Se il premier si arrende ai veti di Berlusconi
Di fronte al moltiplicarsi dei segnali che annunciano il cedimento del governo Monti al ricatto berlusconiano su giustizia,
tv e informazione,
come conferma per la sua parte anche l’intervista del ministro Passera sul Sole 24 ore di ieri,
la prima impressione è che non ci sia voluto poi molto.
Considerando la fermezza dimostrata dall’esecutivo con lavoratori e pensionati,
si stenta a credere che al Pdl sia bastato così poco:
un vertice a Palazzo Chigi annullato,
una lettera di protesta un po’ minacciosa per la battuta fuori luogo di un ministro,
qualche facile affondo sulla tecnica imperizia dimostrata dal governo nelle gravi vicende indiane e nigeriane.
Appena due o tre giorni di tensione in tutto.
Ai tassisti, per dire, ne sono occorsi molti di più.
La seconda impressione suscitata da questa vicenda è che il governo Monti stia incorrendo in un drammatico errore di sottovalutazione dei problemi politici.
Una tendenza che appare piuttosto spiccata in gran parte della compagine ministeriale,
e che temiamo sia alla radice di molti dei più gravi infortuni di questi mesi.
Sembra quasi che a Palazzo Chigi non appaia chiaro il significato del messaggio che lo stesso governo si appresta a inviare a tutti gli italiani, ritirandosi ufficialmente dal campo delle riforme della Rai e della giustizia.
Ma quel messaggio apparirà chiarissimo al Paese:
il governo Monti riconosce che in materia di giustizia, tv e informazione, ancora oggi, l’ultima parola spetta a Silvio Berlusconi.
Riconosce cioè che gli interessi personali del padrone di Mediaset,
che li ha sempre anteposti non solo all’interesse nazionale, ma persino all’interesse di partito e di coalizione, non sono meno vincolanti per il governo dei tecnici.
In altre parole, che non è cambiato niente.
O che è cambiato poco.
E di sicuro, comunque, non abbastanza.
Più in generale, da tutte le diverse vicende che negli ultimi giorni hanno reso più difficile la navigazione del governo sembra venire una lezione sulle competenze della politica, nel duplice significato di ciò che alla politica compete e di ciò di cui il fare politica consiste.
In questi anni una cattiva propaganda ha accreditato invece l’idea di un’inconsistenza dei problemi politici in quanto tali, puntando a corrodere il vincolo della rappresentanza agli occhi dei cittadini, per affermare la necessità di una soluzione oligarchica alla crisi italiana.
È la stessa cattiva propaganda che vent’anni fa ha spianato la strada alla discesa in campo del Cavaliere.
Ma prima o poi la realtà s’incarica sempre di smentire queste rappresentazioni di comodo, e così oggi presenta al Paese il conto drammatico dei suoi problemi irrisolti.
Il primato degli interessi personali di Berlusconi su ogni altra esigenza non è l’ultimo di tali problemi, ed è anzi il vero “vincolo esterno” che ci ha tenuti bloccati nell’infuriare della crisi, mentre tutto precipitava intorno a noi. Peccato che ora gli stessi commentatori che hanno passato gli ultimi quindici anni ad accusare il centrosinistra di non aver fatto la legge sul conflitto di interessi, come fosse cosa facilissima, contestano persino la semplice richiesta del Pd che non sia ancora il conflitto d’interessi a dettare le leggi in materia di giustizia e informazione.
Nel pieno della trattativa sul mercato del lavoro, non c’è bisogno di una spiccata sensibilità politica per prevedere il corto circuito che il governo Monti rischia di innescare.
Solo degli agitatori accecati dai propri pregiudizi potrebbero consigliare al presidente del Consiglio di varare una riforma che renda più facile il licenziamento dei lavoratori, contro i sindacati e contro tutti i partiti del centrosinistra, e contemporaneamente spiegare che bisogna andarci piano con le norme anticorruzione, o sull’asta delle frequenze, o sul controllo della Rai, per non fare arrabbiare il miliardario di Arcore.
Chiunque abbia a cuore le sorti del governo Monti dovrebbe metterlo in guardia da un simile pericolo, per il suo bene e per il nostro.
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