Re: LA SFIDA del REFERENDUM
Inviato: 06/05/2016, 19:12
Piovono rane
di Alessandro Giglioli
03 mag
Cittadini, non gregge
Non sono sicuro che la propaganda renziana riesca a inquadrare anche Valerio Onida tra i professoroni, i gufi e i rosiconi.
Può darsi eh, dato che professore lo è (di Diritto Costituzionale) ed è stato presidente della Corte Costituzionale, nonché autore di diversi saggi sulla Carta, alcuni più tecnici ma uno semplice e divulgativo pubblicato dal “Mulino” che si intitola semplicemente “La Costituzione”.
Un po' complicato però dargli del grillino o del sinistrorso radicale: è stato fra l'altro nel Consiglio di amministrazione del Corriere ed era uno dei dieci "saggi" chiamati da Napolitano nel 2013. È editorialista del Sole 24 ore e presidente della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna.
È da questo pacato signore - e da un'altra cinquantina di costituzionalisti quasi tutti assai moderati - che è arrivata nei giorni scorsi la proposta più civile e di buon senso rispetto al referendum di ottobre sulla riforma Boschi della Costituzione, in coda a un testo efficacemente critico sui contenuti della stessa: «Se il referendum fosse indetto su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati».
Detta in soldoni, questa riforma contiene molte cose differenti tra loro: si va dall'abolizione del Cnel all'allargamento dei poteri del premier, dalla riduzione del ruolo delle regioni al Senato composto da consiglieri regionali, eccetera eccetera.
Questo pot-pourri ostacola una discussione seria sui contenuti, perché tu non fai in tempo a dire che i controbilanciamenti al potere del premier sono stati troppo indeboliti e subito uno ti risponde che è ora di superare il bicameralismo perfetto. O viceversa, naturalmente.
Insomma è un minestrone dove ci sono dentro cose buone, decenti, inutili e pessime.
E il governo vuole farcelo votare tutto insieme per quelle che Onida e gli altri chiamano «ragioni “politiche” estranee al merito della legge».
Vale a dire, il plebiscito su Renzi.
Per usare le parole del premier, «l'Italia del sì contro l'Italia che dice sempre no».
È proprio quello che ha detto il premier ieri a Firenze, sostenendo testualmente che nel referendum di ottobre «c'è molto di più» rispetto al cambiamento costituzionale: mettendo quindi in gioco (e al voto) tutto il resto della sua azione politica, dal Jobs Act agli 80 euro, dall'Irap alla bonifica di Bagnoli.
Insomma, aggiungendo al minestrone della riforma ancora altri ingredienti, tutti politici e non costituzionali. Che non solo non c'entrano nulla ma soprattutto sono molto meno importanti della Costituzione: legge fondamentale del nostro vivere insieme, che trascende qualsiasi norma ordinaria e (soprattutto) qualsiasi premier pro tempore.
Già: come tutti, anche questo è un premier provvisorio. Che promette di durare al massimo fino al 2023 - contando di vincere nel '18 - ma comunque pro tempore. Mentre la Costituzione resta. Non per sempre, ma molto più a lungo. E comunque è superiore per forza e rilevanza a qualsiasi governo.
Questo forse un po' sfugge, a chi interpreta questo referendum come un plebiscito sul premier. Perché si fa fatica a guardare in là, nei decenni, e si tende a pensare sempre al proprio immanente presente, allo scontro politico corrente. Mentre la Costituzione dura molto di più.
Ad esempio, ai sostenitori renziani del "sì a tutta la riforma Boschi" viene naturale chiedere di immaginare un futuro ballottaggio in cui vinca qualcuno che detestano o di cui temono la carenza di cultura liberale: chessò, un Salvini, un nuovo Berlusconi o anche un Di Battista se temono lui.
Bene, se diventasse premier uno tra questi, loro, dall'opposizione, si sentirebbero più tranquilli e garantiti con i bilanciamenti dei poteri previsti dalla Carta attuale o con quelli indeboliti dalla riforma Boschi?
Più in generale: dopo aver letto il testo della riforma e degli effetti combinati con l'Italicum nell'allargamento dei poteri del premier e nella riduzione dei bilanciamenti (dalla Consulta alle Regioni) chiunque si deve immaginare - guardando più in là negli anni - il premier che più detesta: chiedendosi se in quel caso i diritti democratici di tutti sarebbero più al sicuro con la Carta attuale o con la riforma Boschi.
Questo per parlare di uno degli effetti della riforma Boschi. Poi ce ne sono tanti altri, di cui si potrebbe utilmente discutere. Senza il bisogno di ingabbiare chi critica fra i nostalgici del bicameralismo perfetto (che non è il male in sé e ha contribuito a garantire la nostra democrazia quasi 70 anni, ma può essere rimodellato e ripensato). Per citare Onida e soci: «L’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale) è stato perseguito in modo incoerente e sbagliato» nella riforma Boschi.
Di qui appunto la "pericolosissima" idea di Onida: spacchettare il quesito referendario in più parti (da tre a sei) perché il confronto di qui a ottobre sia concretamente sui contenuti, sugli specifici contenuti della futura legge fondamentale dello Stato: e non un plebiscito sul premier pro tempore, sulla riforma dell'Irap e la bonifica di Bagnoli.
Mancano sei mesi, al voto. C'è tutto il tempo perché ciascun italiano si faccia un'idea della riforma Boschi: dei pezzi che vanno bene, di quelli pasticciati, di quelli pericolosi.
Non siamo minorenni né minorati, sappiamo distinguere.
Già in passato, di fronte a mazzi di referendum (ordinari) proposti insieme e con lo stesso scopo politico, gli italiani hanno saputo distinguere: ad esempio quando nel 1995 i radicali proposero diversi quesiti di tipo "liberista" e gli elettori approvarono quelli sulla contribuzione sindacale e sulla Rai bocciando invece quelli sulla liberalizzazione degli orari dei negozi e sulla autorizzazione amministrativa per il commercio.
E questo avvenne, all'epoca, con un dibattito molto più breve e meno approfondito di quello che possiamo avere sul referendum costituzionale di qui a ottobre. Che è tema assai più importante.
Di buon senso e molto civile, quindi, la proposta Onida. Molto civile perché ci porta fuori dalla narrazione manichea - "l'Italia del sì contro l'Italia del no" - e ci stimola a informarci, a discutere sui contenuti, insomma a essere cittadini consapevoli e opinione pubblica. Non gregge di pecore nere contro pecore bianche.
Adesso alcuni parlamentari (M5S, Sel, minoranza dem) porteranno la proposta dello spacchettamento alla Cassazione, di lì potrebbe andare alla Consulta. Il principio invocato è proprio quello costituzionale: i cittadini hanno diritto a esprimersi su questioni omogenee.
Al contrario delle pecore, appunto, che puoi dividere in due con un bastone di legno e un cane da pastore, senza che capiscano il perché.
di Alessandro Giglioli
03 mag
Cittadini, non gregge
Non sono sicuro che la propaganda renziana riesca a inquadrare anche Valerio Onida tra i professoroni, i gufi e i rosiconi.
Può darsi eh, dato che professore lo è (di Diritto Costituzionale) ed è stato presidente della Corte Costituzionale, nonché autore di diversi saggi sulla Carta, alcuni più tecnici ma uno semplice e divulgativo pubblicato dal “Mulino” che si intitola semplicemente “La Costituzione”.
Un po' complicato però dargli del grillino o del sinistrorso radicale: è stato fra l'altro nel Consiglio di amministrazione del Corriere ed era uno dei dieci "saggi" chiamati da Napolitano nel 2013. È editorialista del Sole 24 ore e presidente della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna.
È da questo pacato signore - e da un'altra cinquantina di costituzionalisti quasi tutti assai moderati - che è arrivata nei giorni scorsi la proposta più civile e di buon senso rispetto al referendum di ottobre sulla riforma Boschi della Costituzione, in coda a un testo efficacemente critico sui contenuti della stessa: «Se il referendum fosse indetto su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati».
Detta in soldoni, questa riforma contiene molte cose differenti tra loro: si va dall'abolizione del Cnel all'allargamento dei poteri del premier, dalla riduzione del ruolo delle regioni al Senato composto da consiglieri regionali, eccetera eccetera.
Questo pot-pourri ostacola una discussione seria sui contenuti, perché tu non fai in tempo a dire che i controbilanciamenti al potere del premier sono stati troppo indeboliti e subito uno ti risponde che è ora di superare il bicameralismo perfetto. O viceversa, naturalmente.
Insomma è un minestrone dove ci sono dentro cose buone, decenti, inutili e pessime.
E il governo vuole farcelo votare tutto insieme per quelle che Onida e gli altri chiamano «ragioni “politiche” estranee al merito della legge».
Vale a dire, il plebiscito su Renzi.
Per usare le parole del premier, «l'Italia del sì contro l'Italia che dice sempre no».
È proprio quello che ha detto il premier ieri a Firenze, sostenendo testualmente che nel referendum di ottobre «c'è molto di più» rispetto al cambiamento costituzionale: mettendo quindi in gioco (e al voto) tutto il resto della sua azione politica, dal Jobs Act agli 80 euro, dall'Irap alla bonifica di Bagnoli.
Insomma, aggiungendo al minestrone della riforma ancora altri ingredienti, tutti politici e non costituzionali. Che non solo non c'entrano nulla ma soprattutto sono molto meno importanti della Costituzione: legge fondamentale del nostro vivere insieme, che trascende qualsiasi norma ordinaria e (soprattutto) qualsiasi premier pro tempore.
Già: come tutti, anche questo è un premier provvisorio. Che promette di durare al massimo fino al 2023 - contando di vincere nel '18 - ma comunque pro tempore. Mentre la Costituzione resta. Non per sempre, ma molto più a lungo. E comunque è superiore per forza e rilevanza a qualsiasi governo.
Questo forse un po' sfugge, a chi interpreta questo referendum come un plebiscito sul premier. Perché si fa fatica a guardare in là, nei decenni, e si tende a pensare sempre al proprio immanente presente, allo scontro politico corrente. Mentre la Costituzione dura molto di più.
Ad esempio, ai sostenitori renziani del "sì a tutta la riforma Boschi" viene naturale chiedere di immaginare un futuro ballottaggio in cui vinca qualcuno che detestano o di cui temono la carenza di cultura liberale: chessò, un Salvini, un nuovo Berlusconi o anche un Di Battista se temono lui.
Bene, se diventasse premier uno tra questi, loro, dall'opposizione, si sentirebbero più tranquilli e garantiti con i bilanciamenti dei poteri previsti dalla Carta attuale o con quelli indeboliti dalla riforma Boschi?
Più in generale: dopo aver letto il testo della riforma e degli effetti combinati con l'Italicum nell'allargamento dei poteri del premier e nella riduzione dei bilanciamenti (dalla Consulta alle Regioni) chiunque si deve immaginare - guardando più in là negli anni - il premier che più detesta: chiedendosi se in quel caso i diritti democratici di tutti sarebbero più al sicuro con la Carta attuale o con la riforma Boschi.
Questo per parlare di uno degli effetti della riforma Boschi. Poi ce ne sono tanti altri, di cui si potrebbe utilmente discutere. Senza il bisogno di ingabbiare chi critica fra i nostalgici del bicameralismo perfetto (che non è il male in sé e ha contribuito a garantire la nostra democrazia quasi 70 anni, ma può essere rimodellato e ripensato). Per citare Onida e soci: «L’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale) è stato perseguito in modo incoerente e sbagliato» nella riforma Boschi.
Di qui appunto la "pericolosissima" idea di Onida: spacchettare il quesito referendario in più parti (da tre a sei) perché il confronto di qui a ottobre sia concretamente sui contenuti, sugli specifici contenuti della futura legge fondamentale dello Stato: e non un plebiscito sul premier pro tempore, sulla riforma dell'Irap e la bonifica di Bagnoli.
Mancano sei mesi, al voto. C'è tutto il tempo perché ciascun italiano si faccia un'idea della riforma Boschi: dei pezzi che vanno bene, di quelli pasticciati, di quelli pericolosi.
Non siamo minorenni né minorati, sappiamo distinguere.
Già in passato, di fronte a mazzi di referendum (ordinari) proposti insieme e con lo stesso scopo politico, gli italiani hanno saputo distinguere: ad esempio quando nel 1995 i radicali proposero diversi quesiti di tipo "liberista" e gli elettori approvarono quelli sulla contribuzione sindacale e sulla Rai bocciando invece quelli sulla liberalizzazione degli orari dei negozi e sulla autorizzazione amministrativa per il commercio.
E questo avvenne, all'epoca, con un dibattito molto più breve e meno approfondito di quello che possiamo avere sul referendum costituzionale di qui a ottobre. Che è tema assai più importante.
Di buon senso e molto civile, quindi, la proposta Onida. Molto civile perché ci porta fuori dalla narrazione manichea - "l'Italia del sì contro l'Italia del no" - e ci stimola a informarci, a discutere sui contenuti, insomma a essere cittadini consapevoli e opinione pubblica. Non gregge di pecore nere contro pecore bianche.
Adesso alcuni parlamentari (M5S, Sel, minoranza dem) porteranno la proposta dello spacchettamento alla Cassazione, di lì potrebbe andare alla Consulta. Il principio invocato è proprio quello costituzionale: i cittadini hanno diritto a esprimersi su questioni omogenee.
Al contrario delle pecore, appunto, che puoi dividere in due con un bastone di legno e un cane da pastore, senza che capiscano il perché.