondatore di Msf nel lontano 1971.
L’esercito americano riconosce solo un “danno collaterale”. È sufficiente?
«Gli errori in guerra purtroppo ci sono sempre, tanto più con i bombardamenti aerei. Ma in questo caso è incomprensibile, sono indignato da questa spiegazione. L’ospedale di Msf a Kunduz era segnalato ed esisteva da tempo. Un errore non è possibile, a meno che i piloti non guardassero le carte».
Nonostante l’allerta di Msf, i bombardamenti sono continuati. Era dunque un raid mirato?
Le autorità afgane parlano di Taliban rifugiati nell’ospedale. È plausibile?
«Si tratterebbe di false informazioni diffuse apposta per mettere in pericolo il lavoro di Msf. Sarebbe molto preoccupante sapere che gli americani compiono un bombardamento fidandosi di notizie non verificate, sapendo che coinvolge un obiettivo civile e protetto come un ospedale».
È possibile che ci fossero combattenti Taliban in quell’ospedale?
«Un ospedale è fatto per curare tutti. E Medici Senza Frontiere non ha mai fatto differenze tra feriti di un gruppo combattente piuttosto che l’altro.
Se ci fossero a Kunduz feriti Taliban andrebbero curati come nell’ospedale di Msf come tutti gli altri. Per un medico il soccorso è un dovere. E’ un principio morale che non dovrebbe mai essere rimesso in discussione, neppure in guerra».
Rispettare il lavoro e la protezione delle ong in zone di conflitti è diventato più difficile?
«Il personale umanitario lavora in condizioni sempre più pericolose. Non c’è più rispetto per lo statuto delle ong, che è al di sopra delle parti. Oggi la guerra è diventata sempre più feroce e cieca. Ha ragione l’Onu che parla di un crimine di guerra».
La neutralità delle ong non viene riconosciuta?
« Non si combatte a terra ma dal cielo. I raid hanno molte più probabilità di fare i cosiddetti danni collaterali. Anche Vladimir Putin che ha bombardato a Raqqa per colpire i miliziani dello Stato islamico potrebbe aver fatto vittime tra i civili. Tutti lo sappiamo. Questo però non giustifica i raid su Kunduz. In questo caso è diverso: è stato colpito un ospedale».
Obama ha promesso un’inchiesta. Sarà possibile avere la verità sul bombardamento di Kunduz?
La vertà è necessaria per salvare l’onore dell’esercito americano. Il massacro di Kunduz è uno scandalo».
L’esercito americano lascerà l’Afghanistan l’anno prossimo. Cosa accadrà?
«Il mondo occidentale ha perso tutte le guerre degli ultimi anni.
E’ inevitabile che Obama attui il ritiro dei soldati, così come ha promesso in campagna elettorale. Abbiamo tentato di aiutare le forze democratiche in Afghanistan ma non ce ne sono molte. E’ così anche in Siria, dove credo alla fine dovremo scendere a patti con Putin e Assad».
Repubblica 5.10.15
Bernard Kouchner, il fondatore di Medici senza frontiere: “Non c’è più rispetto per gli operatori umanitari”
“Questo massacro è un crimine di guerra l’America dica la verità per salvare il suo onore”
Un errore è impossibile, a meno che i piloti non guardassero le carte. Quel centro era segnalato da tempo
Un ospedale è fatto per curare tutti, anche i Taliban. E Msf non ha mai fatto differenze tra feriti di diversi gruppi
Il conflitto è diventato feroce e cieco, chi lavora per salvare gli altri è sempre più in pericolo
Msf dopo la strage: “Via da Kunduz”. Il bilancio del raid della Nato è di 22 morti
intervista
di Anais Ginori
Bernard Kouchner ha fondato Médecins Sans Frontières nel 1971 È stato ministro degli Esteri durante il governo Sarkozy e, nei primi Anni ‘90, della Sanità con Mitterrand
PARIGI «Esprimo tutta la mia indignazione. Le condoglianze di Barack Obama sono il minimo, ora bisognerà accertare le responsabilità». Bernard Kouchner ha aspettato qualche ora prima di commentare i raid americani sull’ospedale di Medici Senza Frontiere in Afghanistan, a Kunduz, in cui sono morte 22 persone, tra cui 12 impiegati dell’ong. «Volevo avere più elementi per farmi un’idea, tanto mi sembrava incredibile» spiega l’ex ministro degli Esteri e fondatore di Msf nel lontano 1971.
L’esercito americano riconosce solo un “danno collaterale”. È sufficiente?
«Gli errori in guerra purtroppo ci sono sempre, tanto più con i bombardamenti aerei. Ma in questo caso è incomprensibile, sono indignato da questa spiegazione. L’ospedale di Msf a Kunduz era segnalato ed esisteva da tempo. Un errore non è possibile, a meno che i piloti non guardassero le carte».
Nonostante l’allerta di Msf, i bombardamenti sono continuati. Era dunque un raid mirato?
Le autorità afgane parlano di Taliban rifugiati nell’ospedale. È plausibile?
«Si tratterebbe di false informazioni diffuse apposta per mettere in pericolo il lavoro di Msf. Sarebbe molto preoccupante sapere che gli americani compiono un bombardamento fidandosi di notizie non verificate, sapendo che coinvolge un obiettivo civile e protetto come un ospedale».
È possibile che ci fossero combattenti Taliban in quell’ospedale?
«Un ospedale è fatto per curare tutti. E Medici Senza Frontiere non ha mai fatto differenze tra feriti di un gruppo combattente piuttosto che l’altro.
Se ci fossero a Kunduz feriti Taliban andrebbero curati come nell’ospedale di Msf come tutti gli altri. Per un medico il soccorso è un dovere. E’ un principio morale che non dovrebbe mai essere rimesso in discussione, neppure in guerra».
Rispettare il lavoro e la protezione delle ong in zone di conflitti è diventato più difficile?
«Il personale umanitario lavora in condizioni sempre più pericolose. Non c’è più rispetto per lo statuto delle ong, che è al di sopra delle parti. Oggi la guerra è diventata sempre più feroce e cieca. Ha ragione l’Onu che parla di un crimine di guerra».
La neutralità delle ong non viene riconosciuta?
« Non si combatte a terra ma dal cielo. I raid hanno molte più probabilità di fare i cosiddetti danni collaterali. Anche Vladimir Putin che ha bombardato a Raqqa per colpire i miliziani dello Stato islamico potrebbe aver fatto vittime tra i civili. Tutti lo sappiamo. Questo però non giustifica i raid su Kunduz. In questo caso è diverso: è stato colpito un ospedale».
Obama ha promesso un’inchiesta. Sarà possibile avere la verità sul bombardamento di Kunduz?
La vertà è necessaria per salvare l’onore dell’esercito americano. Il massacro di Kunduz è uno scandalo».
L’esercito americano lascerà l’Afghanistan l’anno prossimo. Cosa accadrà?
«Il mondo occidentale ha perso tutte le guerre degli ultimi anni.
E’ inevitabile che Obama attui il ritiro dei soldati, così come ha promesso in campagna elettorale. Abbiamo tentato di aiutare le forze democratiche in Afghanistan ma non ce ne sono molte. E’ così anche in Siria, dove credo alla fine dovremo scendere a patti con Putin e Assad».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
IL CONFLITTO SUL FRONTE MEDIORIENTALE SI ALLARGA
La Stampa 5.10.15
Shaul Mishal, direttore al centro studi «Idc Herzlya»
“Questa volta non riguarda solo Israele. Devono aiutarci i nostri vicini arabi”
“L’epicentro è Gerusalemme, la soluzione è regionale”
intervista di M. Mo.
«La terza Intifada è iniziata, ruota attorno a Gerusalemme e ha una dimensione regionale»: ad affermarlo è Shaul Mishal, direttore del programma sul Medio Oriente al centro di studi “Idc Herzlya”.
Perché le violenze in atto sono l’inizio della terza Intifada?
«Sono eventi singoli ma non sporadici, hanno come epicentro Gerusalemme ma si stanno estendendo al resto della Cisgiordania. È l’inizio di una rivolta violenta. Per molti israeliani ammetterlo è difficile perché investe la città di Gerusalemme».
Cosa distingue questa Intifada da quelle precedenti?
«Il fatto di avere un valore regionale, religioso, che va oltre il conflitto fra israeliani e palestinesi. Le due Intifade precedenti erano un fatto bilaterale, adesso invece l’epicentro a Gerusalemme coinvolge il mondo musulmano, i nostri vicini come Egitto e Giordania, e l’Arabia Saudita. I Paesi sunniti si sentono coinvolti, partecipi in quanto sta avvenendo».
Cosa comporta per Israele?
«Che la reazione è assai più difficile del passato. Le precedenti Intifade vennero affrontate con rimedi di sicurezza, misure tese a punire gli autori delle violenze ed esercitare deterrenza per impedirne il ripetersi. Ora Israele invece è obbligata a contenere la reazione di sicurezza a Gerusalemme, dove ogni singolo gesto può innescare reazioni negative di Egitto e Giordania con cui abbiamo dei trattati di pace e del mondo arabo-sunnita».
Quali sono le opzioni che il premier Benjamin Netanyahu ha a disposizione?
«Adotterà rigide misure di sicurezza, ma da sole non basteranno. Deve anzitutto incontrare il presidente palestinese Abu Mazen al fine di riportare la situazione sotto controllo. È importante ripristinare il dialogo con il presidente palestinese perché l’assenza di contatti diretti giova alla violenza. Ma, nel medio-lungo termine, Netanyahu è chiamato a dare una risposta regionale a questa terza Intifada».
Cosa intende dire?
«Che deve coinvolgere Giordania, Arabia Saudita e forse anche Egitto. Magari invitando qualche importante personalità, direi religiosa, di questi Paesi a visitare Gerusalemme. La Città Santa alle fedi monoteistiche in questo momento è all’origine dell’escalation, perché i palestinesi cavalcano il tema della moschea di Al Aqsa, ma può diventare l’esatto opposto ovvero il punto di incontro fra Israele e Paesi sunniti. Per disinnescare l’Intifada e magari porre le basi per un processo regionale più ampio, capace di affrontare i nodi del persistente conflitto con i palestinesi».
La Stampa 5.10.15
Shaul Mishal, direttore al centro studi «Idc Herzlya»
“Questa volta non riguarda solo Israele. Devono aiutarci i nostri vicini arabi”
“L’epicentro è Gerusalemme, la soluzione è regionale”
intervista di M. Mo.
«La terza Intifada è iniziata, ruota attorno a Gerusalemme e ha una dimensione regionale»: ad affermarlo è Shaul Mishal, direttore del programma sul Medio Oriente al centro di studi “Idc Herzlya”.
Perché le violenze in atto sono l’inizio della terza Intifada?
«Sono eventi singoli ma non sporadici, hanno come epicentro Gerusalemme ma si stanno estendendo al resto della Cisgiordania. È l’inizio di una rivolta violenta. Per molti israeliani ammetterlo è difficile perché investe la città di Gerusalemme».
Cosa distingue questa Intifada da quelle precedenti?
«Il fatto di avere un valore regionale, religioso, che va oltre il conflitto fra israeliani e palestinesi. Le due Intifade precedenti erano un fatto bilaterale, adesso invece l’epicentro a Gerusalemme coinvolge il mondo musulmano, i nostri vicini come Egitto e Giordania, e l’Arabia Saudita. I Paesi sunniti si sentono coinvolti, partecipi in quanto sta avvenendo».
Cosa comporta per Israele?
«Che la reazione è assai più difficile del passato. Le precedenti Intifade vennero affrontate con rimedi di sicurezza, misure tese a punire gli autori delle violenze ed esercitare deterrenza per impedirne il ripetersi. Ora Israele invece è obbligata a contenere la reazione di sicurezza a Gerusalemme, dove ogni singolo gesto può innescare reazioni negative di Egitto e Giordania con cui abbiamo dei trattati di pace e del mondo arabo-sunnita».
Quali sono le opzioni che il premier Benjamin Netanyahu ha a disposizione?
«Adotterà rigide misure di sicurezza, ma da sole non basteranno. Deve anzitutto incontrare il presidente palestinese Abu Mazen al fine di riportare la situazione sotto controllo. È importante ripristinare il dialogo con il presidente palestinese perché l’assenza di contatti diretti giova alla violenza. Ma, nel medio-lungo termine, Netanyahu è chiamato a dare una risposta regionale a questa terza Intifada».
Cosa intende dire?
«Che deve coinvolgere Giordania, Arabia Saudita e forse anche Egitto. Magari invitando qualche importante personalità, direi religiosa, di questi Paesi a visitare Gerusalemme. La Città Santa alle fedi monoteistiche in questo momento è all’origine dell’escalation, perché i palestinesi cavalcano il tema della moschea di Al Aqsa, ma può diventare l’esatto opposto ovvero il punto di incontro fra Israele e Paesi sunniti. Per disinnescare l’Intifada e magari porre le basi per un processo regionale più ampio, capace di affrontare i nodi del persistente conflitto con i palestinesi».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Corriere 5.10.15
La Città Vecchia chiusa agli arabi e nei Territori c’è voglia di «Intifada»
La destra preme su Netanyahu perché agisca, la sinistra israeliana è stanca di Oslo
I ministri oltranzisti nella coalizione - come Naftali Bennett- chiedono un intervento ancora più duro.
Negli scontri di ieri - in tutti i territori e nella parte araba di Gerusalemme - sarebbero rimasti feriti quasi 100 palestinesi
Tra i palestinesi cresce la voglia di armi, ma la violenza resta poco organizzata. Per ora
di Davide Frattini
L’ invito del presidente Reuven Rivlin a non lasciare vuote le vie nella Città Vecchia di Gerusalemme sbatte contro lo sbarramento della paura e quello imposto dalla polizia. Che per due giorni non permette ai palestinesi di varcare i portali delle mura antiche, possono passare solo gli arabi che vivono o lavorano tra le pietre più contese. Con loro i turisti, gli ebrei israeliani che vogliono pregare al Muro del pianto, le tante guardie dispiegate dopo l’attacco di sabato sera.
In questi giorni Israele celebra la festa di Sukkot, le tende bianche coperte dalle foglie di palma issate come bandiere davanti alle case o sui balconi. Pochi ricordano l’altra tenda, quella che il premier israeliano Benjamin Netanyahu suggeriva di piantare a metà strada tra Gerusalemme e Ramallah dove sedersi con il presidente palestinese Abu Mazen. Era il giugno del 2013, adesso i due leader neppure si parlano, i negoziati voluti dagli americani sono «congelati» — l’espressione è dei diplomatici, le trattative sembrano piuttosto ibernate — in mezzo ci sono state una guerra (quella dell’estate scorsa con Hamas a Gaza) e la violenza che non si placa in Cisgiordania.
La parola Intifada torna sulle prime pagine dei giornali, viene sussurrata con preoccupazione da Netanyahu e i suoi consiglieri, proclamata come avvertimento da quelli di Abu Mazen: «I segnali sono gli stessi del settembre di quindici anni fa, l’esperienza dimostra che gli israeliani non possono bloccare la libertà palestinese con misure di forza» commenta Saeb Erekat, considerato un possibile successore del raìs. Che a ottant’anni non nasconde la stanchezza: è improbabile che cerchi di ottenere un secondo mandato nelle elezioni per ora sempre rinviate.
Sarebbe la terza rivolta palestinese, l’ultima è scemata ed è stata disinnescata dalle operazioni militari nel 2005, dopo tremila morti arabi e un migliaio israeliani. A ognuna gli analisti e i politici israeliani hanno affibbiato una definizione: la prima è stata chiamata Intifada delle pietre mentre per la prossima, quella da scongiurare, manca ancora una denominazione perché la violenza è diffusa ma non sembra fino ad adesso organizzata. «È un’Intifada individuale — spiega Avi Issacharoff, esperto di cose palestinesi per il sito Times of Israel —. La maggioranza della popolazione non prende parte agli attacchi».
Un sondaggio del Palestinian Center for Policy Survey and Research rileva che il 57 per cento tra gli abitanti arabi dei territori e di Gerusalemme Est appoggia il ritorno alla «ribellione armata», è l’8 per cento in più rispetto a tre mesi fa. Editorialisti come David Rosenberg associano la frustrazione palestinese all’economia sempre più rallentata (la crescita è a zero) della Cisgiordania: «Le condizioni di vita sono stagnanti — scrive sul quotidiano Haaretz — e l’Autorità palestinese tira avanti solo grazie alla generosità internazionale: non vuol sentir parlare di crisi perché vorrebbe dire impegnarsi in riforme interne».
Altri analisti sono convinti che lo scontro stia diventando religioso, al centro la questione della Spianata a Gerusalemme: il terzo luogo più sacro al mondo per i musulmani sunniti è venerato anche dagli ebrei, lì sorgeva il Secondo tempio distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. Malgrado le smentite, gli arabi temono che il governo israeliano voglia cambiare le regole di accesso definite da quasi cinquant’anni e permettere agli ultraortodossi di pregare tra le moschee.
Abu Mazen alza il volume dei proclami e delle minacce, non sembra interessato però a fomentare una guerra che lo lascerebbe traballante al potere: per ora le sue forze di sicurezza continuano a cooperare e coordinarsi con l’esercito israeliano, provano a evitare che i disordini si diffondano. Eppure — fa notare Amos Harel sempre su Haaretz — «gli sviluppi di questi ultimi mesi mostrano che i freni tirati dall’Autorità e dal governo israeliano potrebbero non bastare a fermare la corsa verso il caos».
Gli alleati nella coalizione accusano Netanyahu di essere troppo morbido, lui che sette mesi fa ha vinto le elezioni con l’appellativo di Mr. Sicurezza. Così la destra oltranzista chiede di ordinare raid militari: «L’esercito ha le mani legate per colpa del premier» attacca Naftali Bennett, che guida il partito dei coloni ed è ministro dell’Educazione. «La sinistra sembra invece offuscata dai dubbi della mezza età», ironizza su Twitter Asaf Ronel, che ha seguito per Haaretz il dibattito tra Zeev Sternhell, tra i più importanti ricercatori sulle origini del fascismo, e Shlomo Avineri, docente di Scienze politiche ed ex diplomatico. Tutt’e due sostenitori da sempre della necessità di un accordo con i palestinesi, devono confrontarsi con quello che ormai anche i pacifisti considerano il fallimento dell’intesa stabilita a Oslo e che garantì il Nobel per la pace a Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Yasser Arafat.
Sono passati vent’anni, i due pensatori provano a immaginare le soluzioni che possano chiudere questo conflitto senza fine. Con l’avvertimento di Avineri: «I palestinesi continuano a considerare Israele un fenomeno coloniale destinato a scomparire, così non c’è una vera base per il dialogo».
La Città Vecchia chiusa agli arabi e nei Territori c’è voglia di «Intifada»
La destra preme su Netanyahu perché agisca, la sinistra israeliana è stanca di Oslo
I ministri oltranzisti nella coalizione - come Naftali Bennett- chiedono un intervento ancora più duro.
Negli scontri di ieri - in tutti i territori e nella parte araba di Gerusalemme - sarebbero rimasti feriti quasi 100 palestinesi
Tra i palestinesi cresce la voglia di armi, ma la violenza resta poco organizzata. Per ora
di Davide Frattini
L’ invito del presidente Reuven Rivlin a non lasciare vuote le vie nella Città Vecchia di Gerusalemme sbatte contro lo sbarramento della paura e quello imposto dalla polizia. Che per due giorni non permette ai palestinesi di varcare i portali delle mura antiche, possono passare solo gli arabi che vivono o lavorano tra le pietre più contese. Con loro i turisti, gli ebrei israeliani che vogliono pregare al Muro del pianto, le tante guardie dispiegate dopo l’attacco di sabato sera.
In questi giorni Israele celebra la festa di Sukkot, le tende bianche coperte dalle foglie di palma issate come bandiere davanti alle case o sui balconi. Pochi ricordano l’altra tenda, quella che il premier israeliano Benjamin Netanyahu suggeriva di piantare a metà strada tra Gerusalemme e Ramallah dove sedersi con il presidente palestinese Abu Mazen. Era il giugno del 2013, adesso i due leader neppure si parlano, i negoziati voluti dagli americani sono «congelati» — l’espressione è dei diplomatici, le trattative sembrano piuttosto ibernate — in mezzo ci sono state una guerra (quella dell’estate scorsa con Hamas a Gaza) e la violenza che non si placa in Cisgiordania.
La parola Intifada torna sulle prime pagine dei giornali, viene sussurrata con preoccupazione da Netanyahu e i suoi consiglieri, proclamata come avvertimento da quelli di Abu Mazen: «I segnali sono gli stessi del settembre di quindici anni fa, l’esperienza dimostra che gli israeliani non possono bloccare la libertà palestinese con misure di forza» commenta Saeb Erekat, considerato un possibile successore del raìs. Che a ottant’anni non nasconde la stanchezza: è improbabile che cerchi di ottenere un secondo mandato nelle elezioni per ora sempre rinviate.
Sarebbe la terza rivolta palestinese, l’ultima è scemata ed è stata disinnescata dalle operazioni militari nel 2005, dopo tremila morti arabi e un migliaio israeliani. A ognuna gli analisti e i politici israeliani hanno affibbiato una definizione: la prima è stata chiamata Intifada delle pietre mentre per la prossima, quella da scongiurare, manca ancora una denominazione perché la violenza è diffusa ma non sembra fino ad adesso organizzata. «È un’Intifada individuale — spiega Avi Issacharoff, esperto di cose palestinesi per il sito Times of Israel —. La maggioranza della popolazione non prende parte agli attacchi».
Un sondaggio del Palestinian Center for Policy Survey and Research rileva che il 57 per cento tra gli abitanti arabi dei territori e di Gerusalemme Est appoggia il ritorno alla «ribellione armata», è l’8 per cento in più rispetto a tre mesi fa. Editorialisti come David Rosenberg associano la frustrazione palestinese all’economia sempre più rallentata (la crescita è a zero) della Cisgiordania: «Le condizioni di vita sono stagnanti — scrive sul quotidiano Haaretz — e l’Autorità palestinese tira avanti solo grazie alla generosità internazionale: non vuol sentir parlare di crisi perché vorrebbe dire impegnarsi in riforme interne».
Altri analisti sono convinti che lo scontro stia diventando religioso, al centro la questione della Spianata a Gerusalemme: il terzo luogo più sacro al mondo per i musulmani sunniti è venerato anche dagli ebrei, lì sorgeva il Secondo tempio distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. Malgrado le smentite, gli arabi temono che il governo israeliano voglia cambiare le regole di accesso definite da quasi cinquant’anni e permettere agli ultraortodossi di pregare tra le moschee.
Abu Mazen alza il volume dei proclami e delle minacce, non sembra interessato però a fomentare una guerra che lo lascerebbe traballante al potere: per ora le sue forze di sicurezza continuano a cooperare e coordinarsi con l’esercito israeliano, provano a evitare che i disordini si diffondano. Eppure — fa notare Amos Harel sempre su Haaretz — «gli sviluppi di questi ultimi mesi mostrano che i freni tirati dall’Autorità e dal governo israeliano potrebbero non bastare a fermare la corsa verso il caos».
Gli alleati nella coalizione accusano Netanyahu di essere troppo morbido, lui che sette mesi fa ha vinto le elezioni con l’appellativo di Mr. Sicurezza. Così la destra oltranzista chiede di ordinare raid militari: «L’esercito ha le mani legate per colpa del premier» attacca Naftali Bennett, che guida il partito dei coloni ed è ministro dell’Educazione. «La sinistra sembra invece offuscata dai dubbi della mezza età», ironizza su Twitter Asaf Ronel, che ha seguito per Haaretz il dibattito tra Zeev Sternhell, tra i più importanti ricercatori sulle origini del fascismo, e Shlomo Avineri, docente di Scienze politiche ed ex diplomatico. Tutt’e due sostenitori da sempre della necessità di un accordo con i palestinesi, devono confrontarsi con quello che ormai anche i pacifisti considerano il fallimento dell’intesa stabilita a Oslo e che garantì il Nobel per la pace a Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Yasser Arafat.
Sono passati vent’anni, i due pensatori provano a immaginare le soluzioni che possano chiudere questo conflitto senza fine. Con l’avvertimento di Avineri: «I palestinesi continuano a considerare Israele un fenomeno coloniale destinato a scomparire, così non c’è una vera base per il dialogo».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
La Stampa 5.10.15
Molotov e proiettili
A Gerusalemme parte la terza Intifada
Scontri nel quartiere arabo, s’incendia la Cisgiordania
Netanyahu minaccia: “La stroncherò come fece Sharon”
di Maurizio Molinari
Molotov contro proiettili di gomma, shabab mascherati contro guardie di frontiera, barricate in fiamme contro unità speciali. E’ battaglia nel quartiere arabo di Issawiya, a Gerusalemme Est, quando i soldati bloccano la strada centrale per raggiungere la casa di Fadi Alloun, il palestinese di 21 anni ucciso ieri mattina a Musrara dopo aver accoltellato un ragazzo ebreo di 15 anni. Per la polizia israeliana si tratta dell’ultimo attacco terrorista di un’escalation di violenze che ha causato cinque morti in due settimane ma a Issawiya accusano gli agenti di aver «ucciso un innocente solo perché scappava braccato da un gruppo di estremisti ebrei».
Le opposte versioni sulla morte di Alloun sono lo specchio dell’«inizio della Terza Intifada» come la definisce Nahum Barnea su «Yedioth Aharonot», il cui epicentro è a Gerusalemme per il braccio di ferro sulla Spianata delle Moschee il Monte del Tempio della tradizione ebraica che vede Hamas e Jihad islamica palestinese incitare i palestinesi a «prendere le armi» e «diventare martiri» per difendere la moschea di Al Aqsa. In un video postato su YouTube con il titolo «Lettera numero 1» la Jihad islamica mostra propri kamikaze che indossano divise israeliane e salgono su bus di linea per farsi esplodere. È la minaccia di un’offensiva feroce e il premier Benjamin Netanyahu li avverte: «Se volete la Terza Intifada avrete il secondo Scudo di Difesa» ovvero una ripetizione della massiccia operazione con cui Ariel Sharon nel 2002 stroncò la rivolta. La Città Vecchia è avvolta da uno schieramento imponente di 3500 agenti per la decisione, senza precedenti, del governo di impedire l’accesso ai palestinesi non residenti o senza documenti israeliani: la Guardia di Frontiera presidia ogni accesso e le strade del quartiere musulmano, ferma qualsiasi sospetto. L’intento è esercitare il massimo della deterrenza per impedire attacchi come quello di sabato che ha causato la morte di due uomini, riducendo una donna di 22 anni in condizioni critiche con il figlio di 2 anni ferito.
La serrata
I commercianti del suk arabo reagiscono con la serrata e le violenze si spostano fuori Gerusalemme, incendiando la West Bank. I disordini iniziano al posto di blocco di Atara, a Bir Zeit, e nel campo profughi di Al-Arub, fra Betlemme e Hebron, continuano nel campo di Jalazun nei pressi di Ramallah e a Isawiyya. A Jenin lo scontro è armato perché le unità speciali circondano la casa di Qays al-Saadi, membro delle Brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas, e vengono accolti con gli spari. Lanciano un missile anti-tank che distrugge l’abitazione. Almeno 18 i palestinesi feriti con gli israeliani che entrano nell’ospedale locale per arrestare Karm al-Masri, sospettato di coinvolgimento nei recenti attacchi. Battaglia anche a Surda, a Nord di Ramallah, dove c’è la casa di Mohannad Hallabi, il 19enne “martire” della Jihad islamica autore del duplice omicidio di sabato nella Città Vecchia. Sparano i soldati e sparano i palestinesi, con una folla di “shabab” che accorre alla casa di Halabi per ostacolare in ogni modo i militari. È la stessa strada di Surba dove, sabato notte, alcuni palestinesi hanno ballato per gioire dell’assassinio di Nehemia Lavie e Aharon Benita, 41 e 21 anni.
Bombe incendiarie
I palestinesi combattono con le bombe incendiarie: colpita una jeep a Halhul e una postazione militare a Bayt Umar. A Betlemme un soldato israeliano viene ferito. Fonti palestinesi parlano di «almeno 77 feriti da proiettili israeliani, veri o di gomma» al termine di una giornata di battaglia che vede «una dozzina di ambulanze della Mezzaluna Rossa aggredite e il personale malmenato». Ramallah parla di «provocazioni ed attacchi dei coloni a Nablus, Hebron e Ramallah» con il fatto più grave avvenuto a Buris dove «estremisti provenienti da Yizhar e Bracha hanno incendiato i campi dei villaggi arabi». Saed Erakat, segretario generale dell’Olp e braccio destro del presidente Abu Mazen, tuona da Radio Palestina: «Vogliono più sangue palestinese, ci difenderemo». Abu Mazen torna da New York accolto da ali di folla, imputa a Israele «l’escalation» e promette «nuove politiche per difenderci». Per Nafatali Bennett, leader dell’ala destra del governo israeliano, è la conferma che «Abu Mazen vuole la violenza, non lo Stato» tantopiù che «non ha condannato gli ultimi attentati». Netanyahu riunisce i consiglieri per la sicurezza, vara l’aumento delle demolizioni di case di chi compie attentati e preannuncia: «Guerra totale contro il terrorismo».
Molotov e proiettili
A Gerusalemme parte la terza Intifada
Scontri nel quartiere arabo, s’incendia la Cisgiordania
Netanyahu minaccia: “La stroncherò come fece Sharon”
di Maurizio Molinari
Molotov contro proiettili di gomma, shabab mascherati contro guardie di frontiera, barricate in fiamme contro unità speciali. E’ battaglia nel quartiere arabo di Issawiya, a Gerusalemme Est, quando i soldati bloccano la strada centrale per raggiungere la casa di Fadi Alloun, il palestinese di 21 anni ucciso ieri mattina a Musrara dopo aver accoltellato un ragazzo ebreo di 15 anni. Per la polizia israeliana si tratta dell’ultimo attacco terrorista di un’escalation di violenze che ha causato cinque morti in due settimane ma a Issawiya accusano gli agenti di aver «ucciso un innocente solo perché scappava braccato da un gruppo di estremisti ebrei».
Le opposte versioni sulla morte di Alloun sono lo specchio dell’«inizio della Terza Intifada» come la definisce Nahum Barnea su «Yedioth Aharonot», il cui epicentro è a Gerusalemme per il braccio di ferro sulla Spianata delle Moschee il Monte del Tempio della tradizione ebraica che vede Hamas e Jihad islamica palestinese incitare i palestinesi a «prendere le armi» e «diventare martiri» per difendere la moschea di Al Aqsa. In un video postato su YouTube con il titolo «Lettera numero 1» la Jihad islamica mostra propri kamikaze che indossano divise israeliane e salgono su bus di linea per farsi esplodere. È la minaccia di un’offensiva feroce e il premier Benjamin Netanyahu li avverte: «Se volete la Terza Intifada avrete il secondo Scudo di Difesa» ovvero una ripetizione della massiccia operazione con cui Ariel Sharon nel 2002 stroncò la rivolta. La Città Vecchia è avvolta da uno schieramento imponente di 3500 agenti per la decisione, senza precedenti, del governo di impedire l’accesso ai palestinesi non residenti o senza documenti israeliani: la Guardia di Frontiera presidia ogni accesso e le strade del quartiere musulmano, ferma qualsiasi sospetto. L’intento è esercitare il massimo della deterrenza per impedire attacchi come quello di sabato che ha causato la morte di due uomini, riducendo una donna di 22 anni in condizioni critiche con il figlio di 2 anni ferito.
La serrata
I commercianti del suk arabo reagiscono con la serrata e le violenze si spostano fuori Gerusalemme, incendiando la West Bank. I disordini iniziano al posto di blocco di Atara, a Bir Zeit, e nel campo profughi di Al-Arub, fra Betlemme e Hebron, continuano nel campo di Jalazun nei pressi di Ramallah e a Isawiyya. A Jenin lo scontro è armato perché le unità speciali circondano la casa di Qays al-Saadi, membro delle Brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas, e vengono accolti con gli spari. Lanciano un missile anti-tank che distrugge l’abitazione. Almeno 18 i palestinesi feriti con gli israeliani che entrano nell’ospedale locale per arrestare Karm al-Masri, sospettato di coinvolgimento nei recenti attacchi. Battaglia anche a Surda, a Nord di Ramallah, dove c’è la casa di Mohannad Hallabi, il 19enne “martire” della Jihad islamica autore del duplice omicidio di sabato nella Città Vecchia. Sparano i soldati e sparano i palestinesi, con una folla di “shabab” che accorre alla casa di Halabi per ostacolare in ogni modo i militari. È la stessa strada di Surba dove, sabato notte, alcuni palestinesi hanno ballato per gioire dell’assassinio di Nehemia Lavie e Aharon Benita, 41 e 21 anni.
Bombe incendiarie
I palestinesi combattono con le bombe incendiarie: colpita una jeep a Halhul e una postazione militare a Bayt Umar. A Betlemme un soldato israeliano viene ferito. Fonti palestinesi parlano di «almeno 77 feriti da proiettili israeliani, veri o di gomma» al termine di una giornata di battaglia che vede «una dozzina di ambulanze della Mezzaluna Rossa aggredite e il personale malmenato». Ramallah parla di «provocazioni ed attacchi dei coloni a Nablus, Hebron e Ramallah» con il fatto più grave avvenuto a Buris dove «estremisti provenienti da Yizhar e Bracha hanno incendiato i campi dei villaggi arabi». Saed Erakat, segretario generale dell’Olp e braccio destro del presidente Abu Mazen, tuona da Radio Palestina: «Vogliono più sangue palestinese, ci difenderemo». Abu Mazen torna da New York accolto da ali di folla, imputa a Israele «l’escalation» e promette «nuove politiche per difenderci». Per Nafatali Bennett, leader dell’ala destra del governo israeliano, è la conferma che «Abu Mazen vuole la violenza, non lo Stato» tantopiù che «non ha condannato gli ultimi attentati». Netanyahu riunisce i consiglieri per la sicurezza, vara l’aumento delle demolizioni di case di chi compie attentati e preannuncia: «Guerra totale contro il terrorismo».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Ed anche questo giorno è arrivato.
Non siamo ufficialmente in guerra ma solo ufficiosamente.
Stamani alle 08,00 la Pinotti aveva smentito. Ma come per Gentilò l'anno scorso per il pagamento smentito delle due cooperatrici Greta e Vanessa siamo al governo delle balle
Cambiano le regole d’ingaggio della nostra partecipazione alla coalizione
L’Italia bombarderà l’Isis in Iraq
Tornado pronti ad azioni in Iraq. La Nato alla Russia: stop ai raid in Siria
di Franco Venturini
http://www.corriere.it/esteri/15_ottobr ... 2fd7.shtml
Non siamo ufficialmente in guerra ma solo ufficiosamente.
Stamani alle 08,00 la Pinotti aveva smentito. Ma come per Gentilò l'anno scorso per il pagamento smentito delle due cooperatrici Greta e Vanessa siamo al governo delle balle
Cambiano le regole d’ingaggio della nostra partecipazione alla coalizione
L’Italia bombarderà l’Isis in Iraq
Tornado pronti ad azioni in Iraq. La Nato alla Russia: stop ai raid in Siria
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http://www.corriere.it/esteri/15_ottobr ... 2fd7.shtml
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Il Corriere della Sera ha promosso un sondaggio tutto interno al quotidiano.
Ponendo la domanda che si pongono in queste ore tutti gli italiani:
L'Italia attaccherà Isis in Iraq: siete d'accordo?
I risultati sono pubblicati qui:
http://sonar.corriere.it/sonar/esteri/2 ... ordo.shtml
Appena sotto si possono leggere le motivazioni dei SI e dei NO.
Ponendo la domanda che si pongono in queste ore tutti gli italiani:
L'Italia attaccherà Isis in Iraq: siete d'accordo?
I risultati sono pubblicati qui:
http://sonar.corriere.it/sonar/esteri/2 ... ordo.shtml
Appena sotto si possono leggere le motivazioni dei SI e dei NO.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
LA PRECISAZIONE
La Difesa: «Bombe sull’Isis in Iraq? Ipotesi da valutare con gli alleati» Mattarella:
«Collaborazione di tutti»
Grillo: «È un’azione di guerra e come tale dovrebbe essere discussa e approvata dalle Camere». Sel: «Missione senza mandato parlamentare non è possibile»
di Redazione Online
Le azioni di bombardamento dei caccia italiani in Iraq (di cui il Corriere ha anticipato l’eventualità) «sono solo ipotesi da valutare assieme agli alleati e non decisioni prese che, in ogni caso, dovranno passare dal Parlamento».
Lo afferma il ministero della Difesa «in merito a indiscrezioni di stampa». E in una intervista alla agenzia russa Tass, è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a sottolineare che per sconfiggere «il terrorismo fondamentalista» è «necessaria una risposta di collaborazione di tutti i Paesi nell’ambito della comunità internazionale» e «iniziative unilaterali non riescono a risolvere ed affrontare adeguatamente il problema». «Il terrorismo fondamentalista - ha aggiunto Mattarella - è forse la principale frontiera che avremo di fronte nei prossimi anni.
Occorre una risposta con la forza e una risposta culturale per sconfiggere la predicazione di odio che, attraverso internet, viene diffusa dal terrorismo fondamentalista. Ripeto: è necessaria la collaborazione di tutti. Occorre una collaborazione internazionale con strategie e azioni comuni. Questo è possibile e indispensabile perché il pericolo è molto grande».
Grillo: «Deve decidere il Parlamento»
Il dibattito è aperto. E le dichiarazioni del capo dello Stato arrivano dopo le polemiche innescate dal leader dei 5 Stelle Beppe Brillo. Sul blog Grillo chiede che su eventuali attacchi devono essere le Camere a decidere. «È un’azione di guerra e come tale dovrebbe essere discussa e approvata dal Parlamento, non in modo autonomo da un governo prono alla Nato. Vale la pena di ricordare che, solo qualche giorno fa, i caccia della Nato hanno bombardato per più di mezz’ora il centro traumatologico di Medici Senza Frontiere a Kunduz City, sono state uccise oltre venti persone tra cui tre bambini». Non mancano altre reazioni. Per Giorgia Meloni, presidente di «Fratelli d’Italia, «ancor più dell’Iraq è vitale per la nostra Nazione quello che succede in Libia e in Siria. Quindi, il Governo dovrebbe condizionare l’ulteriore coinvolgimento italiano in Iraq ad una strategia complessiva di intervento anche in Libia e in Siria, per spazzare via l’Isis e fermare l’esodo biblico di profughi che sta investendo l’Europa». Anche il capogruppo di Sel a Montecitorio Arturo Scotto chiede alla ministra Pinotti di «riferire immediatamente in Parlamento».
«La partecipazione italiana ai raid senza un mandato parlamentare non è possibile. La ministra Pinotti non ha il potere di decidere se e dove bombardare, e quali regole d’ingaggio avere», conclude.
Anticipazione
La notizia di possibili raid aerei italiani in Iraq contro le postazioni Isis è stata anticipata dal «Corriere della Sera». Come spiega il nostro giornale, dopo la decisione di partecipare alla coalizione poco meno di un anno fa e la conseguente presenza nell’area di uomini e mezzi delle nostre forze armate e la fornitura di armi ai Peshmerga curdi, ora i Tornado, configurati inizialmente per la ricognizione, assumeranno le loro piene caratteristiche di cacciabombardieri e colpiranno direttamente i bersagli individuati in base alle nuove regole di ingaggio. La decisione di bombardare le postazioni dell’Isis dovrà, come avviene sempre in questi casi, ottenere l’approvazione del Parlamento. L’Italia partecipa alla coalizione da un anno con quattro Tornado del Sesto stormo di Ghedi, un aereo Cisterna KC767 e alcuni droni Predator privi di armamento. Il personale impegnato nell’operazione è di 140 unità, impiegato in missioni di ricognizione. Secondo quanto riporta il nostro giornale fondamentale è la distinzione fatta dall’Italia tra Siria e Iraq. Il premier Matteo Renzi ha più volte espresso una posizione contraria all’intervento in Siria, mentre in Iraq «il governo iracheno - scrive il nostro quotidiano- ci ha chiesto di intervenire e anche di bombardare»
Regole di ingaggio
Il presidente della commissione Difesa del Senato Nicola Latorre, intervistato dal Gr3, inquadra così la questione: «Come è noto l’Italia è parte di una coalizione internazionale, è già impegnata con un’azione non attiva in termini di bombardamento, ci è stata fatta una richiesta in tal senso e naturalmente il Governo dovrà valutare questi aspetti e soprattutto preventivamente informare il Parlamento. Allo stato non c’è nessuna decisione di questo tipo». Quindi sottolinea Latorre le regole di ingaggio «non sono cambiate».
«L’Italia c’è sempre stata»
L’Iraq «non ha ancora ricevuto comunicazioni da Roma» su una sua possibile partecipazione ai raid aerei contro lo Stato islamico, ma l’Italia «c’è già e partecipa fin dall’inizio alla coalizione guidata dagli Usa, con operazioni di sorveglianza dei cieli fondamentali per chi già ora esegue i raid», ha detto l’ambasciatore iracheno a Roma, Saywan Barzani. «Centinaia di militari italiani sono da tempo a Erbil - ha continuato Barzani, commentando le notizie su un possibile rafforzamento del ruolo italiano in Iraq - per addestrare militari e polizia, l’Italia ha inoltre inviato armi e aiuti». Certo, ha aggiunto, «tutti quelli che possono contribuire a bombardare l’Is sono i benvenuti». 6 ottobre 2015 (modifica il 6 ottobre 2015 | 18:09) © RIPRODUZIONE RISERVATA] LA PRECISAZIONE
http://www.corriere.it/esteri/15_ottobr ... 3e86.shtml
La Difesa: «Bombe sull’Isis in Iraq? Ipotesi da valutare con gli alleati» Mattarella:
«Collaborazione di tutti»
Grillo: «È un’azione di guerra e come tale dovrebbe essere discussa e approvata dalle Camere». Sel: «Missione senza mandato parlamentare non è possibile»
di Redazione Online
Le azioni di bombardamento dei caccia italiani in Iraq (di cui il Corriere ha anticipato l’eventualità) «sono solo ipotesi da valutare assieme agli alleati e non decisioni prese che, in ogni caso, dovranno passare dal Parlamento».
Lo afferma il ministero della Difesa «in merito a indiscrezioni di stampa». E in una intervista alla agenzia russa Tass, è il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a sottolineare che per sconfiggere «il terrorismo fondamentalista» è «necessaria una risposta di collaborazione di tutti i Paesi nell’ambito della comunità internazionale» e «iniziative unilaterali non riescono a risolvere ed affrontare adeguatamente il problema». «Il terrorismo fondamentalista - ha aggiunto Mattarella - è forse la principale frontiera che avremo di fronte nei prossimi anni.
Occorre una risposta con la forza e una risposta culturale per sconfiggere la predicazione di odio che, attraverso internet, viene diffusa dal terrorismo fondamentalista. Ripeto: è necessaria la collaborazione di tutti. Occorre una collaborazione internazionale con strategie e azioni comuni. Questo è possibile e indispensabile perché il pericolo è molto grande».
Grillo: «Deve decidere il Parlamento»
Il dibattito è aperto. E le dichiarazioni del capo dello Stato arrivano dopo le polemiche innescate dal leader dei 5 Stelle Beppe Brillo. Sul blog Grillo chiede che su eventuali attacchi devono essere le Camere a decidere. «È un’azione di guerra e come tale dovrebbe essere discussa e approvata dal Parlamento, non in modo autonomo da un governo prono alla Nato. Vale la pena di ricordare che, solo qualche giorno fa, i caccia della Nato hanno bombardato per più di mezz’ora il centro traumatologico di Medici Senza Frontiere a Kunduz City, sono state uccise oltre venti persone tra cui tre bambini». Non mancano altre reazioni. Per Giorgia Meloni, presidente di «Fratelli d’Italia, «ancor più dell’Iraq è vitale per la nostra Nazione quello che succede in Libia e in Siria. Quindi, il Governo dovrebbe condizionare l’ulteriore coinvolgimento italiano in Iraq ad una strategia complessiva di intervento anche in Libia e in Siria, per spazzare via l’Isis e fermare l’esodo biblico di profughi che sta investendo l’Europa». Anche il capogruppo di Sel a Montecitorio Arturo Scotto chiede alla ministra Pinotti di «riferire immediatamente in Parlamento».
«La partecipazione italiana ai raid senza un mandato parlamentare non è possibile. La ministra Pinotti non ha il potere di decidere se e dove bombardare, e quali regole d’ingaggio avere», conclude.
Anticipazione
La notizia di possibili raid aerei italiani in Iraq contro le postazioni Isis è stata anticipata dal «Corriere della Sera». Come spiega il nostro giornale, dopo la decisione di partecipare alla coalizione poco meno di un anno fa e la conseguente presenza nell’area di uomini e mezzi delle nostre forze armate e la fornitura di armi ai Peshmerga curdi, ora i Tornado, configurati inizialmente per la ricognizione, assumeranno le loro piene caratteristiche di cacciabombardieri e colpiranno direttamente i bersagli individuati in base alle nuove regole di ingaggio. La decisione di bombardare le postazioni dell’Isis dovrà, come avviene sempre in questi casi, ottenere l’approvazione del Parlamento. L’Italia partecipa alla coalizione da un anno con quattro Tornado del Sesto stormo di Ghedi, un aereo Cisterna KC767 e alcuni droni Predator privi di armamento. Il personale impegnato nell’operazione è di 140 unità, impiegato in missioni di ricognizione. Secondo quanto riporta il nostro giornale fondamentale è la distinzione fatta dall’Italia tra Siria e Iraq. Il premier Matteo Renzi ha più volte espresso una posizione contraria all’intervento in Siria, mentre in Iraq «il governo iracheno - scrive il nostro quotidiano- ci ha chiesto di intervenire e anche di bombardare»
Regole di ingaggio
Il presidente della commissione Difesa del Senato Nicola Latorre, intervistato dal Gr3, inquadra così la questione: «Come è noto l’Italia è parte di una coalizione internazionale, è già impegnata con un’azione non attiva in termini di bombardamento, ci è stata fatta una richiesta in tal senso e naturalmente il Governo dovrà valutare questi aspetti e soprattutto preventivamente informare il Parlamento. Allo stato non c’è nessuna decisione di questo tipo». Quindi sottolinea Latorre le regole di ingaggio «non sono cambiate».
«L’Italia c’è sempre stata»
L’Iraq «non ha ancora ricevuto comunicazioni da Roma» su una sua possibile partecipazione ai raid aerei contro lo Stato islamico, ma l’Italia «c’è già e partecipa fin dall’inizio alla coalizione guidata dagli Usa, con operazioni di sorveglianza dei cieli fondamentali per chi già ora esegue i raid», ha detto l’ambasciatore iracheno a Roma, Saywan Barzani. «Centinaia di militari italiani sono da tempo a Erbil - ha continuato Barzani, commentando le notizie su un possibile rafforzamento del ruolo italiano in Iraq - per addestrare militari e polizia, l’Italia ha inoltre inviato armi e aiuti». Certo, ha aggiunto, «tutti quelli che possono contribuire a bombardare l’Is sono i benvenuti». 6 ottobre 2015 (modifica il 6 ottobre 2015 | 18:09) © RIPRODUZIONE RISERVATA] LA PRECISAZIONE
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Re: La Terza Guerra Mondiale
SIAMO IN GUERRA MA NON SI DICE
é il titolo di apertura de Il Fatto Quotidiano di oggi.
Dalla rassegna stampa de LA7
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Morire per Danzica
Il 1º settembre 1939 le truppe della Germania nazista occuparono Danzica in Polonia dando l'avvio della seconda guerra mondiale. Nel settantennale di quell'evento epocale, Guido Crainz, saggista e docente di Storia all'università di Teramo, ha scritto per «il Centro» questo articolo.
di Guido Crainz
«Siedo in una delle bettole/ della Cinquantaduesima strada/ incerto e spaventato/ () l'indicibile odore della morte / offende la notte di settembre»: viveva così l'1 settembre del 1939 il poeta inglese Wystan Hugh Auden. Il percorso che lo aveva portato a New York era iniziato nella guerra civile spagnola: ne era fuggito per gli orrori compiuti da entrambe le parti. Era stato poi nella Cina invasa dal Giappone, e quindi le premesse della seconda guerra mondiale le aveva viste da vicino, con sofferenza.
L'America gli era parsa un rifugio dalle «ondate di rabbia e paura» che vedeva «circolare per i brillanti/ e oscurati paesi della terra/ ossessionando le nostre vite private».
Mai come allora, e da allora, la guerra avrebbe ossessionato davvero le vite private. Le avrebbe invase: in modo cruento con i bombardamenti che radevano al suolo città e speranze, e in modo incruento ma pervasivo con i media. Con la radio, allora: e proprio in quell'inizio di settembre la radio rivela tutta la sua potenza.
Girando la manopola dell'apparecchio si possono ascoltare le menzogne di Hitler o gli ultimi minuti di radio Varsavia, che diffonde le note di Chopin mentre la cavalleria polacca si lancia in una carica disperata contro i carri armati della Wehrmacht. Si può sentire alla Bbc la voce grave e sconfitta di Neville Chamberlain, uno dei principali sostenitori dell'appeasement, cioè del tentativo di salvare la pace con concessioni crescenti a Hitler.
L'1 settembre del 1939 rivelava che quel tentativo era fallito. Anzi, aveva contribuito al disastro: il Führer dava inizio alla seconda guerra mondiale nelle condizioni a lui più favorevoli. Ma perché e come si era giunti a questo? Non vi sono dubbi, naturalmente, sulla responsabilità assoluta di Hitler, ma come gli è stato possibile scatenare il più grande conflitto della storia? Perché gli altri paesi non si erano opposti con efficacia alla sua marcia verso la guerra?
Non sarebbe stato difficile fermare per tempo la Germania: nei primi anni trenta era stata messa in ginocchio dagli effetti devastanti della «grande crisi», mentre le sue potenzialità militari e persino la sua sovranità territoriale erano fortemente limitate dal trattato di Versailles. Perché sin dalle prime violazioni di quel trattato si scelse di cedere, di subire in modo passivo?
Il Patto di Monaco del 1938 sarà il punto d'arrivo di un lungo percorso. Consegnava di fatto la Cecoslovacchia a Hitler nello stesso anno in cui il F hrer aveva invaso l'Austria e avviato la fase più acuta delle persecuzioni razziali. Perché Inghilterra e Francia avevano accettato, in nome dell'appeasement?
Vi fu certamente in quell'errore sia la sottovalutazione del progetto nazista sia il prevalere della ostilità nei confronti dell'Unione Sovietica: in fondo agli occhi miopi dei leader occidentali-Cecoslovacchia e Polonia aprivano a Hitler la strada verso est, non verso ovest. Poco prima di quell'1 settembre l'Urss aveva risposto in modo simmetrico e opposto: il «patto di non aggressione» fra Stalin e Hitler, siglato da Molotov e Ribbentrop, superò in cinismo il Patto di Monaco. Lasciava libero Hitler nella sua aggressione e precostituiva la spartizione della Polonia fra i due dittatori.
Questo è il quadro generale che gli storici tracciano: è fondato, ma forse non fa comprendere tutto. Non capiremmo appieno l'appeasement attribuendolo solo a errate strategie diplomatiche: sullo sfondo vi erano, sia in Inghilterra che in Francia, ansie e paure profonde della società civile. Vi era il traumatico ricordo dei drammi della prima guerra mondiale e l'angosciato desiderio di evitare il loro ripetersi. Perché «morire per Danzica»?
La domanda circolò in Francia perfino dopo quell'1 settembre: l'ansia di evitare un nuovo e ancor più terribile conflitto appannava la consapevolezza che era in gioco il destino dell'intera Europa. Su questo aspetto le domande di allora coinvolgono la coscienza civile di ciascuno di noi. In altri termini, quando la guerra è necessaria? Quando l'«intollerabile» non può più essere tollerato, per dirla con Tzvetan Todorov? Quando, insomma, non può esservi una «pace a tutti i costi»? Questa è il nodo che l'1 settembre ci ripropone, e non si sfugge ad esso con risposte univoche. Lo si è visto anche in un recente passato, al tempo della prima guerra del Golfo e poi del dramma del Kossovo: la memoria del 1939 fu evocata allora e impugnata come un'arma per giustificare una scelta di guerra.
A mio avviso era un uso assolutamente improprio di quella memoria.
In primo luogo perché così non ci si interrogava davvero sull'«intollerabile», sull'«estremo»: se vedessimo un Hitler in ogni Sadam Hussein o in ogni Milosevic saremmo obbligati a devastanti guerre quotidiane.
In secondo luogo perché in questo modo si faceva arretrare sullo sfondo quel che avvenne dopo l'1 settembre, in anni che hanno avuto il loro termine con l'orrore di Hiroshima. Anni, cioè, che ci hanno fatto capire quanto sia importante usare realmente ogni nostra forza per evitare la guerra. No, non sarà mai facile rispondere alla terribile domanda che quell'1 settembre ci pone: quando la guerra è necessaria, disperatamente necessaria?
01 settembre 2009
Il 1º settembre 1939 le truppe della Germania nazista occuparono Danzica in Polonia dando l'avvio della seconda guerra mondiale. Nel settantennale di quell'evento epocale, Guido Crainz, saggista e docente di Storia all'università di Teramo, ha scritto per «il Centro» questo articolo.
di Guido Crainz
«Siedo in una delle bettole/ della Cinquantaduesima strada/ incerto e spaventato/ () l'indicibile odore della morte / offende la notte di settembre»: viveva così l'1 settembre del 1939 il poeta inglese Wystan Hugh Auden. Il percorso che lo aveva portato a New York era iniziato nella guerra civile spagnola: ne era fuggito per gli orrori compiuti da entrambe le parti. Era stato poi nella Cina invasa dal Giappone, e quindi le premesse della seconda guerra mondiale le aveva viste da vicino, con sofferenza.
L'America gli era parsa un rifugio dalle «ondate di rabbia e paura» che vedeva «circolare per i brillanti/ e oscurati paesi della terra/ ossessionando le nostre vite private».
Mai come allora, e da allora, la guerra avrebbe ossessionato davvero le vite private. Le avrebbe invase: in modo cruento con i bombardamenti che radevano al suolo città e speranze, e in modo incruento ma pervasivo con i media. Con la radio, allora: e proprio in quell'inizio di settembre la radio rivela tutta la sua potenza.
Girando la manopola dell'apparecchio si possono ascoltare le menzogne di Hitler o gli ultimi minuti di radio Varsavia, che diffonde le note di Chopin mentre la cavalleria polacca si lancia in una carica disperata contro i carri armati della Wehrmacht. Si può sentire alla Bbc la voce grave e sconfitta di Neville Chamberlain, uno dei principali sostenitori dell'appeasement, cioè del tentativo di salvare la pace con concessioni crescenti a Hitler.
L'1 settembre del 1939 rivelava che quel tentativo era fallito. Anzi, aveva contribuito al disastro: il Führer dava inizio alla seconda guerra mondiale nelle condizioni a lui più favorevoli. Ma perché e come si era giunti a questo? Non vi sono dubbi, naturalmente, sulla responsabilità assoluta di Hitler, ma come gli è stato possibile scatenare il più grande conflitto della storia? Perché gli altri paesi non si erano opposti con efficacia alla sua marcia verso la guerra?
Non sarebbe stato difficile fermare per tempo la Germania: nei primi anni trenta era stata messa in ginocchio dagli effetti devastanti della «grande crisi», mentre le sue potenzialità militari e persino la sua sovranità territoriale erano fortemente limitate dal trattato di Versailles. Perché sin dalle prime violazioni di quel trattato si scelse di cedere, di subire in modo passivo?
Il Patto di Monaco del 1938 sarà il punto d'arrivo di un lungo percorso. Consegnava di fatto la Cecoslovacchia a Hitler nello stesso anno in cui il F hrer aveva invaso l'Austria e avviato la fase più acuta delle persecuzioni razziali. Perché Inghilterra e Francia avevano accettato, in nome dell'appeasement?
Vi fu certamente in quell'errore sia la sottovalutazione del progetto nazista sia il prevalere della ostilità nei confronti dell'Unione Sovietica: in fondo agli occhi miopi dei leader occidentali-Cecoslovacchia e Polonia aprivano a Hitler la strada verso est, non verso ovest. Poco prima di quell'1 settembre l'Urss aveva risposto in modo simmetrico e opposto: il «patto di non aggressione» fra Stalin e Hitler, siglato da Molotov e Ribbentrop, superò in cinismo il Patto di Monaco. Lasciava libero Hitler nella sua aggressione e precostituiva la spartizione della Polonia fra i due dittatori.
Questo è il quadro generale che gli storici tracciano: è fondato, ma forse non fa comprendere tutto. Non capiremmo appieno l'appeasement attribuendolo solo a errate strategie diplomatiche: sullo sfondo vi erano, sia in Inghilterra che in Francia, ansie e paure profonde della società civile. Vi era il traumatico ricordo dei drammi della prima guerra mondiale e l'angosciato desiderio di evitare il loro ripetersi. Perché «morire per Danzica»?
La domanda circolò in Francia perfino dopo quell'1 settembre: l'ansia di evitare un nuovo e ancor più terribile conflitto appannava la consapevolezza che era in gioco il destino dell'intera Europa. Su questo aspetto le domande di allora coinvolgono la coscienza civile di ciascuno di noi. In altri termini, quando la guerra è necessaria? Quando l'«intollerabile» non può più essere tollerato, per dirla con Tzvetan Todorov? Quando, insomma, non può esservi una «pace a tutti i costi»? Questa è il nodo che l'1 settembre ci ripropone, e non si sfugge ad esso con risposte univoche. Lo si è visto anche in un recente passato, al tempo della prima guerra del Golfo e poi del dramma del Kossovo: la memoria del 1939 fu evocata allora e impugnata come un'arma per giustificare una scelta di guerra.
A mio avviso era un uso assolutamente improprio di quella memoria.
In primo luogo perché così non ci si interrogava davvero sull'«intollerabile», sull'«estremo»: se vedessimo un Hitler in ogni Sadam Hussein o in ogni Milosevic saremmo obbligati a devastanti guerre quotidiane.
In secondo luogo perché in questo modo si faceva arretrare sullo sfondo quel che avvenne dopo l'1 settembre, in anni che hanno avuto il loro termine con l'orrore di Hiroshima. Anni, cioè, che ci hanno fatto capire quanto sia importante usare realmente ogni nostra forza per evitare la guerra. No, non sarà mai facile rispondere alla terribile domanda che quell'1 settembre ci pone: quando la guerra è necessaria, disperatamente necessaria?
01 settembre 2009
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