Come se ne viene fuori ?
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
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Corriere 25.5.13
Roma al voto, le occasioni mancate
di Antonio Macaluso
Come esclamò Giulio Cesare passando il Rubicone e avviandosi a diventare il padrone assoluto di Roma, «il dado è tratto». Qualche anno dopo quel 49 avanti Cristo, il dado è tratto anche per i quattro candidati a guidare il Comune di Roma. Vietato qualsiasi paragone con Giulio Cesare, uno di loro sarà sindaco di una Roma che di quei tempi conserva (male) alcuni pezzi unici come il Colosseo, l'arco di Costantino, i Fori. Un eccentrico come Andy Warhol sosteneva che Roma è l'esempio di ciò che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Ma del resto: che città eterna sarebbe se non fosse sopravvissuta alle crescenti sevizie della civiltà «moderna» e di amministratori modesti quando non deleteri?
Il voto di domani va ben oltre un qualunque test amministrativo. Perché Roma è la storia, perché è la Capitale, perché c'è il Papa e perché tutti i potenti della terra — qualsiasi sia il motivo per il quale ci approdino — chiedono al sindaco di affacciarsi dal balconcino del suo ufficio, a picco sul cuore del Fori. I romani decideranno — domenica al primo turno e il 9 giugno in via definitiva al ballottaggio — chi tra Gianni Alemanno, Ignazio Marino, Alfio Marchini e Marcello De Vito sia il più adatto a ridare luce a questa metropoli con pochi soldi ed enormi problemi. Vinca il migliore e vinca con la promessa di non girare per salotti ma per le strade — troppo spesso sporche, buie e scassate — di una città vedova di un grande progetto di sviluppo. Incapace di sfruttare al meglio il proprio passato, non ha avuto la fortuna di qualcuno che volesse davvero traghettarla tra le grandi capitali moderne.
Chi ci vive sa di cosa scriviamo, chi ci è capitato anche una sola volta, pure. Dovessimo dar credito a tutto quel che abbiamo sentito in campagna elettorale, chiunque vinca farà di tutto e di più. E Roma sarà un po' come Londra e Parigi, ma anche New York e perfino Shanghai. Luci della ribalta e non più — come ebbe a dire un sindaco bravo e colto come Giulio Carlo Argan — «polenta molle». Promette il sindaco uscente Gianni Alemanno — forte di un Pdl che raccoglie un centrodestra storicamente solido in città — che l'eventuale secondo mandato sarà ben altra cosa: ha imparato la lezione al prezzo di molti errori (il conto lo paghiamo tutti). Dice il dottor Ignazio Marino, medico-candidato di un Pd simile alla Jugoslavia del dopo Tito, che per cinque anni e solo per cinque (la gaffe è insita nella promessa) sarà un corpo e un'anima con la città. Il grillino De Vito fa il grillino: scardinare, spezzare, tagliare, rivoltare e via dicendo. Ma se finisse come i colleghi approdati in Parlamento? Altro che «polenta molle». Infine c'è Marchini: un giovane imprenditore che ha deciso di «prestarsi» — gratis — alla sua città. Dietro non ha né un partito né un movimento. Il fegato non gli manca.
Lunedì arriveranno le prime risposte. E saranno interessanti sopra e sotto il Rubicone perché per Pd, Pdl e Movimento 5 Stelle questo voto si annuncia come il primo test dopo le elezioni politiche di febbraio, che non ci hanno regalato un vincitore, dividendo in tre grandi gruppi il Parlamento. Il voto dei romani sarà una sorta di pagella di questo primo scorcio di legislatura ma anche delle prime mosse del governo di Enrico Letta. Un esecutivo sostenuto da una maggioranza forte più di numeri che di anima e attraversato dai sospetti e dalle trame dei molti che vorrebbero tornare presto, prestissimo, alle elezioni politiche.
Repubblica 25.5.13
Roma, le piazze flop dei partiti in pochi a San Giovanni per il Pd il Colosseo vuoto per Berlusconi
Epifani: la città sembra indifferente, ma non è un voto sul governo
di Giovanna Casadio e Carmelo Lopapa
ROMA — «La città sembra indifferente, vive con distacco questo voto...». Guglielmo Epifani guarda piazza San Giovanni dal sotto palco. È stato il neo segretario del Pd a volere che il centrosinistra si riprendesse la piazza dei lavoratori, la piazza-simbolo della sinistra per la chiusura della campagna elettorale di Ignazio Marino. La piazza è un flop, è quasi vuota. E accade la stessa cosa a pochi chilometri di distanza, ai piedi del Colosseo. Non ci sono più di duetre mila aficionados a salutare Silvio Berlusconi e Gianni Alemanno.
Loro dicono «siamo tantissimi». A San Giovanni invece il segretario democratico prende atto, ma non è «per niente pentito» della scelta. Sostiene che «la politica
si serve di simboli, i quali parlano al cuore delle persone», e perciò avere visto quella piazza occupata da Grillo per le politiche «ha dato un forte senso di disagio». Torna a San Giovanni dopo tre anni, Epifani: «L’ultima volta è stato nell’autunno del 2010 a una manifestazione Fiom», racconta, sorvolando sul fatto che una settimana fa a piazza San Giovanni all’appuntamento sempre della Fiom di Landini, ha evitato di andare. Sul palco il candidato sindaco del centrosinistra, Marino parla della speranza di riprendersi la città. Saluta i romani: «Ho bisogno di voi, daje». Lancia un affondo «contro la politica di parentopoli», quella di Alemanno, e un appello ai dubbiosi. Sventolano bandiere nella piazza semivuota. Il segretario del Pd parla del «profilo civico» di Marino, così giustificando l’assenza dei big del partito, tranne pochi. Sul palco Marino ha voluto che parlasse solo il neo “governatore” Zingaretti: è anche questa una presa di distanza dall’apparato del partito.
Ai piedi del Colosseo, invece, al fianco di Alemanno (presentato dalla commossa moglie Isabella Rauti) comizio spento, svogliato che il Cavaliere sembra si sarebbe volentieri risparmiato. Sarà il discorso elettorale più breve della sua carriera politica: 22 minuti. Con un leader del Pdl ormai quasi irriconoscibile, nei nuovi panni di moderato. Non nomina nemmeno una volta la “sinistra”, li chiama “loro”. Rinuncia a qualsiasi tirata polemica sui giudici nonostante le batoste di Cassazione e Consulta di due giorni fa. Accenna solo: «Della magistratura parliamo un’altra volta». E nel discorso più soft che si ricordi, il capo rivendica la nascita del governo Letta. «Lo sosteniamo e lo sosterremo con lealtà, riponiamo tanta speranza» dice stroncando i “falchi” Pdl. «È un accadimento epocale: non è mai successo dal '47 che destra e sinistra si mettessero d’accordo per dare vita a un governo di coalizione». Ma subito rivendica una vittoria quasi personale: «Si è deciso di posticipare a settembre la rata dell’Imu. Questi sono i primi passi per l’abrogazione totale. Si tratta di un successo importante». Di Ignazio Marino dice che non è romano e «ci metterebbe due o tre anni a capire dove mettere le mani», riservando gli attacchi più duri ai grillini: «Burattini manovrati via internet da un capo comico sconclusionato».
Dall’altra parte, piazza San Giovanni è stata pensata dal Pd come una festa di musica e parole, e si scalda alla fine sulle note di “Bella ciao”. Epifani è convinto che le larghe intese non turbino il voto per le amministrative, né viceversa. «Questo è un voto che riguarda l’8%degli elettori». Il Pd rischia un bagno di sangue a queste amministrative? Epifani è ottimista: «Sappiamo amministrare e sono convinto che arriveremo al ballottaggio dappertutto, compresa Siena, e Brescia dove ci sono buoni segnali. Roma comunque è un laboratorio». E qui, la posta in gioco è il sì o il no alla «destra vorace» di Alemanno.
Amministrative, i comizi finali
Grillo vince la sfida delle piazze
Le piazze e i luoghi simbolo della capitale hanno ospitato la serata conclusiva della campagna elettorale per il sindaco e l'Assemblea capitolina. Berlusconi con Alemanno al Colosseo, il candidato Pd Marino a piazza San Giovannni con Epifani e Zingaretti. De Vito (M5S) con Grillo al suo fianco in piazza del Popolo, la più affollata, dove si sono radunate circa 10mila persone. Santa Maria in Trastevere la piazza scelta da Medici, mentre Marchini al parco Schuster con Venditti
di MONICA RUBINO
ROMA - Ancora una volta è Beppe Grillo ad aver vinto la sfida delle piazze. Circa 10mila persone si sono radunate in piazza del Popolo per ascoltare il suo intervento a sostegno del candidato sindaco del M5S Marcello De Vito. Solo 3mila al Colosseo, dove Gianni Alemanno ha tenuto il comizio di chiusura della campagna elettorale assieme a Silvio Berlusconi. Piazza san Giovanni, luogo 'simbolo' della sinistra riconquistato da Ignazio Marino, era piena solo a metà. Alfio Marchini ha invece radunato poco più di 3500 persone al Parco Schuster, nel quartiere San Paolo. Ma, grazie alla partecipazione di Antonello Venditti, la folla è cresciuta fino a toccare le 10mila presenze.
Poi, domani, il silenzio imposto dalle regole prima dell'apertura delle urne domenica mattina alle 8 in punto.
La giornata dei comizi. Ogni candidato aveva organizzato un momento che andasse oltre il tradizionale comizio: spazio per i comici saliti sui palchi prima di politici e gruppi musicali che quasi tutti hanno voluto come supporto per l'ultima giornata. A sottrarsi a questo rito Alemanno e De Vito, che hanno preferito puntare tutto sui leader dei due schieramenti: Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Per il resto, festa e passerella per i tanti candidati alle Comunali. In ognuno dei luoghi scelti per le chiusure sono stati dispiegati centinaia di agenti delle forze dell'ordine per garantire la sicurezza. Con uno sciopero dei mezzi pubblici che ha complicato la situazione del traffico.
Marino a San Giovanni.
Il candidato sindaco del centrosinistra Ignazio Marino si "è ripreso" piazza San Giovanni che, a febbraio, anticipò il grande risultato alle Politiche dei 5 Stelle, ma è riuscito a riempirla solo per metà. La manifestazione è cominciata alle 17.30, con la partecipazione di Nicola Zingaretti, governatore della Regione Lazio, e Guglielmo Epifani, neo segretario del Pd. Quest'ultimo, però, non è salito sul palco con il candidato del centrosinistra. Una scelta precisa per marcare la differenza, fanno sapere dal Pd, con le piazze di Alemanno e De Vito.
Sul palco di San Giovanni, invece, il comico Dario Vergassola ha intervistato Marino intorno alle 20. Prima di lui spazio dedicato anche agli attori, da Giulio Scarpati a Stefania Sandrelli, da Leo Gullotta a Giobbe Covatta, da Max Bruno ad Alessandro Gassman, da Max Paiella a Dado. La scaletta delle esibizioni musicali invece ha previsto Silvia Salemi, Francesco Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso, i Velvet, Stefano Di Battista e Danilo Rea, Nicola Piovani, Grazia Di Michele ed er Piotta.
Alemanno al Colosseo. Messe da parte le polemiche con la Soprintendenza, invece, Gianni Alemanno ha chiuso la sua campagna elettorale al Colosseo, con un palco allestito vicino all'Arco di Costantino. Non più di tremila persone hanno preso parte al comizio, e anche l'intervento di Silvio Berlusconi è stato definito "sotto tono": contrariamente al suo solito, il Cavaliere non ha parlato a braccio ma ha letto un testo dalla prima all'ultima parola. Ha parlato di "lealtà al governo Letta", della necessità di procedere con le riforme per la crescita e per "modificare l'architettura dello Stato", con un riferimento diretto alla trasformazione del Paese in una repubblica presidenziale. Col sindaco in carica, oltre al leader Pdl, anche numerosi esponenti del centrodestra, da Francesco Storace a Giorgia Meloni, da Luciano Ciocchetti alle liste civiche che appoggiano Alemanno.
Marchini a San Paolo. Preceduto da un lancio di cuori di schiuma (il cuore è infatti il simbolo della sua campagna elettorale), il comizio di Alfio Marchini si è tenuto invece nel popolare quartiere di San Paolo, al parco Schuster. Circa 3500 persone vi hanno partecipato, attratte anche dalla presenza del comico Maurizio Battista e del cantante Antonello Venditti, che si è esibito sul palco dopo il discorso del candidato sindaco.
De Vito e Grillo a piazza del Popolo. I 5 Stelle questa volta hanno scelto piazza del Popolo dove intorno alle 21.30 è arrivato Beppe Grillo. Prima di lui, spazio a Marcello De Vito e ai candidati al consiglio comunale. Circa 10mila persone (ma gli organizzatori ne hanno dichiarate 50mila) hanno seguito l'intervento del leader del Movimento, che ha parlato a tutto campo, sfoderando il repertorio completo degli attacchi a tutte le altre forze politiche, senza quasi mai citare Roma (se non in qualche battuta finale) e i temi riguardanti la città. "Abbiamo il 25 per cento, ci hanno messo in un angolo - ha detto fra l'altro - Ma hanno una paura fottuta, perché andiamo a vedere tutto, i bilanci. Dicono che siamo al 15 per cento, ma se è così perchè Finocchiaro fa una legge contro di noi?". E rivolto a Berlusconi: "Attento, perchè alla fine ne rimarrà uno solo, per ora ci siamo noi, il 'capocomico' e il 'nano'".
Medici a Trastevere. Il candidato della lista "Repubblica romana" Sandro Medici ha organizzato invece la manifestazione di chiusura in piazza di santa Maria in Trastevere, con il concerto del Ponentino Trio e di The Mojaf and The working class heroes e una serata di tango popolare.
Bianchi a Campo dè Fiori. Infine Alessandro Bianchi, candidato di una lista civica, ha chiuso la campagna a piazza Campo dè Fiori e a Santa Maria Maggiore.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2013/ ... ref=HREA-1
Repubblica 25.5.13
Il cuore freddo della politica
Il triste ritorno nell’ex roccaforte rossa il governissimo non scalda i cuori
di Curzio Maltese
RIPRENDERSI piazza San Giovanni, come da slogan, non è stato difficile per la sinistra. Difficile era riempirla. Infatti in tanti anni di comizi non s’era mai vista così vuota. Poche migliaia, stretti nel freddo di un improvviso autunno, a sventolare nella tramontana le bandiere di Sel, dei Verdi, del pacifismo e perfino qualcuna del Pd.
IL CONFRONTO con la folla Cinque Stelle dell’ultima vigilia elettorale è imbarazzante. Ma quello era il Grillo di ieri. Il Grillo di oggi, anche lui, fatica a colmare i buchi della più modesta piazza del Popolo, un salotto al confronto. Per non dire del comizio di Berlusconi, ampiamente disertato dal popolo di destra, nonostante l’enorme lancio pubblicitario, le migliaia di manifesti sparsi per la città ad annunciare «Tutti al Colosseo con Alemanno e Berlusconi». Corretti qua e là da allegre pasquinate, del tipo: «Portate i leoni».
Le piazze vuote della capitale non sono soltanto il segno che il governissimo non scalda i cuori. Sembrano tanto l’annuncio di una nuova e forse definitiva ondata di gelo intorno alla politica. Nel caos e spesso nella volgarità dello scontro personale, le elezioni di febbraio avevano comunque sollevato qualche confusa speranza di cambiamento,
agitato le acque di una nomenclatura politica uguale a se stessa da un ventennio. Ora che il mare si è richiuso, tutto è tornato come prima, i delusi si contano a milioni in tutte le fila. Delusi di sinistra, di destra, di centro e delusi da Grillo, che a conti fatti, scontrini compresi, si è rivelato il miglior alleato dello status quo. E i delusi non vanno in piazza, stanno a casa, tanto più se c’è sciopero dei mezzi pubblici e tira vento. Molti non andranno neppure a votare domani e alla fine, fra un due per cento in più o in meno per questo o quello, vincerà ancora una volta il partito degli astenuti.
Ignazio Marino parte favorito e ci mancherebbe, contro la peggior giunta della storia della capitale. Fare campagne elettorali non è proprio il suo mestiere e si è visto anche nel giorno della chiusura, con discorso un po’ così, concluso con l’urlo urlato: «Daje!». Uno slogan che intenerisce noi zemaniani, per quanto non fortunatissimo. Ma l’uomo è capace e intelligente ed è stato un eccellente chirurgo, esattamente quel che occorre a una città malatissima e bisognosa di una serie di trapianti. Il principale avversario di Marino, a parte l’inconsistente Alemanno, è il Pd, che è quasi sempre il vero ostacolo dei propri candidati. Nel retropalco del comizio finale di San Giovanni il neo presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, commentava: «Bisognerebbe avvisare i nostri dirigenti che domenica votano sette milioni di italiani e quindi magari per qualche giorno potrebbero decretare il cessate il fuoco sul fronte interno. Nelle vigilie elettorali capita anche nelle zone di guerra». Intorno sfilano appunto i dirigenti, ovviamente in ordine sparso. Sono tutti molto ottimisti sul voto romano, il che non è un bel segno. Molti invece sono pessimisti sulla durata del governo Letta, che quindi potrebbe concludere serenamente la legislatura. Il segretario reggente Gugliemo Epifani, a proposito della nuova legge elettorale, ribadisce che il partito rimane favorevole al ripristino del Mattarellum e dei collegi elettorali, ma anche no, dipende. Negli anni hanno imparato un po’ tutti la tecnica dell’avversario Berlusconi, quella di stare al governo fingendo che la faccenda non li riguardi.
Alle otto e un quarto, quando il candidato Marino si decide a parlare, con il ritardo giusto per bucare le aperture dei telegiornali, dalla piazza si solleva comunque un’onda di entusiasmo. Almeno quelli che sono venuti erano contenti di stare qui, ad ascoltare qualcosa di sinistra, con Berlusconi da un’altra parte.
Repubblica 25.5.13
Nella scheda-mostro da 1 metro e 20 la mappa del degrado della Capitale
di Francesco Merlo
ESE fosse vivo Andy Warhol sicuramente plastificherebbe queste mostruose schede per metterle in cornice e magari le vulcanizzerebbe pure per farne degli ombrelli.
La sola cosa che non si può fare è usarle come schede, cioè portarsele in cabina, aprirle, leggerle ed esprimere i propri voti al candidato sindaco e al raggruppamento, poi aggiungere le eventuali preferenze. E non è facile, tenendo bene aperti questi mussoliniani “ludi cartacei”, decodificare i 19 simboli che sono i geroglifici che mistificano la realtà. Si va da “Salviamo Roma” a “Forza Roma”, da “Italia cristiana” a “No alla chiusura degli ospedali”, da “Cantiere Italia” a “Roma capitale è tua”, e ci sono ben 12 simboli che fanno capo a Ignazio Marino e a Gianni Alemanno, 6 a testa quindi per la famosa pesca di voti a strascico. L’operazione più difficile è rimettere a posto la scheda, un vero test di capacità manuale che, tra calcolo e ripiegatura, richiede dodici movimenti (né uno di più né uno di meno), stando molto attenti quando si gira la scheda sottosopra (bisogna farlo almeno due volte) perché è facile sbagliare e ottenere così delle “tasche” che, incastrando i lati, formerebbero due orecchie di coniglio o due ali di farfalla che obbligherebbero poi gli scrutatori e il presidente di seggio ad annullare il voto a coniglio o il voto a farfalla.
Ma, come dicevamo, è come metafora della politica sempre meno in sintonia con il Paese, e soprattutto del pittoresco di Roma, che la scheda va guardata e appunto valorizzata. Una volta dispiegata, meglio di un saggio la scheda infatti spiega la tristissima bruttezza della nostra bellissima capitale che, come già scriveva il Gibbon, nel suo celebre e ineguagliato trattato di storia, «tra le rovine del Campidoglio contempliamo, prima con ammirazione e poi con pietà». E chissà cosa scriverebbe oggi se potesse annettere la scheda elettorale più lunga del mondo nell’iconografia del suo libro.
Questa scheda infatti è la mappa della nostra degradazione. Aprendola, leggiamo, al di là dei nomi di Ignazio Marino e Alfio Marchini, di Marcello De Vito e Gianni Alemanno, i simboli anonimi e tutti uguali delle periferie anonime e tutte uguali, la periferia di Roma che non è città che comincia o finisce ma città che si sfinisce, e persino nei luoghi del pasolinismo, da Ostia sino a Torbellamonica e Torpignattara il sottoproletariato, con felpa e cappellino, è pronto ai reality. E nella stramberia della scheda ci sono gli ambulanti di piazza Navona che vendono le cose più brutte nel posto più bello, e le facciate sbrecciate delle case storiche, la finta vita bohemienne di Trastevere con gli orribili graffiti spacciati per creatività, e le auto dei vigili urbani posteggiate sui marciapiedi come documenta il benedetto sito www. romafaschifo (sottotitolo: “chi ha ridotto così la città più bella del mondo?”), e i camion vela elettorali posteggiati all’Eur, e le bambine borseggiatrici della Stazione Termini e l’illegalità dei furgoncini-bar che smerciano immangiabili panini davanti al Colosseo e a tutti gli altri monumenti, e la cartellonistica abusiva, e i finti gladiatori attorno alle vestigia, e gli autobus che non arrivano mai e sono così affollati che «un povero ma onesto borseggiatore non sa come muoversi» è la battuta che raccolgo da un vecchio pizzardone che ha lavorato con il fratello di Andreotti. E si intravedono nella scheda i guasti della giunta Alemanno, l’inchiesta giudiziaria su 850 assunzioni all’Atac e altrettanti all’Ama, e infine il buco di bilancio di decine di miliardi di euro che fonti autorevoli di Bruxellles definiscono «un rischio sistemico che la città di Roma pone all’intera eurozona», « un debito pari a quello dell’Austria».
L’idea forte del film “La Grande Bellezza” è il meraviglioso dettaglio fermo, lo splendido fotogramma inanimato, lo sguardo su Trinità dei Monti per esempio o la passeggiata al Gianicolo, una grande bellezza morta come i tempi di chi aspetta un autobus o vuole andare al mare o pretende di risolvere una pratica, i lunghi tempi della morte lunga, lunghi come la scheda elettorale.
il Fatto 25.5.13
I leader parlano, piazze semivuote
Domani si vota, ma a Roma in poche migliaia ad ascoltare Berlusconi, il Pd e M5S
Record negativo per il Cavaliere, al Colosseo fra pochi intimi
Delusi anche i democratici in piazza San Giovanni
Vince la sfida piazza del Popolo che si “scalda” all’arrivo di Grillo
di Antonello Caporale
Roma non ha fatto la stupida stasera. Non ha piovuto. Certo fa il freddo d’ottobre e già tutti i maglioni sono traslocati nell’armadio, “e con questa camicetta come fai?, non gliela facciamo più ad aspettare”. Marisa e Lina sono venute a San Giovanni ma si arrendono alla brezza gelata. È la prima fuga dalla prima delle quattro piazze che si rifiutano di riempirsi malgrado abbiano sistemato il castello gonfiabile con gli scivoli e topolini sorridenti e bambini al centro del prato, con gli stand a stringere l’inquadratura. “Macchè, siamo pochi stasera”. La mestizia con la quale Simone porta la sua bandiera non cancella l’amore meraviglioso che ancora lo costringe ad essere qua, nonostante il dolore. “E quando vi vedo in televisione, voi del Fatto, mi viene paura perchè ci date tante legnate. Non conto niente ma anch’io le sento addosso perchè il partito è la mia famiglia, papà si chiamava Palmiro. Dimmi un po’, ma cos’hanno veramente combinato quelli? ”. Simone è come quei genitori in pena che sono alla ricerca della verità sui figli, la rivelazione. Epifani non si vede, neanche Ignazio Marino. “C’avemo tanti professori universitari, tanti intellettuali”: la coppia di compagni maturi non si capacita, la scelta non sembra la migliore, malgrado quel che dice Goffredo Bettini, il dominus del partito romano: “È l’Argan della scienza. Non ha il sacro fuoco del candidato, questo è vero... ”. Da via Merulana sparute avanguardie della terza età, con la bandierina bianca e il Daje, il motto elettorale stampato su cartoncino che oggi è un’esclamazione fuori posto. “Sto andando a vedere chi c’è in piazza, ma certo la città è sfiancata, lo senti”. È Mimmo Calopresti, il regista, e si sta avviando col passo lento del militante recidivo che non ce la fa a fermarsi. Malinconico tango in questa piazza, “eppure Ignazio ha una sua caratteristica: agguanta i problemi e se carbura non lo fermi più. Ha difficoltà nel rompere il clima, forse perchè è genovese e lo vediamo estraneo alla città”.
FLAVIO, MEDICO OTORINO al Sant’Eugenio, sicuro del sol dell’avvenire. Si sta larghi sul prato. Ne siamo tremila? Quattromila? Anche di più? “Miei cojoni! ” esclama un uomo con la barba del sessantotto. Sarcasmo freddo, disorientamento della classe operaia: chi siamo, dove andiamo. Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria: “Il nostro problema è la base che non si fa sentire, che non protesta, dileguata in una depressione solitaria”. Ecco quel che rimane di un popolo, che pure è doppio rispetto a quel che si annuncia laggiù, appena conclusa la discesa della bellissima via dei Santissimi Quattro Coronati. Roma è a quattro piazze stasera e per raggiungere la seconda, quella di Berlusconi e di Alemanno, passo davanti a Pasqualino al Colosseo, il ristorante dove l’egregio onorevole Fiorito ordinava per sé e i numerosi amici spaghettini all’astice, calamari, tonno, frittura mista, gnocchetti, qualche volta la carne alla brace, l’ottimo abbacchio. Una ricevutona di poco inferiore ai ventimila euro: ha pagato Pantalone per tutti. Pasqualino è stato il punto ristoro del Pdl laziale, ora è deserto. Un signore solo al tavolino ascolta la radio: “Basta con le bande! ”, dicono nel talk elettorale. Il palco di Alemanno è ancora più mesto di quello di Marino. Impalato davanti l’Arco di Costantino, consente al migliaio di passanti un largo passeggio. Una coppia di sposi smamma, le foto sono impossibili oggi, bisogna salire verso Colle Oppio. Turisti americani interdetti, giungla di poliziotti sfaccendati, pochi fascisti ma comunque resistono anch’essi all’oblìo. Se vince Alemanno non sarà grazie a loro, ma ai mille imprenditori che per esempio hanno sborsato mille euro a testa alla cena di degustazione elettorale. Una sola cena è valsa, complice Silvio Berlusconi, un milione di euro. Gli assegni sono stati prontamente sganciati e l’attesa ripagata. Non qui, non stasera, ma due pomeriggi fa, al Tempio di Adriano, sede della Camera di Commercio. Lì Alemanno ha spiegato, con la voce di Andrea Augello, il suo spin doctor, la meraviglia che attende tutti: “Sono stati sbloccati 571 milioni di euro che andranno ai creditori del comune di Roma. Dal 21 maggio sono iniziati i pagamenti, e tutti gli uffici sono impegnati allo spasimo per dare risposte concrete, adempiere a un obbligo, risollevare il morale e il portafogli di tanti imprenditori che hanno lavorato per Roma e attendono il frutto di quel lavoro”.
“Questo è voto di scambio, un interminabile voto di scambio con il quale si condizione il voto”. È un imprenditore danaroso, capostipite di una famiglia che ha vissuto nell’era e nell’ombra della sinistra, a parlare. Alfio Marchini, il quarto dei gareggianti, si concede agli amici nel parco Schuster. Lo affianca Antonello Venditti, anch’egli traslocato dalle storiche posizioni, nel finale di partita che ha giocato al meglio. L’aria qui è più festosa, il clima è più ottimista. Sul taxi Parigi 48: “La metà di noi voterà Marchini. Alemanno ha deluso. E senza i tassisti Alemanno perde”. Voteranno Mar-chini anche la borghesia, anche i Caltagirone, anche Casini e Ma-rio Monti. Un po’ di centro, un po’ di sinistra, un po’ di destra. Un mix che conduce a cifre misteriose, più elevate del prevedibile. Marchini ha avuto buoni consiglieri per la comunicazione, e il suo “Roma ti amo” è divenuto un refrain che ha collegato il volto del ricco e bello a un impegno che è sembrato sincero. “La borghesia vota me perchè ha trovato un pazzo che si mette in gioco. Ma con me si mette in gioco tutto quel mondo”.
“Amici, sono a Radio Popolare e cerco di capire dov’è la sauna. Roma ti amo”, scrive il suo alter ego “Arfio”. Lui ci gioca. L’autoironia produce consensi. Ce la farà? “Se vado al ballottaggio scelgo come vice sindaco De Vito, il candidato dei cinquestelle”, ha infine dichiarato. Non è certo, anzi non è proprio così. Ma insomma è l'affermazione della potenza del voto irregolare. Nè Pd, né Pdl. Lo sciopero dei bus chiama tutti al metrò. Siamo a piazza del Popolo. Per metà è vuota, ma Beppe Grillo parlerà intorno alle nove di sera, e basta già questa metà a rendere questo popolo il più numeroso dei quattro in gara. Fosse questione di numeri, la classifica sarebbe presto detta: primo Grillo, secondo Marchini, poi Marino e infine Alemanno. Ma i voti si contano nell’urna. “Vuoi fare il rappresentante di lista? ”, mi chiede una militante “Ma è un giornalista! ” la rimprovera Luciano Emili, candidato al consiglio comunale. La ragazza retrocede: il giornalista è la figura più temuta e odiata dalla tribù grillina. Un po’ di preoccupazione c’è e si vede: “Paghiamo la rappresentazione che avete fatto di noi”. “Siamo inesperti, capite che per noi è difficile fare ogni cosa per bene? ”. Certo che sì, capiamo. “Ah, ma non aspetti Grillo? ”.
il Fatto 25.5.13
San Giovanni è troppo grande per il Pd
di Wanda Marra
“L’ultima volta che sono salito sul palco di San Giovanni? Nell’autunno 2010 alla manifestazione della Fiom, come segretario della Cgil”. Altri tempi, quando Guglielmo Epifani a manifestare con i metalmeccanici ci poteva andare. Da segretario Pd ha l’aria infreddolita, compressa. Nella piazza in cui Ignazio Marino chiude la sua campagna elettorale arriva alle 18. Foto col candidato sindaco. Dichiarazioni ai tg. Chiacchierata con i giornalisti. Sul palco non sale. Non si fa neanche un giro in piazza. Ai militanti - molto pochi - che accorrono non parla. È un flop. La manifestazione inizia alle 17 e 30. Gruppi musicali. In scaletta addirittura Dario Vergassola e Piovani. All’inizio, poche centinaia di persone, poi si arriva a qualche migliaio. “Grazie per averci fatto ritornare e ritrovare questa nostra piazza”. Alle 20 Marino inizia così il suo comizio. Parole dissonanti con quello che ha intorno. Il palco è in un angolo, taglia mignon. Le bandiere che spiccano sono quelle dei Verdi. “Non è politica è Roma”, recita uno dei suoi slogan. Difficile prendere le distanze più di così. Dietro al palco Epifani mette le mani avanti: “Il voto amministrativo è un voto locale. Ma naturalmente poi ha una valenza nazionale, soprattutto quello di Roma”. Un pronostico? “Noi siamo bravi ad amministrare le città, almeno questo giudizio non può cambiare in poco tempo. Andremo al ballottaggio un po’ ovunque. Poi ce la giochiamo”. Ricadute sul governo? “No, è iniziato da troppo poco. Al voto ci va solo l’8% degli italiani”. L’atmosfera è moscia che più non si può. “No, non sono pentito di aver scelto San Giovanni. Ha un valore simbolico. La gente va e viene”. Un’ammissione. E comunque, “poi conteremo i voti... ”. La scelta di non salire sul palco? Marino si presenta come una sorta di candidato civico, ha preferito così.
“FORSE sarebbe stato meglio non venire qui, magari se vincevamo al ballottaggio aveva un’altra valenza”, bisbigliano nell’organizzazione. “Ma poi come si fa a mettere solo musica? Nessun candidato che parla, ore di concerto”, commentano in piazza. Epifani osserva: “C’è molto distacco, molta indifferenza per queste elezioni”. Poi si riprende: “Però, i romani giudicheranno anche l’operato di Alemanno. E uno sciopero dei mezzi nel giorno della chiusura della campagna elettorale: che scelta da parte sua! ”. Se non si vede gente, non si vedono neanche i dirigenti Pd. Dietro al palco, il volto sponsor Alessandro Gassman regala foto. A salutare Epifani arriva Armando Cossutta, in carrozzella. La storia del Pci e delle sue divisioni (“l’Armando” con la svolta della Bolognina fondò Rifondazione, quando Bertinotti fece cadere Prodi il Pdci) che si materializza. Nell’assenza generale si presentano Sassoli e Vita, Fassina e Gentiloni. Spicca Gianni Cuperlo. Candidato in pectore al congresso. Con lui Walter Tocci commenta: “Venire qui? C’era voglia di rivincita”. La scelta di Bersani di chiudere all’Ambra Jovinelli la campagna per le politiche mentre Grillo gli soffiava San Giovanni era stata duramente criticata. Ma l’ultima manifestazione del Pd in questa piazza, nel novembre del 2011, al confronto appare oceanica.
CUPERLO si guarda intorno e ricorda un aneddoto, che, spiega, Massimo D’Alema amava raccontare: “Quando nel 1996 l’Ulivo vinse le elezioni, a un certo punto della sera lui scese da Botteghe Oscure. Gli andò incontro una vecchia militante, lo abbracciò dicendo ‘Abbiamo vinto! Faremo una bella opposizione’. E lui: ‘No, stavolta veramente ci tocca governare’”. Il presidente della Regione Zingaretti dal palco recita da copione: “Marino ce la farà a cambiare Roma”. Il candidato, lontanissimo dalla tradizione comunista, che arriva in Bmw e sorride continuamente, esorta la folla: “Entusiasmo, entusiasmo”. E da genovese mentre chiude urlando il romanissimo “Daje” quasi cade disteso sul palco.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 231
La cruna dell’ago – 197
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 197
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 177
Cronaca di un affondamento annunciato - 177
In mezzo alla tempesta - 114
Il buio oltre la siepe - 21
Corriere 25.5.13
Roma al voto, le occasioni mancate
di Antonio Macaluso
Come esclamò Giulio Cesare passando il Rubicone e avviandosi a diventare il padrone assoluto di Roma, «il dado è tratto». Qualche anno dopo quel 49 avanti Cristo, il dado è tratto anche per i quattro candidati a guidare il Comune di Roma. Vietato qualsiasi paragone con Giulio Cesare, uno di loro sarà sindaco di una Roma che di quei tempi conserva (male) alcuni pezzi unici come il Colosseo, l'arco di Costantino, i Fori. Un eccentrico come Andy Warhol sosteneva che Roma è l'esempio di ciò che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Ma del resto: che città eterna sarebbe se non fosse sopravvissuta alle crescenti sevizie della civiltà «moderna» e di amministratori modesti quando non deleteri?
Il voto di domani va ben oltre un qualunque test amministrativo. Perché Roma è la storia, perché è la Capitale, perché c'è il Papa e perché tutti i potenti della terra — qualsiasi sia il motivo per il quale ci approdino — chiedono al sindaco di affacciarsi dal balconcino del suo ufficio, a picco sul cuore del Fori. I romani decideranno — domenica al primo turno e il 9 giugno in via definitiva al ballottaggio — chi tra Gianni Alemanno, Ignazio Marino, Alfio Marchini e Marcello De Vito sia il più adatto a ridare luce a questa metropoli con pochi soldi ed enormi problemi. Vinca il migliore e vinca con la promessa di non girare per salotti ma per le strade — troppo spesso sporche, buie e scassate — di una città vedova di un grande progetto di sviluppo. Incapace di sfruttare al meglio il proprio passato, non ha avuto la fortuna di qualcuno che volesse davvero traghettarla tra le grandi capitali moderne.
Chi ci vive sa di cosa scriviamo, chi ci è capitato anche una sola volta, pure. Dovessimo dar credito a tutto quel che abbiamo sentito in campagna elettorale, chiunque vinca farà di tutto e di più. E Roma sarà un po' come Londra e Parigi, ma anche New York e perfino Shanghai. Luci della ribalta e non più — come ebbe a dire un sindaco bravo e colto come Giulio Carlo Argan — «polenta molle». Promette il sindaco uscente Gianni Alemanno — forte di un Pdl che raccoglie un centrodestra storicamente solido in città — che l'eventuale secondo mandato sarà ben altra cosa: ha imparato la lezione al prezzo di molti errori (il conto lo paghiamo tutti). Dice il dottor Ignazio Marino, medico-candidato di un Pd simile alla Jugoslavia del dopo Tito, che per cinque anni e solo per cinque (la gaffe è insita nella promessa) sarà un corpo e un'anima con la città. Il grillino De Vito fa il grillino: scardinare, spezzare, tagliare, rivoltare e via dicendo. Ma se finisse come i colleghi approdati in Parlamento? Altro che «polenta molle». Infine c'è Marchini: un giovane imprenditore che ha deciso di «prestarsi» — gratis — alla sua città. Dietro non ha né un partito né un movimento. Il fegato non gli manca.
Lunedì arriveranno le prime risposte. E saranno interessanti sopra e sotto il Rubicone perché per Pd, Pdl e Movimento 5 Stelle questo voto si annuncia come il primo test dopo le elezioni politiche di febbraio, che non ci hanno regalato un vincitore, dividendo in tre grandi gruppi il Parlamento. Il voto dei romani sarà una sorta di pagella di questo primo scorcio di legislatura ma anche delle prime mosse del governo di Enrico Letta. Un esecutivo sostenuto da una maggioranza forte più di numeri che di anima e attraversato dai sospetti e dalle trame dei molti che vorrebbero tornare presto, prestissimo, alle elezioni politiche.
Repubblica 25.5.13
Roma, le piazze flop dei partiti in pochi a San Giovanni per il Pd il Colosseo vuoto per Berlusconi
Epifani: la città sembra indifferente, ma non è un voto sul governo
di Giovanna Casadio e Carmelo Lopapa
ROMA — «La città sembra indifferente, vive con distacco questo voto...». Guglielmo Epifani guarda piazza San Giovanni dal sotto palco. È stato il neo segretario del Pd a volere che il centrosinistra si riprendesse la piazza dei lavoratori, la piazza-simbolo della sinistra per la chiusura della campagna elettorale di Ignazio Marino. La piazza è un flop, è quasi vuota. E accade la stessa cosa a pochi chilometri di distanza, ai piedi del Colosseo. Non ci sono più di duetre mila aficionados a salutare Silvio Berlusconi e Gianni Alemanno.
Loro dicono «siamo tantissimi». A San Giovanni invece il segretario democratico prende atto, ma non è «per niente pentito» della scelta. Sostiene che «la politica
si serve di simboli, i quali parlano al cuore delle persone», e perciò avere visto quella piazza occupata da Grillo per le politiche «ha dato un forte senso di disagio». Torna a San Giovanni dopo tre anni, Epifani: «L’ultima volta è stato nell’autunno del 2010 a una manifestazione Fiom», racconta, sorvolando sul fatto che una settimana fa a piazza San Giovanni all’appuntamento sempre della Fiom di Landini, ha evitato di andare. Sul palco il candidato sindaco del centrosinistra, Marino parla della speranza di riprendersi la città. Saluta i romani: «Ho bisogno di voi, daje». Lancia un affondo «contro la politica di parentopoli», quella di Alemanno, e un appello ai dubbiosi. Sventolano bandiere nella piazza semivuota. Il segretario del Pd parla del «profilo civico» di Marino, così giustificando l’assenza dei big del partito, tranne pochi. Sul palco Marino ha voluto che parlasse solo il neo “governatore” Zingaretti: è anche questa una presa di distanza dall’apparato del partito.
Ai piedi del Colosseo, invece, al fianco di Alemanno (presentato dalla commossa moglie Isabella Rauti) comizio spento, svogliato che il Cavaliere sembra si sarebbe volentieri risparmiato. Sarà il discorso elettorale più breve della sua carriera politica: 22 minuti. Con un leader del Pdl ormai quasi irriconoscibile, nei nuovi panni di moderato. Non nomina nemmeno una volta la “sinistra”, li chiama “loro”. Rinuncia a qualsiasi tirata polemica sui giudici nonostante le batoste di Cassazione e Consulta di due giorni fa. Accenna solo: «Della magistratura parliamo un’altra volta». E nel discorso più soft che si ricordi, il capo rivendica la nascita del governo Letta. «Lo sosteniamo e lo sosterremo con lealtà, riponiamo tanta speranza» dice stroncando i “falchi” Pdl. «È un accadimento epocale: non è mai successo dal '47 che destra e sinistra si mettessero d’accordo per dare vita a un governo di coalizione». Ma subito rivendica una vittoria quasi personale: «Si è deciso di posticipare a settembre la rata dell’Imu. Questi sono i primi passi per l’abrogazione totale. Si tratta di un successo importante». Di Ignazio Marino dice che non è romano e «ci metterebbe due o tre anni a capire dove mettere le mani», riservando gli attacchi più duri ai grillini: «Burattini manovrati via internet da un capo comico sconclusionato».
Dall’altra parte, piazza San Giovanni è stata pensata dal Pd come una festa di musica e parole, e si scalda alla fine sulle note di “Bella ciao”. Epifani è convinto che le larghe intese non turbino il voto per le amministrative, né viceversa. «Questo è un voto che riguarda l’8%degli elettori». Il Pd rischia un bagno di sangue a queste amministrative? Epifani è ottimista: «Sappiamo amministrare e sono convinto che arriveremo al ballottaggio dappertutto, compresa Siena, e Brescia dove ci sono buoni segnali. Roma comunque è un laboratorio». E qui, la posta in gioco è il sì o il no alla «destra vorace» di Alemanno.
Amministrative, i comizi finali
Grillo vince la sfida delle piazze
Le piazze e i luoghi simbolo della capitale hanno ospitato la serata conclusiva della campagna elettorale per il sindaco e l'Assemblea capitolina. Berlusconi con Alemanno al Colosseo, il candidato Pd Marino a piazza San Giovannni con Epifani e Zingaretti. De Vito (M5S) con Grillo al suo fianco in piazza del Popolo, la più affollata, dove si sono radunate circa 10mila persone. Santa Maria in Trastevere la piazza scelta da Medici, mentre Marchini al parco Schuster con Venditti
di MONICA RUBINO
ROMA - Ancora una volta è Beppe Grillo ad aver vinto la sfida delle piazze. Circa 10mila persone si sono radunate in piazza del Popolo per ascoltare il suo intervento a sostegno del candidato sindaco del M5S Marcello De Vito. Solo 3mila al Colosseo, dove Gianni Alemanno ha tenuto il comizio di chiusura della campagna elettorale assieme a Silvio Berlusconi. Piazza san Giovanni, luogo 'simbolo' della sinistra riconquistato da Ignazio Marino, era piena solo a metà. Alfio Marchini ha invece radunato poco più di 3500 persone al Parco Schuster, nel quartiere San Paolo. Ma, grazie alla partecipazione di Antonello Venditti, la folla è cresciuta fino a toccare le 10mila presenze.
Poi, domani, il silenzio imposto dalle regole prima dell'apertura delle urne domenica mattina alle 8 in punto.
La giornata dei comizi. Ogni candidato aveva organizzato un momento che andasse oltre il tradizionale comizio: spazio per i comici saliti sui palchi prima di politici e gruppi musicali che quasi tutti hanno voluto come supporto per l'ultima giornata. A sottrarsi a questo rito Alemanno e De Vito, che hanno preferito puntare tutto sui leader dei due schieramenti: Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Per il resto, festa e passerella per i tanti candidati alle Comunali. In ognuno dei luoghi scelti per le chiusure sono stati dispiegati centinaia di agenti delle forze dell'ordine per garantire la sicurezza. Con uno sciopero dei mezzi pubblici che ha complicato la situazione del traffico.
Marino a San Giovanni.
Il candidato sindaco del centrosinistra Ignazio Marino si "è ripreso" piazza San Giovanni che, a febbraio, anticipò il grande risultato alle Politiche dei 5 Stelle, ma è riuscito a riempirla solo per metà. La manifestazione è cominciata alle 17.30, con la partecipazione di Nicola Zingaretti, governatore della Regione Lazio, e Guglielmo Epifani, neo segretario del Pd. Quest'ultimo, però, non è salito sul palco con il candidato del centrosinistra. Una scelta precisa per marcare la differenza, fanno sapere dal Pd, con le piazze di Alemanno e De Vito.
Sul palco di San Giovanni, invece, il comico Dario Vergassola ha intervistato Marino intorno alle 20. Prima di lui spazio dedicato anche agli attori, da Giulio Scarpati a Stefania Sandrelli, da Leo Gullotta a Giobbe Covatta, da Max Bruno ad Alessandro Gassman, da Max Paiella a Dado. La scaletta delle esibizioni musicali invece ha previsto Silvia Salemi, Francesco Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso, i Velvet, Stefano Di Battista e Danilo Rea, Nicola Piovani, Grazia Di Michele ed er Piotta.
Alemanno al Colosseo. Messe da parte le polemiche con la Soprintendenza, invece, Gianni Alemanno ha chiuso la sua campagna elettorale al Colosseo, con un palco allestito vicino all'Arco di Costantino. Non più di tremila persone hanno preso parte al comizio, e anche l'intervento di Silvio Berlusconi è stato definito "sotto tono": contrariamente al suo solito, il Cavaliere non ha parlato a braccio ma ha letto un testo dalla prima all'ultima parola. Ha parlato di "lealtà al governo Letta", della necessità di procedere con le riforme per la crescita e per "modificare l'architettura dello Stato", con un riferimento diretto alla trasformazione del Paese in una repubblica presidenziale. Col sindaco in carica, oltre al leader Pdl, anche numerosi esponenti del centrodestra, da Francesco Storace a Giorgia Meloni, da Luciano Ciocchetti alle liste civiche che appoggiano Alemanno.
Marchini a San Paolo. Preceduto da un lancio di cuori di schiuma (il cuore è infatti il simbolo della sua campagna elettorale), il comizio di Alfio Marchini si è tenuto invece nel popolare quartiere di San Paolo, al parco Schuster. Circa 3500 persone vi hanno partecipato, attratte anche dalla presenza del comico Maurizio Battista e del cantante Antonello Venditti, che si è esibito sul palco dopo il discorso del candidato sindaco.
De Vito e Grillo a piazza del Popolo. I 5 Stelle questa volta hanno scelto piazza del Popolo dove intorno alle 21.30 è arrivato Beppe Grillo. Prima di lui, spazio a Marcello De Vito e ai candidati al consiglio comunale. Circa 10mila persone (ma gli organizzatori ne hanno dichiarate 50mila) hanno seguito l'intervento del leader del Movimento, che ha parlato a tutto campo, sfoderando il repertorio completo degli attacchi a tutte le altre forze politiche, senza quasi mai citare Roma (se non in qualche battuta finale) e i temi riguardanti la città. "Abbiamo il 25 per cento, ci hanno messo in un angolo - ha detto fra l'altro - Ma hanno una paura fottuta, perché andiamo a vedere tutto, i bilanci. Dicono che siamo al 15 per cento, ma se è così perchè Finocchiaro fa una legge contro di noi?". E rivolto a Berlusconi: "Attento, perchè alla fine ne rimarrà uno solo, per ora ci siamo noi, il 'capocomico' e il 'nano'".
Medici a Trastevere. Il candidato della lista "Repubblica romana" Sandro Medici ha organizzato invece la manifestazione di chiusura in piazza di santa Maria in Trastevere, con il concerto del Ponentino Trio e di The Mojaf and The working class heroes e una serata di tango popolare.
Bianchi a Campo dè Fiori. Infine Alessandro Bianchi, candidato di una lista civica, ha chiuso la campagna a piazza Campo dè Fiori e a Santa Maria Maggiore.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2013/ ... ref=HREA-1
Repubblica 25.5.13
Il cuore freddo della politica
Il triste ritorno nell’ex roccaforte rossa il governissimo non scalda i cuori
di Curzio Maltese
RIPRENDERSI piazza San Giovanni, come da slogan, non è stato difficile per la sinistra. Difficile era riempirla. Infatti in tanti anni di comizi non s’era mai vista così vuota. Poche migliaia, stretti nel freddo di un improvviso autunno, a sventolare nella tramontana le bandiere di Sel, dei Verdi, del pacifismo e perfino qualcuna del Pd.
IL CONFRONTO con la folla Cinque Stelle dell’ultima vigilia elettorale è imbarazzante. Ma quello era il Grillo di ieri. Il Grillo di oggi, anche lui, fatica a colmare i buchi della più modesta piazza del Popolo, un salotto al confronto. Per non dire del comizio di Berlusconi, ampiamente disertato dal popolo di destra, nonostante l’enorme lancio pubblicitario, le migliaia di manifesti sparsi per la città ad annunciare «Tutti al Colosseo con Alemanno e Berlusconi». Corretti qua e là da allegre pasquinate, del tipo: «Portate i leoni».
Le piazze vuote della capitale non sono soltanto il segno che il governissimo non scalda i cuori. Sembrano tanto l’annuncio di una nuova e forse definitiva ondata di gelo intorno alla politica. Nel caos e spesso nella volgarità dello scontro personale, le elezioni di febbraio avevano comunque sollevato qualche confusa speranza di cambiamento,
agitato le acque di una nomenclatura politica uguale a se stessa da un ventennio. Ora che il mare si è richiuso, tutto è tornato come prima, i delusi si contano a milioni in tutte le fila. Delusi di sinistra, di destra, di centro e delusi da Grillo, che a conti fatti, scontrini compresi, si è rivelato il miglior alleato dello status quo. E i delusi non vanno in piazza, stanno a casa, tanto più se c’è sciopero dei mezzi pubblici e tira vento. Molti non andranno neppure a votare domani e alla fine, fra un due per cento in più o in meno per questo o quello, vincerà ancora una volta il partito degli astenuti.
Ignazio Marino parte favorito e ci mancherebbe, contro la peggior giunta della storia della capitale. Fare campagne elettorali non è proprio il suo mestiere e si è visto anche nel giorno della chiusura, con discorso un po’ così, concluso con l’urlo urlato: «Daje!». Uno slogan che intenerisce noi zemaniani, per quanto non fortunatissimo. Ma l’uomo è capace e intelligente ed è stato un eccellente chirurgo, esattamente quel che occorre a una città malatissima e bisognosa di una serie di trapianti. Il principale avversario di Marino, a parte l’inconsistente Alemanno, è il Pd, che è quasi sempre il vero ostacolo dei propri candidati. Nel retropalco del comizio finale di San Giovanni il neo presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, commentava: «Bisognerebbe avvisare i nostri dirigenti che domenica votano sette milioni di italiani e quindi magari per qualche giorno potrebbero decretare il cessate il fuoco sul fronte interno. Nelle vigilie elettorali capita anche nelle zone di guerra». Intorno sfilano appunto i dirigenti, ovviamente in ordine sparso. Sono tutti molto ottimisti sul voto romano, il che non è un bel segno. Molti invece sono pessimisti sulla durata del governo Letta, che quindi potrebbe concludere serenamente la legislatura. Il segretario reggente Gugliemo Epifani, a proposito della nuova legge elettorale, ribadisce che il partito rimane favorevole al ripristino del Mattarellum e dei collegi elettorali, ma anche no, dipende. Negli anni hanno imparato un po’ tutti la tecnica dell’avversario Berlusconi, quella di stare al governo fingendo che la faccenda non li riguardi.
Alle otto e un quarto, quando il candidato Marino si decide a parlare, con il ritardo giusto per bucare le aperture dei telegiornali, dalla piazza si solleva comunque un’onda di entusiasmo. Almeno quelli che sono venuti erano contenti di stare qui, ad ascoltare qualcosa di sinistra, con Berlusconi da un’altra parte.
Repubblica 25.5.13
Nella scheda-mostro da 1 metro e 20 la mappa del degrado della Capitale
di Francesco Merlo
ESE fosse vivo Andy Warhol sicuramente plastificherebbe queste mostruose schede per metterle in cornice e magari le vulcanizzerebbe pure per farne degli ombrelli.
La sola cosa che non si può fare è usarle come schede, cioè portarsele in cabina, aprirle, leggerle ed esprimere i propri voti al candidato sindaco e al raggruppamento, poi aggiungere le eventuali preferenze. E non è facile, tenendo bene aperti questi mussoliniani “ludi cartacei”, decodificare i 19 simboli che sono i geroglifici che mistificano la realtà. Si va da “Salviamo Roma” a “Forza Roma”, da “Italia cristiana” a “No alla chiusura degli ospedali”, da “Cantiere Italia” a “Roma capitale è tua”, e ci sono ben 12 simboli che fanno capo a Ignazio Marino e a Gianni Alemanno, 6 a testa quindi per la famosa pesca di voti a strascico. L’operazione più difficile è rimettere a posto la scheda, un vero test di capacità manuale che, tra calcolo e ripiegatura, richiede dodici movimenti (né uno di più né uno di meno), stando molto attenti quando si gira la scheda sottosopra (bisogna farlo almeno due volte) perché è facile sbagliare e ottenere così delle “tasche” che, incastrando i lati, formerebbero due orecchie di coniglio o due ali di farfalla che obbligherebbero poi gli scrutatori e il presidente di seggio ad annullare il voto a coniglio o il voto a farfalla.
Ma, come dicevamo, è come metafora della politica sempre meno in sintonia con il Paese, e soprattutto del pittoresco di Roma, che la scheda va guardata e appunto valorizzata. Una volta dispiegata, meglio di un saggio la scheda infatti spiega la tristissima bruttezza della nostra bellissima capitale che, come già scriveva il Gibbon, nel suo celebre e ineguagliato trattato di storia, «tra le rovine del Campidoglio contempliamo, prima con ammirazione e poi con pietà». E chissà cosa scriverebbe oggi se potesse annettere la scheda elettorale più lunga del mondo nell’iconografia del suo libro.
Questa scheda infatti è la mappa della nostra degradazione. Aprendola, leggiamo, al di là dei nomi di Ignazio Marino e Alfio Marchini, di Marcello De Vito e Gianni Alemanno, i simboli anonimi e tutti uguali delle periferie anonime e tutte uguali, la periferia di Roma che non è città che comincia o finisce ma città che si sfinisce, e persino nei luoghi del pasolinismo, da Ostia sino a Torbellamonica e Torpignattara il sottoproletariato, con felpa e cappellino, è pronto ai reality. E nella stramberia della scheda ci sono gli ambulanti di piazza Navona che vendono le cose più brutte nel posto più bello, e le facciate sbrecciate delle case storiche, la finta vita bohemienne di Trastevere con gli orribili graffiti spacciati per creatività, e le auto dei vigili urbani posteggiate sui marciapiedi come documenta il benedetto sito www. romafaschifo (sottotitolo: “chi ha ridotto così la città più bella del mondo?”), e i camion vela elettorali posteggiati all’Eur, e le bambine borseggiatrici della Stazione Termini e l’illegalità dei furgoncini-bar che smerciano immangiabili panini davanti al Colosseo e a tutti gli altri monumenti, e la cartellonistica abusiva, e i finti gladiatori attorno alle vestigia, e gli autobus che non arrivano mai e sono così affollati che «un povero ma onesto borseggiatore non sa come muoversi» è la battuta che raccolgo da un vecchio pizzardone che ha lavorato con il fratello di Andreotti. E si intravedono nella scheda i guasti della giunta Alemanno, l’inchiesta giudiziaria su 850 assunzioni all’Atac e altrettanti all’Ama, e infine il buco di bilancio di decine di miliardi di euro che fonti autorevoli di Bruxellles definiscono «un rischio sistemico che la città di Roma pone all’intera eurozona», « un debito pari a quello dell’Austria».
L’idea forte del film “La Grande Bellezza” è il meraviglioso dettaglio fermo, lo splendido fotogramma inanimato, lo sguardo su Trinità dei Monti per esempio o la passeggiata al Gianicolo, una grande bellezza morta come i tempi di chi aspetta un autobus o vuole andare al mare o pretende di risolvere una pratica, i lunghi tempi della morte lunga, lunghi come la scheda elettorale.
il Fatto 25.5.13
I leader parlano, piazze semivuote
Domani si vota, ma a Roma in poche migliaia ad ascoltare Berlusconi, il Pd e M5S
Record negativo per il Cavaliere, al Colosseo fra pochi intimi
Delusi anche i democratici in piazza San Giovanni
Vince la sfida piazza del Popolo che si “scalda” all’arrivo di Grillo
di Antonello Caporale
Roma non ha fatto la stupida stasera. Non ha piovuto. Certo fa il freddo d’ottobre e già tutti i maglioni sono traslocati nell’armadio, “e con questa camicetta come fai?, non gliela facciamo più ad aspettare”. Marisa e Lina sono venute a San Giovanni ma si arrendono alla brezza gelata. È la prima fuga dalla prima delle quattro piazze che si rifiutano di riempirsi malgrado abbiano sistemato il castello gonfiabile con gli scivoli e topolini sorridenti e bambini al centro del prato, con gli stand a stringere l’inquadratura. “Macchè, siamo pochi stasera”. La mestizia con la quale Simone porta la sua bandiera non cancella l’amore meraviglioso che ancora lo costringe ad essere qua, nonostante il dolore. “E quando vi vedo in televisione, voi del Fatto, mi viene paura perchè ci date tante legnate. Non conto niente ma anch’io le sento addosso perchè il partito è la mia famiglia, papà si chiamava Palmiro. Dimmi un po’, ma cos’hanno veramente combinato quelli? ”. Simone è come quei genitori in pena che sono alla ricerca della verità sui figli, la rivelazione. Epifani non si vede, neanche Ignazio Marino. “C’avemo tanti professori universitari, tanti intellettuali”: la coppia di compagni maturi non si capacita, la scelta non sembra la migliore, malgrado quel che dice Goffredo Bettini, il dominus del partito romano: “È l’Argan della scienza. Non ha il sacro fuoco del candidato, questo è vero... ”. Da via Merulana sparute avanguardie della terza età, con la bandierina bianca e il Daje, il motto elettorale stampato su cartoncino che oggi è un’esclamazione fuori posto. “Sto andando a vedere chi c’è in piazza, ma certo la città è sfiancata, lo senti”. È Mimmo Calopresti, il regista, e si sta avviando col passo lento del militante recidivo che non ce la fa a fermarsi. Malinconico tango in questa piazza, “eppure Ignazio ha una sua caratteristica: agguanta i problemi e se carbura non lo fermi più. Ha difficoltà nel rompere il clima, forse perchè è genovese e lo vediamo estraneo alla città”.
FLAVIO, MEDICO OTORINO al Sant’Eugenio, sicuro del sol dell’avvenire. Si sta larghi sul prato. Ne siamo tremila? Quattromila? Anche di più? “Miei cojoni! ” esclama un uomo con la barba del sessantotto. Sarcasmo freddo, disorientamento della classe operaia: chi siamo, dove andiamo. Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria: “Il nostro problema è la base che non si fa sentire, che non protesta, dileguata in una depressione solitaria”. Ecco quel che rimane di un popolo, che pure è doppio rispetto a quel che si annuncia laggiù, appena conclusa la discesa della bellissima via dei Santissimi Quattro Coronati. Roma è a quattro piazze stasera e per raggiungere la seconda, quella di Berlusconi e di Alemanno, passo davanti a Pasqualino al Colosseo, il ristorante dove l’egregio onorevole Fiorito ordinava per sé e i numerosi amici spaghettini all’astice, calamari, tonno, frittura mista, gnocchetti, qualche volta la carne alla brace, l’ottimo abbacchio. Una ricevutona di poco inferiore ai ventimila euro: ha pagato Pantalone per tutti. Pasqualino è stato il punto ristoro del Pdl laziale, ora è deserto. Un signore solo al tavolino ascolta la radio: “Basta con le bande! ”, dicono nel talk elettorale. Il palco di Alemanno è ancora più mesto di quello di Marino. Impalato davanti l’Arco di Costantino, consente al migliaio di passanti un largo passeggio. Una coppia di sposi smamma, le foto sono impossibili oggi, bisogna salire verso Colle Oppio. Turisti americani interdetti, giungla di poliziotti sfaccendati, pochi fascisti ma comunque resistono anch’essi all’oblìo. Se vince Alemanno non sarà grazie a loro, ma ai mille imprenditori che per esempio hanno sborsato mille euro a testa alla cena di degustazione elettorale. Una sola cena è valsa, complice Silvio Berlusconi, un milione di euro. Gli assegni sono stati prontamente sganciati e l’attesa ripagata. Non qui, non stasera, ma due pomeriggi fa, al Tempio di Adriano, sede della Camera di Commercio. Lì Alemanno ha spiegato, con la voce di Andrea Augello, il suo spin doctor, la meraviglia che attende tutti: “Sono stati sbloccati 571 milioni di euro che andranno ai creditori del comune di Roma. Dal 21 maggio sono iniziati i pagamenti, e tutti gli uffici sono impegnati allo spasimo per dare risposte concrete, adempiere a un obbligo, risollevare il morale e il portafogli di tanti imprenditori che hanno lavorato per Roma e attendono il frutto di quel lavoro”.
“Questo è voto di scambio, un interminabile voto di scambio con il quale si condizione il voto”. È un imprenditore danaroso, capostipite di una famiglia che ha vissuto nell’era e nell’ombra della sinistra, a parlare. Alfio Marchini, il quarto dei gareggianti, si concede agli amici nel parco Schuster. Lo affianca Antonello Venditti, anch’egli traslocato dalle storiche posizioni, nel finale di partita che ha giocato al meglio. L’aria qui è più festosa, il clima è più ottimista. Sul taxi Parigi 48: “La metà di noi voterà Marchini. Alemanno ha deluso. E senza i tassisti Alemanno perde”. Voteranno Mar-chini anche la borghesia, anche i Caltagirone, anche Casini e Ma-rio Monti. Un po’ di centro, un po’ di sinistra, un po’ di destra. Un mix che conduce a cifre misteriose, più elevate del prevedibile. Marchini ha avuto buoni consiglieri per la comunicazione, e il suo “Roma ti amo” è divenuto un refrain che ha collegato il volto del ricco e bello a un impegno che è sembrato sincero. “La borghesia vota me perchè ha trovato un pazzo che si mette in gioco. Ma con me si mette in gioco tutto quel mondo”.
“Amici, sono a Radio Popolare e cerco di capire dov’è la sauna. Roma ti amo”, scrive il suo alter ego “Arfio”. Lui ci gioca. L’autoironia produce consensi. Ce la farà? “Se vado al ballottaggio scelgo come vice sindaco De Vito, il candidato dei cinquestelle”, ha infine dichiarato. Non è certo, anzi non è proprio così. Ma insomma è l'affermazione della potenza del voto irregolare. Nè Pd, né Pdl. Lo sciopero dei bus chiama tutti al metrò. Siamo a piazza del Popolo. Per metà è vuota, ma Beppe Grillo parlerà intorno alle nove di sera, e basta già questa metà a rendere questo popolo il più numeroso dei quattro in gara. Fosse questione di numeri, la classifica sarebbe presto detta: primo Grillo, secondo Marchini, poi Marino e infine Alemanno. Ma i voti si contano nell’urna. “Vuoi fare il rappresentante di lista? ”, mi chiede una militante “Ma è un giornalista! ” la rimprovera Luciano Emili, candidato al consiglio comunale. La ragazza retrocede: il giornalista è la figura più temuta e odiata dalla tribù grillina. Un po’ di preoccupazione c’è e si vede: “Paghiamo la rappresentazione che avete fatto di noi”. “Siamo inesperti, capite che per noi è difficile fare ogni cosa per bene? ”. Certo che sì, capiamo. “Ah, ma non aspetti Grillo? ”.
il Fatto 25.5.13
San Giovanni è troppo grande per il Pd
di Wanda Marra
“L’ultima volta che sono salito sul palco di San Giovanni? Nell’autunno 2010 alla manifestazione della Fiom, come segretario della Cgil”. Altri tempi, quando Guglielmo Epifani a manifestare con i metalmeccanici ci poteva andare. Da segretario Pd ha l’aria infreddolita, compressa. Nella piazza in cui Ignazio Marino chiude la sua campagna elettorale arriva alle 18. Foto col candidato sindaco. Dichiarazioni ai tg. Chiacchierata con i giornalisti. Sul palco non sale. Non si fa neanche un giro in piazza. Ai militanti - molto pochi - che accorrono non parla. È un flop. La manifestazione inizia alle 17 e 30. Gruppi musicali. In scaletta addirittura Dario Vergassola e Piovani. All’inizio, poche centinaia di persone, poi si arriva a qualche migliaio. “Grazie per averci fatto ritornare e ritrovare questa nostra piazza”. Alle 20 Marino inizia così il suo comizio. Parole dissonanti con quello che ha intorno. Il palco è in un angolo, taglia mignon. Le bandiere che spiccano sono quelle dei Verdi. “Non è politica è Roma”, recita uno dei suoi slogan. Difficile prendere le distanze più di così. Dietro al palco Epifani mette le mani avanti: “Il voto amministrativo è un voto locale. Ma naturalmente poi ha una valenza nazionale, soprattutto quello di Roma”. Un pronostico? “Noi siamo bravi ad amministrare le città, almeno questo giudizio non può cambiare in poco tempo. Andremo al ballottaggio un po’ ovunque. Poi ce la giochiamo”. Ricadute sul governo? “No, è iniziato da troppo poco. Al voto ci va solo l’8% degli italiani”. L’atmosfera è moscia che più non si può. “No, non sono pentito di aver scelto San Giovanni. Ha un valore simbolico. La gente va e viene”. Un’ammissione. E comunque, “poi conteremo i voti... ”. La scelta di non salire sul palco? Marino si presenta come una sorta di candidato civico, ha preferito così.
“FORSE sarebbe stato meglio non venire qui, magari se vincevamo al ballottaggio aveva un’altra valenza”, bisbigliano nell’organizzazione. “Ma poi come si fa a mettere solo musica? Nessun candidato che parla, ore di concerto”, commentano in piazza. Epifani osserva: “C’è molto distacco, molta indifferenza per queste elezioni”. Poi si riprende: “Però, i romani giudicheranno anche l’operato di Alemanno. E uno sciopero dei mezzi nel giorno della chiusura della campagna elettorale: che scelta da parte sua! ”. Se non si vede gente, non si vedono neanche i dirigenti Pd. Dietro al palco, il volto sponsor Alessandro Gassman regala foto. A salutare Epifani arriva Armando Cossutta, in carrozzella. La storia del Pci e delle sue divisioni (“l’Armando” con la svolta della Bolognina fondò Rifondazione, quando Bertinotti fece cadere Prodi il Pdci) che si materializza. Nell’assenza generale si presentano Sassoli e Vita, Fassina e Gentiloni. Spicca Gianni Cuperlo. Candidato in pectore al congresso. Con lui Walter Tocci commenta: “Venire qui? C’era voglia di rivincita”. La scelta di Bersani di chiudere all’Ambra Jovinelli la campagna per le politiche mentre Grillo gli soffiava San Giovanni era stata duramente criticata. Ma l’ultima manifestazione del Pd in questa piazza, nel novembre del 2011, al confronto appare oceanica.
CUPERLO si guarda intorno e ricorda un aneddoto, che, spiega, Massimo D’Alema amava raccontare: “Quando nel 1996 l’Ulivo vinse le elezioni, a un certo punto della sera lui scese da Botteghe Oscure. Gli andò incontro una vecchia militante, lo abbracciò dicendo ‘Abbiamo vinto! Faremo una bella opposizione’. E lui: ‘No, stavolta veramente ci tocca governare’”. Il presidente della Regione Zingaretti dal palco recita da copione: “Marino ce la farà a cambiare Roma”. Il candidato, lontanissimo dalla tradizione comunista, che arriva in Bmw e sorride continuamente, esorta la folla: “Entusiasmo, entusiasmo”. E da genovese mentre chiude urlando il romanissimo “Daje” quasi cade disteso sul palco.
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 232
La cruna dell’ago – 198
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 198
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 178
Cronaca di un affondamento annunciato - 178
In mezzo alla tempesta - 115
Il buio oltre la siepe - 22
il Fatto 25.5.13
Antiche solidarietà
Da Telecom a Unipol-Bnl, c’eravamo tanto aiutati
IN PRINCIPIO fu l’Hopa, la finanziaria bresciana che faceva capo a Emilio “Chicco” Gnutti e deteneva il controllo della lussemburghese Bell. La Bell controllava la Olivetti, e dal quartier generale di Ivrea Roberto Colaninno lancia, tra fine ‘98 e inizio ‘99 la scalata a Telecom Italia. Il presidente del Consiglio Massimo D’Alema benedice il coraggio della “razza padana” dell’amico Colaninno, che nel 2008 diventerà berlusconiano proprio mentre suo figlio Matteo viene nominato deputato dal Pd. Nella Hopa ci sono tutti. Tra gli azionisti figurano la Fininvest di Berlusconi insieme alla rossa Unipol di Gianni Consorte (nella foto), la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani e la banca Antonveneta, ovviamente il Monte dei Paschi ma anche l’immobiliarista Stefano Ricucci. Quando nel 2001 la Bell venderà il controllo di Telecom Italia alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera in un clima di concordia, il berlusconianissimo Gnutti, per problemi di salute, delega al fidato Consorte la chiusura della trattativa con Tronchetti. Nel 2005, la calda estate delle scalate bancarie li vede di nuovo tutti insieme. Fiorani dà l’assalto all’Antonveneta, prima di essere fermato dalla magistratura. Consorte vuole conquistare Unipol. Le intercettazioni telefoniche danno conto di un network fitto. Gnutti parla con Berlusconi della necessità di appoggiare la scalata di Ricucci al Corriere della Sera per non far finire il primo quotidiano italiano nelle mani “dei comunisti”, ma nello stesso tempo partecipa alla regia della scalata di Unipol su Bnl. Vito Bonsignore, esponente Udc oltre che ricco finanziere, va in visita da Massimo D’Alema per discutere la sua partecipazione all’operazione Unipol-Bnl. D’Alema racconta il colloquio in un’imbarazzante telefonata con Consorte che termina con il fatidico “noi non ci siamo parlati”. Pochi mesi prima è esploso lo scandalo Parmalat. Calisto Tanzi elenca ai magistrati, per poi smentire e minimizzare, i politici foraggiati per tanti anni. Fa i nomi di Romano Prodi, Massimo D’Alema, e poi Berlusconi, Fini, Casini, Alemanno, La Loggia, Castagnetti e tanti altri. Ciascuno smentisce e si indigna, ma a titolo personale. Nessuno si chiede perché il signor Parmalat parli di finanziamenti a 360 gradi e nessuno ne rilevi l’insensatezza. Tutti infatti lo troverebbero normale.
Romano Prodi
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Da Telecom a Unipol-Bnl, c’eravamo tanto aiutati
IN PRINCIPIO fu l’Hopa, la finanziaria bresciana che faceva capo a Emilio “Chicco” Gnutti e deteneva il controllo della lussemburghese Bell. La Bell controllava la Olivetti, e dal quartier generale di Ivrea Roberto Colaninno lancia, tra fine ‘98 e inizio ‘99 la scalata a Telecom Italia. Il presidente del Consiglio Massimo D’Alema benedice il coraggio della “razza padana” dell’amico Colaninno, che nel 2008 diventerà berlusconiano proprio mentre suo figlio Matteo viene nominato deputato dal Pd. Nella Hopa ci sono tutti. Tra gli azionisti figurano la Fininvest di Berlusconi insieme alla rossa Unipol di Gianni Consorte (nella foto), la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani e la banca Antonveneta, ovviamente il Monte dei Paschi ma anche l’immobiliarista Stefano Ricucci. Quando nel 2001 la Bell venderà il controllo di Telecom Italia alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera in un clima di concordia, il berlusconianissimo Gnutti, per problemi di salute, delega al fidato Consorte la chiusura della trattativa con Tronchetti. Nel 2005, la calda estate delle scalate bancarie li vede di nuovo tutti insieme. Fiorani dà l’assalto all’Antonveneta, prima di essere fermato dalla magistratura. Consorte vuole conquistare Unipol. Le intercettazioni telefoniche danno conto di un network fitto. Gnutti parla con Berlusconi della necessità di appoggiare la scalata di Ricucci al Corriere della Sera per non far finire il primo quotidiano italiano nelle mani “dei comunisti”, ma nello stesso tempo partecipa alla regia della scalata di Unipol su Bnl. Vito Bonsignore, esponente Udc oltre che ricco finanziere, va in visita da Massimo D’Alema per discutere la sua partecipazione all’operazione Unipol-Bnl. D’Alema racconta il colloquio in un’imbarazzante telefonata con Consorte che termina con il fatidico “noi non ci siamo parlati”. Pochi mesi prima è esploso lo scandalo Parmalat. Calisto Tanzi elenca ai magistrati, per poi smentire e minimizzare, i politici foraggiati per tanti anni. Fa i nomi di Romano Prodi, Massimo D’Alema, e poi Berlusconi, Fini, Casini, Alemanno, La Loggia, Castagnetti e tanti altri. Ciascuno smentisce e si indigna, ma a titolo personale. Nessuno si chiede perché il signor Parmalat parli di finanziamenti a 360 gradi e nessuno ne rilevi l’insensatezza. Tutti infatti lo troverebbero normale.
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
Romano Prodi
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Amministrative, otto in campo ad Avellino. Ma a decidere sono De Mita e Mancino
L’ex premier sostiene il dirigente dell'azienda regionale dei trasporti, Dino Preziosi, candidato dell’Udc. L'ex vice presidente del Csm punta sul cavallo del Pd, Paolo Foti. Inversione a U del sindaco Galasso, dopo otto anni alla guida della giunta di centrosinistra è il principale sponsor del candidato del Pdl
di Vincenzo Iurillo
| 25 maggio 2013
A dicembre sindaco del Pd alla guida da otto anni e mezzo di un’amministrazione di centrosinistra. A maggio il principale sponsor, con una sua lista civica, del candidato sindaco del Pdl. E’ la curiosa e rapida parabola di Giuseppe Galasso a caratterizzare il voto amministrativo ad Avellino, dove ancora si respira, e forte, l’aria della Prima Repubblica. Soffiata da due big della Dc degli anni ’80, Ciriaco De Mita e Nicola Mancino. Che qui non sono due grandi ex, tutt’altro: sono due temuti e rispettati capipartito, ancora capaci di fare e disfare alleanze e candidature. E di decidere da soli le sorti della politica locale. Solo che stavolta De Mita e Mancino sono divisi: l’ex premier sostiene il dirigente dell’Air, Azienda pubblica regionale dei trasporti, Dino Preziosi, candidato dell’Udc, mentre l’ex vice presidente del Csm punta sul cavallo del Pd, Paolo Foti, ex direttore dell’associazione costruttori, e venerdì sera ha partecipato al suo comizio di chiusura della campagna elettorale.
Con la rapida svolta a destra, Galasso è diventato il bersaglio degli strali degli ex compagni di avventura. Il leader di Sel Nichi Vendola, in città pochi giorni fa per sostenere il proprio candidato sindaco Giancarlo Giordano, ha definito le vicende locali “penose e cinematograficamente vivaci”. “Penso – ha detto – che la città abbia bisogno di mettersi davanti allo specchio e accorgersi che il male oscuro del ceto politico è il trasformismo. Avellino ha bisogno di verità, anche sulle persone, e ha bisogno di una netta discontinuità”. Il neo segretario del Pd, Guglielmo Epifani, che quando è venuto ad Avellino è platealmente scivolato sul palco per la gioia dei fotografi e dei fotoritoccatori dei social network, è andato giù ancora più duro: “Buia parentesi fatta di trasformismo e irresponsabilità, accade quando si mette il proprio interesse davanti a quello degli altri. Foti è l’esatto contrario di chi lo ha preceduto”. Galasso non ci sta e raggiunto dal cronista de ilfattoquotidiano.it replica punto su punto: “Io non sono l’artefice ma la vittima di un tradimento: negli ultimi 3 anni da sindaco ho amministrato subendo la più dura ostilità proprio all’interno del mio ex partito, che di fatto mi ha impedito di governare. Poi non capisco perché chi esce è trasformista e chi entra è ravveduto. Guardi le loro liste, piene di gente transitata da una parte all’altra. Potevo peraltro candidarmi in prima persona e non l’ho fatto: ho preferito fare una lista con persone della società civile, per dare un netto segnale di discontinuità, quella di cui parlano gli altri che però inseriscono tutti i protagonisti delle vecchie amministrazioni. E poi parlano di incoerenza”.
Povero Galasso, che a quest’ora sperava di essere un parlamentare del Pd e ora si ritrova a fare il loro punching ball. Si era dimesso da sindaco, a dicembre, con quel preciso scopo: candidarsi alle parlamentarie, vincerle, andare a Roma e tanti saluti al Comune dove, peraltro, stava per consumare il secondo e ultimo mandato. Le ha invece perse, surclassato persino da un giovanissimo volto nuovo, Valentina Paris, ben voluta da associazioni e movimenti. “Ma sono state votazioni farsa” attacca Galasso “e non è un caso che non abbiano voluto le primarie per il candidato sindaco, annullate perché non avrebbero potuto predeterminarme il risultato”. Galasso ha provato a reinventarsi un futuro con Mario Monti. Qualcosa è andato storto anche lì e così ha deciso di fondare una civica in sostegno al candidato sindaco Pdl, Nicola Battista. Un suo vecchio oppositore, visto che Battista è in consiglio comunale dagli anni ’90 ed è un berlusconiano della prima ora.
Battista però ha visto le sue chances di vittoria drasticamente ridursi con la rottura del patto di alleanza con l’Udc che ha segnato le amministrazioni campane dal 2009 in poi, quando De Mita si ‘vendicò’ di Veltroni – che non lo rivolle in Parlamento – trasferendo i suoi consensi dall’altra parte. Voti determinanti per la vittoria di Cosimo Sibilia in Provincia e di Stefano Caldoro in Regione. Voti ben ricompensati con la nomina del nipote Giuseppe De Mita a vice presidente della Campania. Ora De Mita jr. è approdato in Parlamento e le carte sono in via di rimescolamento. Un eventuale ballottaggio potrebbe chiarire molte cose.
Otto gli aspiranti sindaci in campo. Erano nove, ma il Tar ha eliminato l’uomo della Destra, Vincenzo Quintarelli. Alcune civiche lanciano il vice sindaco uscente Gianluca Festa. Altre civiche sostengono l’ex assessore ai Servizi Sociali Sergio Trezza. C’è poi il Movimento 5 Stelle con l’insegnante Tiziana Guidi, i grillini sono stati tra i pochissimi (insieme a Rifondazione Comunista) a metterci la faccia nelle proteste contro lo scandalo della mancata bonifica dell’Isochimica. Quando Beppe Grillo è venuto ad Avellino per la sua unica iniziativa pubblica in Campania, non l’ha riconosciuta. Ma forse era solo una gag.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05 ... -e/605876/
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 233
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La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 199
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Amministrative, otto in campo ad Avellino. Ma a decidere sono De Mita e Mancino
L’ex premier sostiene il dirigente dell'azienda regionale dei trasporti, Dino Preziosi, candidato dell’Udc. L'ex vice presidente del Csm punta sul cavallo del Pd, Paolo Foti. Inversione a U del sindaco Galasso, dopo otto anni alla guida della giunta di centrosinistra è il principale sponsor del candidato del Pdl
di Vincenzo Iurillo
| 25 maggio 2013
A dicembre sindaco del Pd alla guida da otto anni e mezzo di un’amministrazione di centrosinistra. A maggio il principale sponsor, con una sua lista civica, del candidato sindaco del Pdl. E’ la curiosa e rapida parabola di Giuseppe Galasso a caratterizzare il voto amministrativo ad Avellino, dove ancora si respira, e forte, l’aria della Prima Repubblica. Soffiata da due big della Dc degli anni ’80, Ciriaco De Mita e Nicola Mancino. Che qui non sono due grandi ex, tutt’altro: sono due temuti e rispettati capipartito, ancora capaci di fare e disfare alleanze e candidature. E di decidere da soli le sorti della politica locale. Solo che stavolta De Mita e Mancino sono divisi: l’ex premier sostiene il dirigente dell’Air, Azienda pubblica regionale dei trasporti, Dino Preziosi, candidato dell’Udc, mentre l’ex vice presidente del Csm punta sul cavallo del Pd, Paolo Foti, ex direttore dell’associazione costruttori, e venerdì sera ha partecipato al suo comizio di chiusura della campagna elettorale.
Con la rapida svolta a destra, Galasso è diventato il bersaglio degli strali degli ex compagni di avventura. Il leader di Sel Nichi Vendola, in città pochi giorni fa per sostenere il proprio candidato sindaco Giancarlo Giordano, ha definito le vicende locali “penose e cinematograficamente vivaci”. “Penso – ha detto – che la città abbia bisogno di mettersi davanti allo specchio e accorgersi che il male oscuro del ceto politico è il trasformismo. Avellino ha bisogno di verità, anche sulle persone, e ha bisogno di una netta discontinuità”. Il neo segretario del Pd, Guglielmo Epifani, che quando è venuto ad Avellino è platealmente scivolato sul palco per la gioia dei fotografi e dei fotoritoccatori dei social network, è andato giù ancora più duro: “Buia parentesi fatta di trasformismo e irresponsabilità, accade quando si mette il proprio interesse davanti a quello degli altri. Foti è l’esatto contrario di chi lo ha preceduto”. Galasso non ci sta e raggiunto dal cronista de ilfattoquotidiano.it replica punto su punto: “Io non sono l’artefice ma la vittima di un tradimento: negli ultimi 3 anni da sindaco ho amministrato subendo la più dura ostilità proprio all’interno del mio ex partito, che di fatto mi ha impedito di governare. Poi non capisco perché chi esce è trasformista e chi entra è ravveduto. Guardi le loro liste, piene di gente transitata da una parte all’altra. Potevo peraltro candidarmi in prima persona e non l’ho fatto: ho preferito fare una lista con persone della società civile, per dare un netto segnale di discontinuità, quella di cui parlano gli altri che però inseriscono tutti i protagonisti delle vecchie amministrazioni. E poi parlano di incoerenza”.
Povero Galasso, che a quest’ora sperava di essere un parlamentare del Pd e ora si ritrova a fare il loro punching ball. Si era dimesso da sindaco, a dicembre, con quel preciso scopo: candidarsi alle parlamentarie, vincerle, andare a Roma e tanti saluti al Comune dove, peraltro, stava per consumare il secondo e ultimo mandato. Le ha invece perse, surclassato persino da un giovanissimo volto nuovo, Valentina Paris, ben voluta da associazioni e movimenti. “Ma sono state votazioni farsa” attacca Galasso “e non è un caso che non abbiano voluto le primarie per il candidato sindaco, annullate perché non avrebbero potuto predeterminarme il risultato”. Galasso ha provato a reinventarsi un futuro con Mario Monti. Qualcosa è andato storto anche lì e così ha deciso di fondare una civica in sostegno al candidato sindaco Pdl, Nicola Battista. Un suo vecchio oppositore, visto che Battista è in consiglio comunale dagli anni ’90 ed è un berlusconiano della prima ora.
Battista però ha visto le sue chances di vittoria drasticamente ridursi con la rottura del patto di alleanza con l’Udc che ha segnato le amministrazioni campane dal 2009 in poi, quando De Mita si ‘vendicò’ di Veltroni – che non lo rivolle in Parlamento – trasferendo i suoi consensi dall’altra parte. Voti determinanti per la vittoria di Cosimo Sibilia in Provincia e di Stefano Caldoro in Regione. Voti ben ricompensati con la nomina del nipote Giuseppe De Mita a vice presidente della Campania. Ora De Mita jr. è approdato in Parlamento e le carte sono in via di rimescolamento. Un eventuale ballottaggio potrebbe chiarire molte cose.
Otto gli aspiranti sindaci in campo. Erano nove, ma il Tar ha eliminato l’uomo della Destra, Vincenzo Quintarelli. Alcune civiche lanciano il vice sindaco uscente Gianluca Festa. Altre civiche sostengono l’ex assessore ai Servizi Sociali Sergio Trezza. C’è poi il Movimento 5 Stelle con l’insegnante Tiziana Guidi, i grillini sono stati tra i pochissimi (insieme a Rifondazione Comunista) a metterci la faccia nelle proteste contro lo scandalo della mancata bonifica dell’Isochimica. Quando Beppe Grillo è venuto ad Avellino per la sua unica iniziativa pubblica in Campania, non l’ha riconosciuta. Ma forse era solo una gag.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05 ... -e/605876/
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 233
La cruna dell’ago – 199
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La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 179
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Il buio oltre la siepe - 23
Anche i partiti muoiono (rapidamente). Dal Pasok greco ai Liberal democratici inglesi
L'unione innaturale con partiti tra loro antagonisti e politiche di austerità: spesso dinamiche che tra loro si sommano e portano a una disfatta tanto veloce quanto inesorabile. E' il caso di laburisti irlandesi, liberaldemocratici del Regno Unito e tedeschi. Ma anche di Socrates in Portogallo e di Papandreou in Grecia
di Marco Quarantelli | 26 maggio 2013
Il primo dato delle amministrative dice che l’affluenza segna un ulteriore calo, come già era avvenuto alle politiche del 24 e 25 febbraio scorsi, quando un quarto netto degli elettori è rimasto a casa. Dopo le politiche di febbraio, i partiti non hanno dato grandi prove di efficienza davanti a un Paese messo in ginocchio dalla crisi. Sono stati i tre mesi più pazzi della Repubblica, con la lunga paralisi seguita al voto, l’incapacità di eleggere un nuovo presidente della Repubblica, gli affanni e le risse quotidiane delle “larghe intese” tra Pd e Pdl, il non facile debutto dei Cinque stelle nel grande gioco della politica parlamentare. Si intravede una tendenza all’autodistruzione, che forse non tiene conto di un fatto: anche i partiti muoiono. Spesso per loro stessa mano. Come dimostrano diverse recenti vicende che hanno segnato la politica di molti nostri vicini europei.
I motivi sono ovunque gli stessi: l’unione innaturale con partiti antagonisti e le politiche di austerità messe in atto. In alcuni casi le due dinamiche si sommano. E la disfatta arriva rapida e inesorabile. E’ il caso del Partito laburista irlandese. Socio di minoranza di un governo con Fine Gael (centrodestra), a causa delle manovre lacrime e sangue avallate in cambio dei 67,5 miliardi ricevuti da Unione europea e Fondo monetario internazionale, dal 19,6% conquistato nel 2011 è piombato al 4,6%, ha subito una diaspora di parlamentari e ora rischia di essere spazzato via alle elezioni del 2015: la voce della folla scesa in strada a Dublino il 13 aprile contro la nuova property tax a gridare “non ce la facciamo a pagare” all’indirizzo del leader del partito Eamon Gilmore era quella del suo popolo. Un’eco sinistra al caso del Pd che, dopo aver votato tutte le misure di spending review volute da Mario Monti, ora parla di crescita e sospende l’Imu, come se appena nominato premier Enrico Letta non fosse volato a Berlino a rendere omaggio ad Angela Merkel, che di quelle politiche è musa ispiratrice e vigile controllore.
In Germania i problemi sono del Freie demokratische partei, il partito liberaldemocratico alleato di governo della Cdu: se nel 2009 aveva conquistato il 14,6% dei voti (miglior risultato di sempre), oggi i sondaggi nazionali lo danno al 5%. E rischia non prendere neanche un seggio alle elezioni di settembre. Emblematica la serie di disfatte inanellate nelle elezioni locali che tra il maggio 2011 e il marzo 2012 lo portano a perdere tutti i seggi in 6 Lander e contro cui nulla può l’avvicendamento al vertice tra il ministro degli Esteri Guido Westerwelle e quello delle Finanze Philipp Rosler. I motivi del crollo? Sempre oscillante tra l’appiattirsi sulle posizioni della Cdu e il proporsi come alternativo, si è mostrato ondivago su temi come il salario minimo e la riforma del welfare e aveva anche promesso una riforma del fisco che non è mai arrivata.
Nel Regno Unito in crollo verticale sono i Liberal-democratici di Nick Clegg: dal 23% conquistato nel 2010, ora a livello nazionale galleggiano attorno all’8%, superati dallo United kingdom independent party al 19%, secondo un sondaggio pubblicato domenica dall’Indipendent. Un sorpasso certificato dalle urne: le amministrative del 2 maggio hanno relegato il partito al 4° posto con il 14%, scalzato proprio dall’Ukip che è volato al 23%. A corto di idee dopo anni di difficile coalizione coi conservatori, euroconvinti in un paese di euroscettici (Cameron ha annunciato un referendum sulla permanenza nell’Ue, l’Ukip ne predica l’uscita), i LibDem pagano il tenere in piedi il governo a furia di compromessi e il mancato rispetto di varie promesse, tra cui quella sul taglio delle tasse universitarie.
La storia recente dell’Ue è funestata da due suicidi politici di portata storica. Nel 2011 il premier del Portogallo Socrates, socialista, concorda con Bruxelles una manovra lacrime e sangue per risanare i conti pubblici, il 23 marzo il parlamento la boccia e Socrates è costretto alle dimissioni. Risultato, l’Ue interviene con 78 miliardi e l’economia va a picco: in 2 anni sono aumentati disoccupazione (dal 12.9% al 18.2%), deficit e debito pubblico, passato dal 106% al 123%; soltanto la crescita è calata, dal -1,6% al -2,3%. Ancor più tragiche le storie del Pasok e del popolo greco. Dopo aver negato per mesi la crisi e aver sancito il tracollo del Paese, il Movimento socialista panellenico è passato dal 43,9% del 2009 al 12,28% del 2012 e oggi governa ancora, in una coalizione formata con Nea dimokratia, di centrodestra.
In alcuni casi, rari e virtuosi, il suicidio di un partito può salvare un Paese. In Germania nel 2003 l’Spd di Gerhard Schroeder fece approvare l’Agenda 2010, una serie di riforme del mercato del lavoro e del welfare necessarie per uscire dalla stagnazione. L’Agenda impose duri sacrifici ai tedeschi che nel 2005 punirono l’Spd e aprirono la strada a due governi guidati dalla Cdu di Angela Merkel. Ma l’Agenda 2010, come certificato anche dalla Deutsche bank, salvò il Paese e pose le basi per il boom economico tedesco.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05 ... to/606537/
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 233
La cruna dell’ago – 199
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 199
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 179
Cronaca di un affondamento annunciato - 179
In mezzo alla tempesta - 116
Il buio oltre la siepe - 23
Anche i partiti muoiono (rapidamente). Dal Pasok greco ai Liberal democratici inglesi
L'unione innaturale con partiti tra loro antagonisti e politiche di austerità: spesso dinamiche che tra loro si sommano e portano a una disfatta tanto veloce quanto inesorabile. E' il caso di laburisti irlandesi, liberaldemocratici del Regno Unito e tedeschi. Ma anche di Socrates in Portogallo e di Papandreou in Grecia
di Marco Quarantelli | 26 maggio 2013
Il primo dato delle amministrative dice che l’affluenza segna un ulteriore calo, come già era avvenuto alle politiche del 24 e 25 febbraio scorsi, quando un quarto netto degli elettori è rimasto a casa. Dopo le politiche di febbraio, i partiti non hanno dato grandi prove di efficienza davanti a un Paese messo in ginocchio dalla crisi. Sono stati i tre mesi più pazzi della Repubblica, con la lunga paralisi seguita al voto, l’incapacità di eleggere un nuovo presidente della Repubblica, gli affanni e le risse quotidiane delle “larghe intese” tra Pd e Pdl, il non facile debutto dei Cinque stelle nel grande gioco della politica parlamentare. Si intravede una tendenza all’autodistruzione, che forse non tiene conto di un fatto: anche i partiti muoiono. Spesso per loro stessa mano. Come dimostrano diverse recenti vicende che hanno segnato la politica di molti nostri vicini europei.
I motivi sono ovunque gli stessi: l’unione innaturale con partiti antagonisti e le politiche di austerità messe in atto. In alcuni casi le due dinamiche si sommano. E la disfatta arriva rapida e inesorabile. E’ il caso del Partito laburista irlandese. Socio di minoranza di un governo con Fine Gael (centrodestra), a causa delle manovre lacrime e sangue avallate in cambio dei 67,5 miliardi ricevuti da Unione europea e Fondo monetario internazionale, dal 19,6% conquistato nel 2011 è piombato al 4,6%, ha subito una diaspora di parlamentari e ora rischia di essere spazzato via alle elezioni del 2015: la voce della folla scesa in strada a Dublino il 13 aprile contro la nuova property tax a gridare “non ce la facciamo a pagare” all’indirizzo del leader del partito Eamon Gilmore era quella del suo popolo. Un’eco sinistra al caso del Pd che, dopo aver votato tutte le misure di spending review volute da Mario Monti, ora parla di crescita e sospende l’Imu, come se appena nominato premier Enrico Letta non fosse volato a Berlino a rendere omaggio ad Angela Merkel, che di quelle politiche è musa ispiratrice e vigile controllore.
In Germania i problemi sono del Freie demokratische partei, il partito liberaldemocratico alleato di governo della Cdu: se nel 2009 aveva conquistato il 14,6% dei voti (miglior risultato di sempre), oggi i sondaggi nazionali lo danno al 5%. E rischia non prendere neanche un seggio alle elezioni di settembre. Emblematica la serie di disfatte inanellate nelle elezioni locali che tra il maggio 2011 e il marzo 2012 lo portano a perdere tutti i seggi in 6 Lander e contro cui nulla può l’avvicendamento al vertice tra il ministro degli Esteri Guido Westerwelle e quello delle Finanze Philipp Rosler. I motivi del crollo? Sempre oscillante tra l’appiattirsi sulle posizioni della Cdu e il proporsi come alternativo, si è mostrato ondivago su temi come il salario minimo e la riforma del welfare e aveva anche promesso una riforma del fisco che non è mai arrivata.
Nel Regno Unito in crollo verticale sono i Liberal-democratici di Nick Clegg: dal 23% conquistato nel 2010, ora a livello nazionale galleggiano attorno all’8%, superati dallo United kingdom independent party al 19%, secondo un sondaggio pubblicato domenica dall’Indipendent. Un sorpasso certificato dalle urne: le amministrative del 2 maggio hanno relegato il partito al 4° posto con il 14%, scalzato proprio dall’Ukip che è volato al 23%. A corto di idee dopo anni di difficile coalizione coi conservatori, euroconvinti in un paese di euroscettici (Cameron ha annunciato un referendum sulla permanenza nell’Ue, l’Ukip ne predica l’uscita), i LibDem pagano il tenere in piedi il governo a furia di compromessi e il mancato rispetto di varie promesse, tra cui quella sul taglio delle tasse universitarie.
La storia recente dell’Ue è funestata da due suicidi politici di portata storica. Nel 2011 il premier del Portogallo Socrates, socialista, concorda con Bruxelles una manovra lacrime e sangue per risanare i conti pubblici, il 23 marzo il parlamento la boccia e Socrates è costretto alle dimissioni. Risultato, l’Ue interviene con 78 miliardi e l’economia va a picco: in 2 anni sono aumentati disoccupazione (dal 12.9% al 18.2%), deficit e debito pubblico, passato dal 106% al 123%; soltanto la crescita è calata, dal -1,6% al -2,3%. Ancor più tragiche le storie del Pasok e del popolo greco. Dopo aver negato per mesi la crisi e aver sancito il tracollo del Paese, il Movimento socialista panellenico è passato dal 43,9% del 2009 al 12,28% del 2012 e oggi governa ancora, in una coalizione formata con Nea dimokratia, di centrodestra.
In alcuni casi, rari e virtuosi, il suicidio di un partito può salvare un Paese. In Germania nel 2003 l’Spd di Gerhard Schroeder fece approvare l’Agenda 2010, una serie di riforme del mercato del lavoro e del welfare necessarie per uscire dalla stagnazione. L’Agenda impose duri sacrifici ai tedeschi che nel 2005 punirono l’Spd e aprirono la strada a due governi guidati dalla Cdu di Angela Merkel. Ma l’Agenda 2010, come certificato anche dalla Deutsche bank, salvò il Paese e pose le basi per il boom economico tedesco.
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 234
La cruna dell’ago – 200
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 200
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 180
Cronaca di un affondamento annunciato - 180
In mezzo alla tempesta - 117
Il buio oltre la siepe - 24
DATI DEL VIMINALE ALLE 19
Affluenza in picchiata: - 8%
A poco più della metà delle rilevazioni (310 comuni su 563) pervenute al Viminale, la percentuale di affluenza alle urne alle ore 19 per le elezioni comunali si è assestata al 37,12%, in calo di 8 punti rispetto alle precedenti amministrative, quando a quell'ora aveva votato il 45,43%
http://www.corriere.it/politica/13_magg ... 93a2.shtml
Lombardia, crollo di votanti
***
Amministrative 2013: alle 19 affluenza in calo. A Roma meno 8 punti
Secondo i primi dati, 4,5% di votanti in meno rispetto alle ultime comunali. Nella Capitale si è recato alle urne il 9,32% degli aventi diritto, mentre alle precedenti omologhe era il 14,61%. Vince chi raccoglie il 50% più uno dei consensi. Altrimenti si andrà al ballottaggio domenica 9 giugno
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 26 maggio 2013
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05 ... ia/606310/
***
Comuni, crollo affluenza: -10% video
Picco a Roma: - 12% al voto speciale
Foto Candidati al voto / Patto Letta-Alfano
Si vota fino a domani alle 15. Sono 563 i comuni alle urne. In questa tornata anche il rinnovo del consiglio regionale della Valle d'Aosta. A Siena il test per verificare l'effetto sul centrosinistra dello scandalo MPS. Quasi un milione di elettori in Campania. Accordo per mettere in sicurezza il governo di F.BEI e S. BUZZANCA
http://www.repubblica.it/speciali/polit ... ref=HREA-1
***
Città al voto. A Roma Marino sfida Alemanno
L'affluenza città per città: alle 19 in calo del 6,2%
http://www.unita.it/italia/un-voto-per- ... 0-1.502390
TG7 ore 20,00
Roma in calo alle 19,00
- 14 %
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 234
La cruna dell’ago – 200
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 200
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 180
Cronaca di un affondamento annunciato - 180
In mezzo alla tempesta - 117
Il buio oltre la siepe - 24
DATI DEL VIMINALE ALLE 19
Affluenza in picchiata: - 8%
A poco più della metà delle rilevazioni (310 comuni su 563) pervenute al Viminale, la percentuale di affluenza alle urne alle ore 19 per le elezioni comunali si è assestata al 37,12%, in calo di 8 punti rispetto alle precedenti amministrative, quando a quell'ora aveva votato il 45,43%
http://www.corriere.it/politica/13_magg ... 93a2.shtml
Lombardia, crollo di votanti
***
Amministrative 2013: alle 19 affluenza in calo. A Roma meno 8 punti
Secondo i primi dati, 4,5% di votanti in meno rispetto alle ultime comunali. Nella Capitale si è recato alle urne il 9,32% degli aventi diritto, mentre alle precedenti omologhe era il 14,61%. Vince chi raccoglie il 50% più uno dei consensi. Altrimenti si andrà al ballottaggio domenica 9 giugno
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 26 maggio 2013
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05 ... ia/606310/
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Comuni, crollo affluenza: -10% video
Picco a Roma: - 12% al voto speciale
Foto Candidati al voto / Patto Letta-Alfano
Si vota fino a domani alle 15. Sono 563 i comuni alle urne. In questa tornata anche il rinnovo del consiglio regionale della Valle d'Aosta. A Siena il test per verificare l'effetto sul centrosinistra dello scandalo MPS. Quasi un milione di elettori in Campania. Accordo per mettere in sicurezza il governo di F.BEI e S. BUZZANCA
http://www.repubblica.it/speciali/polit ... ref=HREA-1
***
Città al voto. A Roma Marino sfida Alemanno
L'affluenza città per città: alle 19 in calo del 6,2%
http://www.unita.it/italia/un-voto-per- ... 0-1.502390
TG7 ore 20,00
Roma in calo alle 19,00
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 235
La cruna dell’ago – 201
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 201
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 181
Cronaca di un affondamento annunciato - 181
In mezzo alla tempesta - 118
I magliari - 1
Il termine “magliari” deriva dall’attività svolta da alcuni italiani negli anni ’50, emigrati in Germania in cerca di lavoro
I magliari
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
I magliari è un film del 1959 diretto da Francesco Rosi.
Trama
Mario Balducci (Renato Salvatori) è un giovane italiano che si trova ad Hannover, in Germania. Senza un lavoro e deluso di non essere riuscito a combinare nulla, Mario incontra casualmente Ferdinando Magliulo, detto Totonno (Alberto Sordi), un romano che fa il magliaro al servizio del mafioso napoletano Don Raffaele Tramontana (Carmine Ippolito). Totonno porta Mario a lavorare con sé e ad insegnargli il mestiere da magliaro. Il suo giovane allievo però non ci mette molto a capire che questo è un lavoro disonesto, ma accetta di entrare nel giro e di diventare, in un certo modo, ricco come il compare.
Il mattino dopo, il protagonista scopre che Totonno se n'è andato, come d'abitudine, e resterà via all'incirca sette giorni. In realtà, Totonno si trova sempre lì ed ha fatto affari con i coniugi Mayer, che vorrebbero controllare anche loro il mercato dei magliari. Totonno assume il ruolo di capo e porta con sè anche i suoi cinque amici napoletani (Aldo Giuffrè, Nino di Napoli, Pasquale Cennamo, Nino Vingelli, Aldo Bufi Landi), strappandoli quindi a Don Raffaele che minaccia vendetta.
Totonno e la sua combriccola di amici, a cui si unisce anche Mario, si trasferiscono ad Amburgo dove appena arrivati ricevono la sgradita sorpresa delle gomme bucate ad una delle loro auto. Convinti sia solo lo scherzetto di qualche bambino, i magliari lasciano correre e, scoperto che Paula Mayer (Belinda Lee) si è invaghita di Mario, convincono quest'ultimo a frequentare la donna.
Mario però si innamora realmente di Paula, nonostante lei sia una donna ricca e abbia un passato da prostituta alle spalle. Nei giorni successivi, i magliari continuano a trovare le gomme delle proprie auto tagliate e, mentre uno di essi si trova in auto, in mezzo alla strada compare un uomo in moto che gli spara addosso facendolo sbandare.
I magliari vengono così a sapere che prima di loro c'erano già i polacchi ad esercitare la professione e Totonno questo lo sapeva. Così, per non ricevere altre sgradevolezze da parte dei polacchi, il gruppo di magliari si appresta ad incontrarne il capo. Quando però lo avranno davanti, nessuno lo riconosce e ne approfittano per levargli la donna con cui balla. Solo Totonno si è però accorto di ciò e, senza dire nulla agli amici, se ne va.
Il mattino dopo, i magliari si apprestano ad andare al lavoro quando vengono accerchiati da un gruppo di polacchi. Grazie all'intervento della polizia, i magliari riescono a cavarsela e, quando ritorna Totonno, gli fanno capire che sarebbero disposti a ritornare dal vecchio capo.
Totonno, che vuole detenere il potere, tenta di convincere Mario a ricattare Paula e farsi dare dei soldi che servirano poi per comprare i polacchi, ma il giovane non ci sta e avverte Paula del ricatto. La donna, ovviamente, fa capire a Totonno che non otterrebbe nulla a ricattarla e lo avverte che il giorno successivo il di lei marito parlerà ai magliari.
Il giorno dopo, il signor Mayer annuncia di aver deciso di lavorare in società nientemeno che con don Raffele Tramontana, il quale perdonerà i magliari napoletani e caccerà Totonno dopo averlo sfidato a sparargli. Mario, invece, riceve la protezione di Paula, ma lui la rifiuta e decide di tornarsene in Italia per trovare almeno lì un lavoro onesto.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 235
La cruna dell’ago – 201
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 201
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 181
Cronaca di un affondamento annunciato - 181
In mezzo alla tempesta - 118
I magliari - 1
Il termine “magliari” deriva dall’attività svolta da alcuni italiani negli anni ’50, emigrati in Germania in cerca di lavoro
I magliari
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
I magliari è un film del 1959 diretto da Francesco Rosi.
Trama
Mario Balducci (Renato Salvatori) è un giovane italiano che si trova ad Hannover, in Germania. Senza un lavoro e deluso di non essere riuscito a combinare nulla, Mario incontra casualmente Ferdinando Magliulo, detto Totonno (Alberto Sordi), un romano che fa il magliaro al servizio del mafioso napoletano Don Raffaele Tramontana (Carmine Ippolito). Totonno porta Mario a lavorare con sé e ad insegnargli il mestiere da magliaro. Il suo giovane allievo però non ci mette molto a capire che questo è un lavoro disonesto, ma accetta di entrare nel giro e di diventare, in un certo modo, ricco come il compare.
Il mattino dopo, il protagonista scopre che Totonno se n'è andato, come d'abitudine, e resterà via all'incirca sette giorni. In realtà, Totonno si trova sempre lì ed ha fatto affari con i coniugi Mayer, che vorrebbero controllare anche loro il mercato dei magliari. Totonno assume il ruolo di capo e porta con sè anche i suoi cinque amici napoletani (Aldo Giuffrè, Nino di Napoli, Pasquale Cennamo, Nino Vingelli, Aldo Bufi Landi), strappandoli quindi a Don Raffaele che minaccia vendetta.
Totonno e la sua combriccola di amici, a cui si unisce anche Mario, si trasferiscono ad Amburgo dove appena arrivati ricevono la sgradita sorpresa delle gomme bucate ad una delle loro auto. Convinti sia solo lo scherzetto di qualche bambino, i magliari lasciano correre e, scoperto che Paula Mayer (Belinda Lee) si è invaghita di Mario, convincono quest'ultimo a frequentare la donna.
Mario però si innamora realmente di Paula, nonostante lei sia una donna ricca e abbia un passato da prostituta alle spalle. Nei giorni successivi, i magliari continuano a trovare le gomme delle proprie auto tagliate e, mentre uno di essi si trova in auto, in mezzo alla strada compare un uomo in moto che gli spara addosso facendolo sbandare.
I magliari vengono così a sapere che prima di loro c'erano già i polacchi ad esercitare la professione e Totonno questo lo sapeva. Così, per non ricevere altre sgradevolezze da parte dei polacchi, il gruppo di magliari si appresta ad incontrarne il capo. Quando però lo avranno davanti, nessuno lo riconosce e ne approfittano per levargli la donna con cui balla. Solo Totonno si è però accorto di ciò e, senza dire nulla agli amici, se ne va.
Il mattino dopo, i magliari si apprestano ad andare al lavoro quando vengono accerchiati da un gruppo di polacchi. Grazie all'intervento della polizia, i magliari riescono a cavarsela e, quando ritorna Totonno, gli fanno capire che sarebbero disposti a ritornare dal vecchio capo.
Totonno, che vuole detenere il potere, tenta di convincere Mario a ricattare Paula e farsi dare dei soldi che servirano poi per comprare i polacchi, ma il giovane non ci sta e avverte Paula del ricatto. La donna, ovviamente, fa capire a Totonno che non otterrebbe nulla a ricattarla e lo avverte che il giorno successivo il di lei marito parlerà ai magliari.
Il giorno dopo, il signor Mayer annuncia di aver deciso di lavorare in società nientemeno che con don Raffele Tramontana, il quale perdonerà i magliari napoletani e caccerà Totonno dopo averlo sfidato a sparargli. Mario, invece, riceve la protezione di Paula, ma lui la rifiuta e decide di tornarsene in Italia per trovare almeno lì un lavoro onesto.
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 236
La cruna dell’ago – 202
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 202
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 182
Cronaca di un affondamento annunciato - 182
In mezzo alla tempesta - 119
I magliari - 2
26 MAG 14:58
1. IN BARBA ALLA DISOCCUPAZIONE E ALLA CRISI ECONOMICA CHE STA STRANGOLANDO IL PAESE, I GRUPPI PARLAMENTARI DEL SENATO SI SONO ASSEGNATI 21 MILIONI E 344 MILA –
2. TALI CONTRIBUTI VENGONO GIUSTIFICATI DAL FATTO CHE BISOGNA PAGARE I DIPENDENTI DEI GRUPPI. IN REALTÀ, PAGATI I DIPENDENTI, L'AVANZO E' NOTEVOLE. OVVIAMENTE, ALLA CAMERA DEI DEPUTATI UNA DELIBERA ANALOGA HA DATO IL VIA ALLA GRANDE SPARTIZIONE, PER UNA CIFRA PIÙ CHE DOPPIA VISTO IL NUMERO DEI COMPONENTI –
3. NESSUNO (GRILLINI COMPRESI) HA RITENUTO DI RIDURRE AL MINIMO INDISPENSABILE L'ESBORSO A CARICO DEL BILANCIO DI CAMERA E SENATO, BILANCIO CHE È A CARICO DELLE CASSE PUBBLICHE DI QUESTO DISPERATO PAESE DOVE TUTTI PARLANO DI TAGLI AI COSTI DELLA POLITICA MA NESSUNO MUOVE UN DITO QUANDO CONCRETAMENTE SI DOVREBBE FARLO -
*
DAGOREPORT
La delibera e', manco a dirlo, la numero uno del 2013. È stata assunta dal Consiglio di presidenza del Senato lo scorso 3 aprile su proposta dei senatori questori e, in barba alla crisi economica, alla disoccupazione giovanile e a quant'altro sta strangolando il Paese, assegna per quest'anno ventuno milioni e 344 mila euro ai gruppi parlamentari del Senato.
Il meccanismo e' molto semplice: c'è' una dotazione minima di 300 mila euro per ogni gruppo parlamentare e una quota variabile di 59.200 euro per ciascun senatore che fa parte del gruppo. Il contributo, com'è giusto che sia, viene corrisposto in quattro rate trimestrali anticipate il primo giorno del trimestre cui si riferisce l'erogazione.
Di conseguenza il Pd, che ha 107 senatori, riceve sei milioni e 634 mila euro, al Pdl (che ne ha 91) viene accreditata sul proprio conto corrente del Senato la somma di cinque milioni e 687 mila euro, il Movimento 5 Stelle tre milioni e 437 mila euro in base a 51 senatori, Scelta ("Sciolta") Civica un milione e 543 mila e 200 euro per 21 senatori tra i quali c'è anche Casini Pierferdinando, la Lega Nord incamera un milione 247 mila e 200 euro per 16 senatori. E così via, sino al gruppo misto e agli altri due gruppi presenti in Senato. Totale, appunto, 21 milioni e 344 mila euro per quest'anno.
Tali contributi vengono giustificati dal fatto che bisogna pagare i dipendenti dei gruppi. In realtà, pagati i dipendenti, l'avanzo e' notevole e viene utilizzato discrezionalmente dai gruppi stessi. Ovviamente, alla Camera dei Deputati una delibera analoga ha dato il via alla grande spartizione, per una cifra più che doppia visto il numero dei componenti.
Nessuno, grillini compresi, ha protestato, nessuno (grillini compresi) ha ritenuto di intervenire per ridurre al minimo indispensabile l'esborso a carico del bilancio di Camera e Senato, bilancio che è a carico delle casse pubbliche di questo disperato paese dove tutti parlano di tagli ai costi della politica ma nessuno muove un dito quando concretamente si dovrebbe farlo.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 236
La cruna dell’ago – 202
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 202
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 182
Cronaca di un affondamento annunciato - 182
In mezzo alla tempesta - 119
I magliari - 2
26 MAG 14:58
1. IN BARBA ALLA DISOCCUPAZIONE E ALLA CRISI ECONOMICA CHE STA STRANGOLANDO IL PAESE, I GRUPPI PARLAMENTARI DEL SENATO SI SONO ASSEGNATI 21 MILIONI E 344 MILA –
2. TALI CONTRIBUTI VENGONO GIUSTIFICATI DAL FATTO CHE BISOGNA PAGARE I DIPENDENTI DEI GRUPPI. IN REALTÀ, PAGATI I DIPENDENTI, L'AVANZO E' NOTEVOLE. OVVIAMENTE, ALLA CAMERA DEI DEPUTATI UNA DELIBERA ANALOGA HA DATO IL VIA ALLA GRANDE SPARTIZIONE, PER UNA CIFRA PIÙ CHE DOPPIA VISTO IL NUMERO DEI COMPONENTI –
3. NESSUNO (GRILLINI COMPRESI) HA RITENUTO DI RIDURRE AL MINIMO INDISPENSABILE L'ESBORSO A CARICO DEL BILANCIO DI CAMERA E SENATO, BILANCIO CHE È A CARICO DELLE CASSE PUBBLICHE DI QUESTO DISPERATO PAESE DOVE TUTTI PARLANO DI TAGLI AI COSTI DELLA POLITICA MA NESSUNO MUOVE UN DITO QUANDO CONCRETAMENTE SI DOVREBBE FARLO -
*
DAGOREPORT
La delibera e', manco a dirlo, la numero uno del 2013. È stata assunta dal Consiglio di presidenza del Senato lo scorso 3 aprile su proposta dei senatori questori e, in barba alla crisi economica, alla disoccupazione giovanile e a quant'altro sta strangolando il Paese, assegna per quest'anno ventuno milioni e 344 mila euro ai gruppi parlamentari del Senato.
Il meccanismo e' molto semplice: c'è' una dotazione minima di 300 mila euro per ogni gruppo parlamentare e una quota variabile di 59.200 euro per ciascun senatore che fa parte del gruppo. Il contributo, com'è giusto che sia, viene corrisposto in quattro rate trimestrali anticipate il primo giorno del trimestre cui si riferisce l'erogazione.
Di conseguenza il Pd, che ha 107 senatori, riceve sei milioni e 634 mila euro, al Pdl (che ne ha 91) viene accreditata sul proprio conto corrente del Senato la somma di cinque milioni e 687 mila euro, il Movimento 5 Stelle tre milioni e 437 mila euro in base a 51 senatori, Scelta ("Sciolta") Civica un milione e 543 mila e 200 euro per 21 senatori tra i quali c'è anche Casini Pierferdinando, la Lega Nord incamera un milione 247 mila e 200 euro per 16 senatori. E così via, sino al gruppo misto e agli altri due gruppi presenti in Senato. Totale, appunto, 21 milioni e 344 mila euro per quest'anno.
Tali contributi vengono giustificati dal fatto che bisogna pagare i dipendenti dei gruppi. In realtà, pagati i dipendenti, l'avanzo e' notevole e viene utilizzato discrezionalmente dai gruppi stessi. Ovviamente, alla Camera dei Deputati una delibera analoga ha dato il via alla grande spartizione, per una cifra più che doppia visto il numero dei componenti.
Nessuno, grillini compresi, ha protestato, nessuno (grillini compresi) ha ritenuto di intervenire per ridurre al minimo indispensabile l'esborso a carico del bilancio di Camera e Senato, bilancio che è a carico delle casse pubbliche di questo disperato paese dove tutti parlano di tagli ai costi della politica ma nessuno muove un dito quando concretamente si dovrebbe farlo.
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
Romano Prodi
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La cruna dell’ago – 202
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 202
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 182
Cronaca di un affondamento annunciato - 182
In mezzo alla tempesta - 119
Il buio oltre la siepe - 25
Te lo dò io l'inciucio al ribasso!!!!
I sudditi struzzimerli Pasquali si stanno ribellando........
DATI DEL VIMINALE ALLE 22
Voto, crolla l'affluenza: - 13%
Roma in picchiata: -20%
http://www.corriere.it/politica/13_magg ... 93a2.shtml
****
Comunali, gli italiani disertano le urne
Storico calo dell'affluenza. A Roma - 20%
Seggi aperti fino alle 15 di lunedì per la scelta di 564 sindaci. Nella Capitale la grande sfida. Alle
22 ha votato il 44,66% dei cittadini. Elettori "freddi" dopo le politiche e gli affanni dell'inciucio
Sette milioni d'italiani tornano al seggio in 564 Comuni dopo i giorni più pazzi della Repubblica: la paralisi post elezioni politiche e il governo di larghe intese Pd-Pdl. Risultato: gli elettori disertano le urne, lanciando un preciso messaggio di sfiducia a tutti i partiti. Calo choc a Roma dove si è registrato un calo del 20%, meno 13% a livello nazionale
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05 ... ia/606310/
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 236
La cruna dell’ago – 202
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 202
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Il buio oltre la siepe - 25
Te lo dò io l'inciucio al ribasso!!!!
I sudditi struzzimerli Pasquali si stanno ribellando........
DATI DEL VIMINALE ALLE 22
Voto, crolla l'affluenza: - 13%
Roma in picchiata: -20%
http://www.corriere.it/politica/13_magg ... 93a2.shtml
****
Comunali, gli italiani disertano le urne
Storico calo dell'affluenza. A Roma - 20%
Seggi aperti fino alle 15 di lunedì per la scelta di 564 sindaci. Nella Capitale la grande sfida. Alle
22 ha votato il 44,66% dei cittadini. Elettori "freddi" dopo le politiche e gli affanni dell'inciucio
Sette milioni d'italiani tornano al seggio in 564 Comuni dopo i giorni più pazzi della Repubblica: la paralisi post elezioni politiche e il governo di larghe intese Pd-Pdl. Risultato: gli elettori disertano le urne, lanciando un preciso messaggio di sfiducia a tutti i partiti. Calo choc a Roma dove si è registrato un calo del 20%, meno 13% a livello nazionale
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05 ... ia/606310/
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 237
La cruna dell’ago – 203
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 203
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 183
Cronaca di un affondamento annunciato - 183
In mezzo alla tempesta - 120
I magliari - 3
26 MAG 20:56
STRETTO E RISTRETTEZZE: IL PONTE CHE NON C’È POTREBBE COSTARCI ALMENO UN MLD €
Mentre l’economia va a rotoli, nel Bel Paese si è compiuto un vero capolavoro di indecenza - Per l’inesistente ponte sullo Stretto, lo Stato potrebbe sborsare almeno un miliardo di euro fra i costi del progetto e quelli dei contenziosi internazionali con le aziende a cui erano stati affidati i lavori...
Sergio Rizzo per "Corriere.it"
PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA
Correva l'anno 1980: l'Italia era sconvolta dalle stragi di Ustica e di Bologna e New York dall'assassinio di John Lennon, mentre a Danzica nasceva Solidarnosc e Ronald Reagan entrava alla Casa Bianca. La Sir di Nino Rovelli, detto il Clark Gable della Brianza, finiva in liquidazione e la società Stretto di Messina non era neppure in fasce. Trentatré anni dopo anche la concessionaria del ponte subisce la medesima sorte. E la liquidazione della Sir va avanti.
Due casi certo non paragonabili. Ma con la durata delle liquidazioni in questo Paese l'unica cosa che non deve temere Vincenzo Fortunato è di doversi cercare un'altra occupazione da qui alla pensione. L'ex capo di gabinetto del ministero dell'Economia è stato nominato liquidatore della Stretto di Messina, società controllata dall'Anas e fino a ieri incaricata di realizzare il ponte sospeso fra Scilla e Cariddi, il 22 aprile: sei giorni prima che il governo di Mario Monti uscisse definitivamente di scena. Consapevole che passerà alla storia.
La vicenda del ponte sullo stretto è senza precedenti e, confidiamo, irripetibile. Da qualunque punto di vista la si osservi, tanto da quello dei favorevoli quanto da quello dei contrari, il risultato è lo stesso. Si tratta di una sconcertante dimostrazione di superficialità, incapacità decisionale e dilettantismo politico. Quello che è peggio, con i soldi dei cittadini.
Il conto di questa insensata avventura raggiungerà cifre inimmaginabili. Il ponte che non sarà mai fatto potrà costare ai contribuenti anche più di un miliardo di euro. Ai 383 milioni spesi per il progetto e il mantenimento della società Stretto di Messina si deve aggiungere il costo dell'inevitabile contenzioso, che potrebbe avere sviluppi sorprendenti. Il consorzio Eurolink, general contractor dell'opera guidato dalla italiana Impregilo, ha già invocato un risarcimento danni di 700 milioni più gli interessi.
E le implicazioni internazionali? Per un Paese nel quale gli investimenti esteri già arrivano con il contagocce, quanto accaduto non è una gran pubblicità. Di certo non la potranno fare i partner esteri del consorzio Eurolink, la spagnola Sacyr e la giapponese Ishikawajima-Harima Heavy Industries. Rimaste letteralmente di sasso, a veder evaporare per una pillola avvelenata messa in una legge dal governo italiano un contratto da alcuni miliardi di euro firmato con il governo italiano. Gli spagnoli hanno espresso il loro disappunto tramite l'ambasciata, non prima di aver presentato un bel ricorso all'Unione Europea.
È stata raccontata mille volte la lunga storia del ponte, insieme alle promesse, spesso fatue, di politici di ogni colore che l'hanno accompagnata. Ma con l'ultimo capitolo si è andati ben oltre. Eurolink firma il contratto nel 2006: premier è Silvio Berlusconi, ma siamo alla vigilia del ritorno al governo di Romano Prodi. Che blocca tutto. La Stretto di Messina vede la liquidazione ma il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro si oppone. Dice che si rischia un contenzioso infinito e spedisce alla concessionaria una lettera nella quale indica che il personale dovrà essere ridotto al lumicino. Sette persone in tutto.
Nel 2008 ecco ancora il Cavaliere e il successore di Di Pietro, Altero Matteoli, scrive alla società: «Ripartiamo di corsa». Ci sono i soldi e i tecnici si rimettono al lavoro. Il progetto definitivo è pronto a dicembre 2010, senza un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia. A quel punto, però, succede qualcosa. Le trattative con gli enti locali e i lavori preparatori procedono, è vero. Ma uno strano disinteresse intorno a quell'opera si percepisce anche nel governo del Cavaliere. I segnali sono inequivocabili: si arriva al punto che una trattativa con i cinesi viene lasciata inspiegabilmente cadere.
La mazzata arriva a ottobre 2011 con una mozione dei dipietristi che chiede di sopprimere i finanziamenti pubblici. Inspiegabilmente passa con 284 favorevoli e un solo contrario. Oltre allo scontato sì dei leghisti, c'è anche quello del governo per il tramite del sottosegretario Aurelio Misiti, poi sconfessato dal ministro Matteoli. Il quale evidentemente non sa che i suoi parlamentari si sono astenuti in massa, ma qualcuno ha anche votato a favore.
Per esempio, il coordinatore del Pdl Denis Verdini, i ministri Mariastella Gelmini e Michela Vittoria Brambilla, nonché uno stuolo di sottosegretari. Arriva il governo di Mario Monti e la faccenda si trascina stancamente, insieme a una nuova valutazione d'impatto ambientale richiesta dal ministero competente che durerà ben 18 mesi, contro i 4 previsti dalla legge obiettivo. Uscirà dai cassetti a marzo 2013, quando i giochi ormai sono fatti.
Perché nel frattempo, il 2 novembre 2012, ricorrenza dei morti, spunta un decreto che ridefinisce il percorso di approvazione dell'opera, stabilendo che entro il primo marzo 2013 il general contractor sottoscriva un altro cosiddetto «atto aggiuntivo» impegnandosi con quello a rinunciare agli adeguamenti economici legati all'inflazione fino alla delibera definitiva del Cipe e anche a eventuali risarcimenti nel caso in cui l'opera venga cassata.
Con lo Stato pronto a riconoscere, in caso di mancata firma, soltanto i costi progettuali maggiorati del 10 per cento. Il 12 novembre Eurolink contesta per iscritto la legittimità del decreto, comunicando di voler recedere dal contratto. E partono le carte bollate.
La vera domanda da porsi dopo tutto questo? Se, indipendentemente dal tempo e dai soldi necessari, il nostro Paese sia ancora in grado di realizzare opere pubbliche tanto impegnative. Quesito ben più importante di quello che per decenni ha diviso l'Italia. Cioè se quel ponte si debba fare oppure no.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 237
La cruna dell’ago – 203
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 203
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 183
Cronaca di un affondamento annunciato - 183
In mezzo alla tempesta - 120
I magliari - 3
26 MAG 20:56
STRETTO E RISTRETTEZZE: IL PONTE CHE NON C’È POTREBBE COSTARCI ALMENO UN MLD €
Mentre l’economia va a rotoli, nel Bel Paese si è compiuto un vero capolavoro di indecenza - Per l’inesistente ponte sullo Stretto, lo Stato potrebbe sborsare almeno un miliardo di euro fra i costi del progetto e quelli dei contenziosi internazionali con le aziende a cui erano stati affidati i lavori...
Sergio Rizzo per "Corriere.it"
PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA
Correva l'anno 1980: l'Italia era sconvolta dalle stragi di Ustica e di Bologna e New York dall'assassinio di John Lennon, mentre a Danzica nasceva Solidarnosc e Ronald Reagan entrava alla Casa Bianca. La Sir di Nino Rovelli, detto il Clark Gable della Brianza, finiva in liquidazione e la società Stretto di Messina non era neppure in fasce. Trentatré anni dopo anche la concessionaria del ponte subisce la medesima sorte. E la liquidazione della Sir va avanti.
Due casi certo non paragonabili. Ma con la durata delle liquidazioni in questo Paese l'unica cosa che non deve temere Vincenzo Fortunato è di doversi cercare un'altra occupazione da qui alla pensione. L'ex capo di gabinetto del ministero dell'Economia è stato nominato liquidatore della Stretto di Messina, società controllata dall'Anas e fino a ieri incaricata di realizzare il ponte sospeso fra Scilla e Cariddi, il 22 aprile: sei giorni prima che il governo di Mario Monti uscisse definitivamente di scena. Consapevole che passerà alla storia.
La vicenda del ponte sullo stretto è senza precedenti e, confidiamo, irripetibile. Da qualunque punto di vista la si osservi, tanto da quello dei favorevoli quanto da quello dei contrari, il risultato è lo stesso. Si tratta di una sconcertante dimostrazione di superficialità, incapacità decisionale e dilettantismo politico. Quello che è peggio, con i soldi dei cittadini.
Il conto di questa insensata avventura raggiungerà cifre inimmaginabili. Il ponte che non sarà mai fatto potrà costare ai contribuenti anche più di un miliardo di euro. Ai 383 milioni spesi per il progetto e il mantenimento della società Stretto di Messina si deve aggiungere il costo dell'inevitabile contenzioso, che potrebbe avere sviluppi sorprendenti. Il consorzio Eurolink, general contractor dell'opera guidato dalla italiana Impregilo, ha già invocato un risarcimento danni di 700 milioni più gli interessi.
E le implicazioni internazionali? Per un Paese nel quale gli investimenti esteri già arrivano con il contagocce, quanto accaduto non è una gran pubblicità. Di certo non la potranno fare i partner esteri del consorzio Eurolink, la spagnola Sacyr e la giapponese Ishikawajima-Harima Heavy Industries. Rimaste letteralmente di sasso, a veder evaporare per una pillola avvelenata messa in una legge dal governo italiano un contratto da alcuni miliardi di euro firmato con il governo italiano. Gli spagnoli hanno espresso il loro disappunto tramite l'ambasciata, non prima di aver presentato un bel ricorso all'Unione Europea.
È stata raccontata mille volte la lunga storia del ponte, insieme alle promesse, spesso fatue, di politici di ogni colore che l'hanno accompagnata. Ma con l'ultimo capitolo si è andati ben oltre. Eurolink firma il contratto nel 2006: premier è Silvio Berlusconi, ma siamo alla vigilia del ritorno al governo di Romano Prodi. Che blocca tutto. La Stretto di Messina vede la liquidazione ma il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro si oppone. Dice che si rischia un contenzioso infinito e spedisce alla concessionaria una lettera nella quale indica che il personale dovrà essere ridotto al lumicino. Sette persone in tutto.
Nel 2008 ecco ancora il Cavaliere e il successore di Di Pietro, Altero Matteoli, scrive alla società: «Ripartiamo di corsa». Ci sono i soldi e i tecnici si rimettono al lavoro. Il progetto definitivo è pronto a dicembre 2010, senza un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia. A quel punto, però, succede qualcosa. Le trattative con gli enti locali e i lavori preparatori procedono, è vero. Ma uno strano disinteresse intorno a quell'opera si percepisce anche nel governo del Cavaliere. I segnali sono inequivocabili: si arriva al punto che una trattativa con i cinesi viene lasciata inspiegabilmente cadere.
La mazzata arriva a ottobre 2011 con una mozione dei dipietristi che chiede di sopprimere i finanziamenti pubblici. Inspiegabilmente passa con 284 favorevoli e un solo contrario. Oltre allo scontato sì dei leghisti, c'è anche quello del governo per il tramite del sottosegretario Aurelio Misiti, poi sconfessato dal ministro Matteoli. Il quale evidentemente non sa che i suoi parlamentari si sono astenuti in massa, ma qualcuno ha anche votato a favore.
Per esempio, il coordinatore del Pdl Denis Verdini, i ministri Mariastella Gelmini e Michela Vittoria Brambilla, nonché uno stuolo di sottosegretari. Arriva il governo di Mario Monti e la faccenda si trascina stancamente, insieme a una nuova valutazione d'impatto ambientale richiesta dal ministero competente che durerà ben 18 mesi, contro i 4 previsti dalla legge obiettivo. Uscirà dai cassetti a marzo 2013, quando i giochi ormai sono fatti.
Perché nel frattempo, il 2 novembre 2012, ricorrenza dei morti, spunta un decreto che ridefinisce il percorso di approvazione dell'opera, stabilendo che entro il primo marzo 2013 il general contractor sottoscriva un altro cosiddetto «atto aggiuntivo» impegnandosi con quello a rinunciare agli adeguamenti economici legati all'inflazione fino alla delibera definitiva del Cipe e anche a eventuali risarcimenti nel caso in cui l'opera venga cassata.
Con lo Stato pronto a riconoscere, in caso di mancata firma, soltanto i costi progettuali maggiorati del 10 per cento. Il 12 novembre Eurolink contesta per iscritto la legittimità del decreto, comunicando di voler recedere dal contratto. E partono le carte bollate.
La vera domanda da porsi dopo tutto questo? Se, indipendentemente dal tempo e dai soldi necessari, il nostro Paese sia ancora in grado di realizzare opere pubbliche tanto impegnative. Quesito ben più importante di quello che per decenni ha diviso l'Italia. Cioè se quel ponte si debba fare oppure no.
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Re: Come se ne viene fuori ?
E' molto grande la distanza tra il mio progetto di un centrosinistra di governo capace di convincere gli italiani che vincere si può e l’attuale disastro.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 239
La cruna dell’ago – 204
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 204
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 184
Cronaca di un affondamento annunciato - 184
In mezzo alla tempesta - 121
Disegno criminale - 6
In questi mesi Squinzi, Draghi, Enrico Letta rivolto all’Europa, Bonanni, hanno accennato alla possibilità reale di una rivolta.
Il calo dell’affluenza ai seggi di ieri è un’indicatore preciso del malessere che attanaglia i sudditi italiani.
Perché però è giusto che l’Italia affondi, che vada ad una rivolta o a qualcos’altro di simile, al disastro totale o come si dice in gergo popolare che vada a puttane?
Perché l’Italia è con le spalle al muro per quanto riguarda l’economia.
Il principale responsabile di questa condizione è Silvio Berlusconi e il suo governo.
Il sedicente “””imprenditore””” non si è mai preoccupato dell’Italia che non cresceva già dal 2001 quando è tornato al potere.
Nel quinquennio 2001 – 2006 si è occupato in prevalenza di leggi ad personam, per evitare condanne dai vari processi in corso. La sconfitta del 2006 arriva per lui anche per questo motivo.
Con la solita corruzione all’inizio del 2008 fa cadere il secondo governo Prodi.
Con maggiori informazioni di cui disponiamo oggi, non si può non chiederci se non abbia attivato alcuni settori del Pd per favorire la caduta.
Ha ben poco senso che quelli del Pd dopo essersi recati a Bruxelles nel 2005, costringendo il Professore a dimettersi con sei mesi di anticipo, facendo la solita figura di emme all’italiana, perché non erano in grado di battere Er monnezza, non l’avessero poi sostenuto a tutti i costi nel 2008.
Su Er monnezza gravava la spada di Damocle del processo Mills, e doveva salvarsi a tutti i costi perché un’accusa di corruzione avrebbe pesato sul suo proseguimento politico.
Ottiene la salvezza grazie anche alla complicità di King George I.
Rieletto, non farà nulla per raddrizzare la malandata economia italiana, anche quando si affaccia una crisi mondiale senza precedenti.
Farà guardare a Tremonti nei conti bancari privati italiani. Caspiterina quanto sono ricchi!!!!!!
Che la paghino loro la crisi, noi dobbiamo continuare a spolpare lo Stato.
Il cacciaballe numero uno della galassia, racconterà per due volte ai giornalisti stranieri nel mese di novembre, anche una settimana prima di dare le dimissioni, che l’Italia è un Paese dove non si sente la crisi, dove, ristoranti, alberghi e luoghi di villeggiatura sono tutti pieni e per viaggiare in aereo occorre prenotare.
La così detta “opposizione” non fa una piega.
Anzi, in piena crisi, aprile del 2011, il senatore e tesoriere del Pd, dopo un accordo preventivo con il Pdl, presenta il ddl N° 3809 con la richiesta del raddoppio del finanziamento pubblico dei partiti.
Rispetto all’abrogazione ottenuta nel 1993 con referendum, i furbetten, hanno rifatto fessi i sudditi, incassando con il rimborso delle spese elettorali 4 volte quanto era stato abrogato.
Sposetti, per conto del Pd pretendeva che il rimborso arrivasse a 8 volte quanto avevano negato i sudditi tricolori.
Il Pd non fa una piega per quanto riguarda la crisi in corso, come non farà una piega durante la prima grande ammucchiata democristiana.
Solo pochi sudditi tricolori avranno potuto apprendere una cosa evidente da anni, leggendo l’articolo di Antonio Massari, Giorgio Meletti e Davide Vecchi su Il Fatto Quotidiano, tre giorni fa.
SUPER INCIUCIO DI SOLDI&FAVORI
Il fondamento dello strano menage Pd – Pdl e dei partiti che li precedono, negli ultimo 19 anni, è questo:
ALL’ORIGINE DELLE LARGHE INTESE SUL GOVERNO LETTA C’È LA PIÙ LARGA DELLE INTESE TRA PD E PDL FONDATA SU DUE REGOLE: “TUTTI SANNO TUTTO DI TUTTI” E “CANE NON MORDE CANE” INCROCI PERICOLOSI DALL’ILVA AL MONTE PASCHI, DAL CASO PENATI ALLE ESCORT IN PUGLIA.
Ma c’è di più, all’origine ci sta l’accordo denunciato dall’ex senatore Pd Luigi Sabatini, e rinfrescato da Violante alla maggioranza durante l’intervento alla Camera nel febbraio 2003.
In mezzo ci sta anche la puttanata del “Conflitto d’interessi”, che fa parte dell’accordo e il Patto della crostata di D’Alema in cui salva Rete 4.
E’ ovvio che da questo marciume di connivenze non se ne esce più.
I banditi del Pd non possono attaccare Berlusconi perché sono legati a doppio filo mani e piedi.
Se dovesse cadere lui per l’ineleggibiltà, verrebbe fuori tutto il marcio degli accordi che durano ininterrottamente da 19 anni.
E allora tutti i notabili Pd andrebbero a fondo con lui.
Ergo, diventa obbligatori che si difendano a vicenda.
Lo ha fatto ieri platealmente Epifani dall’Annunziata. Epifani non vuole essere coinvolto nella caduta del Paese e quindi preferisce sostenere a tutti i costi Er monnezza.
La difesa d’ufficio l’ha fatta ancora stamani Nitto Palma ad Agorà. Normale procedura. Non stupisce.
Ma anche quello che in molti in Italia credono che sia il nuovo che salverà il Paese, è marcio fino al collo.
Agorà ha mandato in onda un servizio dell’intervento di Renzie Berlusconi 2.0, ieri alla John Hopkins University di Bologna.
Anche il garante Renzie Berlusconi 2.0 ha ribadito che non ha senso dopo 19 anni tirare in ballo una vecchia legge del ’57.
Berlusconi deve essere battuto alle elezioni.
E qui si nota il banditismo di Renzie.
Del Paese non gliene frega assolutamente un caXXo. Lui vuole comandare e basta, e quindi gioca la partita pro domo sua.
Dato che qualche fesso gli ha fatto credere che lui può battere Er monnezza, punta sul fatto che se i sudditi vogliono batterlo legalmente si devono affidare obbligatoriamente a lui, l’unico in grado di batterlo.
Ergo l’ineleggibilità fa sponda al suo giochetto ambizioso.
Quello che non si rende conto è che Er monnezza non lo batterà mai.
Non ha assolutamente capito quale aria sta tirando in Italia e lui è certamente la persona meno adatta per governare un disastro.
Se crede di essere De Gasperi è solo un folle presuntuoso.
A questo punto, tra vecchi marci e corrotti e giovani vecchi furbi e avventurieri, ci si rende conto che questo Paese non ha via di scampo.
Dovrà per forza finire male.
Mussolini per farlo smettere hanno dovuto appenderlo a testa in giù a Piazzale Loreto, perché anche dopo l'arresto del 25 luglio del 1943, ha ripreso con la Repubblica di Salò.
Questo è un'altro dello stesso tipo, non si arrende molto facilmente, anche perché tiene in pugno tutti quanti con i ricatti.
I minuetti con lui non servono.
Con lui di nuovo al potere l'Italia andrà a finire molto male.
Con lui ancora presente che blocca tutto, non cambia niente, l'italia finirà male allo stesso modo.
Romano Prodi
Come inizia una guerra civile – 239
La cruna dell’ago – 204
La danza macabra dei nanetti continua senza sosta – 204
La lunga agonia della Repubblica italiana continua inarrestabile. Siamo all’ultimo atto? - 184
Cronaca di un affondamento annunciato - 184
In mezzo alla tempesta - 121
Disegno criminale - 6
In questi mesi Squinzi, Draghi, Enrico Letta rivolto all’Europa, Bonanni, hanno accennato alla possibilità reale di una rivolta.
Il calo dell’affluenza ai seggi di ieri è un’indicatore preciso del malessere che attanaglia i sudditi italiani.
Perché però è giusto che l’Italia affondi, che vada ad una rivolta o a qualcos’altro di simile, al disastro totale o come si dice in gergo popolare che vada a puttane?
Perché l’Italia è con le spalle al muro per quanto riguarda l’economia.
Il principale responsabile di questa condizione è Silvio Berlusconi e il suo governo.
Il sedicente “””imprenditore””” non si è mai preoccupato dell’Italia che non cresceva già dal 2001 quando è tornato al potere.
Nel quinquennio 2001 – 2006 si è occupato in prevalenza di leggi ad personam, per evitare condanne dai vari processi in corso. La sconfitta del 2006 arriva per lui anche per questo motivo.
Con la solita corruzione all’inizio del 2008 fa cadere il secondo governo Prodi.
Con maggiori informazioni di cui disponiamo oggi, non si può non chiederci se non abbia attivato alcuni settori del Pd per favorire la caduta.
Ha ben poco senso che quelli del Pd dopo essersi recati a Bruxelles nel 2005, costringendo il Professore a dimettersi con sei mesi di anticipo, facendo la solita figura di emme all’italiana, perché non erano in grado di battere Er monnezza, non l’avessero poi sostenuto a tutti i costi nel 2008.
Su Er monnezza gravava la spada di Damocle del processo Mills, e doveva salvarsi a tutti i costi perché un’accusa di corruzione avrebbe pesato sul suo proseguimento politico.
Ottiene la salvezza grazie anche alla complicità di King George I.
Rieletto, non farà nulla per raddrizzare la malandata economia italiana, anche quando si affaccia una crisi mondiale senza precedenti.
Farà guardare a Tremonti nei conti bancari privati italiani. Caspiterina quanto sono ricchi!!!!!!
Che la paghino loro la crisi, noi dobbiamo continuare a spolpare lo Stato.
Il cacciaballe numero uno della galassia, racconterà per due volte ai giornalisti stranieri nel mese di novembre, anche una settimana prima di dare le dimissioni, che l’Italia è un Paese dove non si sente la crisi, dove, ristoranti, alberghi e luoghi di villeggiatura sono tutti pieni e per viaggiare in aereo occorre prenotare.
La così detta “opposizione” non fa una piega.
Anzi, in piena crisi, aprile del 2011, il senatore e tesoriere del Pd, dopo un accordo preventivo con il Pdl, presenta il ddl N° 3809 con la richiesta del raddoppio del finanziamento pubblico dei partiti.
Rispetto all’abrogazione ottenuta nel 1993 con referendum, i furbetten, hanno rifatto fessi i sudditi, incassando con il rimborso delle spese elettorali 4 volte quanto era stato abrogato.
Sposetti, per conto del Pd pretendeva che il rimborso arrivasse a 8 volte quanto avevano negato i sudditi tricolori.
Il Pd non fa una piega per quanto riguarda la crisi in corso, come non farà una piega durante la prima grande ammucchiata democristiana.
Solo pochi sudditi tricolori avranno potuto apprendere una cosa evidente da anni, leggendo l’articolo di Antonio Massari, Giorgio Meletti e Davide Vecchi su Il Fatto Quotidiano, tre giorni fa.
SUPER INCIUCIO DI SOLDI&FAVORI
Il fondamento dello strano menage Pd – Pdl e dei partiti che li precedono, negli ultimo 19 anni, è questo:
ALL’ORIGINE DELLE LARGHE INTESE SUL GOVERNO LETTA C’È LA PIÙ LARGA DELLE INTESE TRA PD E PDL FONDATA SU DUE REGOLE: “TUTTI SANNO TUTTO DI TUTTI” E “CANE NON MORDE CANE” INCROCI PERICOLOSI DALL’ILVA AL MONTE PASCHI, DAL CASO PENATI ALLE ESCORT IN PUGLIA.
Ma c’è di più, all’origine ci sta l’accordo denunciato dall’ex senatore Pd Luigi Sabatini, e rinfrescato da Violante alla maggioranza durante l’intervento alla Camera nel febbraio 2003.
In mezzo ci sta anche la puttanata del “Conflitto d’interessi”, che fa parte dell’accordo e il Patto della crostata di D’Alema in cui salva Rete 4.
E’ ovvio che da questo marciume di connivenze non se ne esce più.
I banditi del Pd non possono attaccare Berlusconi perché sono legati a doppio filo mani e piedi.
Se dovesse cadere lui per l’ineleggibiltà, verrebbe fuori tutto il marcio degli accordi che durano ininterrottamente da 19 anni.
E allora tutti i notabili Pd andrebbero a fondo con lui.
Ergo, diventa obbligatori che si difendano a vicenda.
Lo ha fatto ieri platealmente Epifani dall’Annunziata. Epifani non vuole essere coinvolto nella caduta del Paese e quindi preferisce sostenere a tutti i costi Er monnezza.
La difesa d’ufficio l’ha fatta ancora stamani Nitto Palma ad Agorà. Normale procedura. Non stupisce.
Ma anche quello che in molti in Italia credono che sia il nuovo che salverà il Paese, è marcio fino al collo.
Agorà ha mandato in onda un servizio dell’intervento di Renzie Berlusconi 2.0, ieri alla John Hopkins University di Bologna.
Anche il garante Renzie Berlusconi 2.0 ha ribadito che non ha senso dopo 19 anni tirare in ballo una vecchia legge del ’57.
Berlusconi deve essere battuto alle elezioni.
E qui si nota il banditismo di Renzie.
Del Paese non gliene frega assolutamente un caXXo. Lui vuole comandare e basta, e quindi gioca la partita pro domo sua.
Dato che qualche fesso gli ha fatto credere che lui può battere Er monnezza, punta sul fatto che se i sudditi vogliono batterlo legalmente si devono affidare obbligatoriamente a lui, l’unico in grado di batterlo.
Ergo l’ineleggibilità fa sponda al suo giochetto ambizioso.
Quello che non si rende conto è che Er monnezza non lo batterà mai.
Non ha assolutamente capito quale aria sta tirando in Italia e lui è certamente la persona meno adatta per governare un disastro.
Se crede di essere De Gasperi è solo un folle presuntuoso.
A questo punto, tra vecchi marci e corrotti e giovani vecchi furbi e avventurieri, ci si rende conto che questo Paese non ha via di scampo.
Dovrà per forza finire male.
Mussolini per farlo smettere hanno dovuto appenderlo a testa in giù a Piazzale Loreto, perché anche dopo l'arresto del 25 luglio del 1943, ha ripreso con la Repubblica di Salò.
Questo è un'altro dello stesso tipo, non si arrende molto facilmente, anche perché tiene in pugno tutti quanti con i ricatti.
I minuetti con lui non servono.
Con lui di nuovo al potere l'Italia andrà a finire molto male.
Con lui ancora presente che blocca tutto, non cambia niente, l'italia finirà male allo stesso modo.
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