Diario della caduta di un regime.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Il Passato che avanza
da
www.huffingtonpost.it
Silvio ci riprova con i responsabili
Berlusconi rilancia la formula già usata in passato per cercare una maggioranza in Parlamento dopo la convocazione di nuove consultazioni
By Huffington Post
"A due mesi dal voto, la priorità per Forza Italia è dare subito un governo al Paese, uscendo dalle chiacchiere inconcludenti e dannose di chi parla troppo e fa troppo poco" e così la capogruppo FI al Senato, Anna Maria Bernini, rilancia la formula di "un governo di centrodestra, votato dagli italiani e sostenuto in Parlamento da voti responsabili, per rispondere presto e bene ai bisogni e alle esigenze del Paese".
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dato in sostanza altre 72 ore di tempo ai partiti per cercare di uscire dallo stallo, a fronte delle posizione immutate a due mesi dalle elezioni del 4 marzo. E il partito di Silvio Berlusconi, che già nelle legislature passate ha fatto ricorso ai cosiddetti parlamentari "responsabili", ci riprova rilanciando la vecchia formula. L'intenzione della coalizione di centrodestra è quindi quella di chiedere un incarico grazie al sostegno, da trovare in Parlamento, di deputati e senatori che facciano iniziare difatti la legislatura.
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Silvio ci riprova con i responsabili
Berlusconi rilancia la formula già usata in passato per cercare una maggioranza in Parlamento dopo la convocazione di nuove consultazioni
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"A due mesi dal voto, la priorità per Forza Italia è dare subito un governo al Paese, uscendo dalle chiacchiere inconcludenti e dannose di chi parla troppo e fa troppo poco" e così la capogruppo FI al Senato, Anna Maria Bernini, rilancia la formula di "un governo di centrodestra, votato dagli italiani e sostenuto in Parlamento da voti responsabili, per rispondere presto e bene ai bisogni e alle esigenze del Paese".
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dato in sostanza altre 72 ore di tempo ai partiti per cercare di uscire dallo stallo, a fronte delle posizione immutate a due mesi dalle elezioni del 4 marzo. E il partito di Silvio Berlusconi, che già nelle legislature passate ha fatto ricorso ai cosiddetti parlamentari "responsabili", ci riprova rilanciando la vecchia formula. L'intenzione della coalizione di centrodestra è quindi quella di chiedere un incarico grazie al sostegno, da trovare in Parlamento, di deputati e senatori che facciano iniziare difatti la legislatura.
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«Non si discute per aver ragione, ma per capire» (Peanuts)
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Re: Diario della caduta di un regime.
......QUESTO E' IL PARERE DI MARCELLO FOA, RIPRESO DA LIBRE
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Di Maio licenziato dagli italiani che ha preso in giro per mesi
Scritto il 07/5/18 • nella Categoria: idee Condividi
Follie italiane. Luigi Di Maio grida al tradimento, dopo aver annacquato il programma e offerto i suoi voti sia all’antagonista euroscettico Salvini che al suo esatto opposto, cioè il Pd ultra-europeista rottamato dagli elettori – un partito fantasma, che non ha ancora trovato il coraggio di analizzare le ragioni della catastrofe renziana. Sconcertante? Almeno quanto Di Maio, che per due mesi ha proposto in “grillese”, sotto forma di “contratto”, l’antico refrain italico, “Franza o Spagna”. Tattica incresciosamente fallimentare, oltre che irritante: parla da solo il crollo dei 5 Stelle alle regionali in Friuli, dopo il flop della settimana precedente in Molise. Avvertimento esplicito: sorvolando sulle enormi ambiguità di Di Maio, in pellegrinaggio pre-elettorale nei santuari massonici della finanza inglese e americana, un elettore su tre aveva comunque concesso il suo voto ai 5 Stelle, per metterli alla prova. In poche settimane, Di Maio sembra aver bruciato il super-bonus del 4 marzo: i pentastellati sono considerati in calo verticale ovunque, e un sondaggio li “vede” addirittura sotto il 20%. Da qui il tentativo – involontariamente umoristico – di correre ai ripari in qualche modo, riesumando un profilo “da battaglia” con il fanta-referendum sull’euro. Credibilità, zero. «Mi verrebbe da dire: visto? Gli italiani chiedono davvero una politica diversa», avverte Marcello Foa.
«Dieci giorni fa, prima del voto in Molise, osservavo in un post che il vento nel paese era cambiato, che gli elettori attribuivano particolare importanza alla coerenza dei leader politici, soprattutto a quelli della protesta contro l’establishment (M5S e Lega, in primis) e che non avrebbero accettato di essere traditi un’altra volta», scrive Foa sul “Giornale”. «Questa era la ragione per cui la popolarità di Salvini continuava a salire e quella di Di Maio a scendere. E mi chiedevo: il capo pentastellato saprà ascoltare questo messaggio?». La risposta è arrivata forte e chiara alle elezioni friulane, che per il Movimento 5 Stelle si sono tradotte in un vero e proprio tracollo: aveva ottenuto il 24% alle politiche, ma il suo candidato regionale Morgera si è fermato al 12%. Peggio: come voto di lista, i 5 Stelle hanno ottenuto appena un umiliante 7%. «Non poteva essere altrimenti – osserva Foa – per un partito che, pur di governare si è offerto al Pd, che fino a ieri indicava come il Male Assoluto, il tumore da estirpare». Un partito che, con Di Maio, «ha sbianchettato i programmi pur di compiacere l’establishment, trasformandosi da forza contraria alle imposizioni della Ue a garante degli interessi europei». In una parola, il Movimento 5 Stelle «ha rinnegato in poco più di un mese la sua storia e i suoi valori per l’evidente, insaziabile ambizione del suo giovane leader e per l’incapacità degli altri capi storici di opporvisi».
Al contrario, continua Foa, «Matteo Salvini è stato premiato perché è rimasto fedele sia al patto elettorale di centrodestra, relativizzando gli scatti umorali di Berlusconi, sia esigendo il rispetto dei punti fondamentali del suo programma, anteponendoli alle lusinghe del potere». Il messaggio che ha lanciato dopo il 4 maggio secondo Foa «è credibile, forte e soprattutto coerente: quello di un leader di parola, come desiderato dagli italiani». Il voto in Friuli legittima la Lega quale capofila incontrastato della coalizione e, in quanto tale, quale forza di riferimento a livello nazionale. «Il nuovo corso di Salvini, capace in pochi mesi di proporsi come leader solido ed equilibrato, apre prospettive politiche di lungo periodo», secondo Foa. Un punto di riferimento, su cui ricostruire una politica italiana capace di farsi rispettare in Europa? E’ presto, per dirlo: Salvini resta legato a Berlusconi, che proprio per rassicurare i super-poteri di Bruxelles ha proposto il nome di Antonio Tajani come candidato per Palazzo Chigi. Per ora, resta la malinconia dello spettacolo offerto da Di Maio: «Alla fine – scrive Foa – il cerino è rimasto in mano a colui che pensava di dettare le condizioni a tutti e che è riuscito persino a rivalutare Renzi, il quale, ribadendo il no a un accordo “contro natura” con il Movimento 5 Stelle, si è riappropriato della scena in casa Pd. Resta un solo, sicuro perdente: Di Maio, che non sarà premier, ha perso il Molise ed è stato quasi azzerato in Friuli. Chi l’avrebbe detto, la sera del 4 marzo?».
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Di Maio licenziato dagli italiani che ha preso in giro per mesi
Scritto il 07/5/18 • nella Categoria: idee Condividi
Follie italiane. Luigi Di Maio grida al tradimento, dopo aver annacquato il programma e offerto i suoi voti sia all’antagonista euroscettico Salvini che al suo esatto opposto, cioè il Pd ultra-europeista rottamato dagli elettori – un partito fantasma, che non ha ancora trovato il coraggio di analizzare le ragioni della catastrofe renziana. Sconcertante? Almeno quanto Di Maio, che per due mesi ha proposto in “grillese”, sotto forma di “contratto”, l’antico refrain italico, “Franza o Spagna”. Tattica incresciosamente fallimentare, oltre che irritante: parla da solo il crollo dei 5 Stelle alle regionali in Friuli, dopo il flop della settimana precedente in Molise. Avvertimento esplicito: sorvolando sulle enormi ambiguità di Di Maio, in pellegrinaggio pre-elettorale nei santuari massonici della finanza inglese e americana, un elettore su tre aveva comunque concesso il suo voto ai 5 Stelle, per metterli alla prova. In poche settimane, Di Maio sembra aver bruciato il super-bonus del 4 marzo: i pentastellati sono considerati in calo verticale ovunque, e un sondaggio li “vede” addirittura sotto il 20%. Da qui il tentativo – involontariamente umoristico – di correre ai ripari in qualche modo, riesumando un profilo “da battaglia” con il fanta-referendum sull’euro. Credibilità, zero. «Mi verrebbe da dire: visto? Gli italiani chiedono davvero una politica diversa», avverte Marcello Foa.
«Dieci giorni fa, prima del voto in Molise, osservavo in un post che il vento nel paese era cambiato, che gli elettori attribuivano particolare importanza alla coerenza dei leader politici, soprattutto a quelli della protesta contro l’establishment (M5S e Lega, in primis) e che non avrebbero accettato di essere traditi un’altra volta», scrive Foa sul “Giornale”. «Questa era la ragione per cui la popolarità di Salvini continuava a salire e quella di Di Maio a scendere. E mi chiedevo: il capo pentastellato saprà ascoltare questo messaggio?». La risposta è arrivata forte e chiara alle elezioni friulane, che per il Movimento 5 Stelle si sono tradotte in un vero e proprio tracollo: aveva ottenuto il 24% alle politiche, ma il suo candidato regionale Morgera si è fermato al 12%. Peggio: come voto di lista, i 5 Stelle hanno ottenuto appena un umiliante 7%. «Non poteva essere altrimenti – osserva Foa – per un partito che, pur di governare si è offerto al Pd, che fino a ieri indicava come il Male Assoluto, il tumore da estirpare». Un partito che, con Di Maio, «ha sbianchettato i programmi pur di compiacere l’establishment, trasformandosi da forza contraria alle imposizioni della Ue a garante degli interessi europei». In una parola, il Movimento 5 Stelle «ha rinnegato in poco più di un mese la sua storia e i suoi valori per l’evidente, insaziabile ambizione del suo giovane leader e per l’incapacità degli altri capi storici di opporvisi».
Al contrario, continua Foa, «Matteo Salvini è stato premiato perché è rimasto fedele sia al patto elettorale di centrodestra, relativizzando gli scatti umorali di Berlusconi, sia esigendo il rispetto dei punti fondamentali del suo programma, anteponendoli alle lusinghe del potere». Il messaggio che ha lanciato dopo il 4 maggio secondo Foa «è credibile, forte e soprattutto coerente: quello di un leader di parola, come desiderato dagli italiani». Il voto in Friuli legittima la Lega quale capofila incontrastato della coalizione e, in quanto tale, quale forza di riferimento a livello nazionale. «Il nuovo corso di Salvini, capace in pochi mesi di proporsi come leader solido ed equilibrato, apre prospettive politiche di lungo periodo», secondo Foa. Un punto di riferimento, su cui ricostruire una politica italiana capace di farsi rispettare in Europa? E’ presto, per dirlo: Salvini resta legato a Berlusconi, che proprio per rassicurare i super-poteri di Bruxelles ha proposto il nome di Antonio Tajani come candidato per Palazzo Chigi. Per ora, resta la malinconia dello spettacolo offerto da Di Maio: «Alla fine – scrive Foa – il cerino è rimasto in mano a colui che pensava di dettare le condizioni a tutti e che è riuscito persino a rivalutare Renzi, il quale, ribadendo il no a un accordo “contro natura” con il Movimento 5 Stelle, si è riappropriato della scena in casa Pd. Resta un solo, sicuro perdente: Di Maio, che non sarà premier, ha perso il Molise ed è stato quasi azzerato in Friuli. Chi l’avrebbe detto, la sera del 4 marzo?».
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Re: Diario della caduta di un regime.
il Cazzaro verde, articolo di fondo di ieri di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano:
http://www.ilbenecomunenewsletter.it/le ... 0844-.html
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Editoriale
domenica 06/05/2018
Il Cazzaro Verde
di Marco Travaglio | 6 maggio 2018
|
Non so voi, ma io ho una voglia matta di un bell’incarico al Cazzaro Verde, al secolo Matteo Salvini. Sono due mesi che reprimo questa irrefrenabile pulsione, ma ora non ce la faccio più: l’idea di vederlo uscire dal Quirinale col pennacchio e i galloni di premier incaricato sulla felpa è troppo allettante, soprattutto dal punto di vista estetico e scenico. Lo so che, per un incarico pieno, il presidente della Repubblica pretende una maggioranza con numeri certi in Parlamento, altrimenti preferisce sciogliere le Camere e far gestire le nuove elezioni da un governo elettorale di minoranza che si faccia bocciare in Parlamento e resti in carica per gli affari correnti (come il governo Gentiloni, ma non più espressione di un partito che ha appena dimezzato i suoi voti). E questa, intendiamoci, è l’unica via costituzionalmente corretta. Però sperare non costa niente, e io spero che Salvini venga finalmente messo alla prova. La sua fortuna, infatti, è che nessuno l’abbia mai chiamato a un pizzico di responsabilità, nei 28 anni della sua carriera politica (è il leader politicamente più vecchio su piazza, essendosi iscritto alla Lega nel lontano 1990, essendo stato eletto consigliere comunale a Milano nel 1993, e rappresenta il partito più vecchio sul mercato, l’ultimo nato nella Prima Repubblica, classe 1989). È più di un quarto di secolo che il Cazzaro verde spara a salve, senza che nessuno verifichi mai la sua mira. Le rare volte che qualcuno ha provato a inchiodarlo a un dato di fatto, la sua maschera è caduta da sola.
Quando sbarcò dalla Lombardia al Parlamento europeo, nel 2004, l’anti-Casta Salvini si portò il fratello di Bossi come assistente parlamentare (“portaborse”, direbbero i padani duri e puri di una volta, ma con un curriculum di tutto rispetto: terza media e scuola commerciale, negozio di autoricambi a Fagnano Olona, allenatore della squadra di ciclismo della Padania, il che giustificava il modico stipendio di 12.750 euro al mese). Nemico giurato delle raccomandazioni e dei familismi di Roma ladrona, l’intransigente Salvini ebbe l’ex moglie Fabrizia Ieluzzi sistemata al Comune di Milano con contratti a chiamata dalle giunte Albertini e poi Moratti, e poi la sua nuova compagna Giulia Martinelli assunta a chiamata alla Regione Lombardia dalla giunta Maroni a 70 mila euro l’anno. Quando esplode lo scandalo dei rimborsi del Carroccio rubati o buttati dal tesoriere per mantenere la famiglia Bossi, Salvini fa il moralista: “La mia paghetta era 500 lire”. Lui con la Family non c’entra, ci mancherebbe: infatti pochi mesi prima era in ferie col Trota.
All’Europarlamento, le rare volte che ci mette piede (a fine mese non manca mai per ritirare lo stipendio da quel “Gulag sovietico” che per lui è l’Ue, senza offesa per l’amico Putin), matura grande esperienza internazionale. Infatti, dopo la strage di Charlie Hebdo, spiega a Sky che l’estremismo islamico deriva “da un’errata interpretazione della Torah” (il libro sacro degli ebrei, che lui confonde col Corano: forse per l’assonanza col dio Thor, figlio di Odino, nel cui culto celtico si sposavano i leghisti d’antan). Un’altra volta riesce a trasformare in uno statista persino Balotelli, chiedendo il rimpatrio del ghanese del Milan Muntari, definito “un immigrato che non lavora”, e beccandosi la lavata di capo del campione italiano di colore (“Ma davvero Salvini è un politico? Allora votate me, è meglio”). Ora, siccome è piuttosto rozzo ma tutt’altro che fesso, lucra sul declino di B., succhiando i voti di FI grazie a una serie bluff che funzionano solo perché nessuno va mai a vedere. Tipo le ricette miracolistiche contro gli immigrati e i rom (curiosamente presenti in massa anche nelle regioni e nei comuni amministrati dalla Lega), contro l’Ue (che lo mantiene da 14 anni a spese nostre), contro la legge Fornero e pro Flat tax.
Diversamente da Di Maio, che per tentare di fare un governo, anziché cambiare tutto subito, s’è accontentato di cambiare qualcosa nel tempo, il Cazzaro Verde ha continuato a ripetere – restando serio – che gli basta l’incarico per, nell’ordine: trovare una maggioranza (in due minuti), fare il governo (subito), espellere tutti i clandestini e bloccare tutti i nuovi sbarchi (oggi pomeriggio), cancellare la Fornero (domattina), tagliare le tasse all’aliquota unica del 15% (domani sera) e accontentare il M5S con mezzo reddito di cittadinanza (entro dopodomani al massimo). E solo nei primi due o tre giorni: seguiranno altre cuccagne. Siccome tutti sanno che è un fanfarone e nessuno l’ha mai preso sul serio, non è tenuto a dire con quali parlamentari farà la maggioranza, chi glieli comprerà e con quali soldi manterrà le promesse elettorali. Ma intanto la gente ci casca e lui vola nei sondaggi. In questi due mesi ha raccontato solo balle (a Mattarella, a B., a Di Maio), giurando a B. eterna fedeltà a FI e contemporaneamente assicurando al M5S l’imminente sganciamento da FI, annunciando intanto urbi et orbi che, se dipendesse da lui, il governo sarebbe già bell’e fatto. “Datemi ancora due giorni…”, “Appena si vota in Molise…”, “Aspettate il Friuli e poi vedrete…”.
L’ultima supercazzola è il “governo di scopo”, a guida leghista e “a termine fino a dicembre” (e perché non fine gennaio o metà aprile?), praticamente pronto col centrodestra unito e i 5Stelle, per “cambiare la legge elettorale”: il fatto che il M5S non voglia vedere B. neppure in cartolina, che Di Maio non voglia fargli da ruota di scorta e che i tre partiti di destra e i 5Stelle propongano quattro leggi elettorali diverse e incompatibili, per tacere di tutto il resto, sono dettagli che non lo riguardano. La prego, presidente Mattarella, gli dia l’incarico: dopo tanta noia, anche lei ha bisogno di un po’ di svago.
di Marco Travaglio | 6 maggio 2018
http://www.ilbenecomunenewsletter.it/le ... 0844-.html
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domenica 06/05/2018
Il Cazzaro Verde
di Marco Travaglio | 6 maggio 2018
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Non so voi, ma io ho una voglia matta di un bell’incarico al Cazzaro Verde, al secolo Matteo Salvini. Sono due mesi che reprimo questa irrefrenabile pulsione, ma ora non ce la faccio più: l’idea di vederlo uscire dal Quirinale col pennacchio e i galloni di premier incaricato sulla felpa è troppo allettante, soprattutto dal punto di vista estetico e scenico. Lo so che, per un incarico pieno, il presidente della Repubblica pretende una maggioranza con numeri certi in Parlamento, altrimenti preferisce sciogliere le Camere e far gestire le nuove elezioni da un governo elettorale di minoranza che si faccia bocciare in Parlamento e resti in carica per gli affari correnti (come il governo Gentiloni, ma non più espressione di un partito che ha appena dimezzato i suoi voti). E questa, intendiamoci, è l’unica via costituzionalmente corretta. Però sperare non costa niente, e io spero che Salvini venga finalmente messo alla prova. La sua fortuna, infatti, è che nessuno l’abbia mai chiamato a un pizzico di responsabilità, nei 28 anni della sua carriera politica (è il leader politicamente più vecchio su piazza, essendosi iscritto alla Lega nel lontano 1990, essendo stato eletto consigliere comunale a Milano nel 1993, e rappresenta il partito più vecchio sul mercato, l’ultimo nato nella Prima Repubblica, classe 1989). È più di un quarto di secolo che il Cazzaro verde spara a salve, senza che nessuno verifichi mai la sua mira. Le rare volte che qualcuno ha provato a inchiodarlo a un dato di fatto, la sua maschera è caduta da sola.
Quando sbarcò dalla Lombardia al Parlamento europeo, nel 2004, l’anti-Casta Salvini si portò il fratello di Bossi come assistente parlamentare (“portaborse”, direbbero i padani duri e puri di una volta, ma con un curriculum di tutto rispetto: terza media e scuola commerciale, negozio di autoricambi a Fagnano Olona, allenatore della squadra di ciclismo della Padania, il che giustificava il modico stipendio di 12.750 euro al mese). Nemico giurato delle raccomandazioni e dei familismi di Roma ladrona, l’intransigente Salvini ebbe l’ex moglie Fabrizia Ieluzzi sistemata al Comune di Milano con contratti a chiamata dalle giunte Albertini e poi Moratti, e poi la sua nuova compagna Giulia Martinelli assunta a chiamata alla Regione Lombardia dalla giunta Maroni a 70 mila euro l’anno. Quando esplode lo scandalo dei rimborsi del Carroccio rubati o buttati dal tesoriere per mantenere la famiglia Bossi, Salvini fa il moralista: “La mia paghetta era 500 lire”. Lui con la Family non c’entra, ci mancherebbe: infatti pochi mesi prima era in ferie col Trota.
All’Europarlamento, le rare volte che ci mette piede (a fine mese non manca mai per ritirare lo stipendio da quel “Gulag sovietico” che per lui è l’Ue, senza offesa per l’amico Putin), matura grande esperienza internazionale. Infatti, dopo la strage di Charlie Hebdo, spiega a Sky che l’estremismo islamico deriva “da un’errata interpretazione della Torah” (il libro sacro degli ebrei, che lui confonde col Corano: forse per l’assonanza col dio Thor, figlio di Odino, nel cui culto celtico si sposavano i leghisti d’antan). Un’altra volta riesce a trasformare in uno statista persino Balotelli, chiedendo il rimpatrio del ghanese del Milan Muntari, definito “un immigrato che non lavora”, e beccandosi la lavata di capo del campione italiano di colore (“Ma davvero Salvini è un politico? Allora votate me, è meglio”). Ora, siccome è piuttosto rozzo ma tutt’altro che fesso, lucra sul declino di B., succhiando i voti di FI grazie a una serie bluff che funzionano solo perché nessuno va mai a vedere. Tipo le ricette miracolistiche contro gli immigrati e i rom (curiosamente presenti in massa anche nelle regioni e nei comuni amministrati dalla Lega), contro l’Ue (che lo mantiene da 14 anni a spese nostre), contro la legge Fornero e pro Flat tax.
Diversamente da Di Maio, che per tentare di fare un governo, anziché cambiare tutto subito, s’è accontentato di cambiare qualcosa nel tempo, il Cazzaro Verde ha continuato a ripetere – restando serio – che gli basta l’incarico per, nell’ordine: trovare una maggioranza (in due minuti), fare il governo (subito), espellere tutti i clandestini e bloccare tutti i nuovi sbarchi (oggi pomeriggio), cancellare la Fornero (domattina), tagliare le tasse all’aliquota unica del 15% (domani sera) e accontentare il M5S con mezzo reddito di cittadinanza (entro dopodomani al massimo). E solo nei primi due o tre giorni: seguiranno altre cuccagne. Siccome tutti sanno che è un fanfarone e nessuno l’ha mai preso sul serio, non è tenuto a dire con quali parlamentari farà la maggioranza, chi glieli comprerà e con quali soldi manterrà le promesse elettorali. Ma intanto la gente ci casca e lui vola nei sondaggi. In questi due mesi ha raccontato solo balle (a Mattarella, a B., a Di Maio), giurando a B. eterna fedeltà a FI e contemporaneamente assicurando al M5S l’imminente sganciamento da FI, annunciando intanto urbi et orbi che, se dipendesse da lui, il governo sarebbe già bell’e fatto. “Datemi ancora due giorni…”, “Appena si vota in Molise…”, “Aspettate il Friuli e poi vedrete…”.
L’ultima supercazzola è il “governo di scopo”, a guida leghista e “a termine fino a dicembre” (e perché non fine gennaio o metà aprile?), praticamente pronto col centrodestra unito e i 5Stelle, per “cambiare la legge elettorale”: il fatto che il M5S non voglia vedere B. neppure in cartolina, che Di Maio non voglia fargli da ruota di scorta e che i tre partiti di destra e i 5Stelle propongano quattro leggi elettorali diverse e incompatibili, per tacere di tutto il resto, sono dettagli che non lo riguardano. La prego, presidente Mattarella, gli dia l’incarico: dopo tanta noia, anche lei ha bisogno di un po’ di svago.
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Re: Diario della caduta di un regime.
EDITORIALE
La crisi del sistema Italia
Il Parlamento è stato svuotato da anni, il governo è assente, la presidenza della Repubblica è coinvolta nell’impasse. Lo stallo politico è diventato istituzionale. E può avere effetti gravissimi
DI MARCO DAMILANO
07 maggio 2018
Una crisi che si trascina da due mesi. L’impossibilità di trovare una maggioranza. La prospettiva concreta che dopo questo passaggio elettorale ne arriverà a breve un altro, ancora più traumatico, come ipotizzò L’Espresso con la sua copertina di undici mesi fa: il gioco del Voto e Ri-Voto con una legge elettorale che non avrebbe consegnato vincitori e avrebbe riportato subito alle urne. In più, il coinvolgimento di tutte le istituzioni, compresa la più alta, la presidenza della Repubblica.
Per sessanta giorni abbiamo pensato che in queste settimane fosse decisivo provare a formare un governo, trovare il nome di un presidente del Consiglio, comporre una maggioranza parlamentare, ma ora appare evidente che la lunga crisi che stiamo vivendo non è come tante altre, non si chiuderà semplicemente con la nascita di un ministero balneare, come avveniva nella Prima Repubblica. Quella attuale non è una crisi di governo, ma qualcosa di ben più allarmante: una crisi di sistema. La messa a rischio di tutte le istituzioni previste dalla Costituzione entrata in vigore settant’anni fa. Il pericolo concreto della caduta, del crollo, del crack finale, che porta con sé i settori economici e produttivi che più hanno bisogno di istituzioni funzionanti per competere. La conclusione di un processo che non è cominciato con le elezioni del 4 marzo, come scrive Massimo Cacciari sull'Espresso in edicola, e neppure con il fallito referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, come pensa il revenant Matteo Renzi, in un intervento che ha avuto il merito di portare la crisi alla dimensione giusta, non solo politica ma istituzionale, e la colpa di essere legato interamente alla parabola di un’esperienza politica (la sua, quella di Renzi), con l’effetto di devastare quel che rimaneva del Pd.
Errore di sistema: L'Espresso in edicola da domenica 6 maggio
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La crisi politica diventa istituzionale. E minaccia il Paese. La nuova copertina del nostro settimanale
Ma lo stallo attuale non si risolve soltanto con la richiesta di nuove riforme: l’ultima modifica della Costituzione è stata sonoramente respinta dal voto degli italiani, l’ultima riforma elettorale, il Rosatellum, approvata a colpi di voti di fiducia parlamentari, è la causa prossima di questo disastro. E la crisi di sistema non comincia né il 4 marzo 2018 né il 4 dicembre 2016.
Di crisi di sistema aveva parlato il segretario del Partito socialista Bettino Craxi in un famoso editoriale sul quotidiano del partito Avanti!: «Piuttosto che inseguire le polemiche quotidiane che si aggirano in ambiti sempre più ristretti, converrà forse allargare lo sguardo allo stato di salute della nostra democrazia... Si apre il varco verso una fase più oscura della crisi politica e della crisi di sistema, il fossato della sfiducia che separa ed allontana i cittadini dalle istituzioni si allargherà ancor più e pericolosamente... Quando tutto si riduce alla alchimia delle formule, alla manovra attorno alle combinazioni, alla lotta per un potere in gran parte corroso, paralizzato o male utilizzato, siamo ad un passo dal cretinismo parlamentare e due passi dalla crisi delle istituzioni». Era il 28 settembre 1979 e quell’articolo si intitolava “Ottava legislatura”. Era l’intervento con cui Craxi aveva lanciato la Grande Riforma istituzionale: «Una legislatura già nata sotto cattivi auspici vivrà con successo se diventerà la legislatura di una grande Riforma che abbracci l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale».
Oggi di legislature ne sono passate dieci, siamo alla diciottesima, e i passi per affondare nella crisi sono stati ampiamente compiuti. Nulla è stato fatto, neppure dal segretario socialista: nel decennio successivo divenne il leader che più aveva da guadagnare dalla paralisi del sistema, coltivando la sua rendita di posizione, la rocca di Ghino di Tacco del dieci o del quattordici per cento del suo Psi da cui tutti dovevano passare. Ma la crisi era cominciata ancor prima, nel cuore degli anni Settanta, resa irreversibile dal fallimento del progetto di Aldo Moro e dall’eliminazione violenta del suo protagonista. «Ogni volta che c’è una difficoltà politica obiettiva, sembra sbucare lo strumento elettorale che dovrebbe permettere di superarla. Ma senza negare che in qualche caso (v. Francia) un sistema elettorale possa consentire di raggiungere certi obiettivi, in generale si può dire che si tratta di false soluzioni di reali problemi politici e che è opportuno non farsi mai delle illusioni. Non si accomodano con strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte». Lo aveva scritto con stupefacente lucidità, date le sue condizioni, il prigioniero delle Brigate rosse nel suo memoriale stilato nei 55 giorni della sua prigionia.
«In verità c’è stata in Italia una serie di momenti caratterizzati dalla valorizzazione di una riforma strutturale. Altrove ho ricordato il favore di taluno per il maggioritario e l’uninominalismo. C’è stata l’epoca della repubblica presidenziale, come forma di massimo ed efficace accentramento dell’esecutivo. Ma che dire ora che questi metodi si mostrano di dubbia validità nei paesi di loro origine? A che è valso il presidenzialismo di Nixon? E quello, che pareva trionfare, dello stesso Carter? A che è servito davvero il sistema maggioritario a Giscard, Callaghan e in un certo senso Schmidt? Mi pare che la prefigurazione del domani, più che in ragione di nuove istituzioni perlomeno ancora non inventate, debba consistere, ovviamente nell’attesa che esse vengano alla luce, nella preparazione migliore degli uomini nei partiti e nella vita sociale ed in una più accurata soluzione».
Una «più accurata soluzione» non è mai arrivata. Si è continuato a provare ad accordare con «strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte». E ora, a quarant’anni dall’omicidio di Moro il 9 maggio, la crisi del sistema si è attorcigliata in modo letale. In questi anni la prima istituzione a venire meno, non solo in Italia, è stata il Parlamento. La frase di Craxi sul cretinismo parlamentare fu interpretata all’epoca come un segno di autoritarismo, ma i decenni successivi hanno trasformato quella previsione in un affettuoso buffetto. Il Parlamento è stato svuotato di ogni potere e contenuto, a colpi di voti di fiducia e di maxi-emendamenti, nella costruzione di una classe parlamentare sempre più mediocre e priva di autorevolezza, fino ad arrivare all’ultima legislatura, quella 2013-2018, con tutti i principali leader (Matteo Renzi, Matteo Salvini, Beppe Grillo, Silvio Berlusconi) extra-parlamentari, nessuno di loro era deputato o senatore.
La centralità del Parlamento è stata sostituita dalla centralità dell’esecutivo e della personalità del premier, un processo non solo italiano. Ma oggi il governo non c’è, o meglio c’è il governo guidato da Paolo Gentiloni, invisibile agli occhi ma presente e in testa nei sondaggi di gradimento, e c’è un governo che il Quirinale sta cercando a fatica di mettere in piedi. Tutto fa immaginare che il prossimo governo e i futuri presidenti del Consiglio saranno politicamente molto più deboli dei loro predecessori, saranno costretti a trovarsi di volta in volta i voti in Parlamento necessari per governare. L’esecutivo diventa così materialmente imprescindibile, perché un Paese democratico, moderno, occidentale, non può restare neppure un istante senza governo (come dimostrano i meccanismi immediati di trasmissione del potere nei sistemi presidenziali in caso di impedimento del vertice), ma politicamente è evanescente, e in questo paradosso c’è l’ipotesi di scuola che Gentiloni possa scavallare da una legislatura all’altra.
In mezzo al marasma, è rimasta in piedi una sola istituzione, la presidenza della Repubblica. Il motore di riserva, chiamato ad accendersi quando l’aereo sta precipitando: così è successo per Oscar Luigi Scalfaro nel 1992-93 e per Giorgio Napolitano nel 2011, quando chiamò il professor Mario Monti a Palazzo Chigi, e nel 2013, quando la sua rielezione sbloccò una crisi che appariva insolubile. Sergio Mattarella è più sfortunato dei suoi predecessori. Non ha potuto contare finora neppure su un residuo di senso di responsabilità dei partiti e dei loro leader nevrotici, narcisisti, egocentrici, convinti di essere l’alfa e l’omega di ogni svolta politica. E così l’inquilino del Quirinale è stato rispettoso fino allo scrupolo della volontà degli elettori espressa il 4 marzo e dei tempi di scelta dei partiti, attento a non interferire nelle loro decisioni, ma anche a garantire al Paese un governo nella pienezza dei suoi poteri, eppure rischia di essere trascinato suo malgrado nella crisi del sistema e nell’incapacità di ritrovare un principio d’ordine istituzionale, nell’assenza della politica.
Nella crisi di sistema viene meno il partito che più di ogni altro lo ha incarnato, il Pd, così come nel 1993, al passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, venne giù il partito-architrave del cinquantennio precedente, la Dc. Perché in un partito del 30 o del 40 per cento possono, anzi, sono costrette a convivere personalità diverse e differenti strategie, ma in un partito elettoralmente così ristretto non sono più conciliabili. Nel 1995 gli ex democristiani si spaccarono tra i popolari, che andarono con il centrosinistra, i Ds e l’Ulivo di Romano Prodi, tra loro c’erano anche Mattarella e Dario Franceschini, e il Cdu di Rocco Buttiglione, che andò con il centrodestra, Berlusconi e la Lega. Così potrebbe succedere che il Pd attuale si spacchi tra il centro-destra a trazione leghista, Salvini e Giorgetti, e il Movimento 5 Stelle, verso il prossimo turno elettorale.
In una situazione, però, molto diversa dal passato. Della crisi di sistema fa parte, a pieno titolo, lo stato di dissoluzione in cui si trovano i partiti, i sindacati, i corpi intermedi che sono il nemico comune di Renzi, Di Maio e Salvini. Il primo maggio si è svolto senza sindacati, o quasi. Nei partiti la lotta politica tra capi-corrente è stata sostituita da quella tra i capi-hashtag, che snocciolano i numeri dei loro followers come un tempo si mettevano sul tavolo i pacchetti di tessere, anche in questo caso non mancano le anime morte, gli iscritti fantasma, sia pure virtuali. Tra i capi e la società non c’è più nulla, solo un pugno di seguaci nella rete dediti a insultare, criminalizzare, espellere i compagni di partito. I #senzadime che non capiscono perché molti elettori facciano #senzadiloro: cinque milioni di voti persi dal Pd tra il 2014 e il 2018, M5S che in Friuli in meno di due mesi passa da 169mila a 29mila elettori come voti di lista. E nella crisi istituzionale si rischia che a sostituire i partiti e i vecchi canali di mediazione restino i media, la tentazione di opinionisti e giornalisti non a orientare l’opinione pubblica, ma a sostituirsi a leader e partiti, nel vuoto.
Da una crisi di governo si può uscire con qualche mossa e rinuncia dettata da saggezza, per risolvere una crisi di sistema che va avanti da decenni serve un supplemento di fantasia, immaginazione, determinazione politica. Tutte virtù di cui il presidente della Repubblica è dotato in buona misura. Se c’è la buona volontà degli altri, s’intende. Altrimenti, qualsiasi sia la soluzione di breve periodo per la crisi di governo, la crisi di sistema è destinata ad aggravarsi sempre di più.
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CRISI
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La crisi del sistema Italia
Il Parlamento è stato svuotato da anni, il governo è assente, la presidenza della Repubblica è coinvolta nell’impasse. Lo stallo politico è diventato istituzionale. E può avere effetti gravissimi
DI MARCO DAMILANO
07 maggio 2018
Una crisi che si trascina da due mesi. L’impossibilità di trovare una maggioranza. La prospettiva concreta che dopo questo passaggio elettorale ne arriverà a breve un altro, ancora più traumatico, come ipotizzò L’Espresso con la sua copertina di undici mesi fa: il gioco del Voto e Ri-Voto con una legge elettorale che non avrebbe consegnato vincitori e avrebbe riportato subito alle urne. In più, il coinvolgimento di tutte le istituzioni, compresa la più alta, la presidenza della Repubblica.
Per sessanta giorni abbiamo pensato che in queste settimane fosse decisivo provare a formare un governo, trovare il nome di un presidente del Consiglio, comporre una maggioranza parlamentare, ma ora appare evidente che la lunga crisi che stiamo vivendo non è come tante altre, non si chiuderà semplicemente con la nascita di un ministero balneare, come avveniva nella Prima Repubblica. Quella attuale non è una crisi di governo, ma qualcosa di ben più allarmante: una crisi di sistema. La messa a rischio di tutte le istituzioni previste dalla Costituzione entrata in vigore settant’anni fa. Il pericolo concreto della caduta, del crollo, del crack finale, che porta con sé i settori economici e produttivi che più hanno bisogno di istituzioni funzionanti per competere. La conclusione di un processo che non è cominciato con le elezioni del 4 marzo, come scrive Massimo Cacciari sull'Espresso in edicola, e neppure con il fallito referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, come pensa il revenant Matteo Renzi, in un intervento che ha avuto il merito di portare la crisi alla dimensione giusta, non solo politica ma istituzionale, e la colpa di essere legato interamente alla parabola di un’esperienza politica (la sua, quella di Renzi), con l’effetto di devastare quel che rimaneva del Pd.
Errore di sistema: L'Espresso in edicola da domenica 6 maggio
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La crisi politica diventa istituzionale. E minaccia il Paese. La nuova copertina del nostro settimanale
Ma lo stallo attuale non si risolve soltanto con la richiesta di nuove riforme: l’ultima modifica della Costituzione è stata sonoramente respinta dal voto degli italiani, l’ultima riforma elettorale, il Rosatellum, approvata a colpi di voti di fiducia parlamentari, è la causa prossima di questo disastro. E la crisi di sistema non comincia né il 4 marzo 2018 né il 4 dicembre 2016.
Di crisi di sistema aveva parlato il segretario del Partito socialista Bettino Craxi in un famoso editoriale sul quotidiano del partito Avanti!: «Piuttosto che inseguire le polemiche quotidiane che si aggirano in ambiti sempre più ristretti, converrà forse allargare lo sguardo allo stato di salute della nostra democrazia... Si apre il varco verso una fase più oscura della crisi politica e della crisi di sistema, il fossato della sfiducia che separa ed allontana i cittadini dalle istituzioni si allargherà ancor più e pericolosamente... Quando tutto si riduce alla alchimia delle formule, alla manovra attorno alle combinazioni, alla lotta per un potere in gran parte corroso, paralizzato o male utilizzato, siamo ad un passo dal cretinismo parlamentare e due passi dalla crisi delle istituzioni». Era il 28 settembre 1979 e quell’articolo si intitolava “Ottava legislatura”. Era l’intervento con cui Craxi aveva lanciato la Grande Riforma istituzionale: «Una legislatura già nata sotto cattivi auspici vivrà con successo se diventerà la legislatura di una grande Riforma che abbracci l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale».
Oggi di legislature ne sono passate dieci, siamo alla diciottesima, e i passi per affondare nella crisi sono stati ampiamente compiuti. Nulla è stato fatto, neppure dal segretario socialista: nel decennio successivo divenne il leader che più aveva da guadagnare dalla paralisi del sistema, coltivando la sua rendita di posizione, la rocca di Ghino di Tacco del dieci o del quattordici per cento del suo Psi da cui tutti dovevano passare. Ma la crisi era cominciata ancor prima, nel cuore degli anni Settanta, resa irreversibile dal fallimento del progetto di Aldo Moro e dall’eliminazione violenta del suo protagonista. «Ogni volta che c’è una difficoltà politica obiettiva, sembra sbucare lo strumento elettorale che dovrebbe permettere di superarla. Ma senza negare che in qualche caso (v. Francia) un sistema elettorale possa consentire di raggiungere certi obiettivi, in generale si può dire che si tratta di false soluzioni di reali problemi politici e che è opportuno non farsi mai delle illusioni. Non si accomodano con strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte». Lo aveva scritto con stupefacente lucidità, date le sue condizioni, il prigioniero delle Brigate rosse nel suo memoriale stilato nei 55 giorni della sua prigionia.
«In verità c’è stata in Italia una serie di momenti caratterizzati dalla valorizzazione di una riforma strutturale. Altrove ho ricordato il favore di taluno per il maggioritario e l’uninominalismo. C’è stata l’epoca della repubblica presidenziale, come forma di massimo ed efficace accentramento dell’esecutivo. Ma che dire ora che questi metodi si mostrano di dubbia validità nei paesi di loro origine? A che è valso il presidenzialismo di Nixon? E quello, che pareva trionfare, dello stesso Carter? A che è servito davvero il sistema maggioritario a Giscard, Callaghan e in un certo senso Schmidt? Mi pare che la prefigurazione del domani, più che in ragione di nuove istituzioni perlomeno ancora non inventate, debba consistere, ovviamente nell’attesa che esse vengano alla luce, nella preparazione migliore degli uomini nei partiti e nella vita sociale ed in una più accurata soluzione».
Una «più accurata soluzione» non è mai arrivata. Si è continuato a provare ad accordare con «strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte». E ora, a quarant’anni dall’omicidio di Moro il 9 maggio, la crisi del sistema si è attorcigliata in modo letale. In questi anni la prima istituzione a venire meno, non solo in Italia, è stata il Parlamento. La frase di Craxi sul cretinismo parlamentare fu interpretata all’epoca come un segno di autoritarismo, ma i decenni successivi hanno trasformato quella previsione in un affettuoso buffetto. Il Parlamento è stato svuotato di ogni potere e contenuto, a colpi di voti di fiducia e di maxi-emendamenti, nella costruzione di una classe parlamentare sempre più mediocre e priva di autorevolezza, fino ad arrivare all’ultima legislatura, quella 2013-2018, con tutti i principali leader (Matteo Renzi, Matteo Salvini, Beppe Grillo, Silvio Berlusconi) extra-parlamentari, nessuno di loro era deputato o senatore.
La centralità del Parlamento è stata sostituita dalla centralità dell’esecutivo e della personalità del premier, un processo non solo italiano. Ma oggi il governo non c’è, o meglio c’è il governo guidato da Paolo Gentiloni, invisibile agli occhi ma presente e in testa nei sondaggi di gradimento, e c’è un governo che il Quirinale sta cercando a fatica di mettere in piedi. Tutto fa immaginare che il prossimo governo e i futuri presidenti del Consiglio saranno politicamente molto più deboli dei loro predecessori, saranno costretti a trovarsi di volta in volta i voti in Parlamento necessari per governare. L’esecutivo diventa così materialmente imprescindibile, perché un Paese democratico, moderno, occidentale, non può restare neppure un istante senza governo (come dimostrano i meccanismi immediati di trasmissione del potere nei sistemi presidenziali in caso di impedimento del vertice), ma politicamente è evanescente, e in questo paradosso c’è l’ipotesi di scuola che Gentiloni possa scavallare da una legislatura all’altra.
In mezzo al marasma, è rimasta in piedi una sola istituzione, la presidenza della Repubblica. Il motore di riserva, chiamato ad accendersi quando l’aereo sta precipitando: così è successo per Oscar Luigi Scalfaro nel 1992-93 e per Giorgio Napolitano nel 2011, quando chiamò il professor Mario Monti a Palazzo Chigi, e nel 2013, quando la sua rielezione sbloccò una crisi che appariva insolubile. Sergio Mattarella è più sfortunato dei suoi predecessori. Non ha potuto contare finora neppure su un residuo di senso di responsabilità dei partiti e dei loro leader nevrotici, narcisisti, egocentrici, convinti di essere l’alfa e l’omega di ogni svolta politica. E così l’inquilino del Quirinale è stato rispettoso fino allo scrupolo della volontà degli elettori espressa il 4 marzo e dei tempi di scelta dei partiti, attento a non interferire nelle loro decisioni, ma anche a garantire al Paese un governo nella pienezza dei suoi poteri, eppure rischia di essere trascinato suo malgrado nella crisi del sistema e nell’incapacità di ritrovare un principio d’ordine istituzionale, nell’assenza della politica.
Nella crisi di sistema viene meno il partito che più di ogni altro lo ha incarnato, il Pd, così come nel 1993, al passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, venne giù il partito-architrave del cinquantennio precedente, la Dc. Perché in un partito del 30 o del 40 per cento possono, anzi, sono costrette a convivere personalità diverse e differenti strategie, ma in un partito elettoralmente così ristretto non sono più conciliabili. Nel 1995 gli ex democristiani si spaccarono tra i popolari, che andarono con il centrosinistra, i Ds e l’Ulivo di Romano Prodi, tra loro c’erano anche Mattarella e Dario Franceschini, e il Cdu di Rocco Buttiglione, che andò con il centrodestra, Berlusconi e la Lega. Così potrebbe succedere che il Pd attuale si spacchi tra il centro-destra a trazione leghista, Salvini e Giorgetti, e il Movimento 5 Stelle, verso il prossimo turno elettorale.
In una situazione, però, molto diversa dal passato. Della crisi di sistema fa parte, a pieno titolo, lo stato di dissoluzione in cui si trovano i partiti, i sindacati, i corpi intermedi che sono il nemico comune di Renzi, Di Maio e Salvini. Il primo maggio si è svolto senza sindacati, o quasi. Nei partiti la lotta politica tra capi-corrente è stata sostituita da quella tra i capi-hashtag, che snocciolano i numeri dei loro followers come un tempo si mettevano sul tavolo i pacchetti di tessere, anche in questo caso non mancano le anime morte, gli iscritti fantasma, sia pure virtuali. Tra i capi e la società non c’è più nulla, solo un pugno di seguaci nella rete dediti a insultare, criminalizzare, espellere i compagni di partito. I #senzadime che non capiscono perché molti elettori facciano #senzadiloro: cinque milioni di voti persi dal Pd tra il 2014 e il 2018, M5S che in Friuli in meno di due mesi passa da 169mila a 29mila elettori come voti di lista. E nella crisi istituzionale si rischia che a sostituire i partiti e i vecchi canali di mediazione restino i media, la tentazione di opinionisti e giornalisti non a orientare l’opinione pubblica, ma a sostituirsi a leader e partiti, nel vuoto.
Da una crisi di governo si può uscire con qualche mossa e rinuncia dettata da saggezza, per risolvere una crisi di sistema che va avanti da decenni serve un supplemento di fantasia, immaginazione, determinazione politica. Tutte virtù di cui il presidente della Repubblica è dotato in buona misura. Se c’è la buona volontà degli altri, s’intende. Altrimenti, qualsiasi sia la soluzione di breve periodo per la crisi di governo, la crisi di sistema è destinata ad aggravarsi sempre di più.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Mattarella: “Governo neutrale fino a dicembre”
Lega e M5s: ‘Voto subito’. FI: ‘Meglio l’autunno’
Il presidente: “Esecutivo di tregua, senza una maggioranza politica alle urne nel 2019” (video). Il Colle
avverte: voto in estate rischioso. Forza Italia prende tempo. Di Battista: “Sarebbe tradimento della patria”
POLITICAUn governo neutrale e di servizio che “rispetti così la volontà popolare”. E che, nel caso non si trovi una nuova maggioranza in Parlamento, arrivi fino a dicembre prima di tornare alle urne. “Perché non è mai accaduto che una legislatura si chiudesse senza essere iniziata, non utilizzando la volontà popolare”. Senza escludere però le altre due ipotesi: “scelgano i partiti” se invece preferiscono il ritorno al voto a luglio o in autunno, opzioni però scoraggiate entrambe dal Colle di F. Q.
•VIDEO – SALVINI: ‘GOVERNO DI CENTRODESTRA O VOTO L’8 LUGLIO’ •VIDEO – DI MAIO: ‘SCEGLIE B, DA OGGI CAMPAGNA ELETTORALE’
•CASSESE, PAJNO, ZINGALES: ECCO I POSSIBILI NOMI PER UN PREMIER DI TREGUA (DI S. GALEOTTI)
https://www.ilfattoquotidiano.it/
Lega e M5s: ‘Voto subito’. FI: ‘Meglio l’autunno’
Il presidente: “Esecutivo di tregua, senza una maggioranza politica alle urne nel 2019” (video). Il Colle
avverte: voto in estate rischioso. Forza Italia prende tempo. Di Battista: “Sarebbe tradimento della patria”
POLITICAUn governo neutrale e di servizio che “rispetti così la volontà popolare”. E che, nel caso non si trovi una nuova maggioranza in Parlamento, arrivi fino a dicembre prima di tornare alle urne. “Perché non è mai accaduto che una legislatura si chiudesse senza essere iniziata, non utilizzando la volontà popolare”. Senza escludere però le altre due ipotesi: “scelgano i partiti” se invece preferiscono il ritorno al voto a luglio o in autunno, opzioni però scoraggiate entrambe dal Colle di F. Q.
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Re: Diario della caduta di un regime.
Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano:
IL DECALOGO
PER ARCHIVIARE
IL DELINQUENTE
SENZA DI QUESTE LEGGI B. CONTERA' ANCORA:
1. Conflitti d'interessi: Ineleggi-
bile chi possiede massmedia
2. Anticorruzione: agenti sotto
copertura contro le tangenti
3. Intercettazioni: bloccare la
norma-bavaglio fatta del Pd
4. Prescrizione dei reati: fer-
marla con il rinvio a giudizio
5. Evasione: carcere vero per gli
evasori e frodatori fiscali
6. Evasione: Carceri via la legge che esen-
ta i condannati fino a 4 anni
7. Mafia: più rigore contro il vo-
to di scambio ora impunibile
8. Rai: via i partiti dai vertici, ma
solo professionisti della tv.
9. Antitrust contro le concent-
trazioni di reti tv e di spot
10. Niente guida a FI per le com-
missioni Rai, mafia e servizi
PENSARE CHE SI POSSANO REALIZZARE QUESTE LEGGI, SIGNIFICA CREDERE IN BABBO NATALE.
NON CHE NON SIANO GIUSTE, MA QUESTA CLASSE POLITICA NON E' ASSOLUTAMENTE IN GRADO DI REALIZZARLE
^^^^^^^
Dal vice- Bufaliere:
Vince il bullismo politico
Di Maio ordina:
<<Giù le brache>>
E tutti le calano
^^^^^^^
Dal Bufaliere:
MATTARELLA PREMIER
DI MAIO A CACCIA DI POLTRONE
IL DECALOGO
PER ARCHIVIARE
IL DELINQUENTE
SENZA DI QUESTE LEGGI B. CONTERA' ANCORA:
1. Conflitti d'interessi: Ineleggi-
bile chi possiede massmedia
2. Anticorruzione: agenti sotto
copertura contro le tangenti
3. Intercettazioni: bloccare la
norma-bavaglio fatta del Pd
4. Prescrizione dei reati: fer-
marla con il rinvio a giudizio
5. Evasione: carcere vero per gli
evasori e frodatori fiscali
6. Evasione: Carceri via la legge che esen-
ta i condannati fino a 4 anni
7. Mafia: più rigore contro il vo-
to di scambio ora impunibile
8. Rai: via i partiti dai vertici, ma
solo professionisti della tv.
9. Antitrust contro le concent-
trazioni di reti tv e di spot
10. Niente guida a FI per le com-
missioni Rai, mafia e servizi
PENSARE CHE SI POSSANO REALIZZARE QUESTE LEGGI, SIGNIFICA CREDERE IN BABBO NATALE.
NON CHE NON SIANO GIUSTE, MA QUESTA CLASSE POLITICA NON E' ASSOLUTAMENTE IN GRADO DI REALIZZARLE
^^^^^^^
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Della Luna: il ruolo del Colle nella colonia-Italia, non da oggi
Scritto il 14/5/18 • nella Categoria: idee Condividi
L’operato degli ultimi inquilini del Quirinale «manifesta che il presidente della Repubblica non è un’istituzione italiana, è un organo dell’ordinamento sovranazionale preposto ad assicurare l’obbedienza dei governi italiani agli interessi stranieri egemoni, cioè al vero sovrano». Parola dell’avvocato Marco Della Luna, autore di saggi come “Euroschiavi”, “Cimiteuro” e “Oligarchia per popoli superflui”. Mattarella avverte Di Maio, ma soprattutto Salvini, che starà a lui – e non ai parlamentari eletti dal popolo – scegliere il nome del futuro premier, nonché di un ministro dell’economia “amico” di Bruxelles e di un ministro degli esteri “non amico” della Russia? Persino ovvio, per Della Luna, secondo cui ormai da molti anni il Quirinale – vedasi Ciampi e Napolitano – tutela soprattutto i grandi architetti del sistema eurocratico. Mattarella? Mette i bastoni tra le ruote ai 5 Stelle e alla Lega, che le elezioni le hanno vinte, ma è stato eletto dal Pd ora sconfitto, attraverso un Parlamento dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale di cui proprio Mattarella era autorevole esponente. Così adesso per Della Luna «abbiamo questa curiosa situazione, grottescamente anti-democratica, in cui i rappresentanti della maggioranza del popolo “sovrano” devono subire volere contrario del presidente scelto dalla controparte politica, nominato da una maggioranza illegittima e non più esistente».
Un presidente, scrive Della Luna nel suo blog, il quale «si riserva di approvare, se non anche di designare (con operazioni a porte chiuse e su cui intervengono cancellerie straniere contrarie a una politica indipendente dell’Italia) il capo del governo, i ministri, le stesse linee politiche di fondo, imponendo in particolare l’adesione del progetto europeista e alle regole già prescritte dall’eurocrazia – ossia, compiendo una scelta politica autoritaria al fine di vincolare la maggioranza e il governo, contro la maggioranza parlamentare e del paese, che ha una posizione critica nei confronti di quel progetto e di quelle regole eurocratiche, che vuole rinegoziarle a fondo, alla luce dei loro accertati effetti sfavorevoli soprattutto sull’Italia». Rinegoziare le regole Ue? «Una volontà che il “sovrano” straniero non accetta e che contrasta attraverso il Colle – che non è Italia». Per questo, Mattarella ha ammonito «i rappresentati della maggioranza sovranista degli italiani: sbagliate ad essere euroscettici, dovete smetterla». E se l’Unione Europea si è consegnata alla finanza, divenendo «una centrale di controllo bancario sulle nazioni, di concentrazione del reddito e del potere nelle mani di un’élite finanziaria parassitaria e antisociale, che toglie diritti, lavoro, reddito e sicurezza alla gente», per Della Luna tutto questo avviene «per il tornaconto di una classe finanziaria globale detentrice del vero potere», ben decisa a «riformare la società e il diritto a proprio vantaggio».
Un piano che, insiste Della Luna, «i presidenti italiani devono assecondare». Al di là della retorica europeista – alla quale gli elettori non credono più, come si è visto il 4 marzo – la verità è che «l’establishment del paese più forte, cioè della Germania, spalleggiato da qualche complice come la Francia, che riceve benefici, scarica i suoi costi del superamento delle difficoltà sui paesi più deboli». Questa è la realtà dell’Ue: «Certo, sarebbe bello essere uniti e solidali per affrontare le difficoltà, ma le cose non vanno a questo modo». Attenzione: «Ogni presidente lo sa perfettamente, ma deve fingere», sostiene Della Luna. «L’inesistente mondo della solidarietà nei rapporti internazionali e dell’unione che fa la forza è solo una dissimulazione del fatto che gli alti interventi dei presidenti sono atti di obbedienza a interessi di potenze straniere dominanti, come quando uno di essi, violando la Costituzione, ci mandò in guerra contro la Libia e a nostro danno, al servizio di interessi soprattutto francesi; o come quando ci impose Monti e le sue politiche a beneficio dei banchieri speculatori franco-tedeschi». Della Luna lo ripete da anni: «La funzione reale del presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale – è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive».
Affinché possa svolgere quel ruolo, il Quirinale «è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche, analogamente a come, nelle monarchie, il re è protetto da esse, perché egli è la fonte ultima di legittimazione del potere costituito e degli interessi che esso serve», aggiunge Della Luna. «Solo che nelle vere monarchie il re era protetto nell’interesse del suo paese, mentre nel protettorato-Italia il presidente è protetto nell’interesse del sovrano straniero». Inoltre nelle monarchie contemporanee il sovrano non governa direttamente, e così salva sempre la faccia alla corona in caso di malgoverno. «Esistono persino norme che puniscono penalmente chi attribuisca al monarca la responsabilità politica di atti del governo», puntualizza Della Luna, sebbene il monarca «sovente scelga il primo ministro e indirizzi l’azione del governo mediante vari strumenti, a cominciare dai discorsi pubblici, dalla “moral suasion”, e passando attraverso i servizi segreti e la sua partecipazione al sistema bancario centrale». Nell’ordinamento repubblicano italiano, secondo l’analista, vi sono residui più o meno forti di questa dualità: da un lato istituzioni e poteri protetti, e dall’altro istituzioni e poteri logorabili. «Le istituzioni protette sono principalmente il Capo dello Stato, i magistrati, il sistema bancario; non più il Parlamento (che è composto perlopiù da nominati delle segreterie partitiche, privi di reale e autonomo potere, aventi funzione sostanzialmente di ratificatori e di figuranti)».
Capo dello Stato e potere giudiziario sono detti “poteri neutri”, scrive Della Luna, «anche se palesemente non sono neutri né neutrali», mentre le istituzioni «esposte al logorio, al biasimo, alle responsabilità, all’insuccesso, alla verifica dell’efficacia-inefficacia del loro operato, sono invece quelle politiche: il Parlamento e, soprattutto, il governo». Proprio ora il tribunale di sorveglianza ha riabilitato Berlusconi con un mese di anticipo, «così che adesso Silvio può rientrare in Parlamento e scompigliare i giochi». C’è chi vede in questa mossa «un ulteriore intervento politico di un potere protetto e falsamente neutro – quello giudiziario – per boicottare un governo Lega-M5S pericoloso per gli interessi “europei” sull’Italia». Da noi, aggiunge Della Luna, il presidente della Repubblica esercita poteri anche di indirizzo governativo e legislativo, «ma non è esposto a logorio, a delegittimazione, a biasimo, al perdere la faccia, anche quando interviene su chi è esposto». Di fatto, «il presidente non ha mai torto, è sempre saggio: tutti elogiano le sue affermazioni, manifestando ammirazione e consenso per esse, anche quando sono banali o faziose o false». Per converso, «chi si oppone e le critica, appare come un estremista». Il presidente? «Non ha un passato rimproverabile, o lo ha ma non se ne deve parlare. I mass media lo rispettano».
E’ un potere palesemente temuto, quello del Quirinale, «dotato di efficaci e poco regolamentati strumenti per delegittimare e mettere in crisi l’azione sia dei poteri politici che degli organi giudiziari», scrive Della Luna. «Strumenti che agiscono sottobanco, senza trasparenza. Strumenti per sostenere o attaccare e per bloccare attacchi e indagini». Il Quirinale «dispone di un numeroso personale (oltre 800 persone) e di molto denaro, che può usare senza specificare per che cosa». Tutti, quindi, si guardano dal criticare il presidente della Repubblica. «Al più si può fingere che le sue parole abbiano significati e implicazioni che non hanno, per tirare la sua autorevolezza dalla propria parte, o per fare apparire le sue esternazioni come meno critiche di quello che in realtà intendono essere». Per Della Luna, in ogni caso, si tratta di caratteristiche storiche: l’operato dei presidenti, sostiene, «non è libero, ma è conseguenza della posizione subordinata e servile che l’Italia ha e ha sempre avuto, sin dalla sua creazione come Stato unitario». Una posizione dalla quale l’Italia «ha ripetutamente e invano tentato di uscire, per elevarsi alla parità con le altre potenze, dapprima mediante le conquiste coloniali, poi mediante la partecipazione alla I Guerra Mondiale, indi alla II Guerra Mondiale».
La capitolazione del 1943 «l’ha ridotta a un livello ancora più subordinato», e i successivi tentativi di praticare politiche di interesse nazionale, anche in settori limitati, «sono stati stroncati in vario modo: si pensi a Mattei, a Moro, a Craxi, per finire col “colpo di Stato” del 2011», attraverso il quale l’élite europea ha insediato Monti a Palazzi Chigi tramite Napolitano. Posto che un giorno l’Italia si liberi dall’egemonia straniera e che provi davvero a fare qualche riforma in senso democratico «per porre fine alle interferenze sottobanco di poteri non delimitati», secondo Della Luna «quel giorno l’istituto del presidente della Repubblica andrà sostanzialmente modificato: o ne si fa un capo politico, politicamente responsabile e criticabile, eletto dal popolo – cioè si fa una repubblica presidenziale o semi-presidenziale – oppure ne si fa un notaio senza poteri politici». Ma allora, conclude Della Luna, occorre un sistema elettorale che formi direttamente la maggioranza di governo attraverso un ballottaggio per assegnare il premio di maggioranza, e che elegga pure direttamente il primo ministro attraverso il suo abbinamento alla lista: un cancelliere con facoltà di nominare e revocare i ministri, dettare l’indirizzo di governo e persino sciogliere le Camere. Orizzonti oggi impensabili, in quest’Italia ancora al guinzaglio della concorrenza europea e anti-italiana, che si nasconde dietro l’alibi comunitario di Bruxelles.
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Della Luna: il ruolo del Colle nella colonia-Italia, non da oggi
Scritto il 14/5/18 • nella Categoria: idee Condividi
L’operato degli ultimi inquilini del Quirinale «manifesta che il presidente della Repubblica non è un’istituzione italiana, è un organo dell’ordinamento sovranazionale preposto ad assicurare l’obbedienza dei governi italiani agli interessi stranieri egemoni, cioè al vero sovrano». Parola dell’avvocato Marco Della Luna, autore di saggi come “Euroschiavi”, “Cimiteuro” e “Oligarchia per popoli superflui”. Mattarella avverte Di Maio, ma soprattutto Salvini, che starà a lui – e non ai parlamentari eletti dal popolo – scegliere il nome del futuro premier, nonché di un ministro dell’economia “amico” di Bruxelles e di un ministro degli esteri “non amico” della Russia? Persino ovvio, per Della Luna, secondo cui ormai da molti anni il Quirinale – vedasi Ciampi e Napolitano – tutela soprattutto i grandi architetti del sistema eurocratico. Mattarella? Mette i bastoni tra le ruote ai 5 Stelle e alla Lega, che le elezioni le hanno vinte, ma è stato eletto dal Pd ora sconfitto, attraverso un Parlamento dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale di cui proprio Mattarella era autorevole esponente. Così adesso per Della Luna «abbiamo questa curiosa situazione, grottescamente anti-democratica, in cui i rappresentanti della maggioranza del popolo “sovrano” devono subire volere contrario del presidente scelto dalla controparte politica, nominato da una maggioranza illegittima e non più esistente».
Un presidente, scrive Della Luna nel suo blog, il quale «si riserva di approvare, se non anche di designare (con operazioni a porte chiuse e su cui intervengono cancellerie straniere contrarie a una politica indipendente dell’Italia) il capo del governo, i ministri, le stesse linee politiche di fondo, imponendo in particolare l’adesione del progetto europeista e alle regole già prescritte dall’eurocrazia – ossia, compiendo una scelta politica autoritaria al fine di vincolare la maggioranza e il governo, contro la maggioranza parlamentare e del paese, che ha una posizione critica nei confronti di quel progetto e di quelle regole eurocratiche, che vuole rinegoziarle a fondo, alla luce dei loro accertati effetti sfavorevoli soprattutto sull’Italia». Rinegoziare le regole Ue? «Una volontà che il “sovrano” straniero non accetta e che contrasta attraverso il Colle – che non è Italia». Per questo, Mattarella ha ammonito «i rappresentati della maggioranza sovranista degli italiani: sbagliate ad essere euroscettici, dovete smetterla». E se l’Unione Europea si è consegnata alla finanza, divenendo «una centrale di controllo bancario sulle nazioni, di concentrazione del reddito e del potere nelle mani di un’élite finanziaria parassitaria e antisociale, che toglie diritti, lavoro, reddito e sicurezza alla gente», per Della Luna tutto questo avviene «per il tornaconto di una classe finanziaria globale detentrice del vero potere», ben decisa a «riformare la società e il diritto a proprio vantaggio».
Un piano che, insiste Della Luna, «i presidenti italiani devono assecondare». Al di là della retorica europeista – alla quale gli elettori non credono più, come si è visto il 4 marzo – la verità è che «l’establishment del paese più forte, cioè della Germania, spalleggiato da qualche complice come la Francia, che riceve benefici, scarica i suoi costi del superamento delle difficoltà sui paesi più deboli». Questa è la realtà dell’Ue: «Certo, sarebbe bello essere uniti e solidali per affrontare le difficoltà, ma le cose non vanno a questo modo». Attenzione: «Ogni presidente lo sa perfettamente, ma deve fingere», sostiene Della Luna. «L’inesistente mondo della solidarietà nei rapporti internazionali e dell’unione che fa la forza è solo una dissimulazione del fatto che gli alti interventi dei presidenti sono atti di obbedienza a interessi di potenze straniere dominanti, come quando uno di essi, violando la Costituzione, ci mandò in guerra contro la Libia e a nostro danno, al servizio di interessi soprattutto francesi; o come quando ci impose Monti e le sue politiche a beneficio dei banchieri speculatori franco-tedeschi». Della Luna lo ripete da anni: «La funzione reale del presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale – è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive».
Affinché possa svolgere quel ruolo, il Quirinale «è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche, analogamente a come, nelle monarchie, il re è protetto da esse, perché egli è la fonte ultima di legittimazione del potere costituito e degli interessi che esso serve», aggiunge Della Luna. «Solo che nelle vere monarchie il re era protetto nell’interesse del suo paese, mentre nel protettorato-Italia il presidente è protetto nell’interesse del sovrano straniero». Inoltre nelle monarchie contemporanee il sovrano non governa direttamente, e così salva sempre la faccia alla corona in caso di malgoverno. «Esistono persino norme che puniscono penalmente chi attribuisca al monarca la responsabilità politica di atti del governo», puntualizza Della Luna, sebbene il monarca «sovente scelga il primo ministro e indirizzi l’azione del governo mediante vari strumenti, a cominciare dai discorsi pubblici, dalla “moral suasion”, e passando attraverso i servizi segreti e la sua partecipazione al sistema bancario centrale». Nell’ordinamento repubblicano italiano, secondo l’analista, vi sono residui più o meno forti di questa dualità: da un lato istituzioni e poteri protetti, e dall’altro istituzioni e poteri logorabili. «Le istituzioni protette sono principalmente il Capo dello Stato, i magistrati, il sistema bancario; non più il Parlamento (che è composto perlopiù da nominati delle segreterie partitiche, privi di reale e autonomo potere, aventi funzione sostanzialmente di ratificatori e di figuranti)».
Capo dello Stato e potere giudiziario sono detti “poteri neutri”, scrive Della Luna, «anche se palesemente non sono neutri né neutrali», mentre le istituzioni «esposte al logorio, al biasimo, alle responsabilità, all’insuccesso, alla verifica dell’efficacia-inefficacia del loro operato, sono invece quelle politiche: il Parlamento e, soprattutto, il governo». Proprio ora il tribunale di sorveglianza ha riabilitato Berlusconi con un mese di anticipo, «così che adesso Silvio può rientrare in Parlamento e scompigliare i giochi». C’è chi vede in questa mossa «un ulteriore intervento politico di un potere protetto e falsamente neutro – quello giudiziario – per boicottare un governo Lega-M5S pericoloso per gli interessi “europei” sull’Italia». Da noi, aggiunge Della Luna, il presidente della Repubblica esercita poteri anche di indirizzo governativo e legislativo, «ma non è esposto a logorio, a delegittimazione, a biasimo, al perdere la faccia, anche quando interviene su chi è esposto». Di fatto, «il presidente non ha mai torto, è sempre saggio: tutti elogiano le sue affermazioni, manifestando ammirazione e consenso per esse, anche quando sono banali o faziose o false». Per converso, «chi si oppone e le critica, appare come un estremista». Il presidente? «Non ha un passato rimproverabile, o lo ha ma non se ne deve parlare. I mass media lo rispettano».
E’ un potere palesemente temuto, quello del Quirinale, «dotato di efficaci e poco regolamentati strumenti per delegittimare e mettere in crisi l’azione sia dei poteri politici che degli organi giudiziari», scrive Della Luna. «Strumenti che agiscono sottobanco, senza trasparenza. Strumenti per sostenere o attaccare e per bloccare attacchi e indagini». Il Quirinale «dispone di un numeroso personale (oltre 800 persone) e di molto denaro, che può usare senza specificare per che cosa». Tutti, quindi, si guardano dal criticare il presidente della Repubblica. «Al più si può fingere che le sue parole abbiano significati e implicazioni che non hanno, per tirare la sua autorevolezza dalla propria parte, o per fare apparire le sue esternazioni come meno critiche di quello che in realtà intendono essere». Per Della Luna, in ogni caso, si tratta di caratteristiche storiche: l’operato dei presidenti, sostiene, «non è libero, ma è conseguenza della posizione subordinata e servile che l’Italia ha e ha sempre avuto, sin dalla sua creazione come Stato unitario». Una posizione dalla quale l’Italia «ha ripetutamente e invano tentato di uscire, per elevarsi alla parità con le altre potenze, dapprima mediante le conquiste coloniali, poi mediante la partecipazione alla I Guerra Mondiale, indi alla II Guerra Mondiale».
La capitolazione del 1943 «l’ha ridotta a un livello ancora più subordinato», e i successivi tentativi di praticare politiche di interesse nazionale, anche in settori limitati, «sono stati stroncati in vario modo: si pensi a Mattei, a Moro, a Craxi, per finire col “colpo di Stato” del 2011», attraverso il quale l’élite europea ha insediato Monti a Palazzi Chigi tramite Napolitano. Posto che un giorno l’Italia si liberi dall’egemonia straniera e che provi davvero a fare qualche riforma in senso democratico «per porre fine alle interferenze sottobanco di poteri non delimitati», secondo Della Luna «quel giorno l’istituto del presidente della Repubblica andrà sostanzialmente modificato: o ne si fa un capo politico, politicamente responsabile e criticabile, eletto dal popolo – cioè si fa una repubblica presidenziale o semi-presidenziale – oppure ne si fa un notaio senza poteri politici». Ma allora, conclude Della Luna, occorre un sistema elettorale che formi direttamente la maggioranza di governo attraverso un ballottaggio per assegnare il premio di maggioranza, e che elegga pure direttamente il primo ministro attraverso il suo abbinamento alla lista: un cancelliere con facoltà di nominare e revocare i ministri, dettare l’indirizzo di governo e persino sciogliere le Camere. Orizzonti oggi impensabili, in quest’Italia ancora al guinzaglio della concorrenza europea e anti-italiana, che si nasconde dietro l’alibi comunitario di Bruxelles.
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Finta rivoluzione, voluta dal potere che ha sdoganato Silvio
Scritto il 13/5/18 • nella Categoria: idee Condividi
«Chiedetevi come mai, dopo anni di interdizione assoluta, Berlusconi viene improvvisamente riabilitato, un minuto dopo aver concesso a Salvini il via libera per fare il governo con Di Maio». Traduzione: è proprio l’establishment a volere quel governo, nonostante le apparenze. Se le cose stanno così, è praticamente impossibile aspettarsi qualcosa di veramente buono, per gli italiani. Analisi firmata da Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Io alle coincidenze non credo affatto», premette Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” ha sviluppato il tema della “sovragestione” dei grandi poteri finanziari, spesso massonici, che pilotano le vicende politiche nazionali. Ma se il presunto “crimine” politico sarebbe la manovra dietro le quinte – il premio al Cavaliere, nuovamente candidabile – per aver consentito il varo dell’esecutivo retto da Salvini e Di Maio, quale sarebbe l’altrettanto ipotetico “movente”? Semplice, per Carpeoro: «Prendere tempo, dando modo al Pd di riprendersi e tornare a essere il vero “braccio armato” di questa inguardabile Unione Europea», cioè del regime fondato sul rigore e diretto dall’élite finanziaria.
Carpeoro non crede alle promesse “sovraniste” del futuro governo “gialloverde”, rispetto al quale Mattarella ha già calato pesantissime ipoteche: guai a uscire dai binari (deprimenti) di Bruxelles, ha avvertito il capo dello Stato, autorevole rappresentante italiano del club eurocratico. Il “contratto” tra Salvini e Di Maio prevede, almeno sulla carta, i punti principali del programma elettorale della Lega e quello dei 5 Stelle: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero (cioè dei tagli alle pensioni). «Onestamente: per attuare queste scelte servono davvero tanti soldi, troppi, e non di capisce dove li possano trovare, Salvini e Di Maio». Risultato: «Probabilmente non riusciranno a combinare niente di sostanziale, magari annunceranno misure importanti ma poi scopriranno di non poterle applicare davvero». Nel frattempo, però, l’Italia avrà un governo pienamente operativo, in grado per esempio di varare il Def, il documento di programmazione economica e finanziaria. «Sarà un governo per prendere tempo», insiste Carpeoro: un esecutivo che nasce per consentire al paese di andare comunque avanti, e soprattutto per permettere al Pd di riprendersi dalla déblacle elettorale, tornando ad essere il garante affidabile dell’austerity europea da infliggere all’Italia.
Carpeoro interpreta come un evento non casuale (e addirittura sinistro) la sconcertante sincronicità che lega il “perdono” del Cavaliere all’ok dato a Salvini per l’alleanza tattica con Di Maio, ennesimo indizio della “giustizia a orologeria” che, per Carpeoro, resta una delle grandi piaghe politiche del nostro paese. Un passaggio che dimostra, una volta di più, il potere reale della “sovragestione”, ben al di sopra della “volontà degli elettori”: costretto a mettere in pista Di Maio e Salvini, turandosi il naso, l’establishment comunque sistemerà nei posti giusti i suoi “frenatori” (cominciando dal Quirinale, che demonizza la sovranità chiamandola “sovranismo”), preparandosi a veder fallire le riforme più rivoluzionarie in arrivo, dal taglio delle tasse al reddito garantito. Finale già scritto: seguirà la classica restaurazione di potere «affidata come sempre ad ex comunisti ed ex democristiani», cioè le correnti consociative e iper-eurocratiche incarnate dal Pd, l’erede dell’Ulivo fondato da Romano Prodi, l’uomo dei poteri forti che ha azzoppato l’Italia amputando l’Iri, vero motore del sistema industriale del made in Italy. Riusciranno Di Maio e Salvini a sfuggire a un deludente destino che sembra già scritto? Difficile, sostiene Carpeoro, visto che è proprio il super-potere (grazie a Berlusconi) a dare il via a questa rivoluzione solo apparente.
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Finta rivoluzione, voluta dal potere che ha sdoganato Silvio
Scritto il 13/5/18 • nella Categoria: idee Condividi
«Chiedetevi come mai, dopo anni di interdizione assoluta, Berlusconi viene improvvisamente riabilitato, un minuto dopo aver concesso a Salvini il via libera per fare il governo con Di Maio». Traduzione: è proprio l’establishment a volere quel governo, nonostante le apparenze. Se le cose stanno così, è praticamente impossibile aspettarsi qualcosa di veramente buono, per gli italiani. Analisi firmata da Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Io alle coincidenze non credo affatto», premette Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” ha sviluppato il tema della “sovragestione” dei grandi poteri finanziari, spesso massonici, che pilotano le vicende politiche nazionali. Ma se il presunto “crimine” politico sarebbe la manovra dietro le quinte – il premio al Cavaliere, nuovamente candidabile – per aver consentito il varo dell’esecutivo retto da Salvini e Di Maio, quale sarebbe l’altrettanto ipotetico “movente”? Semplice, per Carpeoro: «Prendere tempo, dando modo al Pd di riprendersi e tornare a essere il vero “braccio armato” di questa inguardabile Unione Europea», cioè del regime fondato sul rigore e diretto dall’élite finanziaria.
Carpeoro non crede alle promesse “sovraniste” del futuro governo “gialloverde”, rispetto al quale Mattarella ha già calato pesantissime ipoteche: guai a uscire dai binari (deprimenti) di Bruxelles, ha avvertito il capo dello Stato, autorevole rappresentante italiano del club eurocratico. Il “contratto” tra Salvini e Di Maio prevede, almeno sulla carta, i punti principali del programma elettorale della Lega e quello dei 5 Stelle: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero (cioè dei tagli alle pensioni). «Onestamente: per attuare queste scelte servono davvero tanti soldi, troppi, e non di capisce dove li possano trovare, Salvini e Di Maio». Risultato: «Probabilmente non riusciranno a combinare niente di sostanziale, magari annunceranno misure importanti ma poi scopriranno di non poterle applicare davvero». Nel frattempo, però, l’Italia avrà un governo pienamente operativo, in grado per esempio di varare il Def, il documento di programmazione economica e finanziaria. «Sarà un governo per prendere tempo», insiste Carpeoro: un esecutivo che nasce per consentire al paese di andare comunque avanti, e soprattutto per permettere al Pd di riprendersi dalla déblacle elettorale, tornando ad essere il garante affidabile dell’austerity europea da infliggere all’Italia.
Carpeoro interpreta come un evento non casuale (e addirittura sinistro) la sconcertante sincronicità che lega il “perdono” del Cavaliere all’ok dato a Salvini per l’alleanza tattica con Di Maio, ennesimo indizio della “giustizia a orologeria” che, per Carpeoro, resta una delle grandi piaghe politiche del nostro paese. Un passaggio che dimostra, una volta di più, il potere reale della “sovragestione”, ben al di sopra della “volontà degli elettori”: costretto a mettere in pista Di Maio e Salvini, turandosi il naso, l’establishment comunque sistemerà nei posti giusti i suoi “frenatori” (cominciando dal Quirinale, che demonizza la sovranità chiamandola “sovranismo”), preparandosi a veder fallire le riforme più rivoluzionarie in arrivo, dal taglio delle tasse al reddito garantito. Finale già scritto: seguirà la classica restaurazione di potere «affidata come sempre ad ex comunisti ed ex democristiani», cioè le correnti consociative e iper-eurocratiche incarnate dal Pd, l’erede dell’Ulivo fondato da Romano Prodi, l’uomo dei poteri forti che ha azzoppato l’Italia amputando l’Iri, vero motore del sistema industriale del made in Italy. Riusciranno Di Maio e Salvini a sfuggire a un deludente destino che sembra già scritto? Difficile, sostiene Carpeoro, visto che è proprio il super-potere (grazie a Berlusconi) a dare il via a questa rivoluzione solo apparente.
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Avvoltoi: rimpiangono Silvio per spaventare Lega e 5 Stelle
Scritto il 15/5/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.
Si poteva forse lasciarle stare? Macchè! Se si vuole – come si vuole – piegare l’Italia e ricattarla a 360 gradi (anzi, metterla a novanta gradi, per essere proprio esatti), anche le Bcc devono piegare le ginocchia e genuflettersi alla corte di Bruxelles. A maggio le Bcc cambiano infatti pelle, perchè perdono la loro natura cooperativa, che le obbliga ad aiutare i soci e investire, per statuto, solo sul territorio. La tradizione risale alla cultura cristiana dell’Ottocento che già allora reagiva alla dispersione capitalistica della prima rivoluzione industriale. Le Bcc sono metà del sistema bancario italiano, mica pizza e fichi, con propensione per i micro imprenditori, per ovvi motivi legati alla vocazione comunitaria. Con la Legge 49 del 2016 si impone alle Bcc che si fondano in una specie di holding, tanto per parlare come si mangia, con precisi obblighi di capitalizzazione. Cosa significa? Signifia che anche la Bcc va verso l’aggregazione bancaria con delle capogruppo ipetrofiche, che saranno delle holding controllate. In altri termini, l’inculata che si presero le banche popolari qualche anno fa, che fallirono (de facto…) perchè divennero preda dei fondi speculativi, sta per ripetersi anche per la banche di credito cooperativo.
Più semplicemente, queste Bcc una volta fuse e controllate da una capogruppo, avranno libero acceso al grande mercato dei capitali e quindi le quote – con i soliti magheggi aggiratutto – finiranno in mano ai fondi esteri, prima o poi. Sulla carta, questi fondi, cioè questi investitori, potranno ciucciarsi il 49 per cento; dunque, non la maggioranza assoluta. Ma non si tratta proprio di bruscolini, ed è probabile che questi capitali cercheranno l’interesse della globalizzazione e non quello locale. Siamo, dunque, alle solite. Non solo: con questa riforma voluta dall’Europa, le banche anche come sportelli, si ridurranno. Ma, soprattutto, la Bce potrà controllarle perché diventeranno un gruppo bancario grande e come tale sottoposto a vigilanza Ue. I danni saranno enormi, perchè verrà meno lo spirito mutualistico tipico della dottrina sociale dei cattolici e anche perché le uniche banche “sensate” che operano sul territorio diventeranno un oligopolio uguale a quello che già conosciamo e che ha funzionato come tutti abbiamo purtroppo già visto. Ovviamente, questa ipermanovra viene portata avanti mentre tutti parlano eslcusivamente di Giggetto Di Maio e di “Ronfo” Salvini, il bue e l’asinello di un presepe privo di qualsaisi santità.
(Massimo Bordin, “E mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce gode”, dal blog “Micidial” dell’11 maggio 2018).
Vedo tanti gufi in giro, in buona fede e in malafede: pensosi, preoccupati e accigliati. Io sarò il primo a non fare sconti a questi “ragazzi”, a questa ipotesi di governo con Lega e 5 Stelle, però la guardo con simpatia e anche con un’apertura di credito. Peraltro, il popolo italiano – che mi pare sia sovrano (fino a prova contraria) anche se in questi anni ci hanno abituato all’idea che il potere debba essere altrove, presso i sedicenti illuminati e oligarchici gestori delle grandi cose – si è espresso in modo chiaro. In democrazia il potere appartiene al popolo. E il popolo, pur nelle strettoie della legge elettorale Rosatellum, ha chiaramente premiato Lega e Movimento 5 Stelle, dando loro una spinta verso la realizzazione di qualcosa di nuovo. Il popolo ha bocciato gli epigoni della Seconda Repubblica (il Pd, con tutti i vari leaderini e leaderucci improbabili, del passato e del presente) e ha bocciato Berlusconi, che ha beneficiato dell’alleanza di centrodestra, in cui le parole più interessanti venivano proprio dalla Lega, però è stato chiaramente ridimensionato. E a proposito del Cavaliere: il sistema mediatico del nostro paese, così spesso imbelle e asservito, ha sostenuto che la sua riabilitazione (sulla quale non ho nulla da ridire: Berlusconi ha sin qui scontato le sue pene) avrebbe riaperto per lui chissà quale ruolo. Io però non ci credo.
Mi permetto di ricordare che Berlusconi è stato quasi onnipresente, nella sua campagna elettorale, e molti che l’hanno votato forse nemmeno erano coscienti del fatto che non potesse essere eletto. La sua riabilitazione – atto dovuto e, credo, auspicabile Gioele Magaldi– non cambia gli equilibri e non toglie nulla al fatto che Berlusconi rappresenta il passato del governo dell’Italia. Un passato che vorremmo dimenticare, perché vorremmo dimenticare il modo osceno in cui centrodestra e centrosinistra, fintamente alternandosi, hanno condotto a decadenza questo paese. Quindi, a tutti i gufi che guardano all’eventuale governo 5 Stelle-Lega come foriero di chissà quali pericoli, vorrei dire che non si può essere più pericolosi di come lo sono stati gli avvoltoi che hanno banchettato sull’interesse pubblico, facendosi i propri affaracci nel corso della Seconda Repubblica. Peggio di così non possiamo andare. Certo, bisogna stare attenti – e forse aiutare, puntellare Movimento 5 Stelle e Lega, affinché non si rivelino un bluff. D’altra parte, bisogna comunque approntare un nuovo soggetto politico: soggetto che raccolga l’elettorato deluso dal menù politico attuale, e che – nel caso Lega e 5 Stelle facciano davvero cose interessanti – ne aiuti una maturazione ulteriore.
Ribadisco: non credo che Berlusconi abbia nuove chance di consenso dovute al fatto tecnico della riabilitazione, visto che in campagna elettorale ci ha messo la faccia, anche se non era eleggibile. A eventuali, future elezioni, non credo che un Berlusconi candidabile sposterebbe molto. Questa riabilitazione potrebbe incidere sulla formazione e poi sull’eventuale tenuta di un governo formato da Lega e 5 Stelle? I media hanno cercato di farci pensare di sì, e qualche maligno ha anche detto che questa misura ha avuto una tempistica particolare, per cui magari qualcuno ha pensato: bene, diamo questa ulteriore rilegittimazione a Berlusconi, così da tenere il fucile puntato sulla Lega e rafforzare un soggetto che si è già detto e stradetto disponibile a eseguire pedissequamente i dettami di Bruxelles, Strasburgo e Francoforte, di concerto col Pd. Forza Italia e Pd sono partiti percepiti ormai come del tutto proni a politiche decise altrove – non in sedi democratiche, peraltro, ma in sedi tecnocratiche, a Berlusconiloro volta eterodirette da gruppi d’interesse privati, in un contesto nel quale persino il Parlamento Europeo (che pure è un luogo elettivo) ha scarsi poteri, usati anche male.
Su Berlusconi, al di là del fumo, c’è poco arrosto: il Cavaliere ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, accettare la formazione di questo governo senza rompere l’alleanza di centrodestra, al più lasciando che i giornali a lui vicini mandassero segnali obliqui, minacciosi e intimidatori verso Salvini – come chi fa la voce grossa, ma intanto indietreggia. Berlusconi ha capito che tornare alle elezioni sarebbe stato perniciosissimo, per Forza Italia – una débacle. Il vero punto è un altro, ed è questo: Lega e 5 Stelle possono fallire soltanto se avranno paura, se si lasceranno intimidire. Mattarella? Il garbo è utile, nelle istituzioni. Certo, la lettera della Costituzione gli dà delle prerogative, ma poi c’è una sostanza: inviterei Mattarella a non fare come il suo predecessore, a non cercare di forzare le sue prerogative, specialmente poi se queste forzature devono portare a sterilizzare le istanze innovative di Lega e 5 Stelle. Insomma, sono in tantissimi a piagnucolare: perché temono qualcosa di nuovo, rispetto a quello che sarebbe stato un ordinato, nuovo ed eterno inciucio tra Pd e Forza Italia. Questo la dice lunga su un paese con un establishment inetto, asservito e belante, che rimpiange Berlusconi. Ha giocato a demonizzarlo, ma in fondo ci ha fatto l’amore per anni. Adesso lo rimpiange perché forse, con la Lega e il Movimento 5 Stelle, qualcosina di nuovo e di ardito si può tentare.
(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli nella puntata di “Massoneria On Air” del 14 maggio 2018, in onda su “Colors Radio”).
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Avvoltoi: rimpiangono Silvio per spaventare Lega e 5 Stelle
Scritto il 15/5/18 • nella Categoria: idee Condividi Tweet
Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.
Si poteva forse lasciarle stare? Macchè! Se si vuole – come si vuole – piegare l’Italia e ricattarla a 360 gradi (anzi, metterla a novanta gradi, per essere proprio esatti), anche le Bcc devono piegare le ginocchia e genuflettersi alla corte di Bruxelles. A maggio le Bcc cambiano infatti pelle, perchè perdono la loro natura cooperativa, che le obbliga ad aiutare i soci e investire, per statuto, solo sul territorio. La tradizione risale alla cultura cristiana dell’Ottocento che già allora reagiva alla dispersione capitalistica della prima rivoluzione industriale. Le Bcc sono metà del sistema bancario italiano, mica pizza e fichi, con propensione per i micro imprenditori, per ovvi motivi legati alla vocazione comunitaria. Con la Legge 49 del 2016 si impone alle Bcc che si fondano in una specie di holding, tanto per parlare come si mangia, con precisi obblighi di capitalizzazione. Cosa significa? Signifia che anche la Bcc va verso l’aggregazione bancaria con delle capogruppo ipetrofiche, che saranno delle holding controllate. In altri termini, l’inculata che si presero le banche popolari qualche anno fa, che fallirono (de facto…) perchè divennero preda dei fondi speculativi, sta per ripetersi anche per la banche di credito cooperativo.
Più semplicemente, queste Bcc una volta fuse e controllate da una capogruppo, avranno libero acceso al grande mercato dei capitali e quindi le quote – con i soliti magheggi aggiratutto – finiranno in mano ai fondi esteri, prima o poi. Sulla carta, questi fondi, cioè questi investitori, potranno ciucciarsi il 49 per cento; dunque, non la maggioranza assoluta. Ma non si tratta proprio di bruscolini, ed è probabile che questi capitali cercheranno l’interesse della globalizzazione e non quello locale. Siamo, dunque, alle solite. Non solo: con questa riforma voluta dall’Europa, le banche anche come sportelli, si ridurranno. Ma, soprattutto, la Bce potrà controllarle perché diventeranno un gruppo bancario grande e come tale sottoposto a vigilanza Ue. I danni saranno enormi, perchè verrà meno lo spirito mutualistico tipico della dottrina sociale dei cattolici e anche perché le uniche banche “sensate” che operano sul territorio diventeranno un oligopolio uguale a quello che già conosciamo e che ha funzionato come tutti abbiamo purtroppo già visto. Ovviamente, questa ipermanovra viene portata avanti mentre tutti parlano eslcusivamente di Giggetto Di Maio e di “Ronfo” Salvini, il bue e l’asinello di un presepe privo di qualsaisi santità.
(Massimo Bordin, “E mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce gode”, dal blog “Micidial” dell’11 maggio 2018).
Vedo tanti gufi in giro, in buona fede e in malafede: pensosi, preoccupati e accigliati. Io sarò il primo a non fare sconti a questi “ragazzi”, a questa ipotesi di governo con Lega e 5 Stelle, però la guardo con simpatia e anche con un’apertura di credito. Peraltro, il popolo italiano – che mi pare sia sovrano (fino a prova contraria) anche se in questi anni ci hanno abituato all’idea che il potere debba essere altrove, presso i sedicenti illuminati e oligarchici gestori delle grandi cose – si è espresso in modo chiaro. In democrazia il potere appartiene al popolo. E il popolo, pur nelle strettoie della legge elettorale Rosatellum, ha chiaramente premiato Lega e Movimento 5 Stelle, dando loro una spinta verso la realizzazione di qualcosa di nuovo. Il popolo ha bocciato gli epigoni della Seconda Repubblica (il Pd, con tutti i vari leaderini e leaderucci improbabili, del passato e del presente) e ha bocciato Berlusconi, che ha beneficiato dell’alleanza di centrodestra, in cui le parole più interessanti venivano proprio dalla Lega, però è stato chiaramente ridimensionato. E a proposito del Cavaliere: il sistema mediatico del nostro paese, così spesso imbelle e asservito, ha sostenuto che la sua riabilitazione (sulla quale non ho nulla da ridire: Berlusconi ha sin qui scontato le sue pene) avrebbe riaperto per lui chissà quale ruolo. Io però non ci credo.
Mi permetto di ricordare che Berlusconi è stato quasi onnipresente, nella sua campagna elettorale, e molti che l’hanno votato forse nemmeno erano coscienti del fatto che non potesse essere eletto. La sua riabilitazione – atto dovuto e, credo, auspicabile Gioele Magaldi– non cambia gli equilibri e non toglie nulla al fatto che Berlusconi rappresenta il passato del governo dell’Italia. Un passato che vorremmo dimenticare, perché vorremmo dimenticare il modo osceno in cui centrodestra e centrosinistra, fintamente alternandosi, hanno condotto a decadenza questo paese. Quindi, a tutti i gufi che guardano all’eventuale governo 5 Stelle-Lega come foriero di chissà quali pericoli, vorrei dire che non si può essere più pericolosi di come lo sono stati gli avvoltoi che hanno banchettato sull’interesse pubblico, facendosi i propri affaracci nel corso della Seconda Repubblica. Peggio di così non possiamo andare. Certo, bisogna stare attenti – e forse aiutare, puntellare Movimento 5 Stelle e Lega, affinché non si rivelino un bluff. D’altra parte, bisogna comunque approntare un nuovo soggetto politico: soggetto che raccolga l’elettorato deluso dal menù politico attuale, e che – nel caso Lega e 5 Stelle facciano davvero cose interessanti – ne aiuti una maturazione ulteriore.
Ribadisco: non credo che Berlusconi abbia nuove chance di consenso dovute al fatto tecnico della riabilitazione, visto che in campagna elettorale ci ha messo la faccia, anche se non era eleggibile. A eventuali, future elezioni, non credo che un Berlusconi candidabile sposterebbe molto. Questa riabilitazione potrebbe incidere sulla formazione e poi sull’eventuale tenuta di un governo formato da Lega e 5 Stelle? I media hanno cercato di farci pensare di sì, e qualche maligno ha anche detto che questa misura ha avuto una tempistica particolare, per cui magari qualcuno ha pensato: bene, diamo questa ulteriore rilegittimazione a Berlusconi, così da tenere il fucile puntato sulla Lega e rafforzare un soggetto che si è già detto e stradetto disponibile a eseguire pedissequamente i dettami di Bruxelles, Strasburgo e Francoforte, di concerto col Pd. Forza Italia e Pd sono partiti percepiti ormai come del tutto proni a politiche decise altrove – non in sedi democratiche, peraltro, ma in sedi tecnocratiche, a Berlusconiloro volta eterodirette da gruppi d’interesse privati, in un contesto nel quale persino il Parlamento Europeo (che pure è un luogo elettivo) ha scarsi poteri, usati anche male.
Su Berlusconi, al di là del fumo, c’è poco arrosto: il Cavaliere ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, accettare la formazione di questo governo senza rompere l’alleanza di centrodestra, al più lasciando che i giornali a lui vicini mandassero segnali obliqui, minacciosi e intimidatori verso Salvini – come chi fa la voce grossa, ma intanto indietreggia. Berlusconi ha capito che tornare alle elezioni sarebbe stato perniciosissimo, per Forza Italia – una débacle. Il vero punto è un altro, ed è questo: Lega e 5 Stelle possono fallire soltanto se avranno paura, se si lasceranno intimidire. Mattarella? Il garbo è utile, nelle istituzioni. Certo, la lettera della Costituzione gli dà delle prerogative, ma poi c’è una sostanza: inviterei Mattarella a non fare come il suo predecessore, a non cercare di forzare le sue prerogative, specialmente poi se queste forzature devono portare a sterilizzare le istanze innovative di Lega e 5 Stelle. Insomma, sono in tantissimi a piagnucolare: perché temono qualcosa di nuovo, rispetto a quello che sarebbe stato un ordinato, nuovo ed eterno inciucio tra Pd e Forza Italia. Questo la dice lunga su un paese con un establishment inetto, asservito e belante, che rimpiange Berlusconi. Ha giocato a demonizzarlo, ma in fondo ci ha fatto l’amore per anni. Adesso lo rimpiange perché forse, con la Lega e il Movimento 5 Stelle, qualcosina di nuovo e di ardito si può tentare.
(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli nella puntata di “Massoneria On Air” del 14 maggio 2018, in onda su “Colors Radio”).
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Re: Diario della caduta di un regime.
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Mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce ci mangia le banche
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Si poteva forse lasciarle stare? Macchè! Se si vuole – come si vuole – piegare l’Italia e ricattarla a 360 gradi (anzi, metterla a novanta gradi, per essere proprio esatti), anche le Bcc devono piegare le ginocchia e genuflettersi alla corte di Bruxelles. A maggio le Bcc cambiano infatti pelle, perchè perdono la loro natura cooperativa, che le obbliga ad aiutare i soci e investire, per statuto, solo sul territorio. La tradizione risale alla cultura cristiana dell’Ottocento che già allora reagiva alla dispersione capitalistica della prima rivoluzione industriale. Le Bcc sono metà del sistema bancario italiano, mica pizza e fichi, con propensione per i micro imprenditori, per ovvi motivi legati alla vocazione comunitaria. Con la Legge 49 del 2016 si impone alle Bcc che si fondano in una specie di holding, tanto per parlare come si mangia, con precisi obblighi di capitalizzazione. Cosa significa? Signifia che anche la Bcc va verso l’aggregazione bancaria con delle capogruppo ipetrofiche, che saranno delle holding controllate. In altri termini, l’inculata che si presero le banche popolari qualche anno fa, che fallirono (de facto…) perchè divennero preda dei fondi speculativi, sta per ripetersi anche per la banche di credito cooperativo.
Più semplicemente, queste Bcc una volta fuse e controllate da una capogruppo, avranno libero acceso al grande mercato dei capitali e quindi le quote – con i soliti magheggi aggiratutto – finiranno in mano ai fondi esteri, prima o poi. Sulla carta, questi fondi, cioè questi investitori, potranno ciucciarsi il 49 per cento; dunque, non la maggioranza assoluta. Ma non si tratta proprio di bruscolini, ed è probabile che questi capitali cercheranno l’interesse della globalizzazione e non quello locale. Siamo, dunque, alle solite. Non solo: con questa riforma voluta dall’Europa, le banche anche come sportelli, si ridurranno. Ma, soprattutto, la Bce potrà controllarle perché diventeranno un gruppo bancario grande e come tale sottoposto a vigilanza Ue. I danni saranno enormi, perchè verrà meno lo spirito mutualistico tipico della dottrina sociale dei cattolici e anche perché le uniche banche “sensate” che operano sul territorio diventeranno un oligopolio uguale a quello che già conosciamo e che ha funzionato come tutti abbiamo purtroppo già visto. Ovviamente, questa ipermanovra viene portata avanti mentre tutti parlano eslcusivamente di Giggetto Di Maio e di “Ronfo” Salvini, il bue e l’asinello di un presepe privo di qualsaisi santità.
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Si poteva forse lasciarle stare? Macchè! Se si vuole – come si vuole – piegare l’Italia e ricattarla a 360 gradi (anzi, metterla a novanta gradi, per essere proprio esatti), anche le Bcc devono piegare le ginocchia e genuflettersi alla corte di Bruxelles. A maggio le Bcc cambiano infatti pelle, perchè perdono la loro natura cooperativa, che le obbliga ad aiutare i soci e investire, per statuto, solo sul territorio. La tradizione risale alla cultura cristiana dell’Ottocento che già allora reagiva alla dispersione capitalistica della prima rivoluzione industriale. Le Bcc sono metà del sistema bancario italiano, mica pizza e fichi, con propensione per i micro imprenditori, per ovvi motivi legati alla vocazione comunitaria. Con la Legge 49 del 2016 si impone alle Bcc che si fondano in una specie di holding, tanto per parlare come si mangia, con precisi obblighi di capitalizzazione. Cosa significa? Signifia che anche la Bcc va verso l’aggregazione bancaria con delle capogruppo ipetrofiche, che saranno delle holding controllate. In altri termini, l’inculata che si presero le banche popolari qualche anno fa, che fallirono (de facto…) perchè divennero preda dei fondi speculativi, sta per ripetersi anche per la banche di credito cooperativo.
Più semplicemente, queste Bcc una volta fuse e controllate da una capogruppo, avranno libero acceso al grande mercato dei capitali e quindi le quote – con i soliti magheggi aggiratutto – finiranno in mano ai fondi esteri, prima o poi. Sulla carta, questi fondi, cioè questi investitori, potranno ciucciarsi il 49 per cento; dunque, non la maggioranza assoluta. Ma non si tratta proprio di bruscolini, ed è probabile che questi capitali cercheranno l’interesse della globalizzazione e non quello locale. Siamo, dunque, alle solite. Non solo: con questa riforma voluta dall’Europa, le banche anche come sportelli, si ridurranno. Ma, soprattutto, la Bce potrà controllarle perché diventeranno un gruppo bancario grande e come tale sottoposto a vigilanza Ue. I danni saranno enormi, perchè verrà meno lo spirito mutualistico tipico della dottrina sociale dei cattolici e anche perché le uniche banche “sensate” che operano sul territorio diventeranno un oligopolio uguale a quello che già conosciamo e che ha funzionato come tutti abbiamo purtroppo già visto. Ovviamente, questa ipermanovra viene portata avanti mentre tutti parlano eslcusivamente di Giggetto Di Maio e di “Ronfo” Salvini, il bue e l’asinello di un presepe privo di qualsaisi santità.
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