Re: Der Spiegel:Beppe Grillo è l’unico leader anti Merkel
Inviato: 18/03/2013, 18:16
Uscire dall'euro o "più Europa"? La soluzione non è tecnica ma politica
24 Luglio 2012 17:53 Italia - Economia
di Domenico Moro per Marx21.it
Con l’inasprirsi della “crisi dell’euro” a sinistra si delineano due posizioni contrapposte, spingere per avere “più Europa” oppure abbandonare l’euro.
“Più Europa” equivale a sottrarre il controllo dei bilanci statali e delle leggi finanziarie ai parlamenti nazionali, unica istanza minimamente democratica in Europa. In questo contesto, “più Europa” vuol dire dominio della “tecnica”, cioè della burocrazia europea (BCE e Commissione Europea), apparentemente neutrale, in realtà subordinata al capitale monopolistico europeo. Come ha detto Monti, la democrazia è una forma di governo incapace di guardare al lungo periodo, vale a dire alle necessità dell’accumulazione del capitale. La soluzione, quindi, è aggirare il livello nazionale. L’Unione europea è stata il grimaldello con cui forzare la resistenza dei movimenti operai nazionali. Ora, la crisi dell’euro è l’arma per accelerare sulle trasformazioni tese al mantenimento di alti livelli di profitto mediante l’attacco al salario e al welfare.
L’euro in sé c’entra solo secondariamente con la crisi in atto, che è una derivata della sovraccumulazione di capitale e del calo del saggio di profitto, che generano conflitti tra area del dollaro ed area dell’euro, nonché squilibri interni all’area dell’euro, dove l’eccesso di capacità produttiva tedesca schiaccia gli altri Paesi. Anche la questione dell’aumento del divario dei rendimenti dei titoli tra i vari stati non è nata con la Bce e l’euro. Già nell’81 in Italia venne abolito l’obbligo per la Banca d’Italia di garantire il collocamento del debito pubblico, allo scopo di bloccare la crescita dei salari attraverso la scala mobile. Da quel momento, il debito italiano crebbe molto più che nel resto d’Europa a causa della abnorme crescita degli interessi, invece che della spesa della P.A., rimasta al di sotto o intorno ai livelli medi Ue.
L’uscita dall’euro, invece, avverrebbe in un contesto in cui lo Stato, sempre più espressione diretta del grande capitale monopolistico, ha rinunciato al controllo della moneta, della finanza e del commercio estero. In questo contesto, un ritorno alla lira realizzerebbe un trasferimento di ricchezza in poche mani ben più imponente che nel passaggio dalla lira all’euro. Il ritorno alla valuta nazionale porterebbe alla riduzione del potere d’acquisto dei salari e alla svalutazione del risparmio delle famiglie dei lavoratori, già penalizzate dal calo dei salari reali e dalla disoccupazione. La capitalizzazione di borsa delle aziende crollerebbe, rendendole oggetto di scalate da parte di multinazionali a base estera, mentre la percezione di un ritorno alla valuta nazionale scatenerebbe fughe di capitali verso l’estero. Ugualmente da prendere con le molle sarebbe un default. Il fallimento porterebbe alla impossibilità, per un tempo indeterminato, di emettere titoli di stato negoziabili sui mercati internazionali, facendo gravare ancor di più il finanziamento pubblico all’interno e quindi sui lavoratori. Senza contare che il mancato pagamento del debito verrebbe a gravare su molte di queste, in quanto detentrici di titoli di stato.
Per trovare una soluzione ad una situazione che sembrerebbe senza uscita, alcuni economisti propongono posizioni “neoprotezioniste”, allo scopo di esercitare pressioni sulla Germania, minacciando l’uscita anche dal mercato comune. In aggiunta, in caso di uscita dall’euro, vengono prospettati meccanismi che controllino le fughe di capitale e difendano il potere d’acquisto, dall’indicizzazione dei salari alla introduzione di prezzi amministrati per certi prodotti “base”. Se, però, l’uscita dall’euro pone dei problemi, anche l’uscita dalla Ue di Paesi fortemente interdipendenti e integrati non sarebbe meno complicata. Quanto ai meccanismi di indicizzazione, questi sarebbero stati necessari anche negli ultimi dieci anni e, se non si è riusciti a reintrodurli fino ad ora, non si capisce perché ci si dovrebbe riuscire oggi. Il limite di queste come di altre proposte risiede, infatti, nella difficoltà a definire chi e come dovrebbe metterle in pratica. La soluzione alla crisi non un fatto tecnico, ma politico. Non può, quindi, prescindere dalla modifica dei rapporti di forza fra le classi. Soprattutto in una situazione in cui lo Stato è controllato dal grande capitale. La soluzione non può che basarsi su una chiara politica di classe, tesa a modificare il contesto economico e politico. La domanda da fare non è se stare o non stare nell’euro, ma come la classe lavoratrice italiana ed europea può incidere sui processi di trasformazione delle modalità di accumulazione, e, quindi, su quelli di unità europea.
Il problema è che fino ad ora, specialmente in Italia, tale questione è stata quasi del tutto ignorata. La quasi maggioranza dei gruppi dirigenti politici e sindacali di sinistra hanno visto l’unione europea e l’euro come fatti di per sé positivi. Tale atteggiamento, che ha disarmato il movimento operaio e i partiti della sinistra, ha tratto origine non solo dalla errata concezione che un mercato unito e liberalizzato sarebbe stato vantaggioso per tutti, ma anche da una tradizione di pensiero “universalistica”, molto diffusa tra i cattolici come tra la sinistra anche comunista, che ha assecondato l’unità europea, considerata progressiva, in chiave di superamento della dimensione nazionale, considerata arretrata. Opposta all’impostazione filo-europeista è la recente concezione “patriottico-sociale”, che identifica l’attacco alla classe operaia come attacco allo Stato nazionale, visto come la cornice entro la quale la classe operaia ha ottenuto le sue passate vittorie e, quindi, come l’unico terreno sul quale ci si possa difendere. Entrambe queste due posizioni fanno un errore speculare, assolutizzando un solo aspetto, sicuramente reale, di una realtà fatta però di tendenze contraddittorie. Il punto è capire qual è quella principale e su quale i lavoratori devono fare leva.
Un conto, dunque, è assecondare il movimento del capitale, un altro conto è partire dal movimento oggettivo della realtà, inserendosi in esso per allargarne le contraddizioni, sviluppare lotte e costruire organizzazione. Il movimento della realtà ha irrimediabilmente trasformato il terreno su cui si svolge lo scontro di classe. Questo, oggi, pur dovendo partire da radicamento e specificità locali, non può avere successo se si svolge solo su un piano nazionale, bensì deve svilupparsi su un terreno europeo. Il livello di interdipendenza tra i sistemi sociali ed economici in Europa e il carattere continentale dell’attacco ai lavoratori tende ad aumentare l’omogeneità della classe lavoratrice a livello europeo, costituendo così la base materiale di un nuovo internazionalismo.
Parlare di internazionalismo è, però, un puro esercizio retorico se non si sciolgono alcuni nodi politici, a partire dal livello nazionale.
Il nodo principale è che oggi i rapporti tra le classi sono contraddistinti da un fattore nuovo, ovvero dal rifiuto, da parte del settore dominante del capitale, del patto sociale tra classi. Ne risulta compromessa, quindi, la “democrazia pluralistica”, in cui i rappresentanti delle varie classi erano disponibili al compromesso, sotto l’egida dello Stato, nella camera di compensazione del Parlamento. In questo quadro, bisogna avere proposte precise, dalla ripresa dell’intervento statale in economia, alla nazionalizzazione delle banche, alla riforma in senso progressivo del fisco, alla introduzione di una legislazione europea antispeculativa, fino alla modifica del ruolo della Bce piuttosto che della Banca d’Italia come garanti del collocamento dei titoli pubblici. Ma ciò non basta, il punto principale è come dare corpo politico a queste proposte. Per farlo non si può continuare con i vecchi metodi politici, ma bisogna recuperare l’autonomia di classe, a livello ideologico e politico, in cui sia il conflitto a riprendere la sua centralità. Non, però, conflitti slegati e su temi specifici, come quelli che spesso si producono nel nostro Paese, bensì un conflitto generale, cioè finalizzato al potere politico. Solo sulla base di una costante pratica autonoma, con un profilo programmatico definito e un posizionamento politico forte, rispetto alle altre classi e agli altri partiti, è possibile intraprendere il lungo e difficile percorso della ricomposizione dei differenti settori e delle varie nazionalità che compongono il lavoro salariato in Italia ed in Europa.
24 Luglio 2012 17:53 Italia - Economia
di Domenico Moro per Marx21.it
Con l’inasprirsi della “crisi dell’euro” a sinistra si delineano due posizioni contrapposte, spingere per avere “più Europa” oppure abbandonare l’euro.
“Più Europa” equivale a sottrarre il controllo dei bilanci statali e delle leggi finanziarie ai parlamenti nazionali, unica istanza minimamente democratica in Europa. In questo contesto, “più Europa” vuol dire dominio della “tecnica”, cioè della burocrazia europea (BCE e Commissione Europea), apparentemente neutrale, in realtà subordinata al capitale monopolistico europeo. Come ha detto Monti, la democrazia è una forma di governo incapace di guardare al lungo periodo, vale a dire alle necessità dell’accumulazione del capitale. La soluzione, quindi, è aggirare il livello nazionale. L’Unione europea è stata il grimaldello con cui forzare la resistenza dei movimenti operai nazionali. Ora, la crisi dell’euro è l’arma per accelerare sulle trasformazioni tese al mantenimento di alti livelli di profitto mediante l’attacco al salario e al welfare.
L’euro in sé c’entra solo secondariamente con la crisi in atto, che è una derivata della sovraccumulazione di capitale e del calo del saggio di profitto, che generano conflitti tra area del dollaro ed area dell’euro, nonché squilibri interni all’area dell’euro, dove l’eccesso di capacità produttiva tedesca schiaccia gli altri Paesi. Anche la questione dell’aumento del divario dei rendimenti dei titoli tra i vari stati non è nata con la Bce e l’euro. Già nell’81 in Italia venne abolito l’obbligo per la Banca d’Italia di garantire il collocamento del debito pubblico, allo scopo di bloccare la crescita dei salari attraverso la scala mobile. Da quel momento, il debito italiano crebbe molto più che nel resto d’Europa a causa della abnorme crescita degli interessi, invece che della spesa della P.A., rimasta al di sotto o intorno ai livelli medi Ue.
L’uscita dall’euro, invece, avverrebbe in un contesto in cui lo Stato, sempre più espressione diretta del grande capitale monopolistico, ha rinunciato al controllo della moneta, della finanza e del commercio estero. In questo contesto, un ritorno alla lira realizzerebbe un trasferimento di ricchezza in poche mani ben più imponente che nel passaggio dalla lira all’euro. Il ritorno alla valuta nazionale porterebbe alla riduzione del potere d’acquisto dei salari e alla svalutazione del risparmio delle famiglie dei lavoratori, già penalizzate dal calo dei salari reali e dalla disoccupazione. La capitalizzazione di borsa delle aziende crollerebbe, rendendole oggetto di scalate da parte di multinazionali a base estera, mentre la percezione di un ritorno alla valuta nazionale scatenerebbe fughe di capitali verso l’estero. Ugualmente da prendere con le molle sarebbe un default. Il fallimento porterebbe alla impossibilità, per un tempo indeterminato, di emettere titoli di stato negoziabili sui mercati internazionali, facendo gravare ancor di più il finanziamento pubblico all’interno e quindi sui lavoratori. Senza contare che il mancato pagamento del debito verrebbe a gravare su molte di queste, in quanto detentrici di titoli di stato.
Per trovare una soluzione ad una situazione che sembrerebbe senza uscita, alcuni economisti propongono posizioni “neoprotezioniste”, allo scopo di esercitare pressioni sulla Germania, minacciando l’uscita anche dal mercato comune. In aggiunta, in caso di uscita dall’euro, vengono prospettati meccanismi che controllino le fughe di capitale e difendano il potere d’acquisto, dall’indicizzazione dei salari alla introduzione di prezzi amministrati per certi prodotti “base”. Se, però, l’uscita dall’euro pone dei problemi, anche l’uscita dalla Ue di Paesi fortemente interdipendenti e integrati non sarebbe meno complicata. Quanto ai meccanismi di indicizzazione, questi sarebbero stati necessari anche negli ultimi dieci anni e, se non si è riusciti a reintrodurli fino ad ora, non si capisce perché ci si dovrebbe riuscire oggi. Il limite di queste come di altre proposte risiede, infatti, nella difficoltà a definire chi e come dovrebbe metterle in pratica. La soluzione alla crisi non un fatto tecnico, ma politico. Non può, quindi, prescindere dalla modifica dei rapporti di forza fra le classi. Soprattutto in una situazione in cui lo Stato è controllato dal grande capitale. La soluzione non può che basarsi su una chiara politica di classe, tesa a modificare il contesto economico e politico. La domanda da fare non è se stare o non stare nell’euro, ma come la classe lavoratrice italiana ed europea può incidere sui processi di trasformazione delle modalità di accumulazione, e, quindi, su quelli di unità europea.
Il problema è che fino ad ora, specialmente in Italia, tale questione è stata quasi del tutto ignorata. La quasi maggioranza dei gruppi dirigenti politici e sindacali di sinistra hanno visto l’unione europea e l’euro come fatti di per sé positivi. Tale atteggiamento, che ha disarmato il movimento operaio e i partiti della sinistra, ha tratto origine non solo dalla errata concezione che un mercato unito e liberalizzato sarebbe stato vantaggioso per tutti, ma anche da una tradizione di pensiero “universalistica”, molto diffusa tra i cattolici come tra la sinistra anche comunista, che ha assecondato l’unità europea, considerata progressiva, in chiave di superamento della dimensione nazionale, considerata arretrata. Opposta all’impostazione filo-europeista è la recente concezione “patriottico-sociale”, che identifica l’attacco alla classe operaia come attacco allo Stato nazionale, visto come la cornice entro la quale la classe operaia ha ottenuto le sue passate vittorie e, quindi, come l’unico terreno sul quale ci si possa difendere. Entrambe queste due posizioni fanno un errore speculare, assolutizzando un solo aspetto, sicuramente reale, di una realtà fatta però di tendenze contraddittorie. Il punto è capire qual è quella principale e su quale i lavoratori devono fare leva.
Un conto, dunque, è assecondare il movimento del capitale, un altro conto è partire dal movimento oggettivo della realtà, inserendosi in esso per allargarne le contraddizioni, sviluppare lotte e costruire organizzazione. Il movimento della realtà ha irrimediabilmente trasformato il terreno su cui si svolge lo scontro di classe. Questo, oggi, pur dovendo partire da radicamento e specificità locali, non può avere successo se si svolge solo su un piano nazionale, bensì deve svilupparsi su un terreno europeo. Il livello di interdipendenza tra i sistemi sociali ed economici in Europa e il carattere continentale dell’attacco ai lavoratori tende ad aumentare l’omogeneità della classe lavoratrice a livello europeo, costituendo così la base materiale di un nuovo internazionalismo.
Parlare di internazionalismo è, però, un puro esercizio retorico se non si sciolgono alcuni nodi politici, a partire dal livello nazionale.
Il nodo principale è che oggi i rapporti tra le classi sono contraddistinti da un fattore nuovo, ovvero dal rifiuto, da parte del settore dominante del capitale, del patto sociale tra classi. Ne risulta compromessa, quindi, la “democrazia pluralistica”, in cui i rappresentanti delle varie classi erano disponibili al compromesso, sotto l’egida dello Stato, nella camera di compensazione del Parlamento. In questo quadro, bisogna avere proposte precise, dalla ripresa dell’intervento statale in economia, alla nazionalizzazione delle banche, alla riforma in senso progressivo del fisco, alla introduzione di una legislazione europea antispeculativa, fino alla modifica del ruolo della Bce piuttosto che della Banca d’Italia come garanti del collocamento dei titoli pubblici. Ma ciò non basta, il punto principale è come dare corpo politico a queste proposte. Per farlo non si può continuare con i vecchi metodi politici, ma bisogna recuperare l’autonomia di classe, a livello ideologico e politico, in cui sia il conflitto a riprendere la sua centralità. Non, però, conflitti slegati e su temi specifici, come quelli che spesso si producono nel nostro Paese, bensì un conflitto generale, cioè finalizzato al potere politico. Solo sulla base di una costante pratica autonoma, con un profilo programmatico definito e un posizionamento politico forte, rispetto alle altre classi e agli altri partiti, è possibile intraprendere il lungo e difficile percorso della ricomposizione dei differenti settori e delle varie nazionalità che compongono il lavoro salariato in Italia ed in Europa.