LA LUNGA AGONIA ITALIANA
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Re: LA LUNGA AGONIA ITALIANA
POLITICA & PALAZZO
Il potere secondo Cacciari e il cambiamento degli italiani
di ItaliaDallEstero | 23 aprile 2013 COMMENTI
La macchina teologico-politica che governa l’Italia
Mario Cifali, psicanalista italiano, parte da un recente libro del filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari per denunciare l’ipocrisia e l’impostura che secondo lui spadroneggiano nella penisola da duemila anni.
Massimo Cacciari è un filosofo considerato liberale e populista dall’Italia social-democratica. E’ stato sindaco di Venezia. Wikipedia parla di una sua relazione sentimentale con l’ex-moglie di Berlusconi. Il suo ultimo libro, “Il potere che frena” (Ed. Adelphi) è un best-seller editoriale.
Della seconda lettera di San Paolo ai Tessalonicesi, precisamente della forza politico-religiosa che frena il dilagare del male e il trionfo del bene, Cacciari fa il suo obiettivo. Scrive a tal proposito un commento filosofico e sacerdotale, o meglio: prende in esame l’eredità cristiana che, secondo Nietzsche, è “la più alta forma immaginabile di corruzione”.
Numerosi filosofi italiani fanno la corte al potere. Cacciari non ne è esente. Il suo discorso, dai forti toni accademici, è prigioniero di un metodo per nulla innocente nel paese del papato, un metodo che sfugge i colpi di martello nietzschiani: “Combattere le bugie più sacre ancor più che qualsiasi altra bugia.”
Prendendo a testimonianza la forza reazionaria dilagante, Cacciari affronta i legami tra teologia e politica, più per combatterne la nevrosi che per metterli in discussione. Poco gli importa che i presunti stati superiori, quelli che la Chiesa valorizza, siano delle credenze deliranti: “Credo perché è assurdo” (Tertulliano). Ha costruito piuttosto un’interpretazione sulla connaturalità tra sovranità politica e teologica. Non secondo le teorie di Freud, per il quale la religione è dipendente della nevrosi infantile, o secondo quelle di Carl Schmitt, per cui i concetti politici sono di origine teologica. Ciò che il filosofo sostiene è un rapporto ambivalente fatto di obblighi e di compromessi tra sovranità religiosa e politica, in cui credere significa non voler sapere.
Figlia millenaria della chiesa romana, la politica in Italia è prigioniera di superstizioni che agiscono all’interno delle masse e dei governanti.
Gli antichi dei sopravvivono celati dalla maschera dei nuovi. Cacciari adula gli uni e gli altri senza aprire gli occhi.
Evita i pensatori non convenzionali che frugano tra ciò che per venti secoli hanno frainteso, come per esempio Giordano Bruno e, più vicino a noi, gli psicanalisti. E non si azzarda nell’analisi del non sapere, ancor meno in quella del sapere che non conosce: l’inconscio in senso freudiano.
Leggendo questo filosofo, non è chiaro chi nella religione o nella politica incarna la “vera Circe dell’umanità, la peggiore forma morale della volontà di mentire”. Una difficoltà insolubile è infatti al centro delle sue elucubrazioni. La sua retorica blocca la scomoda apertura e piega il dibattito di fondo che mette in contrasto, fin dall’inizio dell’era cristiana, il parlare di amore della verità con la menzogna politico-clericale.
In Italia, il potere che idealizza, sia esso politico o ecclesiastico, tiene il passo alle forze che egli dice di combattere, inadatto a promuovere una lotta di liberazione.
In lui, sovranità “spirituale” e “laica” si intrecciano l’un l’altra inzaccherandosi. I principi neri non sono mai bianchi. La maggior parte dei politici sono credenti.
Il godimento sessuale non si fa sfuggire nessuno alla sua influenza: che si tratti di un prete, un Papa o un Cavaliere. Gli scandali parlano da sé.
Politica e religione governano per i propri interessi. Restare in vita è il loro scopo. Dichiarare “Dio è la verità” – che si tratti di denaro o santità – è più importante rispetto al dichiarare “la verità è Dio”.
Le proposte di Cacciari hanno un merito: rendere tangibile l’impostura della politica giudaico-cristiana. Agostino, Dante e Dostoevskij sono gli scrittori che egli mette in mezzo e sconfigge. Uno vuole detronizzare la sacralità del potere imperiale, l’altro lotta contro il potere ecclesiastico e, nel XIX secolo, il terzo vuole rievocare l’Anticristo.
Nello stesso periodo, in Italia vede la luce la personificazione delle altezze e delle profondità senza eguali, né superman né fascista: Zarathustra-Nietzsche. Con lui, la verità dell’analisi affronta i furfanti e le scelleratezze; smonta, come mai prima, gli ingranaggi della macchina teologico-politico.
Nel paese dei Papi, il potere che rallenta è il sintomo.
Appoggia la fondatezza del sistema e contemporaneamente proclama che deve cambiare.
Tra il messaggio di Gesù, la Chiesa cattolica e i politici italiani, di sinistra e di destra, che fanno la comunione di domenica, c’è più di una ipocrisia, più di una decadenza.
Solo una parola di verità, paragonabile a quella di uno Zarathustra, potrebbe infrangere i codici in decomposizione.
Uno può sognare, ma non deve confondersi. Chiedere agli italiani di modificare le proprie credenze è difficilmente immaginabile.
La maggior parte non ha alcuna intenzione di cambiare il proprio rapporto di soddisfazione con la religione, la politica e, ultima ma non meno importante, con la donna.
In Italia, nessuna riforma profonda e duratura può emergere senza passare prima attraverso un cambiamento individuale. “Sono gli uomini che devono cambiare,” mi ha detto una volta un albergatore di Capua, non lontano da Napoli.
Articolo originale di Mario Cifali pubblicato su Le Temps il 04.04.2013
Tradotto da Claudia Marruccelli e Chiara Cavedoni per Italiadallestero.info
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04 ... ni/572427/
Il potere secondo Cacciari e il cambiamento degli italiani
di ItaliaDallEstero | 23 aprile 2013 COMMENTI
La macchina teologico-politica che governa l’Italia
Mario Cifali, psicanalista italiano, parte da un recente libro del filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari per denunciare l’ipocrisia e l’impostura che secondo lui spadroneggiano nella penisola da duemila anni.
Massimo Cacciari è un filosofo considerato liberale e populista dall’Italia social-democratica. E’ stato sindaco di Venezia. Wikipedia parla di una sua relazione sentimentale con l’ex-moglie di Berlusconi. Il suo ultimo libro, “Il potere che frena” (Ed. Adelphi) è un best-seller editoriale.
Della seconda lettera di San Paolo ai Tessalonicesi, precisamente della forza politico-religiosa che frena il dilagare del male e il trionfo del bene, Cacciari fa il suo obiettivo. Scrive a tal proposito un commento filosofico e sacerdotale, o meglio: prende in esame l’eredità cristiana che, secondo Nietzsche, è “la più alta forma immaginabile di corruzione”.
Numerosi filosofi italiani fanno la corte al potere. Cacciari non ne è esente. Il suo discorso, dai forti toni accademici, è prigioniero di un metodo per nulla innocente nel paese del papato, un metodo che sfugge i colpi di martello nietzschiani: “Combattere le bugie più sacre ancor più che qualsiasi altra bugia.”
Prendendo a testimonianza la forza reazionaria dilagante, Cacciari affronta i legami tra teologia e politica, più per combatterne la nevrosi che per metterli in discussione. Poco gli importa che i presunti stati superiori, quelli che la Chiesa valorizza, siano delle credenze deliranti: “Credo perché è assurdo” (Tertulliano). Ha costruito piuttosto un’interpretazione sulla connaturalità tra sovranità politica e teologica. Non secondo le teorie di Freud, per il quale la religione è dipendente della nevrosi infantile, o secondo quelle di Carl Schmitt, per cui i concetti politici sono di origine teologica. Ciò che il filosofo sostiene è un rapporto ambivalente fatto di obblighi e di compromessi tra sovranità religiosa e politica, in cui credere significa non voler sapere.
Figlia millenaria della chiesa romana, la politica in Italia è prigioniera di superstizioni che agiscono all’interno delle masse e dei governanti.
Gli antichi dei sopravvivono celati dalla maschera dei nuovi. Cacciari adula gli uni e gli altri senza aprire gli occhi.
Evita i pensatori non convenzionali che frugano tra ciò che per venti secoli hanno frainteso, come per esempio Giordano Bruno e, più vicino a noi, gli psicanalisti. E non si azzarda nell’analisi del non sapere, ancor meno in quella del sapere che non conosce: l’inconscio in senso freudiano.
Leggendo questo filosofo, non è chiaro chi nella religione o nella politica incarna la “vera Circe dell’umanità, la peggiore forma morale della volontà di mentire”. Una difficoltà insolubile è infatti al centro delle sue elucubrazioni. La sua retorica blocca la scomoda apertura e piega il dibattito di fondo che mette in contrasto, fin dall’inizio dell’era cristiana, il parlare di amore della verità con la menzogna politico-clericale.
In Italia, il potere che idealizza, sia esso politico o ecclesiastico, tiene il passo alle forze che egli dice di combattere, inadatto a promuovere una lotta di liberazione.
In lui, sovranità “spirituale” e “laica” si intrecciano l’un l’altra inzaccherandosi. I principi neri non sono mai bianchi. La maggior parte dei politici sono credenti.
Il godimento sessuale non si fa sfuggire nessuno alla sua influenza: che si tratti di un prete, un Papa o un Cavaliere. Gli scandali parlano da sé.
Politica e religione governano per i propri interessi. Restare in vita è il loro scopo. Dichiarare “Dio è la verità” – che si tratti di denaro o santità – è più importante rispetto al dichiarare “la verità è Dio”.
Le proposte di Cacciari hanno un merito: rendere tangibile l’impostura della politica giudaico-cristiana. Agostino, Dante e Dostoevskij sono gli scrittori che egli mette in mezzo e sconfigge. Uno vuole detronizzare la sacralità del potere imperiale, l’altro lotta contro il potere ecclesiastico e, nel XIX secolo, il terzo vuole rievocare l’Anticristo.
Nello stesso periodo, in Italia vede la luce la personificazione delle altezze e delle profondità senza eguali, né superman né fascista: Zarathustra-Nietzsche. Con lui, la verità dell’analisi affronta i furfanti e le scelleratezze; smonta, come mai prima, gli ingranaggi della macchina teologico-politico.
Nel paese dei Papi, il potere che rallenta è il sintomo.
Appoggia la fondatezza del sistema e contemporaneamente proclama che deve cambiare.
Tra il messaggio di Gesù, la Chiesa cattolica e i politici italiani, di sinistra e di destra, che fanno la comunione di domenica, c’è più di una ipocrisia, più di una decadenza.
Solo una parola di verità, paragonabile a quella di uno Zarathustra, potrebbe infrangere i codici in decomposizione.
Uno può sognare, ma non deve confondersi. Chiedere agli italiani di modificare le proprie credenze è difficilmente immaginabile.
La maggior parte non ha alcuna intenzione di cambiare il proprio rapporto di soddisfazione con la religione, la politica e, ultima ma non meno importante, con la donna.
In Italia, nessuna riforma profonda e duratura può emergere senza passare prima attraverso un cambiamento individuale. “Sono gli uomini che devono cambiare,” mi ha detto una volta un albergatore di Capua, non lontano da Napoli.
Articolo originale di Mario Cifali pubblicato su Le Temps il 04.04.2013
Tradotto da Claudia Marruccelli e Chiara Cavedoni per Italiadallestero.info
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/04 ... ni/572427/
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Re: LA LUNGA AGONIA ITALIANA
27 DIC 2014 16:49
- L’ALTRA FACCIA DEL BANANA
- “BERLUSCONI? PAUROSO, DEMOCRISTIANO E INDECISO”.
PAROLA DI DARIO RIVOLTA, SUO BRACCIO DESTRO PER 10 ANNI, E TRA I FONDATORI DI FORZA ITALIA
L’ex segretario particolare di Silvio scodella un libro pieno di chicche gustose: Bossi definito “un bifolco”, il Pci che durante Tangentopoli gli offre un accordo (in cambio di un canale Mediaset “schierato”). “Berlusconi vorrebbe vedersi come un soggetto forte, anche fisicamente, ma è pauroso, rifugge lo scontro”...
«Berlusconi non ha mai nemmeno affermato di essere socialista. E secondo me, nel segreto dell’urna, votava piuttosto Dc o Msi.
Se dovessi definirlo, lo avrei detto un conservatore».
Tra l’altro «la sua sensibilità politica era pressoché nulla», «non ha mai avuto una cultura politica e quindi anche il vero concetto di democrazia gli è alieno».
Ciò non significa che sia «un dittatore», tutt’altro; molto più appropriato definirlo «un padrone tout court».
Si è spesso parlato e scritto della sostanziale, totale liquidità “politica” di Berlusconi, ma forse mai - tra chi ci ha lavorato davvero accanto - la cosa è stata raccontata con analoga schiettezza e dettagli di quanto faccia Dario Rivolta, per dieci anni - dal 1984 - capo della segreteria particolare di Berlusconi, poi tra le tante cose fondatore dell’Associazione del buongoverno, embrione di Forza Italia (con Giuliano Urbani, Antonio Martino, Mario Valducci, Gianni Pilo), quindi a lungo deputato di Forza Italia.
Rivolta racconta una serie di gustosissime cose in un libro intervista con Eric Jozsef, corrispondente di Libération a Roma (Cavinato editore), un libro cult per capire molte cose, sul berlusconismo ma anche sul percorso che ci porta fino a oggi in Italia. Un libro storico, innanzitutto, che ricostruisce gli anni della “discesa in campo” con tantissimi particolari inediti, o dettagli inediti su cose note.
Su Tangentopoli, per esempio, Rivolta ricorda che «quando lo scandalo scoppiò, Berlusconi cercò di cavalcarlo, almeno fin quando la prospettiva di una vittoria dei comunisti non cominciò a spaventarlo seriamente.
I suoi media sostennero i magistrati».
Inizialmente Silvio pensò di mettere l’Associazione del buongoverno al servizio di Mario Segni. «Gli dissi che Segni era troppo ingenuo, e Berlusconi mi fece un sorriso d’intesa, “che cosa possiamo domandare di meglio?”».
La cosa sfumò ma «ci furono delle avances a Berlusconi di parte comunista. Qualcuno gli fece intendere che gli si sarebbero potute offrire garanzie sicure se egli avesse accettato di trasformare una delle sue reti in una tv filo Pci». Impressionante, pensando ai successivi, vari inciuci. Silvio però non si fidava, e scelse diversamente (contro, è noto, la volontà di Confalonieri e Gianni Letta).
Berlusconi chiamava «bifolco» Bossi, e nel ’94 «provò a svuotargli la Lega, come anni dopo riuscì con Fini», ma col Senatùr la cosa non funzionò. Nonostante, con parole gravi, Rivolta la racconti così: «Bossi andava ridimensionato. Fu per questi motivi che maturò in lui l’idea di “comprare” i suoi parlamentari».
Che fosse lui il vero padre dell’«antipolitica», nell’entourage era chiarissimo. Altro che le storie sull’antipolitica del 2014. Se Berlusconi si comportava da padrone «la sua giustificazione oggettiva era il forte sentimento di antipolitica che, di fatto, gli creava un alibi per sfuggire alle regole». Il che ha alimentato molto il mito di lui dittatore, o iper-decisionista.
In realtà, sostiene Rivolta, il Cavaliere «non è mai stato un decisionista», «rimanda le decisioni fino a quando diventano obbligatorie», soprattutto, notazione caratteriale poco passata, nella immensa letteratura sul soggetto, «lui stesso vorrebbe vendersi come un soggetto forte, anche fisicamente, mentre è un pauroso. Rifugge dallo scontro, anche verbale. Se qualcuno alzava la voce con lui, cercava in ogni modo di sottrarsi allo scontro».
Nel libro troverete mille tic berlusconiani, più o meno conosciuti, l’odio per i vestiti marrone, la fissa per la piega dei pantaloni dritta, l’orrore per le mani sudate (citate, quelle di De Mita), la totale incapacità di distinguere (durante la breve lezioncina prima del - temutissimo - match tv con Occhetto) Lenin e Stalin da Marx. Elementi di una storia che ci è alle spalle, o forse no.
- L’ALTRA FACCIA DEL BANANA
- “BERLUSCONI? PAUROSO, DEMOCRISTIANO E INDECISO”.
PAROLA DI DARIO RIVOLTA, SUO BRACCIO DESTRO PER 10 ANNI, E TRA I FONDATORI DI FORZA ITALIA
L’ex segretario particolare di Silvio scodella un libro pieno di chicche gustose: Bossi definito “un bifolco”, il Pci che durante Tangentopoli gli offre un accordo (in cambio di un canale Mediaset “schierato”). “Berlusconi vorrebbe vedersi come un soggetto forte, anche fisicamente, ma è pauroso, rifugge lo scontro”...
«Berlusconi non ha mai nemmeno affermato di essere socialista. E secondo me, nel segreto dell’urna, votava piuttosto Dc o Msi.
Se dovessi definirlo, lo avrei detto un conservatore».
Tra l’altro «la sua sensibilità politica era pressoché nulla», «non ha mai avuto una cultura politica e quindi anche il vero concetto di democrazia gli è alieno».
Ciò non significa che sia «un dittatore», tutt’altro; molto più appropriato definirlo «un padrone tout court».
Si è spesso parlato e scritto della sostanziale, totale liquidità “politica” di Berlusconi, ma forse mai - tra chi ci ha lavorato davvero accanto - la cosa è stata raccontata con analoga schiettezza e dettagli di quanto faccia Dario Rivolta, per dieci anni - dal 1984 - capo della segreteria particolare di Berlusconi, poi tra le tante cose fondatore dell’Associazione del buongoverno, embrione di Forza Italia (con Giuliano Urbani, Antonio Martino, Mario Valducci, Gianni Pilo), quindi a lungo deputato di Forza Italia.
Rivolta racconta una serie di gustosissime cose in un libro intervista con Eric Jozsef, corrispondente di Libération a Roma (Cavinato editore), un libro cult per capire molte cose, sul berlusconismo ma anche sul percorso che ci porta fino a oggi in Italia. Un libro storico, innanzitutto, che ricostruisce gli anni della “discesa in campo” con tantissimi particolari inediti, o dettagli inediti su cose note.
Su Tangentopoli, per esempio, Rivolta ricorda che «quando lo scandalo scoppiò, Berlusconi cercò di cavalcarlo, almeno fin quando la prospettiva di una vittoria dei comunisti non cominciò a spaventarlo seriamente.
I suoi media sostennero i magistrati».
Inizialmente Silvio pensò di mettere l’Associazione del buongoverno al servizio di Mario Segni. «Gli dissi che Segni era troppo ingenuo, e Berlusconi mi fece un sorriso d’intesa, “che cosa possiamo domandare di meglio?”».
La cosa sfumò ma «ci furono delle avances a Berlusconi di parte comunista. Qualcuno gli fece intendere che gli si sarebbero potute offrire garanzie sicure se egli avesse accettato di trasformare una delle sue reti in una tv filo Pci». Impressionante, pensando ai successivi, vari inciuci. Silvio però non si fidava, e scelse diversamente (contro, è noto, la volontà di Confalonieri e Gianni Letta).
Berlusconi chiamava «bifolco» Bossi, e nel ’94 «provò a svuotargli la Lega, come anni dopo riuscì con Fini», ma col Senatùr la cosa non funzionò. Nonostante, con parole gravi, Rivolta la racconti così: «Bossi andava ridimensionato. Fu per questi motivi che maturò in lui l’idea di “comprare” i suoi parlamentari».
Che fosse lui il vero padre dell’«antipolitica», nell’entourage era chiarissimo. Altro che le storie sull’antipolitica del 2014. Se Berlusconi si comportava da padrone «la sua giustificazione oggettiva era il forte sentimento di antipolitica che, di fatto, gli creava un alibi per sfuggire alle regole». Il che ha alimentato molto il mito di lui dittatore, o iper-decisionista.
In realtà, sostiene Rivolta, il Cavaliere «non è mai stato un decisionista», «rimanda le decisioni fino a quando diventano obbligatorie», soprattutto, notazione caratteriale poco passata, nella immensa letteratura sul soggetto, «lui stesso vorrebbe vendersi come un soggetto forte, anche fisicamente, mentre è un pauroso. Rifugge dallo scontro, anche verbale. Se qualcuno alzava la voce con lui, cercava in ogni modo di sottrarsi allo scontro».
Nel libro troverete mille tic berlusconiani, più o meno conosciuti, l’odio per i vestiti marrone, la fissa per la piega dei pantaloni dritta, l’orrore per le mani sudate (citate, quelle di De Mita), la totale incapacità di distinguere (durante la breve lezioncina prima del - temutissimo - match tv con Occhetto) Lenin e Stalin da Marx. Elementi di una storia che ci è alle spalle, o forse no.
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Re: LA LUNGA AGONIA ITALIANA
Il treno Italia rimane ancora fermo in stazione
di Furio Colombo | 28 dicembre 2014 COMMENTI
Molti Paesi, in questo mondo difficile, hanno vari problemi. Ma solo l’Italia li ha tutti: le istituzioni, il governo, il Parlamento, i partiti, l’economia e le sue tre parti fondamentali, l’impresa, il lavoro, il consumo. E anche l’immigrazione (accogliere o respingere) i giovani (senza scuola e senza lavoro), gli anziani (le pensioni, esagerate o ridicole), la salute (l’intero Paese).
Questa sorta di miracolo negativo è avvenuto per la curiosa idea di riverniciare un treno fermo nella strana convinzione che, una volta cambiato aspetto, il treno fermo avrebbe ripreso la corsa, applaudito da tutti. Riverniciare un treno fermo è un progetto non rapidissimo, persino se si adotta l’espediente (che favorisce gli errori) di accelerare ogni gesto, come nelle vecchie comiche.
Ma il vero punto negativo è che non serve. Esempio: tutto il tempo e il costo impiegato finora per abolire il Senato non ha abolito il Senato. E quando lo avrà fatto, a parte qualche discorso molto efficace di celebrazione e auto-elogio, il treno sarà ancora fermo nello stesso punto e sullo stesso binario. Nel frattempo manca una legge elettorale che non si può fare fino a quando non sapremo se abbiamo due Camere o una Camera sola. E quando lo sapremo, vari, diversi progetti, mischiati o sovrapposti o scambiati fra gruppi (non necessariamente degli stessi partiti) continueranno a tenere fermo il convoglio. Grandi i lavori di cambiamento nel vagone lavoro, soprattutto spostamento di sedili e dei modi di salire a bordo.
Si potrebbe discutere se tutto questo serve, e a chi. Ma non è necessario. Il treno non è agganciato ad alcuna locomotiva e dunque, per quanto si modifichino le sue parti interne, ciascun vagone rimarrà immobile.
Palazzo Chigi - conferenza stampa al termine del Consiglio dei MinistriPer fare un esempio, c’è un altro vagone indicato come Pubblica amministrazione. Era già gremito di passeggeri disorientati che non sanno dove andranno. Sono passati controlli a promettere multe e trasferimenti, ma non hanno dato alcuna spiegazione sulla partenza. Per esempio, in questa parte del treno fermo, vogliono più Stato o meno Stato? Ovvero, far scendere gli impiegati e salire i privati (che però hanno i loro mezzi di trasporto e i loro prezzi per muoversi)?
Pubblicità
Ma diamo un’occhiata al vagone Giustizia. Qui, ci hanno detto che, per poter ripartire, è necessario che i passeggeri abbiano meno vacanze e parlino solo con le sentenze (che però – è stato precisato con fermezza – non devono interferire con gli organigrammi della politica né con quello delle aziende: ovvero niente avvisi di garanzia a chi comanda). Pare che i passeggeri, qui, siano riottosi, ma non sono loro a tenere fermo il treno. Se anche all’improvviso regnasse la disciplina subordinata del silenzioso sistema giudiziario che è stato disegnato per loro, resterebbero dove sono, senza mezzi e senza organico.
Grande discussione, nel vagone Scuola, sulla opportunità di avere il computer e l’inglese subito o aspettare che passi qualche anno di maturazione. Ma nessuno ha caricato a bordo bagagli e personale adatto. Se il treno si muovesse adesso si dovrebbe fare a meno di computer e di inglese.
Sul vagone Previdenza dove, per risparmiare, si tengono spente le luci, siedono in ansia persone che, di volta in volta, vengono accusate di ricevere troppo (senza badare al lavoro svolto, alle tasse pagate, ai contributi versati in proporzione) o troppo poco (e in questo caso devono provvedere i vicini di sedile) e di essere comunque un peso eccessivo perché sono troppi, dato il prolungamento della vita. Nessuno ha notato che questi anziani dalla vita prolungata passano continuamente sostegno al vagone dei giovani, tenendoli in vita, a scuola, e con un filo di speranza in tempi migliori.
Ma perché il treno resta fermo? La risposta è che nessuno è in grado di rispondere alla domanda: se si muove, dove va? Il fatto è che in questa Italia, dopo vent’anni di vita spericolata e fuorilegge dei governi Berlusconi, qualcuno ha improvvisamente deciso che si doveva stare insieme e decidere tutto insieme, dapprima nel modo strano e imprevedibile detto “larghe intese”, che ha liquidato in un istante tutto il lavoro di opposizione (per quanto mite e indeciso) di venti anni di centrosinistra.
Poi con un impasto ancora più difficile da spiegare, in cui il partito di Berlusconi si dichiara all’opposizione, Berlusconi resta partner stretto di governo, è rigorosamente coinvolto nelle decisioni di ogni atto e iniziativa che ha a che fare con il passato (la cosiddetta “riforma della Giustizia”) e che ha a che fare con il futuro (vedi la ricerca di una nuova legge elettorale). Ma non basta. Una scheggia di destra è dentro e accanto al governo, inteso come gabinetto, e detiene il ministero dell’Interno, un potente freno a mano.
Perciò il treno, anche volendo, non può partire. Poiché bisogna tenere tutti indaffarati, dentro il governo che sosta sul marciapiede, la parola chiave è riforma. Fare le riforme. Non importa che cosa, non importa come, basta mostrare frenetici lavori in corso. Molti non partecipano, perché vedono fervere lavori che non li riguardano. Perché non hanno alcun lavoro, o lo hanno perduto. Perché vedono il treno fermo, e sanno che niente sta per accadere. Perché si aspettano che nelle locomotiva salirà un eterogeneo personale di viaggio che non può stare insieme e non può separarsi. Tutto comincia qui. E hai un bel chiacchierare, se il treno di governo è sempre fermo in stazione.
Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2014
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12 ... qus_thread
di Furio Colombo | 28 dicembre 2014 COMMENTI
Molti Paesi, in questo mondo difficile, hanno vari problemi. Ma solo l’Italia li ha tutti: le istituzioni, il governo, il Parlamento, i partiti, l’economia e le sue tre parti fondamentali, l’impresa, il lavoro, il consumo. E anche l’immigrazione (accogliere o respingere) i giovani (senza scuola e senza lavoro), gli anziani (le pensioni, esagerate o ridicole), la salute (l’intero Paese).
Questa sorta di miracolo negativo è avvenuto per la curiosa idea di riverniciare un treno fermo nella strana convinzione che, una volta cambiato aspetto, il treno fermo avrebbe ripreso la corsa, applaudito da tutti. Riverniciare un treno fermo è un progetto non rapidissimo, persino se si adotta l’espediente (che favorisce gli errori) di accelerare ogni gesto, come nelle vecchie comiche.
Ma il vero punto negativo è che non serve. Esempio: tutto il tempo e il costo impiegato finora per abolire il Senato non ha abolito il Senato. E quando lo avrà fatto, a parte qualche discorso molto efficace di celebrazione e auto-elogio, il treno sarà ancora fermo nello stesso punto e sullo stesso binario. Nel frattempo manca una legge elettorale che non si può fare fino a quando non sapremo se abbiamo due Camere o una Camera sola. E quando lo sapremo, vari, diversi progetti, mischiati o sovrapposti o scambiati fra gruppi (non necessariamente degli stessi partiti) continueranno a tenere fermo il convoglio. Grandi i lavori di cambiamento nel vagone lavoro, soprattutto spostamento di sedili e dei modi di salire a bordo.
Si potrebbe discutere se tutto questo serve, e a chi. Ma non è necessario. Il treno non è agganciato ad alcuna locomotiva e dunque, per quanto si modifichino le sue parti interne, ciascun vagone rimarrà immobile.
Palazzo Chigi - conferenza stampa al termine del Consiglio dei MinistriPer fare un esempio, c’è un altro vagone indicato come Pubblica amministrazione. Era già gremito di passeggeri disorientati che non sanno dove andranno. Sono passati controlli a promettere multe e trasferimenti, ma non hanno dato alcuna spiegazione sulla partenza. Per esempio, in questa parte del treno fermo, vogliono più Stato o meno Stato? Ovvero, far scendere gli impiegati e salire i privati (che però hanno i loro mezzi di trasporto e i loro prezzi per muoversi)?
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Ma diamo un’occhiata al vagone Giustizia. Qui, ci hanno detto che, per poter ripartire, è necessario che i passeggeri abbiano meno vacanze e parlino solo con le sentenze (che però – è stato precisato con fermezza – non devono interferire con gli organigrammi della politica né con quello delle aziende: ovvero niente avvisi di garanzia a chi comanda). Pare che i passeggeri, qui, siano riottosi, ma non sono loro a tenere fermo il treno. Se anche all’improvviso regnasse la disciplina subordinata del silenzioso sistema giudiziario che è stato disegnato per loro, resterebbero dove sono, senza mezzi e senza organico.
Grande discussione, nel vagone Scuola, sulla opportunità di avere il computer e l’inglese subito o aspettare che passi qualche anno di maturazione. Ma nessuno ha caricato a bordo bagagli e personale adatto. Se il treno si muovesse adesso si dovrebbe fare a meno di computer e di inglese.
Sul vagone Previdenza dove, per risparmiare, si tengono spente le luci, siedono in ansia persone che, di volta in volta, vengono accusate di ricevere troppo (senza badare al lavoro svolto, alle tasse pagate, ai contributi versati in proporzione) o troppo poco (e in questo caso devono provvedere i vicini di sedile) e di essere comunque un peso eccessivo perché sono troppi, dato il prolungamento della vita. Nessuno ha notato che questi anziani dalla vita prolungata passano continuamente sostegno al vagone dei giovani, tenendoli in vita, a scuola, e con un filo di speranza in tempi migliori.
Ma perché il treno resta fermo? La risposta è che nessuno è in grado di rispondere alla domanda: se si muove, dove va? Il fatto è che in questa Italia, dopo vent’anni di vita spericolata e fuorilegge dei governi Berlusconi, qualcuno ha improvvisamente deciso che si doveva stare insieme e decidere tutto insieme, dapprima nel modo strano e imprevedibile detto “larghe intese”, che ha liquidato in un istante tutto il lavoro di opposizione (per quanto mite e indeciso) di venti anni di centrosinistra.
Poi con un impasto ancora più difficile da spiegare, in cui il partito di Berlusconi si dichiara all’opposizione, Berlusconi resta partner stretto di governo, è rigorosamente coinvolto nelle decisioni di ogni atto e iniziativa che ha a che fare con il passato (la cosiddetta “riforma della Giustizia”) e che ha a che fare con il futuro (vedi la ricerca di una nuova legge elettorale). Ma non basta. Una scheggia di destra è dentro e accanto al governo, inteso come gabinetto, e detiene il ministero dell’Interno, un potente freno a mano.
Perciò il treno, anche volendo, non può partire. Poiché bisogna tenere tutti indaffarati, dentro il governo che sosta sul marciapiede, la parola chiave è riforma. Fare le riforme. Non importa che cosa, non importa come, basta mostrare frenetici lavori in corso. Molti non partecipano, perché vedono fervere lavori che non li riguardano. Perché non hanno alcun lavoro, o lo hanno perduto. Perché vedono il treno fermo, e sanno che niente sta per accadere. Perché si aspettano che nelle locomotiva salirà un eterogeneo personale di viaggio che non può stare insieme e non può separarsi. Tutto comincia qui. E hai un bel chiacchierare, se il treno di governo è sempre fermo in stazione.
Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2014
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Re: LA LUNGA AGONIA ITALIANA
Tutte le domande alle quali RE GIORGIO non ha mai risposto
(Marco Travaglio).
29/12/2014 di triskel182
Signor Presidente, quando uno dei suoi migliori predecessori, Sandro Pertini, fu eletto capo dello Stato nel 1978, Indro Montanelli gli inviò il seguente telegramma: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. È un vero peccato che Montanelli, essendo scomparso nel 2001, non abbia potuto inviarlo anche a lei quando fu eletto nel 2006 e rieletto nel 2013. Le sarebbe senz’altro servito a evitare un sacco di errori, abusi di potere e deragliamenti dai confini fissati dalla Costituzione, che invece hanno costellato l’intero suo settennato e anche il post-scriptum degli ultimi 20 mesi. Manca lo spazio per riassumerli tutti: li troverà, nel caso in cui le servisse un ripasso, nel libro Viva il Re! uscito un anno fa.
Qui ci limitiamo a quelli del suo secondo mandato, che da soli bastano e avanzano a fare di lei il peggior presidente della storia della Repubblica. A termine e a condizione. Lei, il 20 aprile 2013, quando smentì ciò che aveva ripetutamente giurato agli italiani e accettò la rielezione al Colle su richiesta delle cancellerie europee, di Mario Draghi, del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, ma soprattutto dei vecchi partiti (terrorizzati dalla candidatura di Stefano Rodotà, che avrebbe impedito la riedizione delle larghe intese Pd-Berlusconi, già peraltro bocciate dagli elettori due mesi prima), annunciò subito che il suo secondo mandato sarebbe stato “di scopo”, limitato a misteriosi “termini entro i quali ho ritenuto di poter accogliere in assoluta limpidezza l’invito ad assumere ancora l’incarico di presidente”. Sarebbe così gentile da indicarci quale articolo della Costituzione prevede l’elezione condizionata e temporanea del capo dello Stato, visto che l’articolo 85 stabilisce in assoluta limpidezza che “il presidente della Repubblica è eletto per sette anni”? L’abbraccio allo Statista. In quei giorni il Corriere scrisse che – per indurla ad accettare il bis – “decisivo sarebbe stato il colloquio tra Napolitano e Berlusconi. Il presidente avrebbe dato atto all’ex premier di avere avuto, in questa difficile fase, un ‘comportamento da statista’. Prima del congedo, fra i due vi sarebbe stato un lungo, caloroso abbraccio, talmente toccante da suscitare emozione nel portavoce di Napolitano, Pasquale Cascella”. Dal Quirinale, nessuna smentita. Davvero, Presidente, bastava un sì alla sua rielezione per trasformare un pluriprescritto per reati gravissimi, plurimputato per concussione e prostituzione minorile e per corruzione di senatori, nonchè condannato in appello per frode fiscale, in un insigne “statista”? La Repubblica di Falò. Il 22 aprile 2013, mentre lei preparava il suo discorso di reinsediamento, i giudici di Palermo erano costretti da un’inaudita sentenza della Corte costituzionale a distruggere i cd-rom contenenti le quattro conversazioni legittimamente intercettate sui telefoni di Nicola Mancino, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Vuole spiegarci, una volta per tutte, cosa contenevano di tanto imbarazzante per lei quelle telefonate, al punto da spingerla a sollevare un inaudito conflitto di attribuzioni con la Procura di Palermo per sottrarre ai cittadini un fondamentale elemento di conoscenza su un capitolo così buio della storia d’Italia? Il Discorso del Re. Lo stesso 22 aprile 2013, nel pomeriggio, lei si affacciò alle Camere riunite per un discorso programmatico del tutto sconosciuto alla Costituzione e alle democrazie parlamentari, tipico dei discorsi della Corona e dei capi delle repubbliche presidenziali. Dopo aver giustificato il suo bis con la favola del “drammatico allarme” per l’“impotenza” del Parlamento a eleggere il suo successore (si era votato per appena due giorni, mentre in passato i tentativi a vuoto per l’elezione del Presidente erano durati anche 12 giorni), lei intimò al Parlamento di “riformare la seconda parte della Costituzione” in base ai “documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo” (i famosi “saggi” nominati al di fuori del Parlamento, non si sa bene con quale legittimità democratica). A che titolo lo fece, visto che aveva appena giurato per la seconda volta di difendere la Costituzione, non certo di rottamarla? Non contento, lei minacciò il Parlamento che l’aveva appena rieletta e il governo che lei stava per formare: “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese… Eserciterò le funzioni fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”. Cioè: se e finchè fate come voglio io, resto e vi salvo dai guai; se mi disobbedite, me ne vado e vi lascio nelle peste. Si è mai reso conto che questo si chiama ricatto a due poteri dello Stato – il legislativo e l’esecutivo – che da quel momento non sono stati più liberi né sovrani di operare, sotto la spada di Damocle della sua minaccia? Il Governo del Presidente. Incurante del popolo sovrano che appena due mesi prima aveva platealmente bocciato le larghe intese (e dell’impegno preso da Pd e Pdl con i rispettivi elettori di non governare mai più insieme), lei aggiunse di aver accettato la rielezione per propiziare un governo di “convergenza fra forze politiche diverse”. Ma non tutte: solo quelle dell’“appello rivoltomi due giorni orsono”. Cioè dei partiti che le avevano chiesto il bis (Pd, Pdl, Centro montiano, Lega Nord). Esclusi dunque i 5Stelle, Sel e Fratelli d’Italia. S’è mai reso conto che il capo dello Stato, durando in carica 7 anni e avendo il potere di nominare il capo del governo e i ministri (che durano in carica al massimo 5 anni), non può subordinare la sua elezione al crearsi di questa o quella maggioranza governativa? Appena due giorni dopo, lei incaricò Enrico Letta, scelto da Silvio Berlusconi in persona, cioè da colui che aveva perso sonoramente le elezioni con 6,5 milioni di voti in meno. E fece subito capire chi era il vero premier, imponendo al Letta travicello cinque suoi fedelissimi in altrettanti ministeri-chiave: Saccomanni all’Economia, Bonino agli Esteri, Cancellieri alla Giustizia, Giovannini al Lavoro, Quagliariello alle Riforme. Conosce qualche precedente simile, nella storia delle democrazie perlamentari? Saggi su saggi. Il 29 maggio il governo Letta, in accordo con lei, nominò altri 35 “saggi” extraparlamentari, quasi tutti di stretta obbedienza quirinalesca, per scrivere le riforme costituzionali da approvare – assicurò il premier – in Parlamento “entro 18 mesi” per “dare immediato seguito all’impegno preso nel momento in cui si è chiesto a Napolitano di essere rieletto”. E, per abbreviare i tempi, partorì un ddl costituzionale che stravolgeva tempi e modi dell’articolo 138 della Costituzione, quello che regola le riforme costituzionali, e apriva la strada a ogni possibile scassinamento della Carta a tappe forzate. Il 1° giugno lei diede a governo e Parlamento un anno per varare le riforme che le garbavano: “Di qui al 2 giugno del prossimo anno l’Italia dovrà essersi data una prospettiva nuova”, anche perchè l’esecutivo “è una scelta eccezionale e senza dubbio a termine”. Come lui. Il 5 giugno Barbara Spinelli criticò sul Fatto l’ennesima sua interferenza nel potere esecutivo e legislativo, e lei si autosmentì, definendo “ridicolo falso” la notizia che lei avesse “posto un termine al governo”. Poi il 6 giugno, non si sa a che titolo, ricevette i nuovi saggi ricostituenti col ministro Quagliariello, per giunta a porte chiuse. Può dirci quali articoli della Costituzione le consentivano quelle invasioni di campo? Un condannato al Quirinale. Il 24 giugno Berlusconi fu condannato a 7 anni dal Tribunale di Milano per concussione e prostituzione minorile e sparò a palle incatenate sulla magistratura, paragonata a un “plotone di esecuzione”. Due giorni dopo lei invitò e ricevette il neocondannato “per un ampio scambio di opinioni sul momento politico e istituzionale”. Tutto normale, Presidente? Cicciobomba cannoniere. Il 29 giugno Camera e Senato approvarono una mozione Sel-M5S che impegnava il governo a sospendere l’acquisto di cacciabombardieri F-35 dall’americana Lockheed fino al termine di un’indagine conoscitiva del Parlamento sui costi e la sicurezza dei velivoli. Lei, furibondo, il 3 luglio riunì il Consiglio Supremo di Difesa ed esautorò il potere legislativo: “La facoltà del Parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni che… rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”. Se n’è mai pentito? Dissidente deportata, Alfano salvato. Il 16 luglio il ministro dell’Interno Angelino Alfano lesse in Parlamento una relazione piena di bugie sul rapimento in Italia e la deportazione in Kazakhstan di Alma Shalabayeva – moglie di un dissidente kazako – e della figlioletta Alua a opera della polizia e dei vertici del Vi-minale. I 5Stelle e Sel presentarono una mozione di sfiducia individuale contro di lui. Il Pd di Epifani, su pressione di Matteo Renzi, chiese le sue dimissioni, ma poi fece marcia indietro quando lei monitò: “È assai delicato e azzardato invocare responsabilità oggettive per dei ministri”. Presidente, s’è poi accorto dell’articolo 95 della Costituzione: “I ministri sono responsabili… individualmente degli atti dei loro dicasteri”? Troppa grazia, San Giorgio. Il 1° agosto 2013 la sezione feriale della Cassazione presieduta da Antonio Esposito emise la sentenza definitiva del processo Mediaset: B. condannato a 4 anni per frode fiscale. Mentre il Caimano tuonava contro i giudici in un video-messaggio eversivo, lei monitò dalla Val Fiscalina un incredibile elogio per il “clima più rispettoso e disteso” che aveva accompagnato il verdetto e auspicò “che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli” per la riforma della giustizia. I berluscones chiesero a gran voce la grazia presidenziale per il capo. Lei, il 2 agosto, non la escluse, anzi: “C’è la legge a stabilire quali sono i soggetti titolati a presentare la domanda di grazia”. Poi ebbe una lunga conversazione telefonica col neopregiudicato. Bondi, Cicchitto e Santanchè intanto le rammentavano i protocolli segreti della sua rielezione e delle larghe intese: “pacificazione”, cioè grazia. Il 5 agosto, di ritorno dalle ferie, lei ricevette i capigruppo Pdl Brunetta e Schifani venuti a chiederle la grazia e promise di “esaminare con attenzione tutti gli aspetti delle questioni prospettate”. Csm e Pg della Cassazione avviarono col suo consenso un procedimento disciplinare e una pratica di trasferimento per il giudice Esposito, imputandogli un’intervista a Il Mattino e ignorando che era stata manipolata per inserirvi riferimenti alla sentenza su B., mai pronunciati dal magistrato. Il 13 agosto lei diramò una lunga nota in cui spiegava a B. che fare per ottenere la grazia: “presentare una domanda”; accontentarsi di una grazia sulla “pena principale” (quella detentiva e non quella accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici); “prendere atto” della sentenza e rispettare i giudici, anche se è “comprensibile” il “turbamento e la preoccupazione per la condanna a una pena detentiva di personalità che ha guidato il governo… leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza”; sostenere lealmente il governo. Ripensandoci, non trova incredibile che lei, appena 12 giorni dopo una sentenza, abbia speso tanto tempo e tante parole per far balenare una grazia incostituzionale a un politico condannato per un delitto così grave e ancora imputato in altri processi? Lodo Napolitano-Violante. A settembre la giunta per le elezioni del Senato iniziò a discutere della decadenza del condannato B., prevista in automatico dalla legge Severino. Ma ecco farsi avanti un plotoncino di giuristi legatissimi al Quirinale e capitanati dal “saggio” Luciano Violante che invocavano uno stop in attesa che la Consulta e le Corti europee si pronunciassero sulla legittimità della Severino e della sentenza della Cassazione, per salvare il seggio al neopregiudicato che ricattava tutti minacciando il governo. Lei fece sapere di aver “letto con attenzione e apprezzamento” il “lodo Violante” (poi fortunatamente ignorato dalla maggioranza in Senato). Presidente, s’è mai vergognato di quell’ennesima interferenza? E, già che ci siamo: intervistato da Bruno Vespa per il suo ultimo libro, il ministro Alfano ha rivelato che lei, in un incontro a quattr’occhi nel settembre 2013, si disse “pronto a concedere la grazia”, anche motu proprio (cioè senza domanda), se B. si fosse dimesso da senatore prima che il Senato votasse la sua decadenza e, per soprammercato, a lanciare un appello al Parlamento per un provvedimento di amnistia e indulto (cosa che fece l’8 ottobre, fortunatamente inascoltato). Lei non ha mai smenti-Sono dunque ridicole panzane quelle che lei ha poi raccontato il 20 ottobre 2013, quando definì “ridicole panzane” le notizie sulla sua promessa di grazia a B.? Testimone obtorto Colle. Da quando, il 17 ottobre 2013, la Corte d’Assise di Palermo la convocò come teste nel processo Trattativa, lei fece il possibile e l’impossibile per sottrarsi al suo dovere di testimoniare, sostenendo di non aver “alcuna conoscenza utile da riferire” su quanto le scrisse il suo consigliere Loris D’Ambrosio (poi scomparso) su confidenze fattele a proposito di “indicibili accordi” fra Stato e mafia. Perchè allora quando il 28 ottobre 2014 si decise finalmente a testimoniare, parlò per più di tre ore, rivelando importanti fatti che aveva taciuto per vent’anni (il progetto di attentato mafioso contro di lei e Spadolini nel luglio ’93; il timore di un “colpo di Stato”; la consapevolezza dei vertici dello Stato che le bombe mafiose fossero finalizzate a ricattare il governo Ciampi per ottenere l’alleggerimento del 41-bis)? Nessuno tocchi Nonna Pina. Nel novembre 2013 finì nei guai la ministra della Giustizia Cancellieri, indirettamente intercettata sui telefoni della famiglia Ligresti mentre solidarizzava con gli amici imprenditori plurinquisiti per il crac della Fonsai (di cui era manager il figlio), si metteva a loro disposizione, brigava per fare scarcerare Giulia Ligresti e si abbandonava a dure critiche ai magistrati. Dinanzi alla mozione di sfiducia di M5S e Sel e alla richiesta di dimissioni avanzata anche da Renzi, lei tornò a interferire, ricevendo la ministra e auspicando “l’ulteriore pieno sviluppo dell’azione di governo da lei avviata”. Letta telefonò a Renzi: “Ho sentito il presidente della Repubblica, ti chiediamo di ritirare la tua richiesta”. E l’indecente ministra si salvò, come Alfano. Signor Presidente, che cos’è per lei il Parlamento? Parlamento abusivo, dunque è ok. Il 4 dicembre 2013 la Consulta cancellò il Porcellum, giudicandolo illegittimo sia per l’abnorme premio di maggioranza al partito o alla coalizione più votati, sia per le liste bloccate che “alterano per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti… coartano la libertà di scelta degli elettori… contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto”. E così delegittimò in radice l’attuale Parlamento eletto con quella legge, il presidente della Repubblica e il governo da esso espressi, nonché la maggioranza che non esisterebbe senza il premio abnorme ora cassato. Ce n’era abbastanza per mettere subito in cantiere una riforma elettorale purchessia (semprechè non si condividesse quella disegnata dalla Corte depurando il Porcellum dai suoi profili incostituzionali: il proporzionale puro con preferenza unica, simile alla legge elettorale con cui si votò nel 1992) e poi sciogliere le Camere infette e restituire rapidamente la parola agli elettori, cioè al popolo sovrano. Lei invece, il 5 dicembre, prim’ancora che la Corte depositasse le motivazioni della sentenza, se ne infischiò: decise che “questo Parlamento è legittimo” e gli dettò un programma per l’intera legislatura: “riforma elettorale che superi il sistema proporzionale” e “modifiche costituzionali almeno per il numero dei parlamentari e per il bicameralismo perfetto”. Ma come si permise il presunto “garante della Costituzione” di imporre a un Parlamento appena dichiarato antidemocratico e abusivo dalla Consulta di restare in piedi sino a fine legislatura, e addirittura di modificare la Costituzione e la legge elettorale, dandogli per giunta precise indicazioni sui modelli da seguire? Un anno vissuto indecorosamente. Il 2014, che sta sta per concludersi, è stato l’anno di Matteo Renzi. Che il 18 gennaio siglò, con la benedizione del Colle, il Patto del Nazareno con B. per farlo rientrare dalla finestra dopo che era uscito dalla porta a fine novembre, abbandonando il governo Letta all’indomani della sua decadenza da senatore. Il giovane e spregiudicato segretario del Pd, a metà febbraio, defenestrò Enrico Letta per prenderne il posto e il 22 febbraio giurò nelle mani di un Napolitano inizialmente contrariato, poi sempre più rassegnato, infine addirittura complice. Lei comunque, Presidente, non rinunziò a mettere le mani nella lista dei ministri: non per escluderne gli impresentabili , ma per cancellare dalla casella della Giustizia l’elemento migliore della lista renziana: il pm anti-’ndrangheta Nicola Gratteri, cassato in nome di un’inesistente “regola non scritta” che escluderebbe a priori i magistrati dalla carica di Guardasigilli (e allora perchè lei, nel 2010, nominò a quell’incarico il magistrato forzista Francesco Nitto Palma, nel terzo governo B.?). Con Renzi a Palazzo Chigi, i suoi moniti ed esternazioni si sono fatti più radi, ma non per questo meno discutibili o indecenti (almeno quanto certi suoi silenzi). Presidente, non conosceva proprio un giurista meno compromesso con l’Ancien Regime e in conflitto d’interesse di Giuliano Amato da nominare alla Consulta? Sicuro di aver detto tutta la verità sulla nascita del governo Monti nel novembre 2011, alla luce delle rivelazioni di Alan Friedman sui suoi abboccamenti col Professore fin dall’aprile di quell’anno? Perchè lei ha smesso di sferzare il Parlamento affinchè elegga il quindicesimo giudice costituzionale, lasciando la poltrona vacante ormai da sei mesi? Anzichè telefonare un giorno sì e l’altro pure ai due marò imputati in India di un duplice omicidio ed elevarli a eroi nazionali, perchè non ha mai trovato il tempo e le parole per esprimere la solidarietà e la vicinanza dello Stato al pm Nino Di Matteo, condannato a morte da Cosa Nostra (con tanto di tritolo già acquistato dai boss e nascosto a Palermo) e al pg Roberto Scarpinato, minacciato fin dentro il suo ufficio da uomini di apparato ben sicuri dell’invisibilità e dell’impunità? Con che faccia il 2 aprile scorso ha ricevuto al Quirinale il pregiudicato B. “per parlare delle riforme e del fronte giudiziario” (Corriere della sera, mai smentito)? Come si è permesso, a luglio, di bloccare il Csm che stava per votare per Guido Lo Forte come nuovo procuratore di Palermo, costringendo il Plenum a seguire l’ordine cronologico delle nomine (mai seguito prima) solo per rinviare la decisione al successivo Consiglio, che poi ha nominato Franco Lo Voi, guardacaso il candidato meno titolato ed esperto, ma più gradito ai politici di destra e di sinistra, e naturalmente a lei? A che titolo una figura super partes quale dovrebbe essere la sua ha continuato a difendere il Jobs Act e le controriforme della giustizia e della Costituzione, invitando opposizioni, sindacati e Anm a non opporsi? Come si è permesso di imporre al Csm, con una lettera rimasta segreta, di sbianchettare le critiche all’operato del procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nella gestione del conflitto aperto con il suo aggiunto Alfredo Robledo, incancrenendo così lo scontro nell’ufficio giudiziario più cruciale d’Italia? Quando ha scoperto che “il bicameralismo perfetto fu un errore dei padri costituenti”, visto che lei entrò in Parlamento nel lontano 1953 senza mai dire una parola? E perchè non s’è accorto che “il Senato è un inutile doppione della Camera” nel 2005, quando accettò la nomina a senatore a vita senza fare un plissè? Che le è saltato in mente di cerchiobottare fra guardie e ladri, mettendo sullo stesso piano il dilagare di corruzione e crimine organizzato – divenuti un tutt’uno nel sistema Mafia Capitale – e il presunto e imprecisato “protagonismo dei pm”? Come può chiedere ai magistrati di “non guardare con diffidenza i politici”, quando i politici sono i più corrotti dell’Occidente? E con che faccia può definire “eversiva” la cosiddetta “anti-politica”, quando la politica si riduce alla fogna degli scandali Expo, Mose e Mondo di Mezzo, questi sì “eversivi”? Perchè non ha detto una parola – da garante della Costituzione – sull’Italicum che riproduce gran parte dei profili di incostituzionalità già sanzionati dalla Consulta nel Porcellum? Quando invoca il “rinnovamento” contro i “conservatorismi”, non le viene da ridere, essendo il primo freno al cambiamento, con la sua rielezione a 88 anni e con l’imbalsamazione dell’Ancien Regime di cui è sempre stato il santo patrono e il lord protettore? Non s’è pentito di aver così platealmente attaccato, anche in campagne elettorali, un movimento politico con milioni di voti come i 5Stelle, tacendo invece sull’ultima versione sempre più razzista e fascistoide della Lega Nord? Perchè, dopo averlo duramente censurato ai tempi di Prodi e in parte di B., ha smesso di denunciare l’abuso di decreti e fiducie da parte dei governi Monti, Letta e Renzi, guardacaso i tre creati o avallati da lei all’insaputa degli elettori? S’è mai domandato perchè, fino a tre anni fa, lei godeva di oltre l’80% di consenso nei sondaggi, mentre dal governo Monti in poi è sceso sotto il 50? Non crede di aver abusato del suo potere lanciando continue minacce al governo e al Parlamento, tipo “riforme o me ne vado”, ma anche “riforme o resto”? Siccome tutti nel Palazzo sanno che il 14 gennaio 2015 lei annuncerà le sue dimissioni, non le pare il caso di comunicarlo anche ai cittadini italiani, anziché seguitare a sfidarli con sciarade e indovinelli? Siccome è al passo d’addio, non crede che il bilancio del suo secondo mandato sia un fallimento totale, con tutti gli indicatori economici in picchiata (tranne quelli della corruzione, dell’evasione e delle mafie) e nessuna delle riforme da lei dettate nel messaggio di reinsediamento approvate? Può rassicurarci sul fatto che ora non interferirà nella scelta del suo successore per rifilarci un suo clone, tipo Giuliano Amato o Sabino Cassese? E, siccome considera il Senato un ente inutile, si impegna a evitare di frequentarlo da senatore a vita e a ritirarsi a vita privata? È un peccato che Montanelli non sia più fra noi. Altrimenti potrebbe dedicarle il Controcorrente che riservò nel 1985 a Sandro Pertini quando lasciò il Quirinale: “Il senatore Pertini ha annunciato che intende rientrare nella vita politica e ingaggiare battaglia per il riavvicinamento tra Psi e Pci. Con quest’uomo abbiamo sbagliato due volte. La prima, mandandolo al Quirinale. La seconda, rimettendolo in libertà”.
Da Il Fatto Quotidiano del 29/12/2014.
(Marco Travaglio).
29/12/2014 di triskel182
Signor Presidente, quando uno dei suoi migliori predecessori, Sandro Pertini, fu eletto capo dello Stato nel 1978, Indro Montanelli gli inviò il seguente telegramma: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. È un vero peccato che Montanelli, essendo scomparso nel 2001, non abbia potuto inviarlo anche a lei quando fu eletto nel 2006 e rieletto nel 2013. Le sarebbe senz’altro servito a evitare un sacco di errori, abusi di potere e deragliamenti dai confini fissati dalla Costituzione, che invece hanno costellato l’intero suo settennato e anche il post-scriptum degli ultimi 20 mesi. Manca lo spazio per riassumerli tutti: li troverà, nel caso in cui le servisse un ripasso, nel libro Viva il Re! uscito un anno fa.
Qui ci limitiamo a quelli del suo secondo mandato, che da soli bastano e avanzano a fare di lei il peggior presidente della storia della Repubblica. A termine e a condizione. Lei, il 20 aprile 2013, quando smentì ciò che aveva ripetutamente giurato agli italiani e accettò la rielezione al Colle su richiesta delle cancellerie europee, di Mario Draghi, del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, ma soprattutto dei vecchi partiti (terrorizzati dalla candidatura di Stefano Rodotà, che avrebbe impedito la riedizione delle larghe intese Pd-Berlusconi, già peraltro bocciate dagli elettori due mesi prima), annunciò subito che il suo secondo mandato sarebbe stato “di scopo”, limitato a misteriosi “termini entro i quali ho ritenuto di poter accogliere in assoluta limpidezza l’invito ad assumere ancora l’incarico di presidente”. Sarebbe così gentile da indicarci quale articolo della Costituzione prevede l’elezione condizionata e temporanea del capo dello Stato, visto che l’articolo 85 stabilisce in assoluta limpidezza che “il presidente della Repubblica è eletto per sette anni”? L’abbraccio allo Statista. In quei giorni il Corriere scrisse che – per indurla ad accettare il bis – “decisivo sarebbe stato il colloquio tra Napolitano e Berlusconi. Il presidente avrebbe dato atto all’ex premier di avere avuto, in questa difficile fase, un ‘comportamento da statista’. Prima del congedo, fra i due vi sarebbe stato un lungo, caloroso abbraccio, talmente toccante da suscitare emozione nel portavoce di Napolitano, Pasquale Cascella”. Dal Quirinale, nessuna smentita. Davvero, Presidente, bastava un sì alla sua rielezione per trasformare un pluriprescritto per reati gravissimi, plurimputato per concussione e prostituzione minorile e per corruzione di senatori, nonchè condannato in appello per frode fiscale, in un insigne “statista”? La Repubblica di Falò. Il 22 aprile 2013, mentre lei preparava il suo discorso di reinsediamento, i giudici di Palermo erano costretti da un’inaudita sentenza della Corte costituzionale a distruggere i cd-rom contenenti le quattro conversazioni legittimamente intercettate sui telefoni di Nicola Mancino, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Vuole spiegarci, una volta per tutte, cosa contenevano di tanto imbarazzante per lei quelle telefonate, al punto da spingerla a sollevare un inaudito conflitto di attribuzioni con la Procura di Palermo per sottrarre ai cittadini un fondamentale elemento di conoscenza su un capitolo così buio della storia d’Italia? Il Discorso del Re. Lo stesso 22 aprile 2013, nel pomeriggio, lei si affacciò alle Camere riunite per un discorso programmatico del tutto sconosciuto alla Costituzione e alle democrazie parlamentari, tipico dei discorsi della Corona e dei capi delle repubbliche presidenziali. Dopo aver giustificato il suo bis con la favola del “drammatico allarme” per l’“impotenza” del Parlamento a eleggere il suo successore (si era votato per appena due giorni, mentre in passato i tentativi a vuoto per l’elezione del Presidente erano durati anche 12 giorni), lei intimò al Parlamento di “riformare la seconda parte della Costituzione” in base ai “documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo” (i famosi “saggi” nominati al di fuori del Parlamento, non si sa bene con quale legittimità democratica). A che titolo lo fece, visto che aveva appena giurato per la seconda volta di difendere la Costituzione, non certo di rottamarla? Non contento, lei minacciò il Parlamento che l’aveva appena rieletta e il governo che lei stava per formare: “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese… Eserciterò le funzioni fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”. Cioè: se e finchè fate come voglio io, resto e vi salvo dai guai; se mi disobbedite, me ne vado e vi lascio nelle peste. Si è mai reso conto che questo si chiama ricatto a due poteri dello Stato – il legislativo e l’esecutivo – che da quel momento non sono stati più liberi né sovrani di operare, sotto la spada di Damocle della sua minaccia? Il Governo del Presidente. Incurante del popolo sovrano che appena due mesi prima aveva platealmente bocciato le larghe intese (e dell’impegno preso da Pd e Pdl con i rispettivi elettori di non governare mai più insieme), lei aggiunse di aver accettato la rielezione per propiziare un governo di “convergenza fra forze politiche diverse”. Ma non tutte: solo quelle dell’“appello rivoltomi due giorni orsono”. Cioè dei partiti che le avevano chiesto il bis (Pd, Pdl, Centro montiano, Lega Nord). Esclusi dunque i 5Stelle, Sel e Fratelli d’Italia. S’è mai reso conto che il capo dello Stato, durando in carica 7 anni e avendo il potere di nominare il capo del governo e i ministri (che durano in carica al massimo 5 anni), non può subordinare la sua elezione al crearsi di questa o quella maggioranza governativa? Appena due giorni dopo, lei incaricò Enrico Letta, scelto da Silvio Berlusconi in persona, cioè da colui che aveva perso sonoramente le elezioni con 6,5 milioni di voti in meno. E fece subito capire chi era il vero premier, imponendo al Letta travicello cinque suoi fedelissimi in altrettanti ministeri-chiave: Saccomanni all’Economia, Bonino agli Esteri, Cancellieri alla Giustizia, Giovannini al Lavoro, Quagliariello alle Riforme. Conosce qualche precedente simile, nella storia delle democrazie perlamentari? Saggi su saggi. Il 29 maggio il governo Letta, in accordo con lei, nominò altri 35 “saggi” extraparlamentari, quasi tutti di stretta obbedienza quirinalesca, per scrivere le riforme costituzionali da approvare – assicurò il premier – in Parlamento “entro 18 mesi” per “dare immediato seguito all’impegno preso nel momento in cui si è chiesto a Napolitano di essere rieletto”. E, per abbreviare i tempi, partorì un ddl costituzionale che stravolgeva tempi e modi dell’articolo 138 della Costituzione, quello che regola le riforme costituzionali, e apriva la strada a ogni possibile scassinamento della Carta a tappe forzate. Il 1° giugno lei diede a governo e Parlamento un anno per varare le riforme che le garbavano: “Di qui al 2 giugno del prossimo anno l’Italia dovrà essersi data una prospettiva nuova”, anche perchè l’esecutivo “è una scelta eccezionale e senza dubbio a termine”. Come lui. Il 5 giugno Barbara Spinelli criticò sul Fatto l’ennesima sua interferenza nel potere esecutivo e legislativo, e lei si autosmentì, definendo “ridicolo falso” la notizia che lei avesse “posto un termine al governo”. Poi il 6 giugno, non si sa a che titolo, ricevette i nuovi saggi ricostituenti col ministro Quagliariello, per giunta a porte chiuse. Può dirci quali articoli della Costituzione le consentivano quelle invasioni di campo? Un condannato al Quirinale. Il 24 giugno Berlusconi fu condannato a 7 anni dal Tribunale di Milano per concussione e prostituzione minorile e sparò a palle incatenate sulla magistratura, paragonata a un “plotone di esecuzione”. Due giorni dopo lei invitò e ricevette il neocondannato “per un ampio scambio di opinioni sul momento politico e istituzionale”. Tutto normale, Presidente? Cicciobomba cannoniere. Il 29 giugno Camera e Senato approvarono una mozione Sel-M5S che impegnava il governo a sospendere l’acquisto di cacciabombardieri F-35 dall’americana Lockheed fino al termine di un’indagine conoscitiva del Parlamento sui costi e la sicurezza dei velivoli. Lei, furibondo, il 3 luglio riunì il Consiglio Supremo di Difesa ed esautorò il potere legislativo: “La facoltà del Parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni che… rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”. Se n’è mai pentito? Dissidente deportata, Alfano salvato. Il 16 luglio il ministro dell’Interno Angelino Alfano lesse in Parlamento una relazione piena di bugie sul rapimento in Italia e la deportazione in Kazakhstan di Alma Shalabayeva – moglie di un dissidente kazako – e della figlioletta Alua a opera della polizia e dei vertici del Vi-minale. I 5Stelle e Sel presentarono una mozione di sfiducia individuale contro di lui. Il Pd di Epifani, su pressione di Matteo Renzi, chiese le sue dimissioni, ma poi fece marcia indietro quando lei monitò: “È assai delicato e azzardato invocare responsabilità oggettive per dei ministri”. Presidente, s’è poi accorto dell’articolo 95 della Costituzione: “I ministri sono responsabili… individualmente degli atti dei loro dicasteri”? Troppa grazia, San Giorgio. Il 1° agosto 2013 la sezione feriale della Cassazione presieduta da Antonio Esposito emise la sentenza definitiva del processo Mediaset: B. condannato a 4 anni per frode fiscale. Mentre il Caimano tuonava contro i giudici in un video-messaggio eversivo, lei monitò dalla Val Fiscalina un incredibile elogio per il “clima più rispettoso e disteso” che aveva accompagnato il verdetto e auspicò “che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli” per la riforma della giustizia. I berluscones chiesero a gran voce la grazia presidenziale per il capo. Lei, il 2 agosto, non la escluse, anzi: “C’è la legge a stabilire quali sono i soggetti titolati a presentare la domanda di grazia”. Poi ebbe una lunga conversazione telefonica col neopregiudicato. Bondi, Cicchitto e Santanchè intanto le rammentavano i protocolli segreti della sua rielezione e delle larghe intese: “pacificazione”, cioè grazia. Il 5 agosto, di ritorno dalle ferie, lei ricevette i capigruppo Pdl Brunetta e Schifani venuti a chiederle la grazia e promise di “esaminare con attenzione tutti gli aspetti delle questioni prospettate”. Csm e Pg della Cassazione avviarono col suo consenso un procedimento disciplinare e una pratica di trasferimento per il giudice Esposito, imputandogli un’intervista a Il Mattino e ignorando che era stata manipolata per inserirvi riferimenti alla sentenza su B., mai pronunciati dal magistrato. Il 13 agosto lei diramò una lunga nota in cui spiegava a B. che fare per ottenere la grazia: “presentare una domanda”; accontentarsi di una grazia sulla “pena principale” (quella detentiva e non quella accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici); “prendere atto” della sentenza e rispettare i giudici, anche se è “comprensibile” il “turbamento e la preoccupazione per la condanna a una pena detentiva di personalità che ha guidato il governo… leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza”; sostenere lealmente il governo. Ripensandoci, non trova incredibile che lei, appena 12 giorni dopo una sentenza, abbia speso tanto tempo e tante parole per far balenare una grazia incostituzionale a un politico condannato per un delitto così grave e ancora imputato in altri processi? Lodo Napolitano-Violante. A settembre la giunta per le elezioni del Senato iniziò a discutere della decadenza del condannato B., prevista in automatico dalla legge Severino. Ma ecco farsi avanti un plotoncino di giuristi legatissimi al Quirinale e capitanati dal “saggio” Luciano Violante che invocavano uno stop in attesa che la Consulta e le Corti europee si pronunciassero sulla legittimità della Severino e della sentenza della Cassazione, per salvare il seggio al neopregiudicato che ricattava tutti minacciando il governo. Lei fece sapere di aver “letto con attenzione e apprezzamento” il “lodo Violante” (poi fortunatamente ignorato dalla maggioranza in Senato). Presidente, s’è mai vergognato di quell’ennesima interferenza? E, già che ci siamo: intervistato da Bruno Vespa per il suo ultimo libro, il ministro Alfano ha rivelato che lei, in un incontro a quattr’occhi nel settembre 2013, si disse “pronto a concedere la grazia”, anche motu proprio (cioè senza domanda), se B. si fosse dimesso da senatore prima che il Senato votasse la sua decadenza e, per soprammercato, a lanciare un appello al Parlamento per un provvedimento di amnistia e indulto (cosa che fece l’8 ottobre, fortunatamente inascoltato). Lei non ha mai smenti-Sono dunque ridicole panzane quelle che lei ha poi raccontato il 20 ottobre 2013, quando definì “ridicole panzane” le notizie sulla sua promessa di grazia a B.? Testimone obtorto Colle. Da quando, il 17 ottobre 2013, la Corte d’Assise di Palermo la convocò come teste nel processo Trattativa, lei fece il possibile e l’impossibile per sottrarsi al suo dovere di testimoniare, sostenendo di non aver “alcuna conoscenza utile da riferire” su quanto le scrisse il suo consigliere Loris D’Ambrosio (poi scomparso) su confidenze fattele a proposito di “indicibili accordi” fra Stato e mafia. Perchè allora quando il 28 ottobre 2014 si decise finalmente a testimoniare, parlò per più di tre ore, rivelando importanti fatti che aveva taciuto per vent’anni (il progetto di attentato mafioso contro di lei e Spadolini nel luglio ’93; il timore di un “colpo di Stato”; la consapevolezza dei vertici dello Stato che le bombe mafiose fossero finalizzate a ricattare il governo Ciampi per ottenere l’alleggerimento del 41-bis)? Nessuno tocchi Nonna Pina. Nel novembre 2013 finì nei guai la ministra della Giustizia Cancellieri, indirettamente intercettata sui telefoni della famiglia Ligresti mentre solidarizzava con gli amici imprenditori plurinquisiti per il crac della Fonsai (di cui era manager il figlio), si metteva a loro disposizione, brigava per fare scarcerare Giulia Ligresti e si abbandonava a dure critiche ai magistrati. Dinanzi alla mozione di sfiducia di M5S e Sel e alla richiesta di dimissioni avanzata anche da Renzi, lei tornò a interferire, ricevendo la ministra e auspicando “l’ulteriore pieno sviluppo dell’azione di governo da lei avviata”. Letta telefonò a Renzi: “Ho sentito il presidente della Repubblica, ti chiediamo di ritirare la tua richiesta”. E l’indecente ministra si salvò, come Alfano. Signor Presidente, che cos’è per lei il Parlamento? Parlamento abusivo, dunque è ok. Il 4 dicembre 2013 la Consulta cancellò il Porcellum, giudicandolo illegittimo sia per l’abnorme premio di maggioranza al partito o alla coalizione più votati, sia per le liste bloccate che “alterano per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti… coartano la libertà di scelta degli elettori… contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto”. E così delegittimò in radice l’attuale Parlamento eletto con quella legge, il presidente della Repubblica e il governo da esso espressi, nonché la maggioranza che non esisterebbe senza il premio abnorme ora cassato. Ce n’era abbastanza per mettere subito in cantiere una riforma elettorale purchessia (semprechè non si condividesse quella disegnata dalla Corte depurando il Porcellum dai suoi profili incostituzionali: il proporzionale puro con preferenza unica, simile alla legge elettorale con cui si votò nel 1992) e poi sciogliere le Camere infette e restituire rapidamente la parola agli elettori, cioè al popolo sovrano. Lei invece, il 5 dicembre, prim’ancora che la Corte depositasse le motivazioni della sentenza, se ne infischiò: decise che “questo Parlamento è legittimo” e gli dettò un programma per l’intera legislatura: “riforma elettorale che superi il sistema proporzionale” e “modifiche costituzionali almeno per il numero dei parlamentari e per il bicameralismo perfetto”. Ma come si permise il presunto “garante della Costituzione” di imporre a un Parlamento appena dichiarato antidemocratico e abusivo dalla Consulta di restare in piedi sino a fine legislatura, e addirittura di modificare la Costituzione e la legge elettorale, dandogli per giunta precise indicazioni sui modelli da seguire? Un anno vissuto indecorosamente. Il 2014, che sta sta per concludersi, è stato l’anno di Matteo Renzi. Che il 18 gennaio siglò, con la benedizione del Colle, il Patto del Nazareno con B. per farlo rientrare dalla finestra dopo che era uscito dalla porta a fine novembre, abbandonando il governo Letta all’indomani della sua decadenza da senatore. Il giovane e spregiudicato segretario del Pd, a metà febbraio, defenestrò Enrico Letta per prenderne il posto e il 22 febbraio giurò nelle mani di un Napolitano inizialmente contrariato, poi sempre più rassegnato, infine addirittura complice. Lei comunque, Presidente, non rinunziò a mettere le mani nella lista dei ministri: non per escluderne gli impresentabili , ma per cancellare dalla casella della Giustizia l’elemento migliore della lista renziana: il pm anti-’ndrangheta Nicola Gratteri, cassato in nome di un’inesistente “regola non scritta” che escluderebbe a priori i magistrati dalla carica di Guardasigilli (e allora perchè lei, nel 2010, nominò a quell’incarico il magistrato forzista Francesco Nitto Palma, nel terzo governo B.?). Con Renzi a Palazzo Chigi, i suoi moniti ed esternazioni si sono fatti più radi, ma non per questo meno discutibili o indecenti (almeno quanto certi suoi silenzi). Presidente, non conosceva proprio un giurista meno compromesso con l’Ancien Regime e in conflitto d’interesse di Giuliano Amato da nominare alla Consulta? Sicuro di aver detto tutta la verità sulla nascita del governo Monti nel novembre 2011, alla luce delle rivelazioni di Alan Friedman sui suoi abboccamenti col Professore fin dall’aprile di quell’anno? Perchè lei ha smesso di sferzare il Parlamento affinchè elegga il quindicesimo giudice costituzionale, lasciando la poltrona vacante ormai da sei mesi? Anzichè telefonare un giorno sì e l’altro pure ai due marò imputati in India di un duplice omicidio ed elevarli a eroi nazionali, perchè non ha mai trovato il tempo e le parole per esprimere la solidarietà e la vicinanza dello Stato al pm Nino Di Matteo, condannato a morte da Cosa Nostra (con tanto di tritolo già acquistato dai boss e nascosto a Palermo) e al pg Roberto Scarpinato, minacciato fin dentro il suo ufficio da uomini di apparato ben sicuri dell’invisibilità e dell’impunità? Con che faccia il 2 aprile scorso ha ricevuto al Quirinale il pregiudicato B. “per parlare delle riforme e del fronte giudiziario” (Corriere della sera, mai smentito)? Come si è permesso, a luglio, di bloccare il Csm che stava per votare per Guido Lo Forte come nuovo procuratore di Palermo, costringendo il Plenum a seguire l’ordine cronologico delle nomine (mai seguito prima) solo per rinviare la decisione al successivo Consiglio, che poi ha nominato Franco Lo Voi, guardacaso il candidato meno titolato ed esperto, ma più gradito ai politici di destra e di sinistra, e naturalmente a lei? A che titolo una figura super partes quale dovrebbe essere la sua ha continuato a difendere il Jobs Act e le controriforme della giustizia e della Costituzione, invitando opposizioni, sindacati e Anm a non opporsi? Come si è permesso di imporre al Csm, con una lettera rimasta segreta, di sbianchettare le critiche all’operato del procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nella gestione del conflitto aperto con il suo aggiunto Alfredo Robledo, incancrenendo così lo scontro nell’ufficio giudiziario più cruciale d’Italia? Quando ha scoperto che “il bicameralismo perfetto fu un errore dei padri costituenti”, visto che lei entrò in Parlamento nel lontano 1953 senza mai dire una parola? E perchè non s’è accorto che “il Senato è un inutile doppione della Camera” nel 2005, quando accettò la nomina a senatore a vita senza fare un plissè? Che le è saltato in mente di cerchiobottare fra guardie e ladri, mettendo sullo stesso piano il dilagare di corruzione e crimine organizzato – divenuti un tutt’uno nel sistema Mafia Capitale – e il presunto e imprecisato “protagonismo dei pm”? Come può chiedere ai magistrati di “non guardare con diffidenza i politici”, quando i politici sono i più corrotti dell’Occidente? E con che faccia può definire “eversiva” la cosiddetta “anti-politica”, quando la politica si riduce alla fogna degli scandali Expo, Mose e Mondo di Mezzo, questi sì “eversivi”? Perchè non ha detto una parola – da garante della Costituzione – sull’Italicum che riproduce gran parte dei profili di incostituzionalità già sanzionati dalla Consulta nel Porcellum? Quando invoca il “rinnovamento” contro i “conservatorismi”, non le viene da ridere, essendo il primo freno al cambiamento, con la sua rielezione a 88 anni e con l’imbalsamazione dell’Ancien Regime di cui è sempre stato il santo patrono e il lord protettore? Non s’è pentito di aver così platealmente attaccato, anche in campagne elettorali, un movimento politico con milioni di voti come i 5Stelle, tacendo invece sull’ultima versione sempre più razzista e fascistoide della Lega Nord? Perchè, dopo averlo duramente censurato ai tempi di Prodi e in parte di B., ha smesso di denunciare l’abuso di decreti e fiducie da parte dei governi Monti, Letta e Renzi, guardacaso i tre creati o avallati da lei all’insaputa degli elettori? S’è mai domandato perchè, fino a tre anni fa, lei godeva di oltre l’80% di consenso nei sondaggi, mentre dal governo Monti in poi è sceso sotto il 50? Non crede di aver abusato del suo potere lanciando continue minacce al governo e al Parlamento, tipo “riforme o me ne vado”, ma anche “riforme o resto”? Siccome tutti nel Palazzo sanno che il 14 gennaio 2015 lei annuncerà le sue dimissioni, non le pare il caso di comunicarlo anche ai cittadini italiani, anziché seguitare a sfidarli con sciarade e indovinelli? Siccome è al passo d’addio, non crede che il bilancio del suo secondo mandato sia un fallimento totale, con tutti gli indicatori economici in picchiata (tranne quelli della corruzione, dell’evasione e delle mafie) e nessuna delle riforme da lei dettate nel messaggio di reinsediamento approvate? Può rassicurarci sul fatto che ora non interferirà nella scelta del suo successore per rifilarci un suo clone, tipo Giuliano Amato o Sabino Cassese? E, siccome considera il Senato un ente inutile, si impegna a evitare di frequentarlo da senatore a vita e a ritirarsi a vita privata? È un peccato che Montanelli non sia più fra noi. Altrimenti potrebbe dedicarle il Controcorrente che riservò nel 1985 a Sandro Pertini quando lasciò il Quirinale: “Il senatore Pertini ha annunciato che intende rientrare nella vita politica e ingaggiare battaglia per il riavvicinamento tra Psi e Pci. Con quest’uomo abbiamo sbagliato due volte. La prima, mandandolo al Quirinale. La seconda, rimettendolo in libertà”.
Da Il Fatto Quotidiano del 29/12/2014.
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Re: LA LUNGA AGONIA ITALIANA
2015: pane al pane e vino al vino
di Giulietto Chiesa | 1 gennaio 2015 COMMENTI
Una previsione facile facile: il 2015 sarà sicuramente peggiore del 2014. In compenso sarà migliore del 2016.
Abbiamo finito l’anno sotto il segno del patto di stabilità. Che è quello che precede la stabilità definitiva, il rigor mortis, l’immobilità che accompagna la dipartita.
Il Paese è allo sfacelo: industriale, tecnologico, organizzativo, morale.
Il Jobs act è espressione misteriosa nei suoi dettagli esecutivi, ma chiarissima nel suo significato finale, nel “vettore di uscita”: licenziamenti sempre più facili, introduzione per legge del diritto dei padroni di licenziare i dipendenti. E , cosa ancora più strategicamente importante: eliminazione di fatto della contrattazione collettiva. Così ogni lavoratore è solo contro chi gli dovrebbe dare lavoro. Cioè impossibilitato a difendersi.
In questo modo un’altra fetta importante del reddito nazionale sarà trasferita dai più poveri ai più ricchi.
Ovvio che “crescere”, in questa prospettiva, sarà impossibile, poiché la massa di denaro che viene sottratta ai più poveri equivarrà a ridurre la massa di denaro destinata ai consumi (essendo evidente che i più ricchi non potranno, neanche se volessero, spendere il troppo che hanno a disposizione).
Che equivale a tagliare il ramo su cui si è seduti.
Ma aspettarsi da questi signori una visione strategica è come sperare nella Befana.
Tutti potrebbero capirlo, ma il fatto è che la gente comune non ha letto Aristotele, e quindi non sa che è impossibile che chi è troppo ricco “segua i dettami della ragione”. Chi è ricco vuole sempre essere “più ricco”. Solo i poveri pensano che si accontenterebbero se fossero ricchi: appunto perché non sono ricchi!
I dati lo dimostrano. Nell’ultimo decennio il 10% del reddito nazionale è stato prelevato dalle tasche dei più poveri per andare ai più ricchi.
E non basta perché ne vogliono ancora di più. Una specie di bulimia invincibile. Renzi è il loro uomo. L’hanno portato al potere con il consenso del 40% degli italiani.
Non è vero per niente, ma questo lo pensano tutti. In primo luogo i giornalisti e i commentatori. In realtà Renzi l’ha scelto meno del 20% degl’italiani. Ma, in virtù della legge elettorale, il suo potere è praticamente assoluto.
Ecco perché il 2015 sarà peggiore del 2014: perché gl’italiani non hanno letto Aristotele (“La Politica”), laddove dice che “le Costituzioni rette sono quelle che hanno di mira il bene comune”.
A parte l’espressione comica dell’”avere di mira” che fa venire in mente un cecchino, che sta sparando sul “bene comune”, è chiaro cosa Aristotele intendeva dire: tenetevi una Costituzione Retta, se già ce l’avete, altrimenti vi verrà data una Costituzione Storta, che è quella che ha di mira l’estensione della ricchezza e del potere dei più ricchi.
E’ proprio quello che è accaduto: avevamo un Costituzione Retta, e ce la siamo fatta scippare. Non c’è già più, sostituita da una Costituzione Storta.
Dove la gente non ha più non solo un reddito accettabile, ma nemmeno gli strumenti per difendersi. La gente, le masse, sono state trasformate in individui isolati, in monadi sole, che si specchiano nello schermo di un computer, o di un televisore. Epicuro, l’inventore dell’idea di monade, è morto da tempo e non c’è nessuno che spieghi alle genti che, se vogliono liberarsi, dovranno aprire una finestra e guardare fuori da se stessi.
Sembra – stando a uno studio di Tullio De Mauro – che un discreto 40% di italiani ( che sanno tutti leggere e scrivere) non sia più in grado di capire bene quello che legge e, soprattutto, quello che vede in tv. Così tu credi di comunicare, ma nessuno ti capisce. Altro che finestre da aprire!
Che fare nel 2015? Cambiare il vocabolario odierno e tornare a quello di prima. Quello con cui fu scritta la Costituzione Retta del 1948. Per esempio, con quel vocabolario si potevano dire cose semplici e comprensibili.
Come questa: i nani proprietari universali, cioè i banchieri, ci stanno portando in guerra. La gente ancora capisce cosa significa guerra. Banchiere è cosa nota. Nano è un po’ più difficile da capire, essendo una metafora. Ma s’intende qui “nano intellettuale”, cioè persona che capisce poco quello che fa e dice lui stesso.
Questi vogliono fare la guerra perché sanno che il loro castello di carte si sta rompendo. E pensano che con la guerra, che tutto distrugge, noi non ci accorgeremo di niente.
Cosa pensate a proposito del prezzo del petrolio? Che scenda perché lo dicono le leggi del mercato? Niente affatto.
Non ci sono leggi di mercato in questo casino che affonda. Scende perché Washington vuole abbattere la Russia e l’Iran e poi andare all’assalto di Pechino.
E’ una dichiarazione di guerra “di carta”, dove brucerà molta carta (i nostri risparmi), prima di trasformarsi in una guerra vera, con armi del tutto nuove che noi non conosciamo nemmeno.
Loro pensano di salvarsi, perché sanno che saranno le genti, cioè noi, che ci romperemo per primi l’osso del collo. Il che è vero, verissimo. Ecco perché ci serve, urgentemente, il vecchio vocabolario dove le parole erano italiane e chiare. Dove se dicevi “fuori” voleva dire fuori. Ecco io propongo che il 2015 dica: “fuori l’Italia dalla Nato e fuori la Nato dall’Europa”.
Cominciamo da qui. In guerra ci vadano loro. Noi non abbiamo nemici e abbiamo ancora qualche pezzo di una Costituzione Retta da difendere, per esempio l’articolo 11. Spendiamo 70 milioni di euro al giorno (ho scritto “al giorno”) per tenere in piedi una Difesa che non serve a nulla. Cioè che serve a “loro”. In caso di guerra non reggerebbe dieci minuti. Quei denari potremmo usarli per sviluppare l’agricoltura, e l’industria, e la scuola e moltiplicare i posti di lavoro. Magari non ci riusciamo, perché siamo monadi un po’ istupidite, ma non è che siamo – collettivamente intesi – peggio dei nani di cui sopra. In ogni caso, se aprissimo qualche finestra, almeno il giro sulla giostra attorno al sole sarebbe più bello, avrebbe un senso per noi e i nostri figli. Sarebbe un buon anno, invece che “il loro anno”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01 ... o/1308903/
di Giulietto Chiesa | 1 gennaio 2015 COMMENTI
Una previsione facile facile: il 2015 sarà sicuramente peggiore del 2014. In compenso sarà migliore del 2016.
Abbiamo finito l’anno sotto il segno del patto di stabilità. Che è quello che precede la stabilità definitiva, il rigor mortis, l’immobilità che accompagna la dipartita.
Il Paese è allo sfacelo: industriale, tecnologico, organizzativo, morale.
Il Jobs act è espressione misteriosa nei suoi dettagli esecutivi, ma chiarissima nel suo significato finale, nel “vettore di uscita”: licenziamenti sempre più facili, introduzione per legge del diritto dei padroni di licenziare i dipendenti. E , cosa ancora più strategicamente importante: eliminazione di fatto della contrattazione collettiva. Così ogni lavoratore è solo contro chi gli dovrebbe dare lavoro. Cioè impossibilitato a difendersi.
In questo modo un’altra fetta importante del reddito nazionale sarà trasferita dai più poveri ai più ricchi.
Ovvio che “crescere”, in questa prospettiva, sarà impossibile, poiché la massa di denaro che viene sottratta ai più poveri equivarrà a ridurre la massa di denaro destinata ai consumi (essendo evidente che i più ricchi non potranno, neanche se volessero, spendere il troppo che hanno a disposizione).
Che equivale a tagliare il ramo su cui si è seduti.
Ma aspettarsi da questi signori una visione strategica è come sperare nella Befana.
Tutti potrebbero capirlo, ma il fatto è che la gente comune non ha letto Aristotele, e quindi non sa che è impossibile che chi è troppo ricco “segua i dettami della ragione”. Chi è ricco vuole sempre essere “più ricco”. Solo i poveri pensano che si accontenterebbero se fossero ricchi: appunto perché non sono ricchi!
I dati lo dimostrano. Nell’ultimo decennio il 10% del reddito nazionale è stato prelevato dalle tasche dei più poveri per andare ai più ricchi.
E non basta perché ne vogliono ancora di più. Una specie di bulimia invincibile. Renzi è il loro uomo. L’hanno portato al potere con il consenso del 40% degli italiani.
Non è vero per niente, ma questo lo pensano tutti. In primo luogo i giornalisti e i commentatori. In realtà Renzi l’ha scelto meno del 20% degl’italiani. Ma, in virtù della legge elettorale, il suo potere è praticamente assoluto.
Ecco perché il 2015 sarà peggiore del 2014: perché gl’italiani non hanno letto Aristotele (“La Politica”), laddove dice che “le Costituzioni rette sono quelle che hanno di mira il bene comune”.
A parte l’espressione comica dell’”avere di mira” che fa venire in mente un cecchino, che sta sparando sul “bene comune”, è chiaro cosa Aristotele intendeva dire: tenetevi una Costituzione Retta, se già ce l’avete, altrimenti vi verrà data una Costituzione Storta, che è quella che ha di mira l’estensione della ricchezza e del potere dei più ricchi.
E’ proprio quello che è accaduto: avevamo un Costituzione Retta, e ce la siamo fatta scippare. Non c’è già più, sostituita da una Costituzione Storta.
Dove la gente non ha più non solo un reddito accettabile, ma nemmeno gli strumenti per difendersi. La gente, le masse, sono state trasformate in individui isolati, in monadi sole, che si specchiano nello schermo di un computer, o di un televisore. Epicuro, l’inventore dell’idea di monade, è morto da tempo e non c’è nessuno che spieghi alle genti che, se vogliono liberarsi, dovranno aprire una finestra e guardare fuori da se stessi.
Sembra – stando a uno studio di Tullio De Mauro – che un discreto 40% di italiani ( che sanno tutti leggere e scrivere) non sia più in grado di capire bene quello che legge e, soprattutto, quello che vede in tv. Così tu credi di comunicare, ma nessuno ti capisce. Altro che finestre da aprire!
Che fare nel 2015? Cambiare il vocabolario odierno e tornare a quello di prima. Quello con cui fu scritta la Costituzione Retta del 1948. Per esempio, con quel vocabolario si potevano dire cose semplici e comprensibili.
Come questa: i nani proprietari universali, cioè i banchieri, ci stanno portando in guerra. La gente ancora capisce cosa significa guerra. Banchiere è cosa nota. Nano è un po’ più difficile da capire, essendo una metafora. Ma s’intende qui “nano intellettuale”, cioè persona che capisce poco quello che fa e dice lui stesso.
Questi vogliono fare la guerra perché sanno che il loro castello di carte si sta rompendo. E pensano che con la guerra, che tutto distrugge, noi non ci accorgeremo di niente.
Cosa pensate a proposito del prezzo del petrolio? Che scenda perché lo dicono le leggi del mercato? Niente affatto.
Non ci sono leggi di mercato in questo casino che affonda. Scende perché Washington vuole abbattere la Russia e l’Iran e poi andare all’assalto di Pechino.
E’ una dichiarazione di guerra “di carta”, dove brucerà molta carta (i nostri risparmi), prima di trasformarsi in una guerra vera, con armi del tutto nuove che noi non conosciamo nemmeno.
Loro pensano di salvarsi, perché sanno che saranno le genti, cioè noi, che ci romperemo per primi l’osso del collo. Il che è vero, verissimo. Ecco perché ci serve, urgentemente, il vecchio vocabolario dove le parole erano italiane e chiare. Dove se dicevi “fuori” voleva dire fuori. Ecco io propongo che il 2015 dica: “fuori l’Italia dalla Nato e fuori la Nato dall’Europa”.
Cominciamo da qui. In guerra ci vadano loro. Noi non abbiamo nemici e abbiamo ancora qualche pezzo di una Costituzione Retta da difendere, per esempio l’articolo 11. Spendiamo 70 milioni di euro al giorno (ho scritto “al giorno”) per tenere in piedi una Difesa che non serve a nulla. Cioè che serve a “loro”. In caso di guerra non reggerebbe dieci minuti. Quei denari potremmo usarli per sviluppare l’agricoltura, e l’industria, e la scuola e moltiplicare i posti di lavoro. Magari non ci riusciamo, perché siamo monadi un po’ istupidite, ma non è che siamo – collettivamente intesi – peggio dei nani di cui sopra. In ogni caso, se aprissimo qualche finestra, almeno il giro sulla giostra attorno al sole sarebbe più bello, avrebbe un senso per noi e i nostri figli. Sarebbe un buon anno, invece che “il loro anno”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01 ... o/1308903/
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