Dove va l'America?
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Re: Dove va l'America?
Pensiamo che gli Usa siano una nazione democratica!Dove chi vota è il 30%degli abitanti.Dove chi governa sono sono le lobbi del petrolio , le lobbi delle arma le lobbi finanziarie ecc, le guerre sparse per in mondo senza nessuna consultazione con il popolo.Nata nel 4 luglio 1776 Dove incombe ancora la discriminazione raziale, non risolta mai.
Che vada su un repubblica o un democratico cambia pochissimo per il popolo.Cambia molto invece per le lobbi.
E questa sarebbe una democrazia da esportare?
Ciao
Paolo11
Che vada su un repubblica o un democratico cambia pochissimo per il popolo.Cambia molto invece per le lobbi.
E questa sarebbe una democrazia da esportare?
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Paolo11
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Re: Dove va l'America?
LIBRE news
Carpeoro: come gli Illuminati hanno infiltrato l’America
Scritto il 16/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Hanno vinto loro, gli Illuminati. Ma forse è meglio chiamarli con un altro nome: sono diventati, semplicemente, il potere. Bancario, finanziario. I padroni del denaro: lo strumento attraverso cui condizionare interi paesi e continenti. E’ il Nuovo Ordine Mondiale, che ormai abbiamo sotto gli occhi. Di Illuminati si parla spesso a sproposito: i loro simboli (l’occhio nel triangolo) oggi diventano anche tatuaggi per popstar, segni di riconoscimento a beneficio dei fotografi, del marketing, del botteghino. Non c’è teoria cospirazionista che non li ponga al vertice della piramide “occulta” del massimo potere. «Errore: il potere è sempre manifesto, palese», avverte l’avvocato Gianfranco Carpeoro, massone, con una vastissima cultura nel campo della simbologia e del mondo esoterico. Illuminati: maneggiare con cura. Hanno alle spalle una lunga storia. Vera. Cominciata in Germania e continuata, pericolosamente, in America, dove Washington tentò di metterli alla porta. Ci riuscì solo in parte, perché poi i suoi successori li presero a bordo. E a Yalta furono così potenti da riuscire a propiziare la nascita di Israele escludendo la creazione dello Stato di Palestina, ponendo così le basi per il conflitto permanente che oggi indossa la maschera dell’Isis.«Ma attenzione: gli Illuminati di oggi non hanno nulla a che vedere con i fondatori, tedeschi, di un’ideologia che era l’opposto del Nuovo Ordine Mondiale». Erano idee libertarie, su cui si fondò il primo socialismo utopistico, pre-marxista, di Saint-Simon, Blanc, Prudhomme. La parola “illuminati” richiama direttamente il ‘700, il clima culturale del secolo dei Lumi, racconta Carpeoro in una conversazione con Benedetto Sette, pubblicata su YouTube. Tramite i suoi esponenti di punta, come Diderot e d’Alembert, fondatori dell’“Encyclopédie”, l’Illuminismo «voleva restituire, a una civiltà dominata da poteri assoluti, autocratici e autoritari, l’equilibrio consentito dai “lumi” della ragione». Nella Francia del ‘700, la ragione viene posta al di sopra di ogni altra cosa: «D’altro canto, una cinquantina di anni prima, Cartesio sosteneva il “cogito ergo sum”, cioè che l’essere è dato dal pensare». E quindi: «Poter mettere in discussione qualunque cosa è giusto. L’importante, però, è non sostituire vecchi dogmi con nuovi dogmi, sul piedestallo di una finta razionalità: questo crea nuove ingiustizie».Ed è esattamente quello che è accaduto agli Illuminati, nella loro parabola: se gli ideologi tedeschi erano partiti dall’idealismo egualitario e proto-socialista, i loro epigoni americani (auto-proclamatisi “eredi” degli Illuminati di Baviera) sono diventati i massimi guardiani dello status quo, del potere oligarchico in mano a pochissimi. Tutto nasce il 1° maggio del 1776 a Ingolstadt, nel sud della Germania, dove il professor Johann Adam Weishaupt, docente di giurisprudenza, fonda la confraternita degli Illuminati di Baviera. Obiettivo: una società più giusta, liberata dall’arbitrio di un potere fondato sul dominio. Una prospettiva rivoluzionaria, a partire dall’abolizione del tabù assoluto, la proprietà privata. «Weishaupt era un massone tedesco che aveva nel suo progetto la creazione di un livello superiore alla massoneria», racconta Carpeoro. L’ideologo degli Illuminati di Baviera si muove come un altro massone libertario, il francese Louis Claude de Saint-Martin, che aveva creato quello che chiamava Ordine dei Perfettibili. Matrice comune: i Rosacroce, la leggendaria “fratellanza” che accomunò Dante Alighieri e Giordano Bruno, fino a Goethe, Victor Hugo e oltre, verso la prospettiva di un’umanità liberata dal bisogno e dalla paura.Lo statuto elaborato da Weishaupt «ha come presupposti l’abolizione della proprietà privata e l’allargamento progressivo della scala di interessi: individui e popoli devono sempre porsi al di sotto di un ordine superiore, cioè l’interesse di tutti, dell’umanità, del mondo». Il principio mistico-religioso è di origine gnostica, continua Carpeoro. E Weishaupt parte dall’opera di Comenius, che era anch’esso un Rosacroce, al secolo Jan Amos Komenský. «Fu l’ultimo di quei Rosacroce che avevano teorizzato la costruzione della società perfetta: Francesco Bacone con la “Nuova Atlantide”, Tommaso Campanella con “La città del sole”, Tommaso Moro con “Utopia”; lo stesso rifondatore dei Rosacroce, Johann Valentin Andreae, scrisse un’opera che si chiamava “Christianopolis” o “Viaggio all’isola di Caphar Salama”». Stesso tema: un mondo di cittadini liberi e consapevoli, con pari diritti. «Ben presto, però, Weishaupt si accorge che un ideale di questo tipo deve fare i conti col potere: deve cioè diventare un’organizzazione di potere». All’inizio, i primi Illuminati hanno un enorme successo: partono dalla Baviera, ma le loro idee finiscono per conquistare tutta la Germania. «Weishaupt diventa un interlocutore privilegiato dei malgravi tedeschi, dei potenti. E all’ombra di questo progetto abbastanza idealista nasce quindi una struttura dalle forti connotazioni pratiche».Così, inevitabilmente, affiorano i primi problemi: alla fine del ‘700, al movimento aderisce il barone Adolf von Knigge, «colui che dà la svolta vera alla società degli Illuminati come struttura», creando «una struttura di potere, di gestione e direzione unica della società». Fatale lo scontro con Weishaupt, «un idealista con la mania dei rituali magico-esoterici». Quei rituali gli varranno l’accusa di “gesuitismo” e autoritarismo. La realtà è un’altra: i baroni, che pure hanno aderito allo slancio ideolgico iniziale, capiscono che l’egualitarismo di Weischaupt mette in pericolo i loro privilegi. Sarà Federico II di Prussia a sciogliere ufficialmente la società, per legge. E Weishaupt morirà povero solo, in esilio, abbandonato da tutti, nel 1830. «La storia degli Illuminati di Baviera finisce qui», sottolinea Carpeoro: «Non è mai andata oltre la dimensione territoriale della Germania». Come dire: gli Illuminati successivi, che giureranno di ispirarsi a Weischaupt, non hanno mai avuto alcuna relazione diretta con il movimento tedesco. Non solo: se i primi neo-Illuminati americani avevano ancora, in parte, qualche germe idealistico nella loro ideologia, i successori hanno fatto piazza pulita di qualsiasi istinto democratico, divenendo la punta di lancia dell’élite finanziaria che oggi domina il pianeta.Il passaggio cruciale è la nascita degli Stati Uniti d’America, 4 luglio 1776. Siamo ancora nel secolo dei Lumi, ma dall’altra parte dell’Oceano. Le idee viaggiano: il fondatore, George Washington, massone, è anch’egli un iniziato Rosacroce. «Succede che quando Washington giura come presidente – racconta Carpeoro – alcuni americani dichiarano di ispirarsi al modello degli Illuminati tedeschi, pur senza aver mai avuto alcun rapporto con essi. Ma è lo stesso Washington a sconfessarsi totalmente. In una lettera aperta a un giornale, avverte: mai e mai poi mai le idee dei nuovi Illuminati avrebbero dovuto prendere possesso dell’America». Bel problema: «Siccome Washington era anche il capo della massoneria americana – continua Carpeoro – questi signori capirono che dovevano inquinare la massoneria, per riuscire ad arrivare al potere negli Stati Uniti. E lo fecero utilizzando tutti coloro che avevano perso la guerra civile americana, quindi una serie di personaggi sudisti, cioè schiavisti, che vennero infiltrati nella massoneria, resero gran parte della massoneria americana conservatrice e reazionaria, e poi elaborarono le teorie dei Nuovi Illuminati».I Nuovi Illuminati nascono infatti all’inizio del XX secolo, tra l’Inghilterra e l’America. «Riferendosi – per l’etichetta e per il marchio – a quello che aveva fatto Weischaupt in Germania, in realtà teorizzano il cosiddetto mondialismo, il Nuovo Ordine Mondiale. Teorizzano cioè il fatto che, traversalmente agli Stati, possa nascere non “una” società perfetta in un determinato paese, ma “la” società perfetta». Nasce quindi «una struttura che deve necessariamente cospirare». Una super-struttura, «trasversale a tutti gli Stati». E questo accade attraverso uomini d’affari come Cecil Rhodes, secondo cui Usa e Gran Bretagna devono dare vita a un unico governo federale della Terra. A questo scopo, Rhodes crea una confraternita, la Rhodes Scholarship, che in America esiste tuttora. E così Lionel Curtis, che fonda vari gruppi, tra cui la Tavola Rotonda di Rohdes-Milner, presupposto dell’attuale Round Table. «In pratica, questi personaggi infiltrano soprattutto il governo americano, fin dalla sua nascita». Nonostante l’altolà di Washington, i Nuovi Illuminati riusciranno ad avere intensi rapporti con diversi presidenti americani: Edward Mandell House sarà il segretario di Woodrow Wilson, il presidente che costruirà la Società delle Nazioni, progenitrice dell’Onu. Altra eminente personalità dei neo-Illuminati americani, lo scrittore Herbert George Wells, autore nel 1897 del fortunato romanzo “La guerra dei mondi”.«Quindi – prosegue Carpeoro – fin dall’inizio si diffonde questo progetto di costruire il Nuovo Ordine Mondiale nel nome degli Stati Uniti d’America. Successivamente, come tutte le strutture di potere, questa diventa una struttura che affianca il potere in realtà senza cambiare niente». Il New World Order, che in origine doveva avere un’ispirazione rivoluzionaria, «in realtà si riduce alla pura gestione dell’esistente: una gestione trasversale, mondialista e di assoluto potere dello status quo». Evidente: «Per questi signori, meno cambia e meglio è: perché così fa comodo a loro». Ma il processo di “degenerazione” non è improvviso, avviene per gradi. Quando gli Illuminati devono aggirare Washington e quindi si alleano con le componenti più conservatrici del paese, il Sud schiavista, intuendo che saranno riassorbite nel vertice di potere in vista della riconciliazione nazionale postbellica, il loro capo è Albert Pike, «un eminente massone del neo-rito scozzese, che fece una politica di infiltrazione culturale molto capillare». Nonostante ciò, dice Carpeoro, «il suo modo di essere “illuminato” non è lo stesso di Rotschild: Pike è ancora fortemente ideologico».Il discorso degli attuali Illuminati diventa esclusivamente pragmatico successivamente, «con le associazioni tra banchieri, i trust, i vari Bilderberg». Così, «con un’ulteriore mutazione, diventa una struttura di conservazione; ma all’inizio gli Illuminati erano una struttura di rivoluzione». Il sionismo bellicista? «E’ una conseguenza, non una causa». E i motivi sono anch’essi evidenti: «Poiché una parte dei grandi banchieri mondiali sono di provenienza ebraica, ai tempi di Yalta hanno forzato la situazione e utilizzato anche la struttura trasversale degli Illuminati per arrivare alla costituzione dello Stato di Israele, e soprattutto per escludere che si facesse lo Stato di Palestina». E’ tristemente noto: «Una delle posizioni più reazionarie e meno sostenibili, pubblicamente, di un certo sionismo, è la negazione dell’esistenza del popolo palestinese, così come tra gli arabi esiste chi nega l’esistenza del popolo ebreo». Falsi storici: «I Filistei biblici sono gli attuali palestinesi, e già facevano le guerre per la terra, in quell’epoca». Il conflitto israelo-palestinese, “cristallizzato” nel retrobottega di Yalta nel 1945, è ancora oggi il focolaio di odio da cui la manipolazione culturale fa derivare lo “scontro di civiltà” tanto caro al complesso militare-industriale, a Wall Street, al Pentagono.Autore del romanzo “Il volo del Pellicano” (Melchisedek) sulla “storia di una leggenda realmente accaduta”, quella dei Rosacroce, lo stesso Carpeoro sta per pubblicare un saggio, presso Uno Editori, intitolato “Dalla massoneria al terrorismo”. Focus: la strategia della tensione internazionale, affidata a manovalanza magari islamista ma accuratamente coperta dalla “sovragestione”, il network di potere che vede al lavoro interi settori dei servizi segreti occidentali impegnati in missioni “false flag”, attentati compiuti “sotto falsa bandiera”, per esempio quella dell’Isis, in Francia, e progettati da “menti raffinatissime”, appartenenti alla massoneria deviata, di potere, il cui vertice è costituito proprio dai neo-Illuminati. «La loro influenza principale, con la teorizzazione del Nuovo Ordine Mondiale, è il condizionamento economico degli Stati: i banchieri si sono organizzati tramite questa struttura per condizionare le scelte economiche degli Stati». I risvolti di cronaca – le strane incongruenze nelle indagini, i messaggi simbolici di cui sono disseminate le stragi – suggeriscono l’idea che, dai diktat finanziari, si possa anche passare, all’occorrenza, alle bombe e ai Kalashnikov. Per contro, ripete Carpeoro, «l’intensificarsi di quella violenza indica che il vertice del massimo potere non è più così compatto: qualcuno si sta sfilando, chi resta al comando teme di perdere terreno e per questo spinge sul terrorismo». Mai stati del tutto granitici, i poteri forti: «Litigano spesso fra loro, e questo apre spazi per tutti noi». Del resto «il potere è uno schema, non una piramide monolitica», anche se si tratta di piramidi “illuminate”.
Carpeoro: come gli Illuminati hanno infiltrato l’America
Scritto il 16/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Hanno vinto loro, gli Illuminati. Ma forse è meglio chiamarli con un altro nome: sono diventati, semplicemente, il potere. Bancario, finanziario. I padroni del denaro: lo strumento attraverso cui condizionare interi paesi e continenti. E’ il Nuovo Ordine Mondiale, che ormai abbiamo sotto gli occhi. Di Illuminati si parla spesso a sproposito: i loro simboli (l’occhio nel triangolo) oggi diventano anche tatuaggi per popstar, segni di riconoscimento a beneficio dei fotografi, del marketing, del botteghino. Non c’è teoria cospirazionista che non li ponga al vertice della piramide “occulta” del massimo potere. «Errore: il potere è sempre manifesto, palese», avverte l’avvocato Gianfranco Carpeoro, massone, con una vastissima cultura nel campo della simbologia e del mondo esoterico. Illuminati: maneggiare con cura. Hanno alle spalle una lunga storia. Vera. Cominciata in Germania e continuata, pericolosamente, in America, dove Washington tentò di metterli alla porta. Ci riuscì solo in parte, perché poi i suoi successori li presero a bordo. E a Yalta furono così potenti da riuscire a propiziare la nascita di Israele escludendo la creazione dello Stato di Palestina, ponendo così le basi per il conflitto permanente che oggi indossa la maschera dell’Isis.«Ma attenzione: gli Illuminati di oggi non hanno nulla a che vedere con i fondatori, tedeschi, di un’ideologia che era l’opposto del Nuovo Ordine Mondiale». Erano idee libertarie, su cui si fondò il primo socialismo utopistico, pre-marxista, di Saint-Simon, Blanc, Prudhomme. La parola “illuminati” richiama direttamente il ‘700, il clima culturale del secolo dei Lumi, racconta Carpeoro in una conversazione con Benedetto Sette, pubblicata su YouTube. Tramite i suoi esponenti di punta, come Diderot e d’Alembert, fondatori dell’“Encyclopédie”, l’Illuminismo «voleva restituire, a una civiltà dominata da poteri assoluti, autocratici e autoritari, l’equilibrio consentito dai “lumi” della ragione». Nella Francia del ‘700, la ragione viene posta al di sopra di ogni altra cosa: «D’altro canto, una cinquantina di anni prima, Cartesio sosteneva il “cogito ergo sum”, cioè che l’essere è dato dal pensare». E quindi: «Poter mettere in discussione qualunque cosa è giusto. L’importante, però, è non sostituire vecchi dogmi con nuovi dogmi, sul piedestallo di una finta razionalità: questo crea nuove ingiustizie».Ed è esattamente quello che è accaduto agli Illuminati, nella loro parabola: se gli ideologi tedeschi erano partiti dall’idealismo egualitario e proto-socialista, i loro epigoni americani (auto-proclamatisi “eredi” degli Illuminati di Baviera) sono diventati i massimi guardiani dello status quo, del potere oligarchico in mano a pochissimi. Tutto nasce il 1° maggio del 1776 a Ingolstadt, nel sud della Germania, dove il professor Johann Adam Weishaupt, docente di giurisprudenza, fonda la confraternita degli Illuminati di Baviera. Obiettivo: una società più giusta, liberata dall’arbitrio di un potere fondato sul dominio. Una prospettiva rivoluzionaria, a partire dall’abolizione del tabù assoluto, la proprietà privata. «Weishaupt era un massone tedesco che aveva nel suo progetto la creazione di un livello superiore alla massoneria», racconta Carpeoro. L’ideologo degli Illuminati di Baviera si muove come un altro massone libertario, il francese Louis Claude de Saint-Martin, che aveva creato quello che chiamava Ordine dei Perfettibili. Matrice comune: i Rosacroce, la leggendaria “fratellanza” che accomunò Dante Alighieri e Giordano Bruno, fino a Goethe, Victor Hugo e oltre, verso la prospettiva di un’umanità liberata dal bisogno e dalla paura.Lo statuto elaborato da Weishaupt «ha come presupposti l’abolizione della proprietà privata e l’allargamento progressivo della scala di interessi: individui e popoli devono sempre porsi al di sotto di un ordine superiore, cioè l’interesse di tutti, dell’umanità, del mondo». Il principio mistico-religioso è di origine gnostica, continua Carpeoro. E Weishaupt parte dall’opera di Comenius, che era anch’esso un Rosacroce, al secolo Jan Amos Komenský. «Fu l’ultimo di quei Rosacroce che avevano teorizzato la costruzione della società perfetta: Francesco Bacone con la “Nuova Atlantide”, Tommaso Campanella con “La città del sole”, Tommaso Moro con “Utopia”; lo stesso rifondatore dei Rosacroce, Johann Valentin Andreae, scrisse un’opera che si chiamava “Christianopolis” o “Viaggio all’isola di Caphar Salama”». Stesso tema: un mondo di cittadini liberi e consapevoli, con pari diritti. «Ben presto, però, Weishaupt si accorge che un ideale di questo tipo deve fare i conti col potere: deve cioè diventare un’organizzazione di potere». All’inizio, i primi Illuminati hanno un enorme successo: partono dalla Baviera, ma le loro idee finiscono per conquistare tutta la Germania. «Weishaupt diventa un interlocutore privilegiato dei malgravi tedeschi, dei potenti. E all’ombra di questo progetto abbastanza idealista nasce quindi una struttura dalle forti connotazioni pratiche».Così, inevitabilmente, affiorano i primi problemi: alla fine del ‘700, al movimento aderisce il barone Adolf von Knigge, «colui che dà la svolta vera alla società degli Illuminati come struttura», creando «una struttura di potere, di gestione e direzione unica della società». Fatale lo scontro con Weishaupt, «un idealista con la mania dei rituali magico-esoterici». Quei rituali gli varranno l’accusa di “gesuitismo” e autoritarismo. La realtà è un’altra: i baroni, che pure hanno aderito allo slancio ideolgico iniziale, capiscono che l’egualitarismo di Weischaupt mette in pericolo i loro privilegi. Sarà Federico II di Prussia a sciogliere ufficialmente la società, per legge. E Weishaupt morirà povero solo, in esilio, abbandonato da tutti, nel 1830. «La storia degli Illuminati di Baviera finisce qui», sottolinea Carpeoro: «Non è mai andata oltre la dimensione territoriale della Germania». Come dire: gli Illuminati successivi, che giureranno di ispirarsi a Weischaupt, non hanno mai avuto alcuna relazione diretta con il movimento tedesco. Non solo: se i primi neo-Illuminati americani avevano ancora, in parte, qualche germe idealistico nella loro ideologia, i successori hanno fatto piazza pulita di qualsiasi istinto democratico, divenendo la punta di lancia dell’élite finanziaria che oggi domina il pianeta.Il passaggio cruciale è la nascita degli Stati Uniti d’America, 4 luglio 1776. Siamo ancora nel secolo dei Lumi, ma dall’altra parte dell’Oceano. Le idee viaggiano: il fondatore, George Washington, massone, è anch’egli un iniziato Rosacroce. «Succede che quando Washington giura come presidente – racconta Carpeoro – alcuni americani dichiarano di ispirarsi al modello degli Illuminati tedeschi, pur senza aver mai avuto alcun rapporto con essi. Ma è lo stesso Washington a sconfessarsi totalmente. In una lettera aperta a un giornale, avverte: mai e mai poi mai le idee dei nuovi Illuminati avrebbero dovuto prendere possesso dell’America». Bel problema: «Siccome Washington era anche il capo della massoneria americana – continua Carpeoro – questi signori capirono che dovevano inquinare la massoneria, per riuscire ad arrivare al potere negli Stati Uniti. E lo fecero utilizzando tutti coloro che avevano perso la guerra civile americana, quindi una serie di personaggi sudisti, cioè schiavisti, che vennero infiltrati nella massoneria, resero gran parte della massoneria americana conservatrice e reazionaria, e poi elaborarono le teorie dei Nuovi Illuminati».I Nuovi Illuminati nascono infatti all’inizio del XX secolo, tra l’Inghilterra e l’America. «Riferendosi – per l’etichetta e per il marchio – a quello che aveva fatto Weischaupt in Germania, in realtà teorizzano il cosiddetto mondialismo, il Nuovo Ordine Mondiale. Teorizzano cioè il fatto che, traversalmente agli Stati, possa nascere non “una” società perfetta in un determinato paese, ma “la” società perfetta». Nasce quindi «una struttura che deve necessariamente cospirare». Una super-struttura, «trasversale a tutti gli Stati». E questo accade attraverso uomini d’affari come Cecil Rhodes, secondo cui Usa e Gran Bretagna devono dare vita a un unico governo federale della Terra. A questo scopo, Rhodes crea una confraternita, la Rhodes Scholarship, che in America esiste tuttora. E così Lionel Curtis, che fonda vari gruppi, tra cui la Tavola Rotonda di Rohdes-Milner, presupposto dell’attuale Round Table. «In pratica, questi personaggi infiltrano soprattutto il governo americano, fin dalla sua nascita». Nonostante l’altolà di Washington, i Nuovi Illuminati riusciranno ad avere intensi rapporti con diversi presidenti americani: Edward Mandell House sarà il segretario di Woodrow Wilson, il presidente che costruirà la Società delle Nazioni, progenitrice dell’Onu. Altra eminente personalità dei neo-Illuminati americani, lo scrittore Herbert George Wells, autore nel 1897 del fortunato romanzo “La guerra dei mondi”.«Quindi – prosegue Carpeoro – fin dall’inizio si diffonde questo progetto di costruire il Nuovo Ordine Mondiale nel nome degli Stati Uniti d’America. Successivamente, come tutte le strutture di potere, questa diventa una struttura che affianca il potere in realtà senza cambiare niente». Il New World Order, che in origine doveva avere un’ispirazione rivoluzionaria, «in realtà si riduce alla pura gestione dell’esistente: una gestione trasversale, mondialista e di assoluto potere dello status quo». Evidente: «Per questi signori, meno cambia e meglio è: perché così fa comodo a loro». Ma il processo di “degenerazione” non è improvviso, avviene per gradi. Quando gli Illuminati devono aggirare Washington e quindi si alleano con le componenti più conservatrici del paese, il Sud schiavista, intuendo che saranno riassorbite nel vertice di potere in vista della riconciliazione nazionale postbellica, il loro capo è Albert Pike, «un eminente massone del neo-rito scozzese, che fece una politica di infiltrazione culturale molto capillare». Nonostante ciò, dice Carpeoro, «il suo modo di essere “illuminato” non è lo stesso di Rotschild: Pike è ancora fortemente ideologico».Il discorso degli attuali Illuminati diventa esclusivamente pragmatico successivamente, «con le associazioni tra banchieri, i trust, i vari Bilderberg». Così, «con un’ulteriore mutazione, diventa una struttura di conservazione; ma all’inizio gli Illuminati erano una struttura di rivoluzione». Il sionismo bellicista? «E’ una conseguenza, non una causa». E i motivi sono anch’essi evidenti: «Poiché una parte dei grandi banchieri mondiali sono di provenienza ebraica, ai tempi di Yalta hanno forzato la situazione e utilizzato anche la struttura trasversale degli Illuminati per arrivare alla costituzione dello Stato di Israele, e soprattutto per escludere che si facesse lo Stato di Palestina». E’ tristemente noto: «Una delle posizioni più reazionarie e meno sostenibili, pubblicamente, di un certo sionismo, è la negazione dell’esistenza del popolo palestinese, così come tra gli arabi esiste chi nega l’esistenza del popolo ebreo». Falsi storici: «I Filistei biblici sono gli attuali palestinesi, e già facevano le guerre per la terra, in quell’epoca». Il conflitto israelo-palestinese, “cristallizzato” nel retrobottega di Yalta nel 1945, è ancora oggi il focolaio di odio da cui la manipolazione culturale fa derivare lo “scontro di civiltà” tanto caro al complesso militare-industriale, a Wall Street, al Pentagono.Autore del romanzo “Il volo del Pellicano” (Melchisedek) sulla “storia di una leggenda realmente accaduta”, quella dei Rosacroce, lo stesso Carpeoro sta per pubblicare un saggio, presso Uno Editori, intitolato “Dalla massoneria al terrorismo”. Focus: la strategia della tensione internazionale, affidata a manovalanza magari islamista ma accuratamente coperta dalla “sovragestione”, il network di potere che vede al lavoro interi settori dei servizi segreti occidentali impegnati in missioni “false flag”, attentati compiuti “sotto falsa bandiera”, per esempio quella dell’Isis, in Francia, e progettati da “menti raffinatissime”, appartenenti alla massoneria deviata, di potere, il cui vertice è costituito proprio dai neo-Illuminati. «La loro influenza principale, con la teorizzazione del Nuovo Ordine Mondiale, è il condizionamento economico degli Stati: i banchieri si sono organizzati tramite questa struttura per condizionare le scelte economiche degli Stati». I risvolti di cronaca – le strane incongruenze nelle indagini, i messaggi simbolici di cui sono disseminate le stragi – suggeriscono l’idea che, dai diktat finanziari, si possa anche passare, all’occorrenza, alle bombe e ai Kalashnikov. Per contro, ripete Carpeoro, «l’intensificarsi di quella violenza indica che il vertice del massimo potere non è più così compatto: qualcuno si sta sfilando, chi resta al comando teme di perdere terreno e per questo spinge sul terrorismo». Mai stati del tutto granitici, i poteri forti: «Litigano spesso fra loro, e questo apre spazi per tutti noi». Del resto «il potere è uno schema, non una piramide monolitica», anche se si tratta di piramidi “illuminate”.
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Re: Dove va l'America?
il manifesto 22.10.16
L’ossessione dei teocon per l’Armageddon. E per Trump
Storia dei fondamentalismi cristiani nel paese in cui è più facile diventare presidente per un omosessuale che per un ateo
Dai miti della fondazione alla destra teocon, sedotti dal populismo di "The Donald"
di Luca Celada
LOS ANGELES Nel dibattito di Las Vegas, Donald Trump ha detto di andar fiero del sostegno della Nra, la lobby delle armi ed ha promesso di nominare alla corte suprema giudici che abolirebbero il diritto all’aborto. Quest’ultima in particolare è stata una rassicurazione diretta alla base teocon che negli ultimi tre decenni è diventata una componente fondamentale della destra ideologica americana.
Sin dalla fondazione da parte di fanatiche sette puritane espulse da Inghilterra e Olanda, la fede integralista è stata un pilastro nazionale al pari dell’impresa mercantile delle concessioni commerciali delle colonie. Dopo la rivoluzione “illuminista” del 1776 il fondamentalismo cristiano, rimarrà una caratteristica profonda dell’esperimento americano, con la libertà di religione codificata nella costituzione e una forte piega avventista e millenarista. Una vocazione severa e apocalittica, sempre in tensione con gli elementi razionalisti importati della rivoluzione francese. Una dicotomia che rimane al centro del discorso politico americano che vede tuttora la corte costituzionale esprimersi regolarmente su preghiera nelle scuole, simboli religiosi e le contraddizioni di una società ufficialmente laica e senza religione di stato ma che i sondaggi confermano sempre come la più intrisa di religione rispetto ad ogni altro paese occidentale. Ancora oggi si dice, con cognizione di causa, che sarebbe più facile diventare presidente per un omosessuale che per un ateo.
Le correnti fondamentaliste, affiorate in varie denominazioni (battisti, presbiteriani ecc.) all’inizio del ventesimo secolo come reazione al percepito eccessivo riformismo religioso, promuovono l’interpretazione letterale della Bibbia intesa come testo infallibile e una concezione teocratica dello stato.. È l’ossessione escatologica che le porta a vedere nella costituzione dello stato di Israele il prologo necessario alla profetizzata battaglia finale di Armageddon, località menzionata nel Libro dell’Apocalisse oggi localizzata in Tel Megiddo a una quindicina di chilometri da Nazareth. Il cosiddetto «sionismo cristiano» dipende in sostanza da un epilogo catastrofico in medio oriente, non sorprende dunque l’appassionato sostegno dei fondamentalisti evangelici al governo Netanyahu.
Ma è negli anni 80 che le sette evangeliche emergono come forza politica e zoccolo duro della destra repubblicana. Effetto della «Reagan revolution» che sancisce un alleanza operativa con formazioni come la Moral Majority di Jerry Falwell e la Christian Coalition di Pat Robertson, due tele-evangelisti che usano le prediche contro il «decadimento morale» per galvanizzare la base elettorale nelle crociate contro cultura gay, aborto, contraccezione, insegnamento della teoria dell’evoluzione.
Sono le culture wars strumentalizzate dal reaganismo e in seguito sempre più «scientificamente» dai neocon di era Bush, grazie a strateghi come Karl Rove che ne fanno il perno della strategia elettorale. Il maggiore successo teocon, oltre ai mandati Reagan e Bush, è stata la deriva reazionaria della corte suprema a cui accedono Clarence Thomas e Antonin Scalia entrambi legati agli ambienti evangelici e affidabili baluardi di conservatorismo integralista durante gli ultimi vent’anni. Si devono alla cultura evangelica l’inviolabilità del porto d’armi, pur nell’escalation di stragi e violenza, come anche l’abilitazione di «schegge impazzite» responsabili di omicidi di medici abortisti e attentati a consultori.
Ironicamente son proprio decenni di strumentalizzazione da parte dell’establishment repubblicano, le cui promesse elettorali agli evangelici vanno regolarmente disattese (il matrimonio gay è un esempio lampante), che portano alla crescente disillusione dei teocon, molti dei quali confluiscono prima nel Tea Party ed in seguito nel movimento populista di Trump. Il sostengo a Trump invero è anomalo. Culturalmente gli integralisti delle province hanno poco da spartire col miliardario libertino e pluridivorziato newyorchese. E nelle primarie la base aveva infatti adottato paladini come Mike Huckaby, Ted Cruz e Ben Carson.
Il sostegno degli evangelici a Trump dipende in parte dall’opposizione a priori a Hillary Clinton e tutto ciò che rappresenta. Ma esiste un affinità profonda fra le frange apocalittiche e la fosca distopia articolata da Trump. La sua visione intrisa di paura, di un paese in balia di bande di stranieri criminali, è una versione «laica» delle geremiadi lanciate dai pulpiti evangelici. L’affresco di una nazione eletta che ha voltato le spalle al sacro timore di dio e che per questo incorrerà nell’ira del creatore – o, eventualmente, di un condottiero da reality tv.
L’ossessione dei teocon per l’Armageddon. E per Trump
Storia dei fondamentalismi cristiani nel paese in cui è più facile diventare presidente per un omosessuale che per un ateo
Dai miti della fondazione alla destra teocon, sedotti dal populismo di "The Donald"
di Luca Celada
LOS ANGELES Nel dibattito di Las Vegas, Donald Trump ha detto di andar fiero del sostegno della Nra, la lobby delle armi ed ha promesso di nominare alla corte suprema giudici che abolirebbero il diritto all’aborto. Quest’ultima in particolare è stata una rassicurazione diretta alla base teocon che negli ultimi tre decenni è diventata una componente fondamentale della destra ideologica americana.
Sin dalla fondazione da parte di fanatiche sette puritane espulse da Inghilterra e Olanda, la fede integralista è stata un pilastro nazionale al pari dell’impresa mercantile delle concessioni commerciali delle colonie. Dopo la rivoluzione “illuminista” del 1776 il fondamentalismo cristiano, rimarrà una caratteristica profonda dell’esperimento americano, con la libertà di religione codificata nella costituzione e una forte piega avventista e millenarista. Una vocazione severa e apocalittica, sempre in tensione con gli elementi razionalisti importati della rivoluzione francese. Una dicotomia che rimane al centro del discorso politico americano che vede tuttora la corte costituzionale esprimersi regolarmente su preghiera nelle scuole, simboli religiosi e le contraddizioni di una società ufficialmente laica e senza religione di stato ma che i sondaggi confermano sempre come la più intrisa di religione rispetto ad ogni altro paese occidentale. Ancora oggi si dice, con cognizione di causa, che sarebbe più facile diventare presidente per un omosessuale che per un ateo.
Le correnti fondamentaliste, affiorate in varie denominazioni (battisti, presbiteriani ecc.) all’inizio del ventesimo secolo come reazione al percepito eccessivo riformismo religioso, promuovono l’interpretazione letterale della Bibbia intesa come testo infallibile e una concezione teocratica dello stato.. È l’ossessione escatologica che le porta a vedere nella costituzione dello stato di Israele il prologo necessario alla profetizzata battaglia finale di Armageddon, località menzionata nel Libro dell’Apocalisse oggi localizzata in Tel Megiddo a una quindicina di chilometri da Nazareth. Il cosiddetto «sionismo cristiano» dipende in sostanza da un epilogo catastrofico in medio oriente, non sorprende dunque l’appassionato sostegno dei fondamentalisti evangelici al governo Netanyahu.
Ma è negli anni 80 che le sette evangeliche emergono come forza politica e zoccolo duro della destra repubblicana. Effetto della «Reagan revolution» che sancisce un alleanza operativa con formazioni come la Moral Majority di Jerry Falwell e la Christian Coalition di Pat Robertson, due tele-evangelisti che usano le prediche contro il «decadimento morale» per galvanizzare la base elettorale nelle crociate contro cultura gay, aborto, contraccezione, insegnamento della teoria dell’evoluzione.
Sono le culture wars strumentalizzate dal reaganismo e in seguito sempre più «scientificamente» dai neocon di era Bush, grazie a strateghi come Karl Rove che ne fanno il perno della strategia elettorale. Il maggiore successo teocon, oltre ai mandati Reagan e Bush, è stata la deriva reazionaria della corte suprema a cui accedono Clarence Thomas e Antonin Scalia entrambi legati agli ambienti evangelici e affidabili baluardi di conservatorismo integralista durante gli ultimi vent’anni. Si devono alla cultura evangelica l’inviolabilità del porto d’armi, pur nell’escalation di stragi e violenza, come anche l’abilitazione di «schegge impazzite» responsabili di omicidi di medici abortisti e attentati a consultori.
Ironicamente son proprio decenni di strumentalizzazione da parte dell’establishment repubblicano, le cui promesse elettorali agli evangelici vanno regolarmente disattese (il matrimonio gay è un esempio lampante), che portano alla crescente disillusione dei teocon, molti dei quali confluiscono prima nel Tea Party ed in seguito nel movimento populista di Trump. Il sostengo a Trump invero è anomalo. Culturalmente gli integralisti delle province hanno poco da spartire col miliardario libertino e pluridivorziato newyorchese. E nelle primarie la base aveva infatti adottato paladini come Mike Huckaby, Ted Cruz e Ben Carson.
Il sostegno degli evangelici a Trump dipende in parte dall’opposizione a priori a Hillary Clinton e tutto ciò che rappresenta. Ma esiste un affinità profonda fra le frange apocalittiche e la fosca distopia articolata da Trump. La sua visione intrisa di paura, di un paese in balia di bande di stranieri criminali, è una versione «laica» delle geremiadi lanciate dai pulpiti evangelici. L’affresco di una nazione eletta che ha voltato le spalle al sacro timore di dio e che per questo incorrerà nell’ira del creatore – o, eventualmente, di un condottiero da reality tv.
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Re: Dove va l'America?
La Stampa 22.10.16
Nel Nevada che sta con Donald
“Vincerà lui o sarà la rivoluzione”
Salari bassi e clandestini alimentano la rabbia dei bianchi
di Liliana Faccioli Pintozzi
È alto e snello; può avere tra i 35 e i 50 anni. Impossibile dirlo, con gli occhiali da sole a proteggere lo sguardo. La barba è sale e pepe, la maglietta non lascia spazio a dubbi: «Hillary For Prison 2016». Bill è nel parcheggio del «Master at Arms», lì dove per meno di 350 dollari ti porti via una pistola, e oggi gli Ar-15 sono in offerta: «Donald Trump è l’uomo giusto per il lavoro» dice con un gran sorriso soddisfatto, e non è solo la difesa del Secondo emendamento: «Il governo fa un passetto alla volta, un giorno ti toglie la pistola, il giorno dopo tutti i tuoi diritti»; non è solo la rabbia del redneck lasciato indietro dalla crisi, «non vediamo un aumento da 12 anni»; non è solo la rivolta contro il politicamente corretto, «mia moglie parla peggio di Trump quando esce da sola con le amiche». È tutto questo, tutto insieme: è la certezza che il paese stia «andando a rotoli».
Benvenuti a Pahrump Contea di Nye, al confine tra Nevada e California; panorami da selvaggio West, e il Mom’s Family Diner – tavoli di legno e sedie con l’imbottitura rossa – a fare da saloon. Se Bill rappresenta lo zoccolo duro degli elettori di Trump, con lui ci saranno quelli che voteranno tappandosi il naso come Milk, veterano 71enne, che sotto i baffi ride «è ridicolo, nessuno dei due dovrebbe correre per la Presidenza», ma poi lo sosterrà perché «pensa ai militari e riporterà il lavoro qui»; o come Tom, carpentiere 52 anni, «voterei chiunque, basta che non sia lei a vincere». Parlano volentieri, tra una tazza di caffè e un sandwich al formaggio; roccaforte repubblicana, per ogni democratico ci sono almeno due conservatori. Venticinquemila abitanti, più del 90% è bianco: lavoratori edili, agricoltori e pensionati. Dormitorio per Las Vegas, città dei casinò e delle conferenze, dei sindacati e delle minoranze.
Le due facce del Nevada, «swing state» per eccellenza, fotografia degli Stati Uniti. Uno stato dove le minoranze - 27,8% latinos, 9,1% afroamericani, 8,3% asiatici – diventeranno presto maggioranza; e dove più del 70% della popolazione vive in agglomerati urbani. Caratteristiche che lo rendono rappresentativo delle aree degli Usa che decideranno le elezioni. Uno stato dove la questione principale rimane quella economica: «La situazione sta migliorando, il mercato immobiliare è in ripresa, ma i salari sono molto bassi e spesso la gente deve fare due lavori; e poi c’è il dossier immigrazione, qui c’è una grande comunità di irregolari e le loro famiglie guardano con attenzione alla questione della cittadinanza e del controllo delle frontiere» riassume la professoressa Tiffany Howard, della Las Vegas University.
Se sull’economia può convincere, Trump qui sembra essersi alienato troppi voti con le sue posizioni su immigrati e minoranze per potercela fare. Forse. «Io sono in un sindacato, i capi hanno dato l’endorsement a Hillary, ma noi voteremo tutti per Donald, anche gli ispanici» racconta ancora Bill che bolla i sondaggi come «carta straccia». È sicuro di vincere, e in caso contrario si prepara al peggio. «Faremo la rivoluzione. Siamo 350 milioni, abbiamo 300 milioni di armi, e il nostro esercito non si rivolterà contro di noi. Non voglio che accada, saremmo schiacciati dai cinesi o russi, ma che dobbiamo fare…». Bill parla mentre un rilevamento della Nbc fotografa il malessere dei repubblicani: il 45% di loro dice che potrebbe non accettare il risultato elettorale. Come ha minacciato Trump. E Intanto, oggi, qui si comincia a votare.
Nel Nevada che sta con Donald
“Vincerà lui o sarà la rivoluzione”
Salari bassi e clandestini alimentano la rabbia dei bianchi
di Liliana Faccioli Pintozzi
È alto e snello; può avere tra i 35 e i 50 anni. Impossibile dirlo, con gli occhiali da sole a proteggere lo sguardo. La barba è sale e pepe, la maglietta non lascia spazio a dubbi: «Hillary For Prison 2016». Bill è nel parcheggio del «Master at Arms», lì dove per meno di 350 dollari ti porti via una pistola, e oggi gli Ar-15 sono in offerta: «Donald Trump è l’uomo giusto per il lavoro» dice con un gran sorriso soddisfatto, e non è solo la difesa del Secondo emendamento: «Il governo fa un passetto alla volta, un giorno ti toglie la pistola, il giorno dopo tutti i tuoi diritti»; non è solo la rabbia del redneck lasciato indietro dalla crisi, «non vediamo un aumento da 12 anni»; non è solo la rivolta contro il politicamente corretto, «mia moglie parla peggio di Trump quando esce da sola con le amiche». È tutto questo, tutto insieme: è la certezza che il paese stia «andando a rotoli».
Benvenuti a Pahrump Contea di Nye, al confine tra Nevada e California; panorami da selvaggio West, e il Mom’s Family Diner – tavoli di legno e sedie con l’imbottitura rossa – a fare da saloon. Se Bill rappresenta lo zoccolo duro degli elettori di Trump, con lui ci saranno quelli che voteranno tappandosi il naso come Milk, veterano 71enne, che sotto i baffi ride «è ridicolo, nessuno dei due dovrebbe correre per la Presidenza», ma poi lo sosterrà perché «pensa ai militari e riporterà il lavoro qui»; o come Tom, carpentiere 52 anni, «voterei chiunque, basta che non sia lei a vincere». Parlano volentieri, tra una tazza di caffè e un sandwich al formaggio; roccaforte repubblicana, per ogni democratico ci sono almeno due conservatori. Venticinquemila abitanti, più del 90% è bianco: lavoratori edili, agricoltori e pensionati. Dormitorio per Las Vegas, città dei casinò e delle conferenze, dei sindacati e delle minoranze.
Le due facce del Nevada, «swing state» per eccellenza, fotografia degli Stati Uniti. Uno stato dove le minoranze - 27,8% latinos, 9,1% afroamericani, 8,3% asiatici – diventeranno presto maggioranza; e dove più del 70% della popolazione vive in agglomerati urbani. Caratteristiche che lo rendono rappresentativo delle aree degli Usa che decideranno le elezioni. Uno stato dove la questione principale rimane quella economica: «La situazione sta migliorando, il mercato immobiliare è in ripresa, ma i salari sono molto bassi e spesso la gente deve fare due lavori; e poi c’è il dossier immigrazione, qui c’è una grande comunità di irregolari e le loro famiglie guardano con attenzione alla questione della cittadinanza e del controllo delle frontiere» riassume la professoressa Tiffany Howard, della Las Vegas University.
Se sull’economia può convincere, Trump qui sembra essersi alienato troppi voti con le sue posizioni su immigrati e minoranze per potercela fare. Forse. «Io sono in un sindacato, i capi hanno dato l’endorsement a Hillary, ma noi voteremo tutti per Donald, anche gli ispanici» racconta ancora Bill che bolla i sondaggi come «carta straccia». È sicuro di vincere, e in caso contrario si prepara al peggio. «Faremo la rivoluzione. Siamo 350 milioni, abbiamo 300 milioni di armi, e il nostro esercito non si rivolterà contro di noi. Non voglio che accada, saremmo schiacciati dai cinesi o russi, ma che dobbiamo fare…». Bill parla mentre un rilevamento della Nbc fotografa il malessere dei repubblicani: il 45% di loro dice che potrebbe non accettare il risultato elettorale. Come ha minacciato Trump. E Intanto, oggi, qui si comincia a votare.
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Re: Dove va l'America?
giovedì 27 ottobre 2016
Repubblica 27.10.16
Quando la fantapolitica ha il profilo di Trump
Arriva in Italia “Da noi non può succedere”, il romanzo di Sinclair Lewis che nel 1936 immaginava l’avvento negli Usa di un regime parafascista
di Federico Rampini
Ci voleva un grande conservatore per osare pronunciare quella parola.
Il fascismo in America? A spezzare il tabù è stato Robert Kagan, già consigliere di George W. Bush, “neocon” esperto di geopolitica, autore della celebre metafora su «gli americani che vengono da Marte, gli europei da Venere».
In un editoriale-shock sul “Washington Post”, il 18 maggio 2016 Kagan ha messo da parte cautele verbali, circonvoluzioni e inibizioni dell’intellighenzia.
Il titolo è stato come un pugno nello stomaco: Ecco come il fascismo arriva in America.
Il portatore della peste nera, Kagan non aveva dubbi, si chiama Donald Trump.
L’intellettuale di destra in quell’intervento drammatico non risparmiava le accuse ai suoi compagni di partito: «Lo sforzo dei repubblicani per trattare Trump come un candidato normale sarebbe ridicolo, se non fosse così pericoloso per la nostra repubblica».
Seguiva una descrizione del ciclone- Trump in tutti i suoi ingredienti: «l’idea che la cultura democratica produce debolezza», «il fascino della forza bruta e del machismo», «le affermazioni incoerenti e contraddittorie ma segnate da ingredienti comuni quali il risentimento e il disprezzo, l’odio e la rabbia verso le minoranze ».
Il verdetto finale: «è una minaccia per la democrazia », un fenomeno «che alla sua apparizione in altre nazioni e in altre epoche, fu definito fascismo ».
Tutto ciò accadeva all’inizio del duello fra Trump e Hillary Clinton.
Mentre scrivo, il verdetto finale non è ancora arrivato.
La Clinton viene data per favorita. Ma anche se dovessimo evitare il peggio, l’America avrà vissuto un’incredibile campagna elettorale, dove è accaduto tutto ciò che Da noi non può succedere.
Un candidato ha sdoganato il razzismo, la misoginia, l’evasione fiscale.
Ha elogiato Vladimir Putin e altri regimi autoritari in giro per il mondo.
Ha invocato l’aiuto degli hacker russi contro la sua rivale.
Ha promesso di mandare in galera la candidata democratica.
E, anche se chi mi legge sta vivendo in un futuro in cui lo scenario peggiore non si è avverato, come spero, resta il fatto che col fenomeno Trump abbiamo convissuto per un’intera campagna presidenziale.
Con lui dovremo fare i conti a lungo, molto a lungo: per tutto ciò che ha fatto emergere dall’America di oggi.
Torno al monito severo di Kagan.
Dopo che il guru neo-conservatore aveva lanciato contro The Donald l’accusa che molti non osavano pronunciare, il New York Times decise di sbattere la controversia in prima pagina.
Con il titolo L’ascesa di Trump e il dibattito sul fascismo, il quotidiano liberal dava conto nella primavera del 2016 di un allarme che stava diventando esplicito.
Un politico, l’ex governatore del Massachusetts William Weld, paragonava il progetto di Trump per la deportazione di undici milioni di immigrati alla “notte dei cristalli” del 1938 in cui i nazisti si scatenarono nelle violenze contro gli ebrei.
Il New York Times allargava l’orizzonte per cogliere dietro il fenomeno Trump una tendenza più globale: mettendo insieme una generazione di leaders che vanno da Vladimir Putin al turco Erdogan, dall’ungherese Orban ai suoi emuli in Polonia, più l’ascesa di vari movimenti di estrema destra in Francia, Germania, Grecia.
È così che l’élite intellettuale newyorchese ha riscoperto due romanzi di fantapolitica.
Scritti da due premi Nobel, in epoche diverse, ma con la stessa trama: l’avvento di un autoritarismo nazionalista in America.
Il primo è questo Da noi non può succedere di Sinclair Lewis, finalmente disponibile in italiano.
Affermazione rassicurante, quella del titolo: ma contraddetta dalla trama narrativa.
Scritto e ambientato nel 1936, immagina che Franklin Roosevelt dopo un solo mandato sia sconfitto e sostituito da un fascista.
L’altro romanzo è di Philip Roth, molto più recente (2004): immagina che nel 1940 Roosevelt sia battuto dall’aviatore Charles Lindbergh, simpatizzante notorio di Hitler e Mussolini.
È probabile che Roth si sia ispirato al precedente di Lewis.
La grande letteratura aveva previsto ciò che i politologi non vollero prendere in considerazione?
La reticenza che aveva impedito questo dibattito ha varie spiegazioni.
Al primo posto, la fiducia sulla solidità della più antica tra le liberal-democrazie.
Poi, l’America è abituata a considerarsi all’avanguardia; è imbarazzante ammettere che nel 2015-2016 ha importato tendenze già in atto da molti anni in Europa (Berlusconi-Bossi- Grillo, tanto per citare solo i nostri) e culminate nel Regno Unito con Brexit.
L’autocensura che ha trattenuto gli intellettuali nasce anche da un complesso di colpa: la narrazione dominante dice che l’élite pensante ha ignorato per anni le sofferenze di quel ceto medio bianco (declassato, impoverito dalla crisi, “marginalizzato” dalla società multietnica) che nel 2016 si è invaghito di Trump.
Dargli del fascista può sembrare una scorciatoia per ignorare le cause profonde di un disagio sociale: quel tradimento delle élites che ho messo al centro del mio ultimo saggio.
Sulle etichette, molti preferiscono sfumature diverse, dalla “democrazia illiberale” ai “populismi autoritari”.
L’allarme di Kagan si è rivelato comunque troppo tardivo per arrestare la tendenza dei repubblicani a salire sul carro del vincitore.
Frastornati, storditi, imbarazzati, umiliati, ma in larga parte troppo codardi, i repubblicani avranno una responsabilità immensa: l’aver consegnato il Grand Old Party di Abraham Lincoln e di Dwight Eisenhower a un affarista imbroglione, egomaniaco, narcisista e con pulsioni autoritarie.
La cui somiglianza col protagonista di questo romanzo è impressionante, inquietante.
IL LIBRO Sinclair Lewis, Da noi non può succedere ( Passigli, pagg. 320, euro 19,50). Qui anticipiamo la prefazione di Federico Rampini
Repubblica 27.10.16
Quando la fantapolitica ha il profilo di Trump
Arriva in Italia “Da noi non può succedere”, il romanzo di Sinclair Lewis che nel 1936 immaginava l’avvento negli Usa di un regime parafascista
di Federico Rampini
Ci voleva un grande conservatore per osare pronunciare quella parola.
Il fascismo in America? A spezzare il tabù è stato Robert Kagan, già consigliere di George W. Bush, “neocon” esperto di geopolitica, autore della celebre metafora su «gli americani che vengono da Marte, gli europei da Venere».
In un editoriale-shock sul “Washington Post”, il 18 maggio 2016 Kagan ha messo da parte cautele verbali, circonvoluzioni e inibizioni dell’intellighenzia.
Il titolo è stato come un pugno nello stomaco: Ecco come il fascismo arriva in America.
Il portatore della peste nera, Kagan non aveva dubbi, si chiama Donald Trump.
L’intellettuale di destra in quell’intervento drammatico non risparmiava le accuse ai suoi compagni di partito: «Lo sforzo dei repubblicani per trattare Trump come un candidato normale sarebbe ridicolo, se non fosse così pericoloso per la nostra repubblica».
Seguiva una descrizione del ciclone- Trump in tutti i suoi ingredienti: «l’idea che la cultura democratica produce debolezza», «il fascino della forza bruta e del machismo», «le affermazioni incoerenti e contraddittorie ma segnate da ingredienti comuni quali il risentimento e il disprezzo, l’odio e la rabbia verso le minoranze ».
Il verdetto finale: «è una minaccia per la democrazia », un fenomeno «che alla sua apparizione in altre nazioni e in altre epoche, fu definito fascismo ».
Tutto ciò accadeva all’inizio del duello fra Trump e Hillary Clinton.
Mentre scrivo, il verdetto finale non è ancora arrivato.
La Clinton viene data per favorita. Ma anche se dovessimo evitare il peggio, l’America avrà vissuto un’incredibile campagna elettorale, dove è accaduto tutto ciò che Da noi non può succedere.
Un candidato ha sdoganato il razzismo, la misoginia, l’evasione fiscale.
Ha elogiato Vladimir Putin e altri regimi autoritari in giro per il mondo.
Ha invocato l’aiuto degli hacker russi contro la sua rivale.
Ha promesso di mandare in galera la candidata democratica.
E, anche se chi mi legge sta vivendo in un futuro in cui lo scenario peggiore non si è avverato, come spero, resta il fatto che col fenomeno Trump abbiamo convissuto per un’intera campagna presidenziale.
Con lui dovremo fare i conti a lungo, molto a lungo: per tutto ciò che ha fatto emergere dall’America di oggi.
Torno al monito severo di Kagan.
Dopo che il guru neo-conservatore aveva lanciato contro The Donald l’accusa che molti non osavano pronunciare, il New York Times decise di sbattere la controversia in prima pagina.
Con il titolo L’ascesa di Trump e il dibattito sul fascismo, il quotidiano liberal dava conto nella primavera del 2016 di un allarme che stava diventando esplicito.
Un politico, l’ex governatore del Massachusetts William Weld, paragonava il progetto di Trump per la deportazione di undici milioni di immigrati alla “notte dei cristalli” del 1938 in cui i nazisti si scatenarono nelle violenze contro gli ebrei.
Il New York Times allargava l’orizzonte per cogliere dietro il fenomeno Trump una tendenza più globale: mettendo insieme una generazione di leaders che vanno da Vladimir Putin al turco Erdogan, dall’ungherese Orban ai suoi emuli in Polonia, più l’ascesa di vari movimenti di estrema destra in Francia, Germania, Grecia.
È così che l’élite intellettuale newyorchese ha riscoperto due romanzi di fantapolitica.
Scritti da due premi Nobel, in epoche diverse, ma con la stessa trama: l’avvento di un autoritarismo nazionalista in America.
Il primo è questo Da noi non può succedere di Sinclair Lewis, finalmente disponibile in italiano.
Affermazione rassicurante, quella del titolo: ma contraddetta dalla trama narrativa.
Scritto e ambientato nel 1936, immagina che Franklin Roosevelt dopo un solo mandato sia sconfitto e sostituito da un fascista.
L’altro romanzo è di Philip Roth, molto più recente (2004): immagina che nel 1940 Roosevelt sia battuto dall’aviatore Charles Lindbergh, simpatizzante notorio di Hitler e Mussolini.
È probabile che Roth si sia ispirato al precedente di Lewis.
La grande letteratura aveva previsto ciò che i politologi non vollero prendere in considerazione?
La reticenza che aveva impedito questo dibattito ha varie spiegazioni.
Al primo posto, la fiducia sulla solidità della più antica tra le liberal-democrazie.
Poi, l’America è abituata a considerarsi all’avanguardia; è imbarazzante ammettere che nel 2015-2016 ha importato tendenze già in atto da molti anni in Europa (Berlusconi-Bossi- Grillo, tanto per citare solo i nostri) e culminate nel Regno Unito con Brexit.
L’autocensura che ha trattenuto gli intellettuali nasce anche da un complesso di colpa: la narrazione dominante dice che l’élite pensante ha ignorato per anni le sofferenze di quel ceto medio bianco (declassato, impoverito dalla crisi, “marginalizzato” dalla società multietnica) che nel 2016 si è invaghito di Trump.
Dargli del fascista può sembrare una scorciatoia per ignorare le cause profonde di un disagio sociale: quel tradimento delle élites che ho messo al centro del mio ultimo saggio.
Sulle etichette, molti preferiscono sfumature diverse, dalla “democrazia illiberale” ai “populismi autoritari”.
L’allarme di Kagan si è rivelato comunque troppo tardivo per arrestare la tendenza dei repubblicani a salire sul carro del vincitore.
Frastornati, storditi, imbarazzati, umiliati, ma in larga parte troppo codardi, i repubblicani avranno una responsabilità immensa: l’aver consegnato il Grand Old Party di Abraham Lincoln e di Dwight Eisenhower a un affarista imbroglione, egomaniaco, narcisista e con pulsioni autoritarie.
La cui somiglianza col protagonista di questo romanzo è impressionante, inquietante.
IL LIBRO Sinclair Lewis, Da noi non può succedere ( Passigli, pagg. 320, euro 19,50). Qui anticipiamo la prefazione di Federico Rampini
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Re: Dove va l'America?
ORMAI SU TUTTO IL PIANETA DOMINA LA TRUFFA
LIBRE news
Clinton, sondaggi gonfiati. Wikileaks: eccovi le prove
Scritto il 29/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Sondaggi manipolati, istruzioni per l’uso: le impartisce John Podesta, coordinatore della campagna elettorale di Hillary Clinton. Obiettivo, letteralmente: “sovra-rappresentare” settori del campione, per gonfiare il risultato. La segnalazione proviene da “Zero Hedge”, che parte da una recente email del comitato elettorale della Clinton, hackerata da Wikileaks, da cui emerge come «almeno dall’inizio dell’anno siano presumibilmente in corso manipolazioni dei sondaggi statunitensi pubblicati dagli organi di stampa allineati all’establishment democratico (quasi tutti), al fine di scoraggiare l’elettorato avversario», riporta “Voci dall’Estero”. «Le manipolazioni avvengono in modo piuttosto semplice: ci si assicura di “sovra-rappresentare” certe regioni e gruppi etnici più favorevoli ai democratici». Ancora il 23 ottobre, quando molti sondaggi mainstream danno la Clinton in vantaggio su Trump di “oltre 10 punti” (ma non “Bloomberg”, secondo cui Trump sarebbe in testa, in Stati-chiave come la Florida), “Zero Hedge” rileva «l’evidente distorsione nel campionamento dell’ultimo sondaggio “Abc/Washington Post”, il quale riportava un vantaggio di 12 punti percentuali a livello nazionale in favore della Clinton».Come molti dei recenti sondaggi di “Reuters”, “Abc” e “Washington Post”, in quell’ultimo sondaggio «c’era una distorsione di 9 punti percentuali nel campionamento in favore degli elettori del partito democratico». La rilevazione viene effettuata via telefono, in inglese e in spagnolo, su un campione di 874 probabili elettori a livello nazionale, estratto casualmente. I risultati hanno un margine di errore del 3,5%. «Anche se i democratici potrebbero godere effettivamente di un lieve vantaggio di un paio di punti, questo non ha niente a che fare coi 9 punti di distacco riportati», afferma “Zero Hedge”. A causa delle enormi variazioni di preferenze politiche legate ai fattori demografici, aggiunge il blog, «è abbastanza facile “manipolare” un sondaggio sovra-rappresentando un gruppo rispetto a un altro». Esempio: secondo un sondaggio “Abc/WaPo”, la Clinton avrebbe addirittura 79 punti di vantaggio su Trump tra gli elettori di colore. «Per di più, i sondaggisti non forniscono i dati demografici sul campione degli intervistati, e questo rende impossibile una verifica sulla eventuale distorsione “opportunistica”».A chi ancora non è convinto che i sondaggi pro-Cinton siano “aggiustati”, sempre “Zero Hedge” consiglia la lettura di una mail di Podesta, trapelata via Wikileaks, che esprime una richiesta di raccomandazione sulla «sovra-rappresentazione nei sondaggi», in modo da «massimizzare i nostri risultati nei sondaggi divulgati dai media». Scrive il capo-staff di Hillary: «Voglio che i vostri uomini di Atlas suggeriscano la sovra-rappresentazione nei nostri sondaggi prima dell’inizio, a febbraio. Una sovra-rappresentazione per aree di mercato, regioni, ecc. Vorrei che venisse compilato un elenco di raccomandazioni in modo da poter massimizzare i nostri risultati nei sondaggi divulgati dai media». La mail include anche una comoda guida in 37 pagine con precise raccomandazioni su come manipolare i sondaggi. In Arizona, ad esempio, è fortemente caldeggiata la sovra-rappresentazione dei nativi americani e dgli ispanici: «Usate la lingua spagnola nelle interviste (le persone che parlano solo spagnolo sono tra le popolazioni “target” dei democratici con la più bassa affluenza)». Per la Florida, Podesta raccomanda di «monitorare costantemente» i campioni intervistati, in modo da assicurarsi che «non siano troppo anziani» e «includano un numero sufficiente di afro-americani e di ispanici».Allo stesso tempo, gli elettori di candidati “indipendenti” di Tampa e Orlando sembrano essere più favorevoli al partito democratico, quindi il report suggerisce di iniziare a riempire le quote degli elettori indipendenti, nei sondaggi, a partire da queste città. «Tampa e Orlando hanno elettori di più facile persuasione rispetto al nord o al sud della Florida», scrive Podesta, che aggiunge: «Controllate però i sondaggi prima di arrivare a questa conclusione». E attenzione: «Se ci sono questioni di budget o sui campioni – prosegue – assicuratevi che Tampa e Orlando siano rappresentate per prime». Allo stesso tempo, Podesta suggerisce che i sondaggi a livello nazionale “sovra-rappresentino” adeguatamente «regioni e distretti chiave». Letteralmente: «Mettete a confronto i sondaggi per i gruppi razziali di riferimento, con sovra-rappresentazione quanto necessario». E inoltre: «Tenete monitorati i sondaggi per i gruppi razziali cruciali, con sovra-rappresentazione quanto necessario». Ed è così, chiosa “Zero Hedge”, che all’improvviso Hillary “vola” nei sondaggi.
LIBRE news
Clinton, sondaggi gonfiati. Wikileaks: eccovi le prove
Scritto il 29/10/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi
Sondaggi manipolati, istruzioni per l’uso: le impartisce John Podesta, coordinatore della campagna elettorale di Hillary Clinton. Obiettivo, letteralmente: “sovra-rappresentare” settori del campione, per gonfiare il risultato. La segnalazione proviene da “Zero Hedge”, che parte da una recente email del comitato elettorale della Clinton, hackerata da Wikileaks, da cui emerge come «almeno dall’inizio dell’anno siano presumibilmente in corso manipolazioni dei sondaggi statunitensi pubblicati dagli organi di stampa allineati all’establishment democratico (quasi tutti), al fine di scoraggiare l’elettorato avversario», riporta “Voci dall’Estero”. «Le manipolazioni avvengono in modo piuttosto semplice: ci si assicura di “sovra-rappresentare” certe regioni e gruppi etnici più favorevoli ai democratici». Ancora il 23 ottobre, quando molti sondaggi mainstream danno la Clinton in vantaggio su Trump di “oltre 10 punti” (ma non “Bloomberg”, secondo cui Trump sarebbe in testa, in Stati-chiave come la Florida), “Zero Hedge” rileva «l’evidente distorsione nel campionamento dell’ultimo sondaggio “Abc/Washington Post”, il quale riportava un vantaggio di 12 punti percentuali a livello nazionale in favore della Clinton».Come molti dei recenti sondaggi di “Reuters”, “Abc” e “Washington Post”, in quell’ultimo sondaggio «c’era una distorsione di 9 punti percentuali nel campionamento in favore degli elettori del partito democratico». La rilevazione viene effettuata via telefono, in inglese e in spagnolo, su un campione di 874 probabili elettori a livello nazionale, estratto casualmente. I risultati hanno un margine di errore del 3,5%. «Anche se i democratici potrebbero godere effettivamente di un lieve vantaggio di un paio di punti, questo non ha niente a che fare coi 9 punti di distacco riportati», afferma “Zero Hedge”. A causa delle enormi variazioni di preferenze politiche legate ai fattori demografici, aggiunge il blog, «è abbastanza facile “manipolare” un sondaggio sovra-rappresentando un gruppo rispetto a un altro». Esempio: secondo un sondaggio “Abc/WaPo”, la Clinton avrebbe addirittura 79 punti di vantaggio su Trump tra gli elettori di colore. «Per di più, i sondaggisti non forniscono i dati demografici sul campione degli intervistati, e questo rende impossibile una verifica sulla eventuale distorsione “opportunistica”».A chi ancora non è convinto che i sondaggi pro-Cinton siano “aggiustati”, sempre “Zero Hedge” consiglia la lettura di una mail di Podesta, trapelata via Wikileaks, che esprime una richiesta di raccomandazione sulla «sovra-rappresentazione nei sondaggi», in modo da «massimizzare i nostri risultati nei sondaggi divulgati dai media». Scrive il capo-staff di Hillary: «Voglio che i vostri uomini di Atlas suggeriscano la sovra-rappresentazione nei nostri sondaggi prima dell’inizio, a febbraio. Una sovra-rappresentazione per aree di mercato, regioni, ecc. Vorrei che venisse compilato un elenco di raccomandazioni in modo da poter massimizzare i nostri risultati nei sondaggi divulgati dai media». La mail include anche una comoda guida in 37 pagine con precise raccomandazioni su come manipolare i sondaggi. In Arizona, ad esempio, è fortemente caldeggiata la sovra-rappresentazione dei nativi americani e dgli ispanici: «Usate la lingua spagnola nelle interviste (le persone che parlano solo spagnolo sono tra le popolazioni “target” dei democratici con la più bassa affluenza)». Per la Florida, Podesta raccomanda di «monitorare costantemente» i campioni intervistati, in modo da assicurarsi che «non siano troppo anziani» e «includano un numero sufficiente di afro-americani e di ispanici».Allo stesso tempo, gli elettori di candidati “indipendenti” di Tampa e Orlando sembrano essere più favorevoli al partito democratico, quindi il report suggerisce di iniziare a riempire le quote degli elettori indipendenti, nei sondaggi, a partire da queste città. «Tampa e Orlando hanno elettori di più facile persuasione rispetto al nord o al sud della Florida», scrive Podesta, che aggiunge: «Controllate però i sondaggi prima di arrivare a questa conclusione». E attenzione: «Se ci sono questioni di budget o sui campioni – prosegue – assicuratevi che Tampa e Orlando siano rappresentate per prime». Allo stesso tempo, Podesta suggerisce che i sondaggi a livello nazionale “sovra-rappresentino” adeguatamente «regioni e distretti chiave». Letteralmente: «Mettete a confronto i sondaggi per i gruppi razziali di riferimento, con sovra-rappresentazione quanto necessario». E inoltre: «Tenete monitorati i sondaggi per i gruppi razziali cruciali, con sovra-rappresentazione quanto necessario». Ed è così, chiosa “Zero Hedge”, che all’improvviso Hillary “vola” nei sondaggi.
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Re: Dove va l'America?
VINCA IL PEGGIORE
E' questo il messaggio che gli Usa mandano al mondo.
Corriere 29.10.16
Anche se a novembre Clinton riuscirà a spuntarla lo scenario del dopo si presenta molto più oscuro
di Massimo Gaggi
«October surprise» è l’espressione del lessico politico di Washington che indica la possibilità di un colpo di scena nel mese precedente il voto per la Casa Bianca. Alla vigilia di queste tormentate presidenziali 2016 di sorprese ce ne sono state in quantità: dallo stillicidio di WikiLeaks agli scandali a sfondo sessuale di Donald Trump, dalla polmonite di Hillary Clinton, alle interferenze russe nella campagna.
Ma adesso, col voto fissato per l’8 novembre e la decisione dell’Fbi di riaprire l’inchiesta, in quel vocabolario politico rischia di spuntare anche il neologismo della «november surprise»: nei prossimi giorni può ancora succedere di tutto. Mentre la stampa americana cerca di capire quali sono le scoperte dell’Fbi, Trump vede uno squarcio di sereno nel suo cupo orizzonte elettorale e ne approfitta secondo il suo stile: il candidato che ha minacciato di mandare in galera la sua avversaria se diventerà presidente ieri ha incitato gli americani a impedire alla Clinton «di portare i suoi schemi criminali nello Studio ovale». Basterà questo ulteriore, drammatico sviluppo a erodere il vantaggio accumulato nelle ultime settimane dalla candidata democratica? Difficile misurare l’impatto del nuovo caso sugli umori degli elettori negli Stati-chiave per il voto, anche perché i vasi continuano a esplodere, uno dopo l’altro. Ma, anche se la Clinton riuscirà a spuntarla l’8 novembre, come affermato dai sondaggisti, il dopo voto si presenta sempre più oscuro: da tempo la stampa registra i propositi insurrezionali di molti supporter di Trump che si dichiarano pronti a tutto pur di impedirle di prendere il potere. L’inchiesta dell’Fbi alimenta questi propositi e indebolisce ulteriormente, oltre a Hillary, l’immagine della democrazia Usa. Una costruzione solida nella quale si sono aperte crepe, ora in balìa di un populista che ha «sequestrato» il partito repubblicano e di una ex first lady arrogante e pasticciona. E ora anche, a quanto pare, di manovratori oscuri e di un mezzo maniaco sessuale, marito della sua assistente, che avrebbe rivelato segreti di Stato mentre adescava una quindicenne.
E' questo il messaggio che gli Usa mandano al mondo.
Corriere 29.10.16
Anche se a novembre Clinton riuscirà a spuntarla lo scenario del dopo si presenta molto più oscuro
di Massimo Gaggi
«October surprise» è l’espressione del lessico politico di Washington che indica la possibilità di un colpo di scena nel mese precedente il voto per la Casa Bianca. Alla vigilia di queste tormentate presidenziali 2016 di sorprese ce ne sono state in quantità: dallo stillicidio di WikiLeaks agli scandali a sfondo sessuale di Donald Trump, dalla polmonite di Hillary Clinton, alle interferenze russe nella campagna.
Ma adesso, col voto fissato per l’8 novembre e la decisione dell’Fbi di riaprire l’inchiesta, in quel vocabolario politico rischia di spuntare anche il neologismo della «november surprise»: nei prossimi giorni può ancora succedere di tutto. Mentre la stampa americana cerca di capire quali sono le scoperte dell’Fbi, Trump vede uno squarcio di sereno nel suo cupo orizzonte elettorale e ne approfitta secondo il suo stile: il candidato che ha minacciato di mandare in galera la sua avversaria se diventerà presidente ieri ha incitato gli americani a impedire alla Clinton «di portare i suoi schemi criminali nello Studio ovale». Basterà questo ulteriore, drammatico sviluppo a erodere il vantaggio accumulato nelle ultime settimane dalla candidata democratica? Difficile misurare l’impatto del nuovo caso sugli umori degli elettori negli Stati-chiave per il voto, anche perché i vasi continuano a esplodere, uno dopo l’altro. Ma, anche se la Clinton riuscirà a spuntarla l’8 novembre, come affermato dai sondaggisti, il dopo voto si presenta sempre più oscuro: da tempo la stampa registra i propositi insurrezionali di molti supporter di Trump che si dichiarano pronti a tutto pur di impedirle di prendere il potere. L’inchiesta dell’Fbi alimenta questi propositi e indebolisce ulteriormente, oltre a Hillary, l’immagine della democrazia Usa. Una costruzione solida nella quale si sono aperte crepe, ora in balìa di un populista che ha «sequestrato» il partito repubblicano e di una ex first lady arrogante e pasticciona. E ora anche, a quanto pare, di manovratori oscuri e di un mezzo maniaco sessuale, marito della sua assistente, che avrebbe rivelato segreti di Stato mentre adescava una quindicenne.
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Re: Dove va l'America?
..SE NON SON MATTI NON LI VOGLIAMO..
Il Sole 30.6.16
Non era meglio aspettare?
Anche l’Fbi finisce nella tempesta
di Mario Platero
È il momento dei veleni. Ma anche di una crisi istituzionale senza precedenti in America. Per intervento dell’Fbi riemerge lo scandalo emailgate di Hillary Clinton.
E il “Reality Show” di queste incredibili elezioni americane arriva alla miscela esplosiva finale: e-mail, conflitti di interesse, sesso, menzogne, abusi di potere, depravazioni, sospetti, si intrecciano seguendo un unico filo conduttore, l’incertezza. Incertezza sulle ragioni dell’intervento dell’Fbi a dieci giorni dall’appuntamento alle urne, incertezza sull’esistenza di e-mail che possano davvero inchiodare Hillary Clinton, incertezza sull’esito elettorale. Incertezza dei mercati. Incertezza dello stesso capo dell’Fbi, James Comey: «Per ora non sappiamo granché», ha di fatto scritto al Congresso. Ma la bomba è esplosa lo stesso, facendo schricchiolare l’impianto democratico americano. Non era meglio aspettare?
«Nel dubbio astieniti» dice il vecchio proverbio. Eppure Comey nel dubbio è andato avanti. Ecco perché la crisi degli ultimi due giorni oltre che elettorale diventa istituzionale. La separazione dei poteri, cardine di questa democrazia, tutela l’autonomia dell’Fbi in cambio di un paio di contropartite, equilibrio e certezze. Esattamente il contrario di quel che è successo, Comey non ha solo introdotto improvvisi drammatici elementi di incertezza a dieci giorni dalle elezioni per la Casa Bianca 2016, ma lo ha fatto con una forte impulsività.
Per questo sia democratici che repubblicani chiedono i fatti e attaccano l’Fbi. E fanno bene, perché un’uscita di questo genere - la diffusione del sospetto e della calunnia senza possibilità di assoluzione o di conferme delle accuse “prima” delle elezioni - non è solo miscela esplosiva, ma abuso di potere. Trump sa che solo la pubblicizzazione di una e-mail devastante per Hillary potrebbe davvero aprirgli le porte della Casa Bianca. Hillary sa che senza la prova che le e-mail non contengono nulla di nuovo rischia di vedere franare la sua solida maggioranza per vincere la Casa Bianca. E se vincerà sarà anatra zoppa prima ancora di cominciare. L’unica certezza per ora è che nell’era di Internet dieci giorni sono un’eternità.
Resta un mistero: se Comey non sapeva, come ha confessato al Congresso, perché non ha atteso l’esito dell’inchiesta, la verifica delle e-mail prima di gettare barili di benzina in uno scenario politico incandescente? C’è chi dice, come Carl Bernstein, il giornalista che ha denunciato lo scandalo Watergate, che lo ha fatto perché le prove erano schiaccianti. Ma può aver anche ceduto alle pressioni di agenti disillusi dopo l’archiviazione del caso contro Hillary in luglio. Sappiamo che Comey è stato attaccato all’interno. Sappiamo che è repubblicano. Ma sappiamo anche che è al di sopra di ogni sospetto di parzialità, per questo Obama lo ha scelto. E allora? Per Comey forse ha prevalso la difesa dell’integrità e dell’autonomia del suo Bureau, la necessità di tirare dritto proprio per tutelare la separazione dei poteri ex post. Ma l’autonomia istituzionale chiede responsabilità al servizio del Paese. Che la sacrosanta separazione dei poteri abbia invece portato a irresponsabilità e al disservizio per gli americani, la dice lunga sulla crisi delle democrazie occidentali.
Il Sole 30.6.16
Non era meglio aspettare?
Anche l’Fbi finisce nella tempesta
di Mario Platero
È il momento dei veleni. Ma anche di una crisi istituzionale senza precedenti in America. Per intervento dell’Fbi riemerge lo scandalo emailgate di Hillary Clinton.
E il “Reality Show” di queste incredibili elezioni americane arriva alla miscela esplosiva finale: e-mail, conflitti di interesse, sesso, menzogne, abusi di potere, depravazioni, sospetti, si intrecciano seguendo un unico filo conduttore, l’incertezza. Incertezza sulle ragioni dell’intervento dell’Fbi a dieci giorni dall’appuntamento alle urne, incertezza sull’esistenza di e-mail che possano davvero inchiodare Hillary Clinton, incertezza sull’esito elettorale. Incertezza dei mercati. Incertezza dello stesso capo dell’Fbi, James Comey: «Per ora non sappiamo granché», ha di fatto scritto al Congresso. Ma la bomba è esplosa lo stesso, facendo schricchiolare l’impianto democratico americano. Non era meglio aspettare?
«Nel dubbio astieniti» dice il vecchio proverbio. Eppure Comey nel dubbio è andato avanti. Ecco perché la crisi degli ultimi due giorni oltre che elettorale diventa istituzionale. La separazione dei poteri, cardine di questa democrazia, tutela l’autonomia dell’Fbi in cambio di un paio di contropartite, equilibrio e certezze. Esattamente il contrario di quel che è successo, Comey non ha solo introdotto improvvisi drammatici elementi di incertezza a dieci giorni dalle elezioni per la Casa Bianca 2016, ma lo ha fatto con una forte impulsività.
Per questo sia democratici che repubblicani chiedono i fatti e attaccano l’Fbi. E fanno bene, perché un’uscita di questo genere - la diffusione del sospetto e della calunnia senza possibilità di assoluzione o di conferme delle accuse “prima” delle elezioni - non è solo miscela esplosiva, ma abuso di potere. Trump sa che solo la pubblicizzazione di una e-mail devastante per Hillary potrebbe davvero aprirgli le porte della Casa Bianca. Hillary sa che senza la prova che le e-mail non contengono nulla di nuovo rischia di vedere franare la sua solida maggioranza per vincere la Casa Bianca. E se vincerà sarà anatra zoppa prima ancora di cominciare. L’unica certezza per ora è che nell’era di Internet dieci giorni sono un’eternità.
Resta un mistero: se Comey non sapeva, come ha confessato al Congresso, perché non ha atteso l’esito dell’inchiesta, la verifica delle e-mail prima di gettare barili di benzina in uno scenario politico incandescente? C’è chi dice, come Carl Bernstein, il giornalista che ha denunciato lo scandalo Watergate, che lo ha fatto perché le prove erano schiaccianti. Ma può aver anche ceduto alle pressioni di agenti disillusi dopo l’archiviazione del caso contro Hillary in luglio. Sappiamo che Comey è stato attaccato all’interno. Sappiamo che è repubblicano. Ma sappiamo anche che è al di sopra di ogni sospetto di parzialità, per questo Obama lo ha scelto. E allora? Per Comey forse ha prevalso la difesa dell’integrità e dell’autonomia del suo Bureau, la necessità di tirare dritto proprio per tutelare la separazione dei poteri ex post. Ma l’autonomia istituzionale chiede responsabilità al servizio del Paese. Che la sacrosanta separazione dei poteri abbia invece portato a irresponsabilità e al disservizio per gli americani, la dice lunga sulla crisi delle democrazie occidentali.
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Re: Dove va l'America?
..SE NON SON MATTI NON LI VOGLIAMO..
il manifesto 30.10.16
L’ipotesi di un «inside job»: chi ha interesse in questo scandalo
Stati uniti. Al momento si sa ancora molto poco visto che l’indagine su Weiner è in corso, ma le teorie di complotto interno rendono bene l’idea di come questa sia la peggiore campagna elettorale di sempre
di Marina Catucci
NEW YORK La notizia dell’apertura da parte dell’Fbi di un nuovo caso riguardante le mail di Hillary Clinton si è abbattuta sui media e su una campagna elettorale che riserva una sorpresa al giorno. Che una notizia di queste proporzioni arrivi 10 giorni prima delle elezioni fa sollevare mille illazioni riguardo chi ci sia davvero dietro questo scoop.
Facendo un passo indietro, nei mesi passati c’è stato un fuoco di fila di rivelazioni riguardanti i democratici, tutte arrivate tramite hackeraggi alle mail del partito e dei suoi funzionari; rivelazioni il più delle volte divulgate dall’arci nemico di Hillary Clinton, Julian Assange. Una delle voci più autorevoli ad essersi alzata a proposito di tutte queste rivelazioni riguardanti le mail dei democratici, è stata quella di Bill Binney, analista americano che, dopo 36 passati a lavorare per la National Security Agency di cui è stato direttore tecnico, coordinando il lavoro di 6.000 uomini, resosi conto del programma di controllo di massa che aveva contribuito ad implementare ai danni dei cittadini americani, ha deciso di renderlo pubblico diventando un whistleblower. Binney, qualche anno prima di Edward Snowden, ha tentato di opporsi ai programmi di sorveglianza di massa di George W. Bush e ne ha parlato pubblicamente in occasioni come la conferenza hacker newyorkese Hope, in un intervento immortalato da Laura Poitras e che apre il suo film Citizen four.
Una delle peculiarità di Binney è quella di essere uno dei più grandi crittografi che la Nsa abbia mai avuto; in occasione delle rivelazioni sui democratici rese pubbliche da WikiLeaks, Binney è stato interpellato più volte e in diverse occasioni ha parlato della fuga delle email dei democratici attraverso un’analisi del tutto diversa da quella presentata dal governo americano; di base Binney ha respinto le certezze che danno per sicure le prove e le tracce informatiche che portano a parlare di un’incursione di hacker russi nel furto di mail. Secondo Binney, invece, le tecniche usate, anche nei leaks riguardanti le mail di Podesta, il capo della campagna di Hillary, porterebbero direttamente alla Nsa, un inside job, come si dice, un lavoro interno operato da un braccio della stessa Nsa.
Secondo Binney la NSA ha sistemi che possono rintracciare i pacchetti di informazioni mentre lasciano la casella di posta della Dnc, e seguire i loro percorsi fino alla «posta in arrivo» di WikiLeaks. Queste affermazioni sono state ripescate anche in questa occasione per sostenere l’ipotesi che anche in questo caso si sia di fronte ad un altro inside job, con un braccio dell’Fbi che non ha mai smesso di indagare sulle mail di Clinton, così come altre voci ipotizzano che il capo dell’Fbi, stia in realtà lavorando per Putin per discreditare Clinton, cosí come lo si è ipotizzato per WikiLeaks. Al momento si sa ancora molto poco visto che l’indagine su Weiner è in corso, ma le teorie di complotto interno rendono bene l’idea di come questa sia la peggiore campagna elettorale di sempre.
il manifesto 30.10.16
L’ipotesi di un «inside job»: chi ha interesse in questo scandalo
Stati uniti. Al momento si sa ancora molto poco visto che l’indagine su Weiner è in corso, ma le teorie di complotto interno rendono bene l’idea di come questa sia la peggiore campagna elettorale di sempre
di Marina Catucci
NEW YORK La notizia dell’apertura da parte dell’Fbi di un nuovo caso riguardante le mail di Hillary Clinton si è abbattuta sui media e su una campagna elettorale che riserva una sorpresa al giorno. Che una notizia di queste proporzioni arrivi 10 giorni prima delle elezioni fa sollevare mille illazioni riguardo chi ci sia davvero dietro questo scoop.
Facendo un passo indietro, nei mesi passati c’è stato un fuoco di fila di rivelazioni riguardanti i democratici, tutte arrivate tramite hackeraggi alle mail del partito e dei suoi funzionari; rivelazioni il più delle volte divulgate dall’arci nemico di Hillary Clinton, Julian Assange. Una delle voci più autorevoli ad essersi alzata a proposito di tutte queste rivelazioni riguardanti le mail dei democratici, è stata quella di Bill Binney, analista americano che, dopo 36 passati a lavorare per la National Security Agency di cui è stato direttore tecnico, coordinando il lavoro di 6.000 uomini, resosi conto del programma di controllo di massa che aveva contribuito ad implementare ai danni dei cittadini americani, ha deciso di renderlo pubblico diventando un whistleblower. Binney, qualche anno prima di Edward Snowden, ha tentato di opporsi ai programmi di sorveglianza di massa di George W. Bush e ne ha parlato pubblicamente in occasioni come la conferenza hacker newyorkese Hope, in un intervento immortalato da Laura Poitras e che apre il suo film Citizen four.
Una delle peculiarità di Binney è quella di essere uno dei più grandi crittografi che la Nsa abbia mai avuto; in occasione delle rivelazioni sui democratici rese pubbliche da WikiLeaks, Binney è stato interpellato più volte e in diverse occasioni ha parlato della fuga delle email dei democratici attraverso un’analisi del tutto diversa da quella presentata dal governo americano; di base Binney ha respinto le certezze che danno per sicure le prove e le tracce informatiche che portano a parlare di un’incursione di hacker russi nel furto di mail. Secondo Binney, invece, le tecniche usate, anche nei leaks riguardanti le mail di Podesta, il capo della campagna di Hillary, porterebbero direttamente alla Nsa, un inside job, come si dice, un lavoro interno operato da un braccio della stessa Nsa.
Secondo Binney la NSA ha sistemi che possono rintracciare i pacchetti di informazioni mentre lasciano la casella di posta della Dnc, e seguire i loro percorsi fino alla «posta in arrivo» di WikiLeaks. Queste affermazioni sono state ripescate anche in questa occasione per sostenere l’ipotesi che anche in questo caso si sia di fronte ad un altro inside job, con un braccio dell’Fbi che non ha mai smesso di indagare sulle mail di Clinton, così come altre voci ipotizzano che il capo dell’Fbi, stia in realtà lavorando per Putin per discreditare Clinton, cosí come lo si è ipotizzato per WikiLeaks. Al momento si sa ancora molto poco visto che l’indagine su Weiner è in corso, ma le teorie di complotto interno rendono bene l’idea di come questa sia la peggiore campagna elettorale di sempre.
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Re: Dove va l'America?
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La Stampa 30.10.16
Ohio, tra le tute blu tentate da Donald “Pronti a fare il salto”
“Questo scandalo lo farà vincere”
di Francesco Semprini
Gli studenti della Youngstown State University mettono a punto i carri in vista di Halloween, si respira un’aria frizzante in questa città dell’Ohio, e non solo per l’arrivo della notte delle streghe. La notizia delle nuove indagini sulle mail di Hillary qui è rimbalzata alla velocità della luce, riaccendendo le speranze di vederla chiusa fuori dai cancelli della Casa Bianca. Se ne discute con animosità in un McDonald davanti al campus, dove è in corso la festa degli studenti. «Basta che si azzuffino - dice George, afro-americano sui 60 anni - Di noi non interessa a nessuno». «Sicuramente non alla Clinton - replica Ted, 50enne bianco - È una strega». Ted è uno «steeler», tuta blu dell’acciaio di una delle rare imprese sopravvissute alla crisi della «Rust Belt», l’industria pesante messa in ginocchio dalla delocalizzazione. Rust, ruggine, come quella che ha divorato Youngstown, un declino iniziato negli anni ’80 e accelerato dagli accordi di libero scambio Nafta e Wto. Gli oltre 160 mila abitanti degli anni ‘60 sono oggi 64 mila. Un impulso alla rinascita è dato dall’ateneo, «l’incubatore della ripresa», come l’ha definito Obama, e grazie al quale si sta sviluppando un distretto di start-up. Ma il timore è che con i nuovi accordi Ttp e Ttip, la città, lo Stato, la nazione, venano gambizzati di nuovo. «Con Hillary faranno la stessa fine anche loro», dice Ted indicando il tappeto di felpe rosse degli universitari. Rosse come il cappello che lo «steeler» indossa, con la scritta «Fare l’America grande di nuovo». Ma a Youngstown si parte da un gradino più basso: «Save America, Vote Trump», recitano i cartelloni tra le vie della città. Perché ancor prima di rifare grande il Paese occorre salvarlo dalla strega, dice Donald Skowron, poliziotto in pensione e militante repubblicano. È lui ad aver creato il motto «Cross Over», fai il salto, che campeggia sui muri di Youngstown o su alcuni furgoncini. La città non elegge un candidato del Gop da quando Nixon vinse le elezioni del 1972, ma ora il cambiamento è «un dovere». Il primo «Cross Over» è stato di Ronald Skowron, fratello di Donald, ex vice sceriffo ed ex democratico, oggi sostenitore di Trump per il quale fa campagna nella contea di Mahoning, secolare feudo blu forgiato dalle «Union» dopo la Grande Depressione. Oggi però le tute blu hanno fatto il salto anti-sistema, spinti dal rancore per Washington e dal «tradimento di quell’establishment democratico che fa politiche per l’1% e strizza l’occhio a clandestini e disoccupati per scelta». E con loro questa volta ci sono anche i sindacati, come il «Golden Lodge Local» di Canton, oltre cento chilometri a sud-ovest. Bocche cucite ufficialmente, ma a microfoni spenti ammettono il loro «piccolo segreto». «In realtà i blue collar sono spaccati - dicono - Se le priorità sono economia e lavoro allora voti Trump». E tra le tute blu l’economia, quella micro e non dei grandi sistemi, conta eccome. Conta in tutta la cintura della ruggine, nella Washington County, una delle dieci contee della Pennsylvania «indecise» per vocazione, ma che si stanno colorando inesorabilmente di rosso. L’allarme giunge a gran voce da Ron Sicchitano, ex minatore e presidente del Partito democratico locale: «Le invettive contro il carbone di Obama e Clinton ci stanno devastando». Così qui Trump ha gioco facile, come a Youngstown, dove si invoca un nuovo «Black Monday», il lunedì nero del settembre di 39 anni fa, quando gli operai invasero la città per manifestare contro la chiusura di «Youngtown Sheet and Tube». Mentre c’è chi rivive nel tycoon di New York l’epopea di Jim Traficant, «cowboy democratico» e unico candidato dell’Asinello eletto al Congresso nell’anno in cui Reagan sbancò in 49 Stati. Esuberante e controverso politico dalla chioma bizzarra che prometteva legge e ordine a «Crimetown» (nomignolo di Youngstown), e chiedeva restrizioni all’immigrazione con lo slogan «America First». La sua maschera e quella di Trump sono tra quelle dei carri dell’Halloween di Youngstown: «Un rito - dicono - per celebrare lo scandalo mail ed esorcizzare la “strega”».
La Stampa 30.10.16
Ohio, tra le tute blu tentate da Donald “Pronti a fare il salto”
“Questo scandalo lo farà vincere”
di Francesco Semprini
Gli studenti della Youngstown State University mettono a punto i carri in vista di Halloween, si respira un’aria frizzante in questa città dell’Ohio, e non solo per l’arrivo della notte delle streghe. La notizia delle nuove indagini sulle mail di Hillary qui è rimbalzata alla velocità della luce, riaccendendo le speranze di vederla chiusa fuori dai cancelli della Casa Bianca. Se ne discute con animosità in un McDonald davanti al campus, dove è in corso la festa degli studenti. «Basta che si azzuffino - dice George, afro-americano sui 60 anni - Di noi non interessa a nessuno». «Sicuramente non alla Clinton - replica Ted, 50enne bianco - È una strega». Ted è uno «steeler», tuta blu dell’acciaio di una delle rare imprese sopravvissute alla crisi della «Rust Belt», l’industria pesante messa in ginocchio dalla delocalizzazione. Rust, ruggine, come quella che ha divorato Youngstown, un declino iniziato negli anni ’80 e accelerato dagli accordi di libero scambio Nafta e Wto. Gli oltre 160 mila abitanti degli anni ‘60 sono oggi 64 mila. Un impulso alla rinascita è dato dall’ateneo, «l’incubatore della ripresa», come l’ha definito Obama, e grazie al quale si sta sviluppando un distretto di start-up. Ma il timore è che con i nuovi accordi Ttp e Ttip, la città, lo Stato, la nazione, venano gambizzati di nuovo. «Con Hillary faranno la stessa fine anche loro», dice Ted indicando il tappeto di felpe rosse degli universitari. Rosse come il cappello che lo «steeler» indossa, con la scritta «Fare l’America grande di nuovo». Ma a Youngstown si parte da un gradino più basso: «Save America, Vote Trump», recitano i cartelloni tra le vie della città. Perché ancor prima di rifare grande il Paese occorre salvarlo dalla strega, dice Donald Skowron, poliziotto in pensione e militante repubblicano. È lui ad aver creato il motto «Cross Over», fai il salto, che campeggia sui muri di Youngstown o su alcuni furgoncini. La città non elegge un candidato del Gop da quando Nixon vinse le elezioni del 1972, ma ora il cambiamento è «un dovere». Il primo «Cross Over» è stato di Ronald Skowron, fratello di Donald, ex vice sceriffo ed ex democratico, oggi sostenitore di Trump per il quale fa campagna nella contea di Mahoning, secolare feudo blu forgiato dalle «Union» dopo la Grande Depressione. Oggi però le tute blu hanno fatto il salto anti-sistema, spinti dal rancore per Washington e dal «tradimento di quell’establishment democratico che fa politiche per l’1% e strizza l’occhio a clandestini e disoccupati per scelta». E con loro questa volta ci sono anche i sindacati, come il «Golden Lodge Local» di Canton, oltre cento chilometri a sud-ovest. Bocche cucite ufficialmente, ma a microfoni spenti ammettono il loro «piccolo segreto». «In realtà i blue collar sono spaccati - dicono - Se le priorità sono economia e lavoro allora voti Trump». E tra le tute blu l’economia, quella micro e non dei grandi sistemi, conta eccome. Conta in tutta la cintura della ruggine, nella Washington County, una delle dieci contee della Pennsylvania «indecise» per vocazione, ma che si stanno colorando inesorabilmente di rosso. L’allarme giunge a gran voce da Ron Sicchitano, ex minatore e presidente del Partito democratico locale: «Le invettive contro il carbone di Obama e Clinton ci stanno devastando». Così qui Trump ha gioco facile, come a Youngstown, dove si invoca un nuovo «Black Monday», il lunedì nero del settembre di 39 anni fa, quando gli operai invasero la città per manifestare contro la chiusura di «Youngtown Sheet and Tube». Mentre c’è chi rivive nel tycoon di New York l’epopea di Jim Traficant, «cowboy democratico» e unico candidato dell’Asinello eletto al Congresso nell’anno in cui Reagan sbancò in 49 Stati. Esuberante e controverso politico dalla chioma bizzarra che prometteva legge e ordine a «Crimetown» (nomignolo di Youngstown), e chiedeva restrizioni all’immigrazione con lo slogan «America First». La sua maschera e quella di Trump sono tra quelle dei carri dell’Halloween di Youngstown: «Un rito - dicono - per celebrare lo scandalo mail ed esorcizzare la “strega”».
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