Re: Il "nuovo" governo Renzi
Inviato: 08/09/2014, 23:05
il Fatto 8.9.14
Renzi si blinda: no ai “tecnici” e ai veti del Pd
di Wanda Marra
Bologna “Sia chiaro che se qualcuno vuole la rivincita deve aspettare il novembre 2017, ma se vuole lavorare lo può fare da domani”. È un crescendo il comizio di chiusura della Festa dell’Unità di Bologna di Matteo Renzi, i toni diventano più duri via via che il discorso s’infiamma. E alla fine, ecco l’avvertimento: il Pd sono io, il sottotitolo. E non c’è spazio per dissenso o battaglie intestine. Tutti avvertiti. Gli stessi leader ringraziati all’inizio, gli ex segretari, Franceschini, Veltroni, Epifani. E Bersani, lui “sa perché”: “Ci ha fatto prendere un bel coccolone l’anno scorso”.
È ABILE RENZI a creare un clima di apparente inclusione, a usare parole “dolci” per gli avversari, che in questi giorni l’hanno ripetutamente attaccato. Anche per Cuperlo e Civati. Ma intanto, sul palco c’è lui da solo. I dirigenti dem, renziani o no, sono tutti ad ascoltarlo da sotto. Gli stessi Bersani, Cuperlo ed Epifani, il presidente del partito Orfini, i ministri (la Mogherini, la Madia, la Boschi, anche Poletti), i vicesegretari Guerini e Serracchiani. Non c’è D’Alema, ma c’è anche Vasco Errani, che “ha messo la sua dignità come elemento non in discussione facendo un passo indietro che non era tenuto a fare. Gli rinnovo la mia stima incommensurabile”, scandisce Renzi. L’interessato si commuove, la platea gli dedica un tributo entusiasta. Sotto al palco ci sono anche Stefano Bonaccini e Matteo Richetti, gli sfidanti alle primarie per la presidenza della Regione, che si faranno il 28 settembre. “Stefano, Matteo e Roberto (Balzani, sindaco di Forlì, ndr) hanno combinato un bel casino”, dice lui. Nessuna soluzione dall’alto, nonostante le ripetute indiscrezioni in questo senso, sono la prima competizione veramente aperta dell’era renziana.
Sa come scaldare la platea dell’Emilia Romagna, la regione più rossa di tutte, Renzi. D’altra parte la giornata di ieri è tutto un lavoro sui simboli, è tutto un inglobare riti e tradizioni.
ARRIVA PRESTO alla Festa il segretario, alle 11,30 di mattina. Marca il territorio. Annuncia che la segreteria la farà venerdì. Sono in corso trattative. Come dirà dal palco, la pensa “unitaria”. A patto che non ci siano né veti, né rivincite. Poi un po’ scherzando: “Siglerò il patto del tortellino con i leader europei”. Lo scippo alla tradizione emilian-bersaniana è compiuto: era l’ex segretario, l’uomo del tortellino magico. Passerella per la Festa. Curiosità ed entusiasmo. “Mi ha stretto la mano, non me la lavo più”. A un certo punto una ragazza attraversa la folla: “I nostri figli adottati in Congo, quando arrivano? ”. Lui si ferma. Ascolta. Chiama Sandro Gozi e Lia Quartapelle e gli affida la pratica. Piglio da statista e costruzione del consenso. Prima tappa dai Giovani Democratici. Poi, pranzo al ristorante “da Bertoldo”. Con lui, oltre ad alcuni dirigenti del Pd, i leader europei. Achim Post (segretario del Partito socialdemocratico tedesco), Diederik Samsom (capo del Partito laburista olandese), Pedro Sanchez (nuova stella del Partito socialista spagnolo) e Manuel Valls, premier francese. Pranzo tradizionale: cappellini in brodo e grigliata di carne. Foto con i militanti. Brindisi. Poi, il primo palco, quello in cui tutti, da Valls a Sanchez, assicurano la loro condivisione della battaglia contro il rigore. Matteo introduce, ringrazia. Da padrone di casa presenta Valls come il nipote dell’autore dell’inno del Barcellona. Pare una via di mezzo tra il capo scout e l’aspirante leader di futuribili Stati Uniti d’Europa.
IL COMIZIO INIZIA verso le cinque e mezza. È il primo da segretario. Non ci sono folle oceaniche, non ci sono la curiosità e l’elettrizzazione dell’anno scorso a Genova o di due anni fa a Reggio Emilia. Folla composta, più che altro speranzosa. L’area è piena, ma c’è chi si aspettava di più. Lui inizia con i ringraziamenti ai volontari, che sono 10mila “più degli anni precedenti”. Discorso a braccio come da copione, sull’importanza delle riforme costituzionali, la scuola e il valore del merito. Attacco ai Cinque Stelle per l’invito a trattare con l’Isis, difesa a spada tratta di “quel grande italiano” che è Giorgio Napolitano. Che però mentre lui parla è al cinema a Roma a vedere Arance e martello di Diego Bianchi. Nessun tema scomodo: né la legge di stabilità, né i provvedimenti sul lavoro. E neanche la questione dell’Unità come nota, deluso, il Cdr del giornale. Alla fine, di nuovo giro delle cucine: è il segretario del Pd adesso e adesso questa è la sua gente. “Non mollo di mezzo centimetro”, ha ribadito, come al solito. E il “popolo” gli serve.
La Stampa 8.9.14
“Merito e talento sono di sinistra”
Così il premier aggiorna i valori
Cade un altro tabù erede della tradizione cattolica e comunista che mette al centro l’uguaglianza
di Federico Geremicca
Citato a ripetizione da Manuel Valls e Pedro Sanchez, definito addirittura «la speranza» dell’Europa e della sinistra europea, Matteo Renzi - magari con sua stessa sorpresa - è ormai assurto a modello per la disastrata e litigiosa «grande famiglia» del socialismo europeo. Effetto, certo, del 40 e passa per cento raccolto alle elezioni del 25 maggio scorso, mentre le altre forze socialiste venivano surclassate da conservatori ed antieuropeisti: ma effetto anche dell’arrembante opera di demolizione e ricostruzione degli obiettivi, dei valori e perfino degli strumenti di una moderna forza di sinistra. Opera alla quale, dal palco della Festa di Bologna, ieri Renzi ha aggiunto un altro tassello.
I più giovani - e magari anche i meno giovani, dopo anni di sconfitte - avranno forse giudicato ovvia l’affermazione con la quale il segretario-presidente, parlando della riforma della scuola, ha sepolto un altro totem, un altro sacro feticcio del socialismo del secolo passato. «Il merito è di sinistra, la qualità è di sinistra, il talento è di sinistra - ha detto -. Io voglio stare dalla parte dell’eguaglianza, non dell’egualitarismo».
Per un partito, il Pd, che ha fuso e cerca di far convivere la cultura cattolica e quella di origine e tradizione comunista, l’affermazione rappresenta invece un piccolo terremoto all’interno di una gerarchia di valori che in testa a tutto - e prima di ogni altra cosa - metteva sempre la solidarietà e l’uguaglianza. Per molti versi, lo «strappo» ricorda quello operato qualche anno fa dai sindaci di sinistra di grandi città (Cofferati a Bologna e Veltroni a Roma, in testa a tutti) che di fronte al dilagare di violenze nei quartieri - spesso a opera di immigrati - affermarono che «la sicurezza (fino a quel punto storico cavallo di battaglia della destra, ndr) non è né di destra né di sinistra».
Tabù dietro tabù, insomma, Matteo Renzi sta cambiando (o cercando di cambiare) il bagaglio politico-culturale di una sinistra accusata da tempo e da più parti di esser rimasta prigioniera di un polveroso armamentario ideale e di valori che affonda le sue radici nel ’900. In realtà, il più giovane premier della storia repubblicana non dice, oggi, cose così diverse da quelle che aveva cominciato a predicare fin dal tempo delle prime primarie contro Bersani per la scelta del candidato premier: parole d’ordine e spinta innovativa evidentemente vincenti, se hanno reso possibili - e probabilmente addirittura determinato - prima la vittoria nella corsa alla segreteria e poi lo stupefacente 41% alle elezioni europee.
Molti ricorderanno, per esempio, la sorta di «processo popolare» cui Matteo Renzi fu sottoposto al tempo della sfida con Bersani con l’accusa di «parlare alla destra» e chiedere i voti di chi stava «dall’altra parte». «Io penso alle elezioni secondarie - si difendeva l’allora sindaco di Firenze - e vorrei ricordare che se non sottraiamo voti alla destra non vinceremo mai». Aveva evidentemente ragione: e il risultato delle elezioni europee, con il grande flusso di voti arrivati al Pd da ex elettori del centrodestra, è lì a dimostrarlo. Quei voti vanno conservati, insiste oggi Renzi: con proposte e politiche, evidentemente, che parlino anche agli elettori che hanno votato Pd per la prima volta.
È anche per questo che l’opera di rinnovamento politico-culturale non può fermarsi. «Nel 41% ottenuto alle europee - ha spiegato ieri Renzi - c’è il voto di tante gente che non viene dalla nostra storia e dalla nostra tradizione, ma che vuol condividere il futuro con noi». È il preannuncio, insomma, del tentativo di stabilizzare quel consenso con idee, suggestioni e perfino un linguaggio che tenga conto dei tanti «nuovi arrivati»: che magari non sono poi così convinti che il merito, la sicurezza dei cittadini, andare ad «Amici» o magari dar torto ogni tanto al sindacato siano, tout court, cose di destra.
E c’è un’altra sorta di mito che il premier-segretario ha preso a picconare con grande vigore: il fascino (consolatoria e talvolta deresponsabilizzante) storicamente esercitato dai «tecnici» sulla sinistra italiana. Tecnici, professoroni e convegnisti d’ogni sorta. «Veniamo da un’ubriacatura da tecnicismo - ha contestato Renzi - che ha fatto passare l’idea che la politica sia inutile. Ma la politica non è una parolaccia: e loro, i tecnici, in 20 anni non hanno saputo leggere sociologicamente e culturalmente Berlusconi e il berlusconismo».
Ce ne è a sufficienza per sostenere che, nella sua prima chiusura da segretario della Festa de l’Unità, Renzi abbia confermato quel che ancora ieri ha ripetuto: nell’opera di cambiar verso all’Italia non arretrerà, non mollerà di un centimetro. «Mettiamoci l’energia dei nostri nonni e la fantasia dei nostri giovani. E smettiamo di vivere il futuro come una minaccia». Una scommessa, una filosofia che - in mancanza di alternative - evidentemente convince e piace, se il consenso verso il premier cresce invece di diminuire, nonostante l’«annuncite» e il pantano in cui ancora si trova il Paese...
Corriere 8.9.14
Un centimetro e Mille Giorni
di Antonio Polito
Pochi primi ministri italiani hanno goduto delle eccezionali circostanze di cui si avvale Matteo Renzi. Più si addensano nubi minacciose sul nostro Paese, sulla sua economia, sulla sua solvibilità, e più la mongolfiera del consenso personale del leader vola in alto. Più gli economisti fanno fosche previsioni, dividendosi tra pessimisti e catastrofisti, e più gli italiani si affidano all’uomo che li chiama gufi, e che ai loro convegni preferisce i rubinettifici. La nostra situazione, un debito così alto con un’inflazione quasi a zero, è pesante e alla lunga insostenibile, ma Renzi rivendica la sostenibile leggerezza dell’essere e del mangiare gelati. In patria non ha alternative né oppositori; in Europa è pieno di imitatori, come la scena dei blues brothers socialisti, tutti in camicia bianca ieri sul palco di Bologna, ha plasticamente dimostrato; e l’apoteosi della Festa dell’Unità (pur senza Unità), derubrica a broncio i mugugni tardivi di un D’Alema.
Ma gli stessi italiani che nei sondaggi premiano Renzi perché gli riconoscono il piglio del vendicatore anti-establishment, del fustigatore dei privilegi e dei vecchi assetti di potere, si dichiarano scettici sulle misure che sta prendendo per l’economia, non ritenendole le mosse giuste. Matteo Renzi è insomma entrato a buon diritto nel cerchio magico dei leader al Teflon, quei politici fatti del materiale delle padelle cui non si attacca lo sporco: ciò non vuol dire che lo sporco non ci sia.
E in effetti finora, nei duecento giorni già passati, l’azione di governo non ha dato i frutti sperati, come lo stesso ministro Padoan ha di recente riconosciuto. Le due misure prescelte, il bonus di 80 euro e la riforma del Senato, comunque le si giudichi, di sicuro non hanno provocato lo choc di cui l’economia ha bisogno. Anzi, l’indice di fiducia delle famiglie, dopo una prima impennata, è da tre mesi in calo.
L’orizzonte è diventato quello dei mille giorni ma la sensazione è di incertezza sulla direzione di marcia. Per quanto il premier annunci che non cederà di un centimetro, non è chiaro da dove. C’è al Senato la madre di tutte le riforme, quella del mercato del lavoro, annunciata ormai da gennaio, che da sola potrebbe cambiare l’appetibilità del nostro Paese per gli investitori. Ma i segnali sono contraddittori, il linguaggio è prudente, non si vede la determinazione necessaria per liberarsi della giungla di rigidità del nostro Statuto dei lavoratori, e rendere finalmente più facile assumere, prima ancora che licenziare. Sulle privatizzazioni c’è stato un alt. Sulle municipalizzate c’è stato un vedremo. Sulla ristrutturazione della spesa c’è stato un faremo. Sulla pubblica amministrazione si alternano messaggi contrastanti, prima si promettono 150 mila precari assunti nella scuola, poi il blocco degli stipendi per tutti gli statali, poi lo sblocco per i soli statali in divisa. E anche quando si fa, come nel caso dello sblocca Italia, si fa così poco da rischiare un effetto boomerang sulle aspettative.
Questa sorta di limbo autorizza, soprattutto all’estero, il sospetto che in Italia ci sia ancora chi prende tempo, nella convinzione che prima o poi ci penserà la Banca centrale europea con un acquisto massiccio di titoli del debito pubblico, nella speranza di risparmiarsi così scelte troppo difficili e impopolari. Ma il guaio è che, come in un circolo vizioso, più questo sospetto si diffonde e meno Draghi avrà le mani libere, e più Renzi le mani legate.
Renzi si blinda: no ai “tecnici” e ai veti del Pd
di Wanda Marra
Bologna “Sia chiaro che se qualcuno vuole la rivincita deve aspettare il novembre 2017, ma se vuole lavorare lo può fare da domani”. È un crescendo il comizio di chiusura della Festa dell’Unità di Bologna di Matteo Renzi, i toni diventano più duri via via che il discorso s’infiamma. E alla fine, ecco l’avvertimento: il Pd sono io, il sottotitolo. E non c’è spazio per dissenso o battaglie intestine. Tutti avvertiti. Gli stessi leader ringraziati all’inizio, gli ex segretari, Franceschini, Veltroni, Epifani. E Bersani, lui “sa perché”: “Ci ha fatto prendere un bel coccolone l’anno scorso”.
È ABILE RENZI a creare un clima di apparente inclusione, a usare parole “dolci” per gli avversari, che in questi giorni l’hanno ripetutamente attaccato. Anche per Cuperlo e Civati. Ma intanto, sul palco c’è lui da solo. I dirigenti dem, renziani o no, sono tutti ad ascoltarlo da sotto. Gli stessi Bersani, Cuperlo ed Epifani, il presidente del partito Orfini, i ministri (la Mogherini, la Madia, la Boschi, anche Poletti), i vicesegretari Guerini e Serracchiani. Non c’è D’Alema, ma c’è anche Vasco Errani, che “ha messo la sua dignità come elemento non in discussione facendo un passo indietro che non era tenuto a fare. Gli rinnovo la mia stima incommensurabile”, scandisce Renzi. L’interessato si commuove, la platea gli dedica un tributo entusiasta. Sotto al palco ci sono anche Stefano Bonaccini e Matteo Richetti, gli sfidanti alle primarie per la presidenza della Regione, che si faranno il 28 settembre. “Stefano, Matteo e Roberto (Balzani, sindaco di Forlì, ndr) hanno combinato un bel casino”, dice lui. Nessuna soluzione dall’alto, nonostante le ripetute indiscrezioni in questo senso, sono la prima competizione veramente aperta dell’era renziana.
Sa come scaldare la platea dell’Emilia Romagna, la regione più rossa di tutte, Renzi. D’altra parte la giornata di ieri è tutto un lavoro sui simboli, è tutto un inglobare riti e tradizioni.
ARRIVA PRESTO alla Festa il segretario, alle 11,30 di mattina. Marca il territorio. Annuncia che la segreteria la farà venerdì. Sono in corso trattative. Come dirà dal palco, la pensa “unitaria”. A patto che non ci siano né veti, né rivincite. Poi un po’ scherzando: “Siglerò il patto del tortellino con i leader europei”. Lo scippo alla tradizione emilian-bersaniana è compiuto: era l’ex segretario, l’uomo del tortellino magico. Passerella per la Festa. Curiosità ed entusiasmo. “Mi ha stretto la mano, non me la lavo più”. A un certo punto una ragazza attraversa la folla: “I nostri figli adottati in Congo, quando arrivano? ”. Lui si ferma. Ascolta. Chiama Sandro Gozi e Lia Quartapelle e gli affida la pratica. Piglio da statista e costruzione del consenso. Prima tappa dai Giovani Democratici. Poi, pranzo al ristorante “da Bertoldo”. Con lui, oltre ad alcuni dirigenti del Pd, i leader europei. Achim Post (segretario del Partito socialdemocratico tedesco), Diederik Samsom (capo del Partito laburista olandese), Pedro Sanchez (nuova stella del Partito socialista spagnolo) e Manuel Valls, premier francese. Pranzo tradizionale: cappellini in brodo e grigliata di carne. Foto con i militanti. Brindisi. Poi, il primo palco, quello in cui tutti, da Valls a Sanchez, assicurano la loro condivisione della battaglia contro il rigore. Matteo introduce, ringrazia. Da padrone di casa presenta Valls come il nipote dell’autore dell’inno del Barcellona. Pare una via di mezzo tra il capo scout e l’aspirante leader di futuribili Stati Uniti d’Europa.
IL COMIZIO INIZIA verso le cinque e mezza. È il primo da segretario. Non ci sono folle oceaniche, non ci sono la curiosità e l’elettrizzazione dell’anno scorso a Genova o di due anni fa a Reggio Emilia. Folla composta, più che altro speranzosa. L’area è piena, ma c’è chi si aspettava di più. Lui inizia con i ringraziamenti ai volontari, che sono 10mila “più degli anni precedenti”. Discorso a braccio come da copione, sull’importanza delle riforme costituzionali, la scuola e il valore del merito. Attacco ai Cinque Stelle per l’invito a trattare con l’Isis, difesa a spada tratta di “quel grande italiano” che è Giorgio Napolitano. Che però mentre lui parla è al cinema a Roma a vedere Arance e martello di Diego Bianchi. Nessun tema scomodo: né la legge di stabilità, né i provvedimenti sul lavoro. E neanche la questione dell’Unità come nota, deluso, il Cdr del giornale. Alla fine, di nuovo giro delle cucine: è il segretario del Pd adesso e adesso questa è la sua gente. “Non mollo di mezzo centimetro”, ha ribadito, come al solito. E il “popolo” gli serve.
La Stampa 8.9.14
“Merito e talento sono di sinistra”
Così il premier aggiorna i valori
Cade un altro tabù erede della tradizione cattolica e comunista che mette al centro l’uguaglianza
di Federico Geremicca
Citato a ripetizione da Manuel Valls e Pedro Sanchez, definito addirittura «la speranza» dell’Europa e della sinistra europea, Matteo Renzi - magari con sua stessa sorpresa - è ormai assurto a modello per la disastrata e litigiosa «grande famiglia» del socialismo europeo. Effetto, certo, del 40 e passa per cento raccolto alle elezioni del 25 maggio scorso, mentre le altre forze socialiste venivano surclassate da conservatori ed antieuropeisti: ma effetto anche dell’arrembante opera di demolizione e ricostruzione degli obiettivi, dei valori e perfino degli strumenti di una moderna forza di sinistra. Opera alla quale, dal palco della Festa di Bologna, ieri Renzi ha aggiunto un altro tassello.
I più giovani - e magari anche i meno giovani, dopo anni di sconfitte - avranno forse giudicato ovvia l’affermazione con la quale il segretario-presidente, parlando della riforma della scuola, ha sepolto un altro totem, un altro sacro feticcio del socialismo del secolo passato. «Il merito è di sinistra, la qualità è di sinistra, il talento è di sinistra - ha detto -. Io voglio stare dalla parte dell’eguaglianza, non dell’egualitarismo».
Per un partito, il Pd, che ha fuso e cerca di far convivere la cultura cattolica e quella di origine e tradizione comunista, l’affermazione rappresenta invece un piccolo terremoto all’interno di una gerarchia di valori che in testa a tutto - e prima di ogni altra cosa - metteva sempre la solidarietà e l’uguaglianza. Per molti versi, lo «strappo» ricorda quello operato qualche anno fa dai sindaci di sinistra di grandi città (Cofferati a Bologna e Veltroni a Roma, in testa a tutti) che di fronte al dilagare di violenze nei quartieri - spesso a opera di immigrati - affermarono che «la sicurezza (fino a quel punto storico cavallo di battaglia della destra, ndr) non è né di destra né di sinistra».
Tabù dietro tabù, insomma, Matteo Renzi sta cambiando (o cercando di cambiare) il bagaglio politico-culturale di una sinistra accusata da tempo e da più parti di esser rimasta prigioniera di un polveroso armamentario ideale e di valori che affonda le sue radici nel ’900. In realtà, il più giovane premier della storia repubblicana non dice, oggi, cose così diverse da quelle che aveva cominciato a predicare fin dal tempo delle prime primarie contro Bersani per la scelta del candidato premier: parole d’ordine e spinta innovativa evidentemente vincenti, se hanno reso possibili - e probabilmente addirittura determinato - prima la vittoria nella corsa alla segreteria e poi lo stupefacente 41% alle elezioni europee.
Molti ricorderanno, per esempio, la sorta di «processo popolare» cui Matteo Renzi fu sottoposto al tempo della sfida con Bersani con l’accusa di «parlare alla destra» e chiedere i voti di chi stava «dall’altra parte». «Io penso alle elezioni secondarie - si difendeva l’allora sindaco di Firenze - e vorrei ricordare che se non sottraiamo voti alla destra non vinceremo mai». Aveva evidentemente ragione: e il risultato delle elezioni europee, con il grande flusso di voti arrivati al Pd da ex elettori del centrodestra, è lì a dimostrarlo. Quei voti vanno conservati, insiste oggi Renzi: con proposte e politiche, evidentemente, che parlino anche agli elettori che hanno votato Pd per la prima volta.
È anche per questo che l’opera di rinnovamento politico-culturale non può fermarsi. «Nel 41% ottenuto alle europee - ha spiegato ieri Renzi - c’è il voto di tante gente che non viene dalla nostra storia e dalla nostra tradizione, ma che vuol condividere il futuro con noi». È il preannuncio, insomma, del tentativo di stabilizzare quel consenso con idee, suggestioni e perfino un linguaggio che tenga conto dei tanti «nuovi arrivati»: che magari non sono poi così convinti che il merito, la sicurezza dei cittadini, andare ad «Amici» o magari dar torto ogni tanto al sindacato siano, tout court, cose di destra.
E c’è un’altra sorta di mito che il premier-segretario ha preso a picconare con grande vigore: il fascino (consolatoria e talvolta deresponsabilizzante) storicamente esercitato dai «tecnici» sulla sinistra italiana. Tecnici, professoroni e convegnisti d’ogni sorta. «Veniamo da un’ubriacatura da tecnicismo - ha contestato Renzi - che ha fatto passare l’idea che la politica sia inutile. Ma la politica non è una parolaccia: e loro, i tecnici, in 20 anni non hanno saputo leggere sociologicamente e culturalmente Berlusconi e il berlusconismo».
Ce ne è a sufficienza per sostenere che, nella sua prima chiusura da segretario della Festa de l’Unità, Renzi abbia confermato quel che ancora ieri ha ripetuto: nell’opera di cambiar verso all’Italia non arretrerà, non mollerà di un centimetro. «Mettiamoci l’energia dei nostri nonni e la fantasia dei nostri giovani. E smettiamo di vivere il futuro come una minaccia». Una scommessa, una filosofia che - in mancanza di alternative - evidentemente convince e piace, se il consenso verso il premier cresce invece di diminuire, nonostante l’«annuncite» e il pantano in cui ancora si trova il Paese...
Corriere 8.9.14
Un centimetro e Mille Giorni
di Antonio Polito
Pochi primi ministri italiani hanno goduto delle eccezionali circostanze di cui si avvale Matteo Renzi. Più si addensano nubi minacciose sul nostro Paese, sulla sua economia, sulla sua solvibilità, e più la mongolfiera del consenso personale del leader vola in alto. Più gli economisti fanno fosche previsioni, dividendosi tra pessimisti e catastrofisti, e più gli italiani si affidano all’uomo che li chiama gufi, e che ai loro convegni preferisce i rubinettifici. La nostra situazione, un debito così alto con un’inflazione quasi a zero, è pesante e alla lunga insostenibile, ma Renzi rivendica la sostenibile leggerezza dell’essere e del mangiare gelati. In patria non ha alternative né oppositori; in Europa è pieno di imitatori, come la scena dei blues brothers socialisti, tutti in camicia bianca ieri sul palco di Bologna, ha plasticamente dimostrato; e l’apoteosi della Festa dell’Unità (pur senza Unità), derubrica a broncio i mugugni tardivi di un D’Alema.
Ma gli stessi italiani che nei sondaggi premiano Renzi perché gli riconoscono il piglio del vendicatore anti-establishment, del fustigatore dei privilegi e dei vecchi assetti di potere, si dichiarano scettici sulle misure che sta prendendo per l’economia, non ritenendole le mosse giuste. Matteo Renzi è insomma entrato a buon diritto nel cerchio magico dei leader al Teflon, quei politici fatti del materiale delle padelle cui non si attacca lo sporco: ciò non vuol dire che lo sporco non ci sia.
E in effetti finora, nei duecento giorni già passati, l’azione di governo non ha dato i frutti sperati, come lo stesso ministro Padoan ha di recente riconosciuto. Le due misure prescelte, il bonus di 80 euro e la riforma del Senato, comunque le si giudichi, di sicuro non hanno provocato lo choc di cui l’economia ha bisogno. Anzi, l’indice di fiducia delle famiglie, dopo una prima impennata, è da tre mesi in calo.
L’orizzonte è diventato quello dei mille giorni ma la sensazione è di incertezza sulla direzione di marcia. Per quanto il premier annunci che non cederà di un centimetro, non è chiaro da dove. C’è al Senato la madre di tutte le riforme, quella del mercato del lavoro, annunciata ormai da gennaio, che da sola potrebbe cambiare l’appetibilità del nostro Paese per gli investitori. Ma i segnali sono contraddittori, il linguaggio è prudente, non si vede la determinazione necessaria per liberarsi della giungla di rigidità del nostro Statuto dei lavoratori, e rendere finalmente più facile assumere, prima ancora che licenziare. Sulle privatizzazioni c’è stato un alt. Sulle municipalizzate c’è stato un vedremo. Sulla ristrutturazione della spesa c’è stato un faremo. Sulla pubblica amministrazione si alternano messaggi contrastanti, prima si promettono 150 mila precari assunti nella scuola, poi il blocco degli stipendi per tutti gli statali, poi lo sblocco per i soli statali in divisa. E anche quando si fa, come nel caso dello sblocca Italia, si fa così poco da rischiare un effetto boomerang sulle aspettative.
Questa sorta di limbo autorizza, soprattutto all’estero, il sospetto che in Italia ci sia ancora chi prende tempo, nella convinzione che prima o poi ci penserà la Banca centrale europea con un acquisto massiccio di titoli del debito pubblico, nella speranza di risparmiarsi così scelte troppo difficili e impopolari. Ma il guaio è che, come in un circolo vizioso, più questo sospetto si diffonde e meno Draghi avrà le mani libere, e più Renzi le mani legate.