Re: Il nuovo governo Renzi
Inviato: 29/06/2014, 21:17
Chi capisce questo "Paese" è bravo. L'Unità ed Il Fatto accennano ad una prossima manovra, ma si dimenticano la promessa di Cicciobello in versione di venditore con tanto di slides.
Entro il mese di luglio pagheremo tutti gli arretrati della PA. (68 miliardi).
Quel pagamento è un obbligo per non incrementare fasllimenti e disoccupazione.
******
l’Unità 29.6.14
Resta il rischio manovra: nel 2015 servono 25 miliardi
L’esecutivo punta sulla crescita, ma il Paese non riparte: il sistema è ancora bloccato
Ci sarà uno «sconto» sui vincoli di bilancio italiani? Si potrà spendere di più - senza la necessità di manovre restrittive - per finanziare la crescita? Questa è la domanda che tutti oggi si fanno, ma a cui nessuno sa rispondere. Il fatto è che un accordo politico non si traduce automaticamente in miliardi o decimali di deficit o di debito. Senza contare il fatto che i protagonisti del summit di venerdì hanno tutti confermato (Renzi in primis) il rispetto degli attuali vincoli del Patto. Allora, cosa succederà ai conti italiani?
Qualcosa di più preciso si saprà al prossimo Ecofin, fissato per il 7 luglio. In quella sede si darà «sostanza tecnica » alla flessibilità evocata dal summit politico. L’Italia in quella sede confermerà il quadro disegnato nel Def e approvato dalla Commissione: pareggio nel 2016, con un leggero scostamento da «zero deficit» l’anno prossimo. Secondo alcuni osservatori è questa la flessibilità già concessa al nostro Paese. Non ce ne sarebbero altre. Secondo altri, invece, gli impegni assunti a Bruxelles venerdì scorso consegnano ai governi nazionali nuove leve da poter azionare in caso di crisi persistente.
La questione non è affatto di dettaglio, perché i numeri che ci si parano davanti per l’anno prossimo non sono affatto leggeri. Per rispettare il patto l’Italia deve correggere il deficit di mezzo punto (almeno, visto che quest’anno abbiamo ritardato il rientro). In soldoni vuol dire trovare circa 9 miliardi. Altri 10 servono per finanziare stabilmente il bonus di 80 euro, che peraltro l’esecutivo si è impegnato ad allargare anche a incapienti e pensionati. Se si aggiungono le spese incomprimibili e altre voci (come l’intervento aggiuntivo per via della crescita più fiacca di quanto stimato da Letta), si arriva a un pacchetto di 25 miliardi. Questo il dato che emerge analizzando il Def, anche se i numeri precisi si potranno fare solo in autunno, quando sarà valutata la crescita a consuntivo. Un punto su cui l’esecutivo concentra tutti i suoi sforzi. Le politiche messe in campo finora hanno avuto la crescita come stella polare. Il bonus di 80 euro per le famiglie, gli investimenti per l’edilizia scolastica e il territorio, l’aiuto al credito alle imprese, il taglio della bolletta elettrica delle aziende. È partita una miriade di interventi, ma la scossa non si vede ancora. Anzi, per Confindustria il Pil quest’anno si fermerà allo 0,2% e non allo 0,6 stimato dall’esecutivo in carica (che è già quasi la metà della stima precedente). La macchina non riparte: per questo Matteo Renzi punta i piedi sulle riforme. Il sistema Italia è inceppato: va rivisto da capo a piedi.
Il percorso è strettissimo, tanto più che contemporaneamente bisogna pensare a domare il debito, vero macigno che pesa sui cittadini per circa 80 miliardi l’anno (tanto costa pagare gli interessi sul debito). Inoltre il «rosso» accumulato sarà destinato ad aumentare per via del pagamento dei debiti della Pa, punto dolente nei rapporti tra Roma e Bruxelles. Sulla questione è stata aperta una procedura: entro l’anno si dovrà far fronte almeno ad altri 25 miliardi di pagamenti, attraverso l’intervento della cassa depositi e prestiti.
Il sentiero è a ostacoli. Tanto che i timori di una nuova stretta si susseguono. Ieri si è arrivati a ipotizzare che il passo avanti fatto a Bruxelles nasconderebbe un doppio passo indietro per l’Italia. Secondo La Repubblica l’Europa avrebbe confermato l’obbligo di rispettare gli obiettivi di medio periodo (ossia il pareggio nel 2015). In realtà il summit dei Capi di Stato e di governo di Bruxelles non è intervenuto su quel punto, già affrontato a inizio giugno. Vero è che all’ultimo Ecofin si invocò il rispetto degli obiettivi di medio termine, ma «solo per uniformità di linguaggio per tutti i Paesi» spiegò allora Pier Carlo Padoan. Tradotto: per l’Italia restano valide le raccomandazioni di inizio giugno, che non contestano il ritmo di avvicinamento al pareggio delineato nel Def. «Non si tratta di raggiungere o meno il pareggio - spiega il viceministro Enrico Morando - Si tratta solo di ritardare il ritmo di avvicinamento. Su questo punto non è stato aggiunto né tolto nulla al vertice dei capi di Stato e di governo. E la Commissione ha già dato il via libera al Def».
Sono molte, però, le condizioni necessarie perché l’Italia esca dalla trappola della crescita bassa e torni quindi a gestire il bilancio senza pesanti manovre. Bisogna costruire una nuova Pa, un nuovo fisco, una nuova giustizia. Il paese è ancora troppo fermo, in questo la svolta innescata da Renzi va nella giusta direzione. Sul fronte economico, poi, bisognerà avviare in modo stabile il processo di privatizzazioni, che dovrebbero rendere lo 0,7% di Pil (oltre 10 miliardi) all’anno. Non è facile in tempo di crisi. Infine c’è la Spending review. Da quella voce bisogna reperire 17 miliardi l’anno prossimo e 32 nel 2016: un’altra scommessa ad alto rischio.
il Fatto 29.6.14
Il rinculo della flessibilità: in autunno si rischia la manovra
di Stefano Feltri
Bruxelles. C’è soltanto una nomina per ora e neanche definitiva, quella di Jean Claude Juncker come presidente della Commissione: tra due settimane dovrà andare davanti al Parlamento europeo per chiedere una prima fiducia, poi ci tornerà una volta composta la squadra dei commissari. Una sola nomina, in questo complesso incastro tra nazioni, famiglie politiche, Paesi rigorosi e Paesi indebitati, ma si possono già vedere i primi vincitori e soprattutto i primi sconfitti.
RENZI&LETTA. Matteo Renzi è un vincitore a metà: il premier italiano, forte del 40,8 per cento alle urne, usa il suo peso elettorale per avanzare richieste. Al momento la sua scelta è quella di avere l'Alto rappresentante per la politica estera, considerato in quota socialista (il Pd in Europa è dentro il Partito socialista). Una casella di grande prestigio ma che vale zero in termini di interesse nazionale, il ministro degli Esteri dell'Unione è la persona da insultare quando l'Europa non riesce ad agire nelle crisi internazionali. Ma Renzi usa la casella in chiave politica: è quella più nobile ed è quella a cui ambisce da anni Massimo D'Alema. Renzi la prenota per Federica Mogherini, la fedelissima ministro degli Esteri. E così manda un messaggio interno e a Bruxelles: la vecchia guardia del partito – D'Alema e non solo – deve rassegnarsi all'oblio. E il fronte dei tecnocrati, la filiera europeista che da Giuliano Amato e Mario Monti arrivava fino a Enrico Letta non può più considerare le poltrone europee una spettanza automatica. Renzi in Europa si appoggerà alla Mogherini e a due renziani acquisiti come Gianni Pittella, che guiderà probabilmente il potente gruppo del Pse in Parlamento, e a Roberto Gualtieri che sarà capogruppo nella commissione che segue i dossier economici, due caselle poco appariscenti in Italia, ma che consentono grandi possibilità di azione. Secondo una fonte dell'Europarlamento, Angela Merkel avrebbe chiesto a Renzi se era disponibile a indicare Enrico Letta alla presidenza del Consiglio europeo , in caso di necessità. Il premier avrebbe risposto con un secco no. E comunque ha pubblicamente spiegato che l'Italia non chiede la guida del Consiglio perché c'è già un italiano, Mario Draghi, alla Bce. Letta è fuori, D'Alema anche, Renzi è più forte ma rinuncia a portafogli economici pesanti come Commercio e Mercato interno.
ANGELA MERKEL. La cancelliera tedesca è un portento: è riuscita a ribaltare una situazione difficile in una affermazione di forza. La Merkel era contraria al sistema degli Spitzenkandidaten, cioè il tentativo dei partiti europei di imporre ai capi di governo il presidente della Commissione abbinando le candidature al voto partitico. Non ha mai amato Jean Cluade Juncker, il candidato del Ppe, e ancor meno Martin Schulz, il suo avversario del Pse, socialista tedesco della Spd. Ma quando David Cameron ha messo il veto sul nome di Juncker, simbolo di un'Europa troppo federale e contraria agli interessi inglesi, la Merkel ha difeso il nome di Juncker, trasformandolo di fatto in un presidente di Commissione su mandato della Germania, ha sbloccato il risiko delle nomine appoggiando la riconferma di Schulz al Parlamento per i prossimi due anni e ha quasi ottenuto in anticipo la conferma di un portafoglio importante per Berlino nella nuova commissione. Il commissario sarà, di nuovo, Günther Oettinger, quasi certamente confermato all'Energia. Anche il prossimo commissario agli Affari economici, il successore di Olli Rehn, deve essere scelto tra i nomi graditi alla Merkel: probabile che sia un altro finlandese, l'ex premier Jirky Katainen, che si è dimesso dal governo con la promessa tedesca di ottenere una poltrona prestigiosa.
CAMERON&HOLLANDE. David Cameron è stato umiliato: il premier inglese ha messo il veto sul nome di Juncker per la Commissione, preoccupato che la sua nomina sia un pericoloso cedimento del Consiglio (cioè dei governi nazionali) a un'idea di Europa più federale e dove è il Parlamento a decidere. Per la prima volta il Consiglio ha votato a maggioranza invece che decidere all'unanimità: 26 con Juncker, due contro. A sostegno di Cameron è rimasto solo il leader reazionario e xenofobo dell'Ungheria, Viktor Orban. Ora Cameron, già umiliato dal successo degli indipendentisti Ukip di Nigel Farage, deve scegliere se incasare l'umiliazione o reagire spingendo Londra fuori dall'Unione col referendum previsto per il 2017. François Hollande è semplicemente non pervenuto: il debolissimo presidente francese cerca disperatamente un posto per l'ex ministro Pierre Moscovici, che ha fatto dimettere promettendogli un posto a Bruxelles, ma per ora non si ha traccia dell'attività diplomatica francese.
Entro il mese di luglio pagheremo tutti gli arretrati della PA. (68 miliardi).
Quel pagamento è un obbligo per non incrementare fasllimenti e disoccupazione.
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l’Unità 29.6.14
Resta il rischio manovra: nel 2015 servono 25 miliardi
L’esecutivo punta sulla crescita, ma il Paese non riparte: il sistema è ancora bloccato
Ci sarà uno «sconto» sui vincoli di bilancio italiani? Si potrà spendere di più - senza la necessità di manovre restrittive - per finanziare la crescita? Questa è la domanda che tutti oggi si fanno, ma a cui nessuno sa rispondere. Il fatto è che un accordo politico non si traduce automaticamente in miliardi o decimali di deficit o di debito. Senza contare il fatto che i protagonisti del summit di venerdì hanno tutti confermato (Renzi in primis) il rispetto degli attuali vincoli del Patto. Allora, cosa succederà ai conti italiani?
Qualcosa di più preciso si saprà al prossimo Ecofin, fissato per il 7 luglio. In quella sede si darà «sostanza tecnica » alla flessibilità evocata dal summit politico. L’Italia in quella sede confermerà il quadro disegnato nel Def e approvato dalla Commissione: pareggio nel 2016, con un leggero scostamento da «zero deficit» l’anno prossimo. Secondo alcuni osservatori è questa la flessibilità già concessa al nostro Paese. Non ce ne sarebbero altre. Secondo altri, invece, gli impegni assunti a Bruxelles venerdì scorso consegnano ai governi nazionali nuove leve da poter azionare in caso di crisi persistente.
La questione non è affatto di dettaglio, perché i numeri che ci si parano davanti per l’anno prossimo non sono affatto leggeri. Per rispettare il patto l’Italia deve correggere il deficit di mezzo punto (almeno, visto che quest’anno abbiamo ritardato il rientro). In soldoni vuol dire trovare circa 9 miliardi. Altri 10 servono per finanziare stabilmente il bonus di 80 euro, che peraltro l’esecutivo si è impegnato ad allargare anche a incapienti e pensionati. Se si aggiungono le spese incomprimibili e altre voci (come l’intervento aggiuntivo per via della crescita più fiacca di quanto stimato da Letta), si arriva a un pacchetto di 25 miliardi. Questo il dato che emerge analizzando il Def, anche se i numeri precisi si potranno fare solo in autunno, quando sarà valutata la crescita a consuntivo. Un punto su cui l’esecutivo concentra tutti i suoi sforzi. Le politiche messe in campo finora hanno avuto la crescita come stella polare. Il bonus di 80 euro per le famiglie, gli investimenti per l’edilizia scolastica e il territorio, l’aiuto al credito alle imprese, il taglio della bolletta elettrica delle aziende. È partita una miriade di interventi, ma la scossa non si vede ancora. Anzi, per Confindustria il Pil quest’anno si fermerà allo 0,2% e non allo 0,6 stimato dall’esecutivo in carica (che è già quasi la metà della stima precedente). La macchina non riparte: per questo Matteo Renzi punta i piedi sulle riforme. Il sistema Italia è inceppato: va rivisto da capo a piedi.
Il percorso è strettissimo, tanto più che contemporaneamente bisogna pensare a domare il debito, vero macigno che pesa sui cittadini per circa 80 miliardi l’anno (tanto costa pagare gli interessi sul debito). Inoltre il «rosso» accumulato sarà destinato ad aumentare per via del pagamento dei debiti della Pa, punto dolente nei rapporti tra Roma e Bruxelles. Sulla questione è stata aperta una procedura: entro l’anno si dovrà far fronte almeno ad altri 25 miliardi di pagamenti, attraverso l’intervento della cassa depositi e prestiti.
Il sentiero è a ostacoli. Tanto che i timori di una nuova stretta si susseguono. Ieri si è arrivati a ipotizzare che il passo avanti fatto a Bruxelles nasconderebbe un doppio passo indietro per l’Italia. Secondo La Repubblica l’Europa avrebbe confermato l’obbligo di rispettare gli obiettivi di medio periodo (ossia il pareggio nel 2015). In realtà il summit dei Capi di Stato e di governo di Bruxelles non è intervenuto su quel punto, già affrontato a inizio giugno. Vero è che all’ultimo Ecofin si invocò il rispetto degli obiettivi di medio termine, ma «solo per uniformità di linguaggio per tutti i Paesi» spiegò allora Pier Carlo Padoan. Tradotto: per l’Italia restano valide le raccomandazioni di inizio giugno, che non contestano il ritmo di avvicinamento al pareggio delineato nel Def. «Non si tratta di raggiungere o meno il pareggio - spiega il viceministro Enrico Morando - Si tratta solo di ritardare il ritmo di avvicinamento. Su questo punto non è stato aggiunto né tolto nulla al vertice dei capi di Stato e di governo. E la Commissione ha già dato il via libera al Def».
Sono molte, però, le condizioni necessarie perché l’Italia esca dalla trappola della crescita bassa e torni quindi a gestire il bilancio senza pesanti manovre. Bisogna costruire una nuova Pa, un nuovo fisco, una nuova giustizia. Il paese è ancora troppo fermo, in questo la svolta innescata da Renzi va nella giusta direzione. Sul fronte economico, poi, bisognerà avviare in modo stabile il processo di privatizzazioni, che dovrebbero rendere lo 0,7% di Pil (oltre 10 miliardi) all’anno. Non è facile in tempo di crisi. Infine c’è la Spending review. Da quella voce bisogna reperire 17 miliardi l’anno prossimo e 32 nel 2016: un’altra scommessa ad alto rischio.
il Fatto 29.6.14
Il rinculo della flessibilità: in autunno si rischia la manovra
di Stefano Feltri
Bruxelles. C’è soltanto una nomina per ora e neanche definitiva, quella di Jean Claude Juncker come presidente della Commissione: tra due settimane dovrà andare davanti al Parlamento europeo per chiedere una prima fiducia, poi ci tornerà una volta composta la squadra dei commissari. Una sola nomina, in questo complesso incastro tra nazioni, famiglie politiche, Paesi rigorosi e Paesi indebitati, ma si possono già vedere i primi vincitori e soprattutto i primi sconfitti.
RENZI&LETTA. Matteo Renzi è un vincitore a metà: il premier italiano, forte del 40,8 per cento alle urne, usa il suo peso elettorale per avanzare richieste. Al momento la sua scelta è quella di avere l'Alto rappresentante per la politica estera, considerato in quota socialista (il Pd in Europa è dentro il Partito socialista). Una casella di grande prestigio ma che vale zero in termini di interesse nazionale, il ministro degli Esteri dell'Unione è la persona da insultare quando l'Europa non riesce ad agire nelle crisi internazionali. Ma Renzi usa la casella in chiave politica: è quella più nobile ed è quella a cui ambisce da anni Massimo D'Alema. Renzi la prenota per Federica Mogherini, la fedelissima ministro degli Esteri. E così manda un messaggio interno e a Bruxelles: la vecchia guardia del partito – D'Alema e non solo – deve rassegnarsi all'oblio. E il fronte dei tecnocrati, la filiera europeista che da Giuliano Amato e Mario Monti arrivava fino a Enrico Letta non può più considerare le poltrone europee una spettanza automatica. Renzi in Europa si appoggerà alla Mogherini e a due renziani acquisiti come Gianni Pittella, che guiderà probabilmente il potente gruppo del Pse in Parlamento, e a Roberto Gualtieri che sarà capogruppo nella commissione che segue i dossier economici, due caselle poco appariscenti in Italia, ma che consentono grandi possibilità di azione. Secondo una fonte dell'Europarlamento, Angela Merkel avrebbe chiesto a Renzi se era disponibile a indicare Enrico Letta alla presidenza del Consiglio europeo , in caso di necessità. Il premier avrebbe risposto con un secco no. E comunque ha pubblicamente spiegato che l'Italia non chiede la guida del Consiglio perché c'è già un italiano, Mario Draghi, alla Bce. Letta è fuori, D'Alema anche, Renzi è più forte ma rinuncia a portafogli economici pesanti come Commercio e Mercato interno.
ANGELA MERKEL. La cancelliera tedesca è un portento: è riuscita a ribaltare una situazione difficile in una affermazione di forza. La Merkel era contraria al sistema degli Spitzenkandidaten, cioè il tentativo dei partiti europei di imporre ai capi di governo il presidente della Commissione abbinando le candidature al voto partitico. Non ha mai amato Jean Cluade Juncker, il candidato del Ppe, e ancor meno Martin Schulz, il suo avversario del Pse, socialista tedesco della Spd. Ma quando David Cameron ha messo il veto sul nome di Juncker, simbolo di un'Europa troppo federale e contraria agli interessi inglesi, la Merkel ha difeso il nome di Juncker, trasformandolo di fatto in un presidente di Commissione su mandato della Germania, ha sbloccato il risiko delle nomine appoggiando la riconferma di Schulz al Parlamento per i prossimi due anni e ha quasi ottenuto in anticipo la conferma di un portafoglio importante per Berlino nella nuova commissione. Il commissario sarà, di nuovo, Günther Oettinger, quasi certamente confermato all'Energia. Anche il prossimo commissario agli Affari economici, il successore di Olli Rehn, deve essere scelto tra i nomi graditi alla Merkel: probabile che sia un altro finlandese, l'ex premier Jirky Katainen, che si è dimesso dal governo con la promessa tedesca di ottenere una poltrona prestigiosa.
CAMERON&HOLLANDE. David Cameron è stato umiliato: il premier inglese ha messo il veto sul nome di Juncker per la Commissione, preoccupato che la sua nomina sia un pericoloso cedimento del Consiglio (cioè dei governi nazionali) a un'idea di Europa più federale e dove è il Parlamento a decidere. Per la prima volta il Consiglio ha votato a maggioranza invece che decidere all'unanimità: 26 con Juncker, due contro. A sostegno di Cameron è rimasto solo il leader reazionario e xenofobo dell'Ungheria, Viktor Orban. Ora Cameron, già umiliato dal successo degli indipendentisti Ukip di Nigel Farage, deve scegliere se incasare l'umiliazione o reagire spingendo Londra fuori dall'Unione col referendum previsto per il 2017. François Hollande è semplicemente non pervenuto: il debolissimo presidente francese cerca disperatamente un posto per l'ex ministro Pierre Moscovici, che ha fatto dimettere promettendogli un posto a Bruxelles, ma per ora non si ha traccia dell'attività diplomatica francese.