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Forum per un "Congresso della Sinistra" ... sempre aperto • Come se ne viene fuori ? - Pagina 504
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Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 27/08/2014, 19:31
da camillobenso
Piovono Rane
di Alessandro Gilioli
27 ago


Per una storia della stronzaggine


Non so se «l’onestà andrà di moda», come dice uno slogan dei 5 stelle ancora tutto da realizzarsi. Ma credo che questo Paese intanto abbia molto bisogno che passi di moda la stronzaggine.

Sì, perché a questo punto mi sembra un problema culturale diffuso, mediatico e politico insieme: fare gli stronzi, gli arroganti e gli sbruffoni perché convinti che sia una gran figata e quindi paghi in termini di successo personale.

Lo sdoganamento della stronzaggine come valore, in Italia, è probabilmente cosa dei primi anni ‘90, ma non vorrei metterla in collegamento con il sorgere del leghismo-berlusconismo altrimenti mi dicono che sono ideologico.



Certo, oggi leggendo Feltri (che insiste su Baldoni e chiama “cammellieri” i migranti), qualche dubbio viene; così come viene guardando la pagina Facebook di Matteo Salvini; o leggendo sul Foglio le cose tristissime che scrive Camillo Langone, credendosi pure brillante; o seguendo in rete altre storie minori. Ma quanto a sbruffoneria e vaffanculismo mi pare non manchino esempi anche in altri lidi politici, sia di governo sia d’opposizione. E ho avuto prove recenti del prevalere degli stronzi e degli arroganti anche nell’area politica a cui idealmente sarei più vicino.

L’idea che “a fare gli stronzi si sia fighi” in contesti non patologici è una cosa da adolescenti: già dopo i 16 anni alle persone normali passa, insomma quando gli ormoni vanno a posto. Invece da noi sembra un fenomeno non solo costante, ma anche in crescita tanto in politica quanto sui giornali, sulle radio, in rete.

Ecco: a me a volte viene voglia di fare la busta “personaggi orrendi” come Nanni Moretti in “Aprile”; ma probabilmente non basta.

Mi appello quindi a chi ha più tempo e voglia perché approfondisca gli studi per capire cos’è successo e com’è avvenuto questo rovesciamento valoriale; insomma serve qualcuno che scriva una grande storia della stronzaggine in Italia.

Sarebbe un lavoro immane, lo so, ma ce n’è bisogno per uscirne, almeno un po’.

27 agosto 2014


http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/

Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 29/08/2014, 11:51
da camillobenso
Sfascisti – 303

2014 a schede


Scheda – 15 – La disoccupazione

15 – 8 – 29 agosto 2014




LAVORO, I DATI ISTAT

Nuovo balzo dei disoccupati:
«Mille in più al giorno»

A luglio il tasso di disoccupazione balza al 12,6%. Lieve calo di quella giovanile. Sono in cerca di un lavoro 705 mila under 25

Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 02/09/2014, 2:46
da camillobenso
Chi è Jeremy Rifkin.


Immagine

Jeremy Rifkin (Denver, 26 gennaio 1945) è un economista, attivista e saggista statunitense.
Jeremy Rifkin si è laureato in economia presso la Wharton School of the University of Pennsylvania (Pennsylvania) ed in Affari internazionali presso la Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University.

http://it.wikipedia.org/wiki/Jeremy_Rifkin

^^^^^^^^^^^^^^

Repubblica 1.9.14
Rifkin “Una Super Internet ci salverà”
L’eclissi del modello capitalista secondo l’economista Usa

di Riccardo Luna


Non usciremo dalla crisi con lo stesso tipo di sviluppo che conosciamo
“Occorre passare dal cinismo, che porta alla disperazione, alla speranza, che fa ripartire tutto”
“Le condizioni per il nuovo paradigma sociale sono pronte, serve collegarle e avviare il cambiamento”



«CARI italiani, non c’è paese al mondo dove abbia trascorso più tempo in questi anni e quindi vi parlo col cuore. So bene in quale crisi economica vi troviate da tempo. Ora anche la recessione. Sembra che non ci siano soluzioni, molti lo pensano, e invece è un errore. È la scusa di non vuole cambiare niente. La tecnologia sta davvero creando un futuro migliore, una società più giusta dove la creatività e l’operosità saranno premiate. Nuovi posti di lavoro. Ma adesso, prima di ogni altra cosa, vi serve un elettrochoc. Una svolta psicologica.
Dovete passare dal cinismo — che conduce alla disperazione — alla speranza — che fa muovere le cose in fretta e fa ripartire l’economia.



Quella speranza si chiama Terza Rivoluzione Industriale e lo strumento per farla è la creazione di una Super Internet, una rete intelligente che consenta lo scambio non solo di informazioni, ma anche di oggetti, grazie alle stampanti 3D, e soprattutto di energia rinnovabile che tutti ormai possono produrre autonomamente.


Le tre condizioni fondamentali per questo nuovo paradigma sociale sono già pronte, si tratta solo di collegarle e innescare il cambiamento. Credetemi, nessun paese al mondo è più indicato dell’Italia a prosperare in questa nuova era».


Meno male che c’è Jeremy Rifkin, 69 anni, che ogni tanto arriva da Washington, dove vive, con un nuovo clamoroso libro ad annunciarci la lieta novella. La società a costo marginale zero. L'internet delle cose, l'ascesa del « commons » collaborativo e l'eclissi del capitalismo esce oggi in Italia per Mondadori ma è già stato un successo planetario: best seller negli Stati Uniti e in Europa per molte settimane, solo in Cina ha venduto oltre 400 mila copie. Ma più dei numeri conta chi lo ha letto: capi di Stato e di governo, leader in cerca di una ricetta per uscire dal tunnel della crisi.

Accogliendolo a Venezia per una conferenza all’inizio di luglio, il presidente del consiglio Matteo Renzi lo ha omaggiato così: «Una generazione di italiani è cresciuta con i suoi libri e con le sue idee».

Rifkin ha risposto da seduttore: «Spero che vi serva di ispirazione... ». L’ultimo politico ad essersi innamorato delle teorie dell’economista americano è Sigmar Gabriel, ministro per gli affari economici e l’energia nel governo tedesco che si è profuso in lodi sperticate per il «grande scenario», «l’approccio visionario» e la capacità di sfidare «l’umore collettivo dominato dall’ansia per il futuro e dal pessimismo ».

Detto dal vice cancelliere di Angela Merkel, è molto più di una semplice recensione.
L’economista americano a questo clamore è abituato e anzi è un maestro nel creare un cortocircuito virtuoso fra conferenze, consulenze e progetti, i famosi masterplan con i quali il suo team — il TIR Consulting Group — spiega agli amministratori pubblici come mettere in pratica la visione del guru: creare una Super Internet delle


Cose in modo da far spazio ad una società “collaborativa” e superare il capitalismo.
Accanto alle collaborazioni con Unione Europea, Germania, Danimarca e Cina, masterplan sono stati redatti per il principato di Monaco, Utrecht, Sant’Antonio, la Francia del Nord (Calais) e persino per la città di Roma, anche se quest’ultimo è finito in un cestino: «Peccato, era un piano dannatamente bello. Me lo aveva chiesto il sindaco Alemanno, spero che qualcuno lo riprenda in mano». Sono trascorsi 40 anni dal suo primo libro: How to Commit Revolution American Style . Era il 1973, lei aveva convinto migliaia di persone a bloccare il porto di Boston contro le compagnie petrolifere. Sono seguiti ventidue libri, e ogni volta c’era un futuro a portata di mano: non la fa un po’ troppo facile?


«Non ho rimpianti per quello che ho previsto. La vita è un percorso di apprendimento continuo e si impara più dai fallimenti che dai successi, ma credo di averci azzeccato spesso: la crisi dei combustili fossili non me la sono inventata, e nemmeno lo sguardo critico sul biotech e gli Ogm. Quando poi ho scritto che con la robotizzazione un certo tipo di lavoro sarebbe scomparso, un celebre settimanale in copertina scrisse vedremo se ha ragione.
Qualche anno dopo ha fatto un’altra copertina per dire aveva ragione. Eppure non sono un indovino».

Non è neanche fortuna, immagino.

«No, sono mindful. Sono attento ai particolari. Vedo le cose ovvie che altri sottovalutano. Vedo le opportunità. L’Internet delle Cose, per esempio, mica l’ho inventato io. Se ne parla da anni, ma nessuno aveva detto quali effetti comporterà per le nostre vite. Per esempio il fatto che da lì verranno i nuovi posti di lavoro che state cercando ».


Ma non c’è un eccesso di ottimismo nelle sue visioni?
«Non credo. Basta essere determinati. E comunque ci saranno rallentamenti, passi falsi, problemi. Ma davvero qualcuno crede che possiamo restare gli stessi nei prossimi 50 anni? Che usciremo dalla crisi con le stesso modello economico con il quale ci siamo entrati? Che il petrolio e i combustibili fossili continueranno ad essere il motore del mondo? Le riforme di cui parlate in Italia e in Europa sono necessarie, ma non sufficienti a farvi ripartire. Serve una nuova visione del mondo che metta assieme i tre cambiamenti in corso. È sempre stato così del resto. Nella prima rivoluzione industriale furono decisivi il motore a vapore, il telegrafo e la ferrovia; nella seconda l’elettricità, il telefono e il petrolio. Anche adesso si sta verificando la convergenza di tre elementi: la comunicazione, l’energia rinnovabile e i trasporti guidati dai satelliti. Ma per entrare davvero nell’economia digitale, serve una infrastruttura potente, una Super Internet».

Sembra un libro dei sogni. Realizzabili, forse, ma lontani no?
«La Germania si sta muovendo molto aggressivamente in questa direzione: il 27 per cento della sua produzione di energia viene dalle rinnovabili. E in Cina si sono impegnati a spendere 82 miliardi di dollari in 4 anni per creare una Super Internet dell’energia. Milioni di cinesi produrranno la propria energia rinnovabile col sole o col vento e se la scambieranno come oggi ci scambiamo una email».

Curioso che proprio in America lei oggi sia meno ascoltato da chi decide.
«È una terribile ironia. Ma se uno va negli Stati Uniti oggi può sentire l’odore del vecchio mondo. Sembrano un paese stanco, che non ha più voglia di rischiare, terrorizzato di spendere soldi pubblici. Si sono innamorati dell’idea di estrarre energia fracassando le rocce, lo shale gas, invece che dalle fonti rinnovabili. Ma così facendo fra dieci anni diventeranno un paese di seconda fascia».


Veniamo all’Italia: la sua rivoluzione costa e con il debito pubblico che abbiamo chi dovrebbe pagare la Super Internet?

«Costa meno soldi di quel che immaginate. Molte cose già esistono, basta collegarle. E poi dire che non ci sono soldi per investimenti è una scusa. Ce ne sono tanti fra fondi europei, regionali, capitali privati. Basta indirizzarli in una visione. Fatelo e in 24 mesi vedrete i primi risultati».

IL LIBRO La società a costo marginale zero di Rifkin (Mondadori, pagg. 504, euro 22)

Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 02/09/2014, 3:09
da camillobenso
Che cos'è l'ottimismo


Da Google:

L'ottimismo è il sale della vita . Una Qualunque
http://www.unaqualunque.it/.../imprese- ... e-della-vi...
L'ottimismo è il sale della vita . Una Qualunque . “La predisposizione d'animo con la quale nella vita ci apprestiamo ad affrontare le diverse situazioni ...


L'ottimismo - Wikipedia
it.wikipedia.org/wiki/L'ottimismo
L'ottimismo è un libro scritto dal sociologo Francesco Alberoni, pubblicato nella sua prima edizione durante l'anno 1994. Il libro è scritto con uno stile divulgativo ...


Gianni l'ottimismo è il profumo della vita - YouTube
Video relativi a L'ottimismo► 0:05► 0:05
www.youtube.com/watch?v=XyX-KJwUohw
06/ago/2007 - Caricato da roberto6592
Gianni l'ottimismo è il profumo della vita. ... Play next; Play now. Perchè Ottimisti.wmv by MrLOTTIMISTA ...



Cos'è l'ottimismo - Crescita-Personale.it
www.crescita-personale.it/atteggiamento ... smo/1848/a
Per alcune persone gli ottimisti sono degli ingenui, spesso ridicolizzati, mentre i pessimisti sembrano più affidabili e razionali. Ma l'ottimismo non è un'illusione ..



L'ottimismo è il profumo della vita - la pagina | Facebook
https://it-it.facebook.com/vivifelicesorridendo
L'ottimismo è il profumo della vita - la pagina. Piace a 97.621 persone · 857 persone ne parlano. SE ami la vita come me, SE sei una persona di CUORE,...


Frasi su ottimismo e pessimismo @ Aforismario
www.aforismario.it/aforismi-ottimismo-pessimismo.htm
Aforismi e citazioni su ottimismo e pessimismo. I migliori pensieri e le riflessioni più celebri su ottimisti e pessimisti.



L'ottimismo è in un gene, ma si può imparare - Le Scienze
http://www.lescienze.it/.../l_ottimismo ... mparare-55...
15/set/2011 - Un gene strettamente collegato a tratti della personalità come l'ottimismo, l'autostima e il senso di controllo sulla propria vita è stato identificato ..

Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 02/09/2014, 3:28
da camillobenso
Che cos'è il pessimismo

Da Google:


Che cos'è il pessimismo leopardiano? - Yahoo Answers
https://it.answers.yahoo.com/question/index?qid...
14/mag/2008 - Gli studiosi hanno distinto tre fasi del pessimismo leopardiano: una fase di "pessimismo storico" , una di "pessimismo psicologico" e una di ...
Lgbt siete ottimisti o pessimisti?secondo voi cos'è ... 17 risposte 3 nov 2013
Manzoni: provvida sventura e pessimismo storico ... 1 risposta 8 gen 2012
Che cos'è per schopenhauer la sensucht?? 2 risposte 13 giu 2008
Siete pessimisti od ottimisti? E cos'è il pessimismo e l ... 13 risposte 13 mag 2008
Altri risultati in it.answers.yahoo.com



Pessimismo leopardiano - Wikipedia
it.wikipedia.org/wiki/Pessimismo_leopardiano
Il pessimismo è l'aspetto filosofico che caratterizza tutto l'evolversi del pensiero del poeta e filosofo Giacomo Leopardi, assumendo nel tempo connotazioni ...
‎Le fasi del pessimismo leopardiano - ‎Rapporti con la poetica



Il pessimismo - Crescita-Personale.it
http://www.crescita-personale.it › Competenze › Atteggiamento
Il pessimismo: da Schopenhauer a Leopardi, cos'è il pessimismo e come ... a pieni polmoni, tanto che anche il gatto della vicina sobbalza dal comodo sofà.
Cos'è l'ottimismo e cos'è il pessimismo? : Forum alFemminile
forum.alfemminile.com › Il Forum › Sessualità › Coppia - Sessualità
14 post - ‎7 autori
OTTIMISTA= COLUI CHE Dà PIù PESO AL LATO POSITIVO E PENSA DI ... PESSIMISTA=COLUI CHE DA' PIU' PESO AL LATO NEGATIVO E PENSA CHE ...



Il pessimismo cosmico di Leopardi - Viva la Scuola
vivalascuola.studenti.it/il-pessimismo-cosmico-di-leopardi-159872.html
07/lug/2014 - Il pessimismo è l'aspetto che caratterizza tutta l'opera di Leopardi, assumendo nel tempo connotazioni differenti. In particolare sono ...



Ottimismo / pessimismo | Benessere.com
http://www.benessere.com › Psicologia › Ottimismo
Non tutte le persone guardano al futuro e alla vita nello stesso modo. Esistono ad esempio persone che tendono a guardare la vita con preoccupazione e ansia, ...
[PDF]



Cos'è il pessimismo storico di Leopardi? - Digilander Libero
digilander.libero.it/.../1)%20COS'E'%20IL%20PESSIMISMO%20STORI...
Roberto Nava – LEOPARDI – 1) Cos'è, in realtà, il pessimismo storico di Leopardi ... Ritengo che il cuore della produzione di Leopardi sia altrove, non in questa ...


Elogio del pessimismo. Ovvero, istruzioni per vivere ...
http://www.francoangeli.it/Ricerca/Sche ... ro=239.134
Questo volumetto in difesa del pessimismo, ovviamente risponde di sì. Ma in un'epoca e ... (Che cos'è l'ottimismo?; Che cos'è il pessimismo?) I pessimisti sono ...



Il pessimismo | V4l3nt1n4's insane mind
clotolachesiatropo.wordpress.com/2008/02/05/il-pessimismo/
05/feb/2008 - Che cos'è il pessimismo? E' veramente l'antitesi della vita, l'apoteosi del negativo e del nulla? Mi arrogo il diritto di confutare le mille teorie che ...



PESSIMISMO STORICO
http://www.tes.mi.it/sir2itastoriaweb/v ... torico.htm
E' l'uomo stesso che allontanandosi dal felice stato di natura ha in gran parte causato la propria infelicità. La natura è concepita invece dal Leopardi come una ...


Ma anche.................


Aforismi - Vincenzoporta.it
http://www.vincenzoporta.it/DiTutto/Rub ... rismi2.htm
È sbagliato giudicare un uomo dalle persone che frequenta. Giuda, per esempio, aveva ... Il pessimista è un ottimista dopo che si è ben informato. Anonimo.



Un pessimista è solo un ottimista ben informato. - Facebook
https://it-it.facebook.com/.../un-pessi ... -informato...
Un pessimista è solo un ottimista ben informato. 22 ottobre 2011 ... Aldo Flora L'ottimista dice: "Domani è domenica." Il pessimista dice: "Dopodomani è lunedì.


Un pessimista... è un ottimista ben informato......? - Yahoo Answers
https://it.answers.yahoo.com/question/index?qid...
12/nov/2008 - Bellissima questa domanda! Mi fa venire in mente la solita diatriba che scattava al liceo tra me e la prof di italiano: quando scrivevo un tema, ...
Un pessimista è un ottimista ben informato? - Yahoo ... 2 risposte 16 mag 2011
L'ottimista non è altro che un pessimista male ... 8 risposte 25 lug 2009
Secondo voi l' ottimista è un pessimista mal informato ? 11 risposte 25 nov 2008


Il pessimista in realtà è l'ottimista dopo che si è ben ... 20 risposte 21 giu 2008
Altri risultati in it.answers.yahoo.com
" Il pessimista non è nient'altro che un ottimista ben ... - Ask.fm
ask.fm/CarlaDeVirgilis/answer/44368534753



Il pessimista non è nient'altro che un ottimista ben informato. "(Oscar Wilde) Che ne pensi di questa citazione? Ti senti piú ottimista o pessimista? O meglio ...



Un pessimista è un ottimista ben informato. - Anonimo
http://www.pensieriparole.it › Frasi & Aforismi › Comportamento
Frasi di Anonimo - Un pessimista è un ottimista ben informato.

Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 02/09/2014, 3:38
da camillobenso
Che cos'é il realismo


Discussione: Che cos'è il realismo?
http://www.forumlibri.com/forum/salotto ... lismo.html


Ad esempio,....il realismo è la pupetta che compare sopra la scritta:

Il Potere del cervello

Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 02/09/2014, 3:42
da camillobenso
Io non sono né pessimista né ottimista ma solo realista, che a secondo dei casi può essere l'uno o l'altro.

Jeremy Rifkin invece si considera ottimista e ci invita ad esserlo con lui.


«CARI italiani, non c’è paese al mondo dove abbia trascorso più tempo in questi anni e quindi vi parlo col cuore. So bene in quale crisi economica vi troviate da tempo. Ora anche la recessione. Sembra che non ci siano soluzioni, molti lo pensano, e invece è un errore. È la scusa di non vuole cambiare niente. La tecnologia sta davvero creando un futuro migliore, una società più giusta dove la creatività e l’operosità saranno premiate. Nuovi posti di lavoro. Ma adesso, prima di ogni altra cosa, vi serve un elettrochoc. Una svolta psicologica.
Dovete passare dal cinismo — che conduce alla disperazione — alla speranza — che fa muovere le cose in fretta e fa ripartire l’economia>>.



A me piacerebbe tanto che il noto economista statunitense venisse a discutere sul forum circa le sue convinzioni sopra riportate.


Come sostiene Rifkin, lui va e viene dagli Usa, ma noi qui ci stiamo stabilmente.

Ed è forse per questo che pende verso l'ottimismo.

Noi sono vent'anni che conviviamo con il Caimano,.....lui no.

Adesso che poteva andarsene,....uscire dalla scena politica è stato salvato in extremis da Pittibimbo, ..... il compare d'anello, con il Patto del Nazareno.
Non molla per niente. Era all'interno del Viale del Tramonto ed è resuscitato per l'ennesima volta, sempre grazie a Pittibimbo.

E' questo un motivo sufficiente per essere ottimisti?

Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 22/09/2014, 18:51
da camillobenso
Chiuso per crisi: si spengono le insegne
(Alessandro Ferrucci, Luigi Franco, Vincenzo Iurillo, Andrea Giambartolomei e Ferruccio Sansa).
22/09/2014 di triskel182


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CAMBIA IL COMMERCIO E IL VOLTO DELLE CITTÀ LE VENDITE CALANO DEL 5-8 PER CENTO. COSÌ DEVONO ARRENDERSI ALTRI 14MILA NEGOZI E 2.500 RISTORANTI. UN FENOMENO CHE NON RIGUARDA SOLO DECINE DI MIGLIAIA DI COMMERCIANTI: LE STRADE SI SPENGONO E SCOMPARE UN PRESIDIO FONDAMENTALE PER LA VITA DEI QUARTIERI.

Serrande abbassate, non è una questione di orario, giorno o stagione, sono abbassate perché il proprietario non ce la fa più, time out, addio, è stato bello finchè possibile. Un allarme che sbaglieremmo a considerare affare dei commercianti. I negozi, soprattutto le piccole botteghe, fanno parte del panorama e dell’identità delle nostre città. Senza le insegne illuminate, senza le vetrine che ci distraggono e ci accompagnano, si spengono le luci e anche la vita delle strade. Che diventano semplici luoghi di passaggio. Non solo: i negozi sono un presidio che assicura la cura e la pulizia delle vie. Sono, soprattutto, un fondamentale luogo di incontro . Per parlare, scambiare non solo merci, ma anche notizie sulla vita del quartiere e dei suoi abitanti. Sono un conforto, una compagnia per chi vive in solitudine.

Milano, Torino, Genova, Roma o il Sud Italia, è sempre uguale, secondo Confesercenti i più colpiti sono bar e ristoranti, librerie e negozi di abbigliamento: tra luglio e agosto di quest’anno, per ogni nuova impresa commerciale avviata, ben due sono defunte. A giugno 2014 più del 40 per cento delle attività aperte nel 2010 hachiuso e bruciato investimenti per 2,7 miliardi di euro. Un collasso. Così basta passeggiare per le vie, non solo periferiche, ma anche centrali delle città per scoprire cartelli con su scritto vendesi o affittasi; in alcuni casi si parla di “obsolescenza”, riferito a tutte quelle attività colpite dallo sviluppo del commercio in rete, quindi le agenzie di viaggio, i negozi di musica, home video, le librerie o le edicole (quattro chiusure ogni due nuove aperture). Alcuni numeri: i ristoranti segnano un meno 2.500, malissimo il commercio in sede fissa (-14mila negozi), il business delle sigarette elettroniche (4 chiusure per ogni nuova apertura), l’abbigliamento (addio a 3300 negozi). Inutile l’estremo tentativo dei saldi estivi: il Codacons stima che la quota di spesa media mensile dedicata al vestiario dalle famiglie italiane si è attestata dal 2012 al 5 per cento: quasi la metà del 13,6 registrato nel 1992, e che ci poneva, assieme al Giappone, al vertice della classifica mondiale. , guai perfino in centro Corso Vercelli, corso Magenta, via Meravigli, avanti fino alla centralissima piazza Cordusio. Se ne contano 20 di saracinesche chiuse lungo i due chilometri e mezzo di una delle principali direttrici dello shopping milanese. La crisi c’è ancora: “Gli affitti sono troppo alti per la situazione di oggi”, lamenta la signora dietro al bancone del Food & drink Rossomagenta. Qualche passo più in là, la parrucchiera sulla soglia del locale guarda a destra e a sinistra: “Qui i negozi aprono e chiudono”. Di fronte, proprio all’imbocco di corso Magenta, la bottega Luxury lingerie non ha superato l’estate: “L’avevano inaugurato appena qualche mese fa”. Aprono e chiudono, i negozi. Sono più quelli che chiudono, a guardare i dati della Camera di commercio di Milano: a fine giugno 2014 le attività commerciali in città, esclusi bar e ristoranti, erano 12.216: 61 in meno di un anno prima. Soffrono di più i negozi di abbigliamento (-114), quelli di articoli da regalo e per fumatori (-55, soprattutto per il crollo delle vendite delle sigarette elettroniche), i giornalai (-25) e le cartolerie (-20). Nemmeno le zone del centro vengono risparmiate. Anzi, qui le chiusure pesano per il 20% su tutte le cessazioni. Chi è fuori dai circuiti più fortunati del Quadrilatero della moda, di corso Vittorio Emanuele e di via Dante non sempre se la passa bene: per 100 metri quadri si pagano anche 100mila euro di affitto all’anno. Troppo, le vendite non sono più quelle di un tempo. “Il diradarsi di attività è un fenomeno che già da un po’ di anni colpisce le aree meno affascinanti – spiga Alessandro Prisco, presidente di Asco Duomo, associazione di negozianti di 25 vie del centro –. Via Larga è piena di cartelli ‘affittasi’, la seconda parte di via Mazzini è desolante, come l’inizio di corso Italia”. All’angolo tra piazza Duomo e via Mercanti c’era un negozio di abbigliamento da montagna: via anche questo, s’è trasferito fuori Milano per lasciare il posto a un temporary shop che vende accessori per la cucina. Due passi in più, di nuovo piazza Cordusio. Poi l’inizio di via Meravigli: aperto il Big’s bar e il negozio di candele Ceratina. Giù le saracinesche della storica cartoleria De Magistris, del centro fitness, della farmacia che da un po’ s’è spostata in un centro commerciale, giù quelle della boutique Ilaria Folli e del negozio di specialità dolciarie regionali, un’istituzione da 50 anni. Resistono un altro bar, la bottega di numismatica e quella di biancheria per la casa. Per ora. Genova Meno tre al giorno “Certi giorni scendo in strada e non riconosco la mia città”. Annalisa Parodi ha 84 anni, è vedova, se ne sta sulla porta del suo condominio e indica, una per una, le saracinesche abbassate. Poi aggiunge: “Sa, per me che sono sola il negozio era più che un posto dove comprare. Io mi mettevo il vestito bello per andarci. Era un’occasione per parlare, per sentire le notizie del quartiere, per partecipare alla vita degli altri. E se avevo bisogno di qualcosa, se non stavo bene, il macellaio mio amico veniva a darmi una mano. Ma ora anche lui ha chiuso”. Annalisa abita a Sestri Ponente, storico quartiere operaio di Genova, semplice, ma pieno di dignità e di vita. Oggi nel Ponente soprattutto alcune vie secondarie sembrano le strade di Atene durante gli anni più bui: una lunga fila di saracinesche abbassate. Succede qui e in tutta la città, come dimostrano i dati della Camera di Commercio. L’anno nero è stato il 2013: 573 aperture e ben 938 cessazioni di attività, per usare un termine burocratico che non racconta i dolori, talvolta i drammi, delle chiusure dei negozi. Alcuni con decenni di vita alle spalle. Accade nei quartieri meno ricchi, ma anche in quelli più benestanti, come Nervi (dove hanno casa professionisti e giocatori di serie A, per dire): storiche insegne hanno lasciato spazio a banche. Poi anche queste hanno ceduto e sono arrivati i cinesi. Sempre aperti, tutti con la stessa merce. E i genovesi, con meno soldi in tasca, li affollano . Paolo Odone, commerciante di vecchia data e presidente della Camera di Commercio, la spiega così: “Negli ultimi 5 anni il saldo fra le aperture e le chiusure dei negozi è stato sempre negativo, con un picco di -365 – un negozio in meno per ogni giorno dell’anno – nel 2013. La crisi economica non ha fatto che accentuare una situazione resa già critica dallo “sboom” demografico di una città che aspirava al milione di abitanti e si è ritrovata sotto i 600mila. In questa situazione, le famiglie dei commercianti hanno resistito spesso con il capitale, il cosiddetto fieno in cascina, ma oggi è finito anche quello. E con i prezzi in calo dello 0,2%, una Tari fuori da ogni proporzione e un sistema fiscale insostenibile, a fine anno rischiamo un nuovo tracollo”. Chiudono i negozi, le strade si desertificano. E la città diventa più grigia. I ragazzi a volte si ritrovano nei centri commerciali – con la polemica delle tante Coop fiorite in ogni quartiere – ma anche i colossi stanno male. A Roma lacrime diffuse Via del Tritone, a due passi da piazza di Spagna, lacrime per chi si ricorda come era un tempo “qui giravano i soldi, ora siamo dei pezzenti”, parola di negoziante in crisi. Via Merulana, tra Colosseo e piazza San Giovanni, la situazione è anche peggiore, difficile trovare una saracinesca alzata, è ruggine, polvere, malinconia, abbandono. In periferia, o comunque fuori dal centro, è anche peggio: la vecchia edilizia pensata e voluta da Caltagirone, prevedeva appartamenti sopra, attività commerciali sotto: ora è un perenne cartello vendesi. “Nei primi due mesi del 2014 sono stati chiusi 682 negozi”, raccontano i dati dell’Osservatorio Confesercenti e “nei tre settori di commercio, turismo e intermediazione, dove 451 fanno parte della categoria del ‘commercio al dettaglio in sede fissa’. Detto altrimenti, negozi e botteghe artigiane”. Ma complessivamente la situazione è anche peggiore e racconta di oltre diecimila locali commerciali sfitti o invenduti, con orafi, corniciai e falegnami inseriti nella categoria “Panda”. “Persino i centri commerciali accusano il colpo, mentre le uniche attività che sembrano tener lontano la crisi sono i bar e i ristoranti. Sempre secondo la Confederazione nazionale dell’artigianato, in nove anni gli esercizi di ristoro nel cuore della Capitale sono passati dai 48 del 2003 ai 153 del 2012. Bar e ristoranti gestiti sì, da italiani, ma che appartengono sempre più a stranieri, cinesi per lo più”. Così è normale vedere a Roma delle saracinesche sollevarsi do notte, un momento, un attimo, e qualcuno varca la soglia solo per dormirci: la tariffa è tra i 30 e i 50 euro a notte, nessuna licenza, solo “un racimolare qualche soldo, sono mesi che cerco di affittare ma niente”, spiega un ex negoziante del centro. Quindi l’escamotage del dormitorio. “Ma se ha chiuso la Ferrari, pensa noi”, insiste. Vero. Soldi al 70 per cento per lo store del Cavallino, uno dei punti di gloria dell’era Montezemolo, ora non più, casse vuote, e nessuna voglia di ripianare, la soluzione è stata quella di mollare. Napoli ‘a nuttata non passa A Napoli citano Eduardo De Filippo e dicono: “Adda passà ‘a nuttata”. Ma la nottata del commercio partenopeo è buia e tempestosa. Nei primi sei mesi del 2014, tra Napoli e provincia, hanno serrato le saracinesche 2.244 negozi e 591 tra bar e ristoranti. L’elenco dei caduti vanta nomi illustri. Ha chiuso dopo 50 anni il negozio di abbigliamento De Vito. Hanno chiuso altri esercizi storici come Buonanno e De Nicola. Hanno svuotato i locali grandi firme come Diesel, in piazzetta Rodinò, Frette, un punto Armani. Alla fine dell’anno scorso ha chiuso dopo 95 anni la libreria Guida a Port’Alba dove acquistava Benedetto Croce e dove intere generazioni si erano rifornite di testi scolastici. Una recente inchiesta della Procura antimafia, pm Catello Maresca, ha dimostrato che gli interessi dei distributori di cd e dvd vergini e a poco prezzo, grazie all’evasione delle tasse, si saldano con quelli dei clan camorristici che con la pirateria audio-video ricavano ingenti profitti. Con la chiusura di un altro punto Guida e di Loffredo, l’intero quartiere Vomero, 200 mila abitanti, da dove proviene una nutrita fetta dell’intellighènzia napoletana (a cominciare dal sindaco Luigi de Magistris) è rimasta sprovvista di librerie. Per fortuna, o purtroppo, c’è Internet. Costrette alla chiusura, con centinaia di dipendenti sul lastrico, le grandi catene di elettronica e prodotti culturali come Eldo in piazza Matteotti, e Fnac. Nel solo settore dell’abbigliamento il calo in Campania è stato del 10,5%, il peggiore in Italia (dati Federmoda-Confcommercio). Poi quando apre una nuova azienda non bisogna esultare subito. “Le nuove iscrizioni al Registro delle Imprese sono operazioni finanziarie per mascherare stati di crisi” spiega il presidente della Camera di Commercio Maurizio Maddaloni, “e troppo spesso per agevolare attività illegali, come accade per alcuni ristoranti o negozi di abbigliamento che aprono e chiudono in poco tempo”. Ricorda il presidente Ascom, Pietro Russo: “Dal 2008 la provincia di Napoli ha perso 11 punti di Pil e 100 mila occupati, il 15% della forza lavoro. Poi ci sono tante criticità tipiche del nostro territorio: la vendita di merci contraffatte negli ultimi 5 anni ha tolto, solo in provincia di Napoli, ben 6 miliardi al circuito dell’economia legale; ed abbiamo una città a brandelli”. Torino, dopo gli operai le librerie Le ultime ad andarsene sono le librerie del centro di Torino. Qualche storico negozio lascerà gli spazi in cui stava da decenni: la libreria Zaniboni o la Dante Alighieri non riapriranno, mentre la Paravia si trasferirà in un quartiere meno centrale. La crisi ha colpito pure i negozi più grandi, come la Fnac che ha chiuso o la Coop che si è trasferita fuori città. Per rimanere in tema di libri, la trattoria Mama Licia, in passato frequentata dall’editore Giulio Einaudi, ha lasciato le sue cucine per gli affitti troppo alti. La situazione non cambia fuori dal centro fino alla periferia: che sia il ricco quartiere Crocetta o l’operaia Mirafiori, panetterie, piccoli alimentari, negozi d’abbigliamento e di sigarette elettroniche abbassano le serrande e i locali restano sfitti e invenduti per anni. In città, stando agli ultimi dati della Confesercenti, dall’inizio dell’anno hanno chiuso 543 attività, quasi 1.200 se si considera la provincia. Nel 2013 non era andata meglio: spariti1.167 negozi, “con un saldo negativo di 181 esercizi in rapporto alle aperture”, stando all’Ascom e alla Camera di Commercio. È il sintomo di una crisi che è cominciata con la Fiat e i suoi operai, ha colpito il suo indotto e, a catena, i consumi e si ripercuote su tutta l’economia. A dare il colpo di grazia poi sono gli affitti sempre alti, soprattutto nella centralissima via Roma, tanto alti da soffocare anche attività economiche di lusso. Per abbattere i costi i gestori dello storico emporio alimentare Paissa hanno chiuso il locale di piazza San Carlo tenendo aperti gli altri locali più piccoli e dagli affitti meno alti in via Cernaia e in corso Alcide De Gasperi. Una libreria che chiuderà i battenti è la Dante Alighieri. Per Mimmo Fogola, che la gestisce insieme al fratello Nanni, il problema non è l’affitto: “La concorrenza delle grandi librerie: sebbene la legge imponga sconti fino al 15 per cento, loro arrivano al 25 per cento semplicemente chiamandole ‘promozioni’”.


Da Il Fatto Quotidiano del 22/09/2014.

Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 24/09/2014, 7:04
da camillobenso
Straordinariamente ho ripetuto l'articolo di Sansa ed altri perché ha una certa importanza dal punto di vista sociologico relativo al momento che stiamo attraversando. La presenza della fotografia pone delle difficoltà nella lettura perché obbliga continuamente spostare il cursore al termine di ogni riga. E in questo caso il testo è anche piuttosto lungo. Però anche la fotografia della serranda abbassata ha la sua importanza comunicativa.




Chiuso per crisi: si spengono le insegne
(Alessandro Ferrucci, Luigi Franco, Vincenzo Iurillo, Andrea Giambartolomei e Ferruccio Sansa).
22/09/2014 di triskel182


CAMBIA IL COMMERCIO E IL VOLTO DELLE CITTÀ LE VENDITE CALANO DEL 5-8 PER CENTO. COSÌ DEVONO ARRENDERSI ALTRI 14MILA NEGOZI E 2.500 RISTORANTI. UN FENOMENO CHE NON RIGUARDA SOLO DECINE DI MIGLIAIA DI COMMERCIANTI: LE STRADE SI SPENGONO E SCOMPARE UN PRESIDIO FONDAMENTALE PER LA VITA DEI QUARTIERI.

Serrande abbassate, non è una questione di orario, giorno o stagione, sono abbassate perché il proprietario non ce la fa più, time out, addio, è stato bello finchè possibile. Un allarme che sbaglieremmo a considerare affare dei commercianti. I negozi, soprattutto le piccole botteghe, fanno parte del panorama e dell’identità delle nostre città. Senza le insegne illuminate, senza le vetrine che ci distraggono e ci accompagnano, si spengono le luci e anche la vita delle strade. Che diventano semplici luoghi di passaggio. Non solo: i negozi sono un presidio che assicura la cura e la pulizia delle vie. Sono, soprattutto, un fondamentale luogo di incontro . Per parlare, scambiare non solo merci, ma anche notizie sulla vita del quartiere e dei suoi abitanti. Sono un conforto, una compagnia per chi vive in solitudine.

Milano, Torino, Genova, Roma o il Sud Italia, è sempre uguale, secondo Confesercenti i più colpiti sono bar e ristoranti, librerie e negozi di abbigliamento: tra luglio e agosto di quest’anno, per ogni nuova impresa commerciale avviata, ben due sono defunte. A giugno 2014 più del 40 per cento delle attività aperte nel 2010 hachiuso e bruciato investimenti per 2,7 miliardi di euro. Un collasso. Così basta passeggiare per le vie, non solo periferiche, ma anche centrali delle città per scoprire cartelli con su scritto vendesi o affittasi; in alcuni casi si parla di “obsolescenza”, riferito a tutte quelle attività colpite dallo sviluppo del commercio in rete, quindi le agenzie di viaggio, i negozi di musica, home video, le librerie o le edicole (quattro chiusure ogni due nuove aperture). Alcuni numeri: i ristoranti segnano un meno 2.500, malissimo il commercio in sede fissa (-14mila negozi), il business delle sigarette elettroniche (4 chiusure per ogni nuova apertura), l’abbigliamento (addio a 3300 negozi). Inutile l’estremo tentativo dei saldi estivi: il Codacons stima che la quota di spesa media mensile dedicata al vestiario dalle famiglie italiane si è attestata dal 2012 al 5 per cento: quasi la metà del 13,6 registrato nel 1992, e che ci poneva, assieme al Giappone, al vertice della classifica mondiale. , guai perfino in centro Corso Vercelli, corso Magenta, via Meravigli, avanti fino alla centralissima piazza Cordusio. Se ne contano 20 di saracinesche chiuse lungo i due chilometri e mezzo di una delle principali direttrici dello shopping milanese. La crisi c’è ancora: “Gli affitti sono troppo alti per la situazione di oggi”, lamenta la signora dietro al bancone del Food & drink Rossomagenta. Qualche passo più in là, la parrucchiera sulla soglia del locale guarda a destra e a sinistra: “Qui i negozi aprono e chiudono”. Di fronte, proprio all’imbocco di corso Magenta, la bottega Luxury lingerie non ha superato l’estate: “L’avevano inaugurato appena qualche mese fa”. Aprono e chiudono, i negozi. Sono più quelli che chiudono, a guardare i dati della Camera di commercio di Milano: a fine giugno 2014 le attività commerciali in città, esclusi bar e ristoranti, erano 12.216: 61 in meno di un anno prima. Soffrono di più i negozi di abbigliamento (-114), quelli di articoli da regalo e per fumatori (-55, soprattutto per il crollo delle vendite delle sigarette elettroniche), i giornalai (-25) e le cartolerie (-20). Nemmeno le zone del centro vengono risparmiate. Anzi, qui le chiusure pesano per il 20% su tutte le cessazioni. Chi è fuori dai circuiti più fortunati del Quadrilatero della moda, di corso Vittorio Emanuele e di via Dante non sempre se la passa bene: per 100 metri quadri si pagano anche 100mila euro di affitto all’anno. Troppo, le vendite non sono più quelle di un tempo. “Il diradarsi di attività è un fenomeno che già da un po’ di anni colpisce le aree meno affascinanti – spiga Alessandro Prisco, presidente di Asco Duomo, associazione di negozianti di 25 vie del centro –. Via Larga è piena di cartelli ‘affittasi’, la seconda parte di via Mazzini è desolante, come l’inizio di corso Italia”. All’angolo tra piazza Duomo e via Mercanti c’era un negozio di abbigliamento da montagna: via anche questo, s’è trasferito fuori Milano per lasciare il posto a un temporary shop che vende accessori per la cucina. Due passi in più, di nuovo piazza Cordusio. Poi l’inizio di via Meravigli: aperto il Big’s bar e il negozio di candele Ceratina. Giù le saracinesche della storica cartoleria De Magistris, del centro fitness, della farmacia che da un po’ s’è spostata in un centro commerciale, giù quelle della boutique Ilaria Folli e del negozio di specialità dolciarie regionali, un’istituzione da 50 anni. Resistono un altro bar, la bottega di numismatica e quella di biancheria per la casa. Per ora. Genova Meno tre al giorno “Certi giorni scendo in strada e non riconosco la mia città”. Annalisa Parodi ha 84 anni, è vedova, se ne sta sulla porta del suo condominio e indica, una per una, le saracinesche abbassate. Poi aggiunge: “Sa, per me che sono sola il negozio era più che un posto dove comprare. Io mi mettevo il vestito bello per andarci. Era un’occasione per parlare, per sentire le notizie del quartiere, per partecipare alla vita degli altri. E se avevo bisogno di qualcosa, se non stavo bene, il macellaio mio amico veniva a darmi una mano. Ma ora anche lui ha chiuso”. Annalisa abita a Sestri Ponente, storico quartiere operaio di Genova, semplice, ma pieno di dignità e di vita. Oggi nel Ponente soprattutto alcune vie secondarie sembrano le strade di Atene durante gli anni più bui: una lunga fila di saracinesche abbassate. Succede qui e in tutta la città, come dimostrano i dati della Camera di Commercio. L’anno nero è stato il 2013: 573 aperture e ben 938 cessazioni di attività, per usare un termine burocratico che non racconta i dolori, talvolta i drammi, delle chiusure dei negozi. Alcuni con decenni di vita alle spalle. Accade nei quartieri meno ricchi, ma anche in quelli più benestanti, come Nervi (dove hanno casa professionisti e giocatori di serie A, per dire): storiche insegne hanno lasciato spazio a banche. Poi anche queste hanno ceduto e sono arrivati i cinesi. Sempre aperti, tutti con la stessa merce. E i genovesi, con meno soldi in tasca, li affollano . Paolo Odone, commerciante di vecchia data e presidente della Camera di Commercio, la spiega così: “Negli ultimi 5 anni il saldo fra le aperture e le chiusure dei negozi è stato sempre negativo, con un picco di -365 – un negozio in meno per ogni giorno dell’anno – nel 2013. La crisi economica non ha fatto che accentuare una situazione resa già critica dallo “sboom” demografico di una città che aspirava al milione di abitanti e si è ritrovata sotto i 600mila. In questa situazione, le famiglie dei commercianti hanno resistito spesso con il capitale, il cosiddetto fieno in cascina, ma oggi è finito anche quello. E con i prezzi in calo dello 0,2%, una Tari fuori da ogni proporzione e un sistema fiscale insostenibile, a fine anno rischiamo un nuovo tracollo”. Chiudono i negozi, le strade si desertificano. E la città diventa più grigia. I ragazzi a volte si ritrovano nei centri commerciali – con la polemica delle tante Coop fiorite in ogni quartiere – ma anche i colossi stanno male. A Roma lacrime diffuse Via del Tritone, a due passi da piazza di Spagna, lacrime per chi si ricorda come era un tempo “qui giravano i soldi, ora siamo dei pezzenti”, parola di negoziante in crisi. Via Merulana, tra Colosseo e piazza San Giovanni, la situazione è anche peggiore, difficile trovare una saracinesca alzata, è ruggine, polvere, malinconia, abbandono. In periferia, o comunque fuori dal centro, è anche peggio: la vecchia edilizia pensata e voluta da Caltagirone, prevedeva appartamenti sopra, attività commerciali sotto: ora è un perenne cartello vendesi. “Nei primi due mesi del 2014 sono stati chiusi 682 negozi”, raccontano i dati dell’Osservatorio Confesercenti e “nei tre settori di commercio, turismo e intermediazione, dove 451 fanno parte della categoria del ‘commercio al dettaglio in sede fissa’. Detto altrimenti, negozi e botteghe artigiane”. Ma complessivamente la situazione è anche peggiore e racconta di oltre diecimila locali commerciali sfitti o invenduti, con orafi, corniciai e falegnami inseriti nella categoria “Panda”. “Persino i centri commerciali accusano il colpo, mentre le uniche attività che sembrano tener lontano la crisi sono i bar e i ristoranti. Sempre secondo la Confederazione nazionale dell’artigianato, in nove anni gli esercizi di ristoro nel cuore della Capitale sono passati dai 48 del 2003 ai 153 del 2012. Bar e ristoranti gestiti sì, da italiani, ma che appartengono sempre più a stranieri, cinesi per lo più”. Così è normale vedere a Roma delle saracinesche sollevarsi do notte, un momento, un attimo, e qualcuno varca la soglia solo per dormirci: la tariffa è tra i 30 e i 50 euro a notte, nessuna licenza, solo “un racimolare qualche soldo, sono mesi che cerco di affittare ma niente”, spiega un ex negoziante del centro. Quindi l’escamotage del dormitorio. “Ma se ha chiuso la Ferrari, pensa noi”, insiste. Vero. Soldi al 70 per cento per lo store del Cavallino, uno dei punti di gloria dell’era Montezemolo, ora non più, casse vuote, e nessuna voglia di ripianare, la soluzione è stata quella di mollare. Napoli ‘a nuttata non passa A Napoli citano Eduardo De Filippo e dicono: “Adda passà ‘a nuttata”. Ma la nottata del commercio partenopeo è buia e tempestosa. Nei primi sei mesi del 2014, tra Napoli e provincia, hanno serrato le saracinesche 2.244 negozi e 591 tra bar e ristoranti. L’elenco dei caduti vanta nomi illustri. Ha chiuso dopo 50 anni il negozio di abbigliamento De Vito. Hanno chiuso altri esercizi storici come Buonanno e De Nicola. Hanno svuotato i locali grandi firme come Diesel, in piazzetta Rodinò, Frette, un punto Armani. Alla fine dell’anno scorso ha chiuso dopo 95 anni la libreria Guida a Port’Alba dove acquistava Benedetto Croce e dove intere generazioni si erano rifornite di testi scolastici. Una recente inchiesta della Procura antimafia, pm Catello Maresca, ha dimostrato che gli interessi dei distributori di cd e dvd vergini e a poco prezzo, grazie all’evasione delle tasse, si saldano con quelli dei clan camorristici che con la pirateria audio-video ricavano ingenti profitti. Con la chiusura di un altro punto Guida e di Loffredo, l’intero quartiere Vomero, 200 mila abitanti, da dove proviene una nutrita fetta dell’intellighènzia napoletana (a cominciare dal sindaco Luigi de Magistris) è rimasta sprovvista di librerie. Per fortuna, o purtroppo, c’è Internet. Costrette alla chiusura, con centinaia di dipendenti sul lastrico, le grandi catene di elettronica e prodotti culturali come Eldo in piazza Matteotti, e Fnac. Nel solo settore dell’abbigliamento il calo in Campania è stato del 10,5%, il peggiore in Italia (dati Federmoda-Confcommercio). Poi quando apre una nuova azienda non bisogna esultare subito. “Le nuove iscrizioni al Registro delle Imprese sono operazioni finanziarie per mascherare stati di crisi” spiega il presidente della Camera di Commercio Maurizio Maddaloni, “e troppo spesso per agevolare attività illegali, come accade per alcuni ristoranti o negozi di abbigliamento che aprono e chiudono in poco tempo”. Ricorda il presidente Ascom, Pietro Russo: “Dal 2008 la provincia di Napoli ha perso 11 punti di Pil e 100 mila occupati, il 15% della forza lavoro. Poi ci sono tante criticità tipiche del nostro territorio: la vendita di merci contraffatte negli ultimi 5 anni ha tolto, solo in provincia di Napoli, ben 6 miliardi al circuito dell’economia legale; ed abbiamo una città a brandelli”. Torino, dopo gli operai le librerie Le ultime ad andarsene sono le librerie del centro di Torino. Qualche storico negozio lascerà gli spazi in cui stava da decenni: la libreria Zaniboni o la Dante Alighieri non riapriranno, mentre la Paravia si trasferirà in un quartiere meno centrale. La crisi ha colpito pure i negozi più grandi, come la Fnac che ha chiuso o la Coop che si è trasferita fuori città. Per rimanere in tema di libri, la trattoria Mama Licia, in passato frequentata dall’editore Giulio Einaudi, ha lasciato le sue cucine per gli affitti troppo alti. La situazione non cambia fuori dal centro fino alla periferia: che sia il ricco quartiere Crocetta o l’operaia Mirafiori, panetterie, piccoli alimentari, negozi d’abbigliamento e di sigarette elettroniche abbassano le serrande e i locali restano sfitti e invenduti per anni. In città, stando agli ultimi dati della Confesercenti, dall’inizio dell’anno hanno chiuso 543 attività, quasi 1.200 se si considera la provincia. Nel 2013 non era andata meglio: spariti1.167 negozi, “con un saldo negativo di 181 esercizi in rapporto alle aperture”, stando all’Ascom e alla Camera di Commercio. È il sintomo di una crisi che è cominciata con la Fiat e i suoi operai, ha colpito il suo indotto e, a catena, i consumi e si ripercuote su tutta l’economia. A dare il colpo di grazia poi sono gli affitti sempre alti, soprattutto nella centralissima via Roma, tanto alti da soffocare anche attività economiche di lusso. Per abbattere i costi i gestori dello storico emporio alimentare Paissa hanno chiuso il locale di piazza San Carlo tenendo aperti gli altri locali più piccoli e dagli affitti meno alti in via Cernaia e in corso Alcide De Gasperi. Una libreria che chiuderà i battenti è la Dante Alighieri. Per Mimmo Fogola, che la gestisce insieme al fratello Nanni, il problema non è l’affitto: “La concorrenza delle grandi librerie: sebbene la legge imponga sconti fino al 15 per cento, loro arrivano al 25 per cento semplicemente chiamandole ‘promozioni’”.

Da Il Fatto Quotidiano del 22/09/2014.

Re: Come se ne viene fuori ?

Inviato: 24/09/2014, 8:00
da camillobenso
I DATI DEL CERVED

Milano, 23 settembre 2014 - 10:49
Nuova impennata dei fallimenti
Sono 8mila nel primo semestre


Il settore più colpito è quello dei servizi. Calano invece i concordati in bianco

di Redazione Economia


Non si arresta la corsa dei fallimenti in Italia. Tra aprile e giugno più di 4 mila imprese hanno aperto una procedura fallimentare, segnando così un incremento del 14,3% rispetto allo stesso periodo del 2013.

La crescita a doppia cifra porta i default oltre quota 8mila se si considera l’intero semestre, in crescita del 10,5% rispetto al livello già elevato dell’anno precedente e record assoluto dall’inizio della serie storica risalente al 2001. Sono questi gli ultimi dati diffusi dal Cerved.

«Stiamo vivendo una fase molto delicata per il sistema delle Pmi italiane - commenta Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato di Cerved - . La nuova recessione sta spingendo fuori dal mercato anche imprese che avevano superato con successo la prima fase della crisi e che stanno pagando il conto al credit crunch e di una domanda da troppo tempo stagnante».

La maglia nera spetta ai servizi che contano un aumento del 15,7%, in netta accelerazione rispetto al primo semestre del 2013. Continuano, anche se con dei ritmi più lenti, le procedure nelle costruzioni e nella manifattura: i fallimenti di imprese edili crescono nei primi sei mesi del 2014 dell’8,2% (+12,8% nel 2013), mentre per le imprese manifatturiere l’aumento è del 4,5% (+10,5% nel primo semestre dello scorso anno).

Calano le domande di concordato in bianco: tra aprile e giugno sono state 665, il 52,2% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. «Questo dimezzamento è l’effetto dei correttivi legislativi introdotti nel settembre del 2013 e, in particolare, della possibilità per i tribunali di nominare un commissario giudiziale che monitori la condotta del debitore.

Ne è seguita una netta diminuzione dei concordati comprensivi di piano, che nei primi sei mesi del 2014 si sono ridotti del 12,3% rispetto alla prima metà del 2013». Il minore utilizzo di questo strumento si riflette anche nelle altre procedure non fallimentari, che nei primi sei mesi dell’anno hanno registrato quota 1,4mila procedure, il 12% in meno del primo semestre 2013.


Questo calo non coinvolge tutti i settori dell’economia: continua infatti, l’aumento delle procedure nelle costruzioni, +4,4% rispetto allo stesso periodo del 2013. Diminuisce invece con tassi a doppia cifra il numero di procedure non fallimentari sia nell’industria (-22,1%), sia nei servizi (-12%) in cui tuttavia si osserva il maggior numero di procedure aperte nel semestre, più di 700.

La riduzione riguarda tutte le aree del Paese: nel primo semestre diminuiscono le procedure nel Mezzogiorno e nelle Isole (-15,7% rispetto ai primi sei mesi del 2013), area dove se ne osserva il minore numero, e nel Nord Est (-20%); meno accentuato il calo nel Nord Ovest (-8,6%) e nel Centro (-4,3%).

Liquidazioni volontarie Nel primo semestre hanno deciso volontariamente di chiudere la propria attività 32,5 mila imprenditori, in calo del 10,3% rispetto allo stesso periodo del 2013.

È un’inversione di tendenza dopo un lungo periodo di aumento del fenomeno, di cui si erano avvertiti i primi segnali già nel primo trimestre dell’anno. Il calo delle liquidazioni riguarda tutte le tipologie di società, tutti i settori economici e tutte le aree geografiche. La riduzione risulta particolarmente marcata nell’industria (-18,8%) e nel Centro (-22,4%).


23 settembre 2014 | 10:49
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http://www.corriere.it/economia/14_sett ... d2f5.shtml