Re: Come se ne viene fuori ?
Inviato: 01/08/2017, 15:20
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Ovviamente, questo implicava la distribuzione di quote-tangente per ciascuna opera pubblica ad ogni corrente di partito coinvolta nella trattativa.
Questo sistema funzionava a patto di ottenere una certa acquiescenza del Pci, perché spesso uno dei tre livelli istituzionali (Regione, Provincia o Comune capoluogo) era retto da una amministrazione di sinistra e non sarebbe stato possibile spartire “equamente” il monte-appalti senza che esso fosse considerato nella sua interezza.
Pertanto si provvide ad estendere il sistema anche al Pci, che, però, vi partecipò in modo diverso dagli altri: ovviamente nel Pci non vi erano correnti e il partito trattava in quanto tale, ma, in linea di massima, non per chiedere alcuna tangente, quanto per garantire una quota dei lavori per le società della Lega delle Cooperative.
Poi la Lega trovava modo di sovvenzionare il partito in altro modo (pubblicità sui giornali di partito, partecipazione ai festival dell’Unità, assorbimento di funzionari in eccesso, facilitazioni varie).
E’ per questo che la corruzione negli anni ottanta divenne sistemica, cioè basata su un funzionamento combinato che metteva in relazione necessaria i diversi soggetti della pratica corruttiva a livello generalizzato. E non ammetteva eccezioni.
Alcune forme di finanziamento surrettizio non erano neppure nascoste: quando nei primissimi anni ottanta emersero contributi di alcuni enti a Ppss a favore di alcune correnti della Dc e del Psi, l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, sostenne che quello del finanziamento alla politica era uno dei “fini sub-istituzionali” delle Ppss.
Tutto questo, insieme al proliferare delle pratiche clientelari, determinò un irrigidimento del sistema politico che, ben presto, perse ogni capacità di auto riforma. A concorrere a tanto fu anche la sostanziale inerzia del sistema giudiziario nei confronti della dilagante corruzione.
Nei primi anni ottanta esplose un vistoso scandalo a Savona, che ebbe come protagonista un assessore socialista aderente alla P2, Alberto Teardo. Nel caso erano presenti in nuce tutti gli elementi di quella che, 10 anni più tardi, verrà chiamata “Tangentopoli”, ma l’inchiesta ebbe vita difficile ed il magistrato Michele Del Gaudio andò incontro a molte traversie disciplinari. E’ da notare anche l’isolamento politico del magistrato, determinato anche dall’atteggiamento del locale Pci.
Nella seconda metà degli anni ottanta il sistema iniziò ad andare in crisi. L’eccessiva frammentazione correntizia dei partiti, la sempre minore produttività del sistema politico, l’incomprensibilità dei suoi riti (in particolare in occasione delle crisi di governo), iniziarono a produrre un forte rigetto.
Sin dal 1979, l’astensionismo elettorale aveva iniziato a crescere, mentre i tassi reali di adesione ai partiti (iscrizioni, vendita della stampa, sottoscrizioni, partecipazione a manifestazioni di partito ecc.) crollarono parallelamente, spingendo ancor più verso la ricerca di risorse attraverso la corruzione.
Nello stesso periodo iniziò a profilarsi una tendenza al “leaderismo carismatico”: Pannella prima e Craxi subito dopo, tentarono di proporsi come leader che parlavano direttamente al corpo elettorale, senza la mediazione del proprio partito, ridotto ad appendice personale.
Il piccolo partito radicale fu, sin dagli inizi degli anni settanta, il supporto personale del suo leader e lo statuto adottato in quel periodo fu modellato esattamente in questa funzione.
Diversa la vicenda del Psi, dove Craxi doveva comunque fare i conti con i “boiardi” del partito, i cui seguiti clientelari rappresentavano una quota maggioritaria dell’elettorato socialista. A partire dal congresso di Palermo (1981) si stabilì una sorta di compromesso: al segretario la linea politica, in un clima di crescente unanimismo (la “maggioranza bulgara” di cui si dirà imbarazzato lo stesso Craxi -congresso di Verona, 1984), ai boiardi mano libera negli “affari”.
Una sorta di “leaderismo imperfetto” che, tuttavia rivitalizzò il Psi che dal 1963 in poi aveva conosciuto un costante declino elettorale.
In questo quadro (che si traduceva sul piano interno nel declino inarrestabile del Pci) la mediazione del ceto politico di governo non appariva più necessaria come nel passato e le sue pretese sempre meno accettabili.
Il meccanismo che aveva garantito ampia messe di consensi alla classe politica subiva un’improvvisa battuta d’arresto: “Mani pulite” fu l’ “infarto” del sistema, le cui premesse erano in quelle dinamiche.
A determinare il crollo fu la convergenza fra le inchieste giudiziarie e il referendum sulle leggi elettorali ed il passaggio dal proporzionale al maggioritario.
Il sistema dei partiti si disintegrò nel giro di pochi mesi e con esso, entrò in crisi anche quello della corruzione che vi si era sovrapposto ed identificato. Molti pensarono ad una sorta di catarsi nazionale che avrebbe messo fine alla piaga eterna della corruzione. Ma non fu questo, si trattò solo di una sua metamorfosi, per quanto profonda.
Ci fu un reale battuta d’arresto nella corruzione per qualche anno, ma essa fu frutto da un lato del blocco delle opere pubbliche per oltre un lustro, dall’altro dal contraddittorio e lento processo di riorganizzazione del sistema politico. E, più di tutto, incise la particolare prassi giudiziaria che investì la classe politica.
Peraltro, lo stesso intervento dell’Autorità giudiziaria non andò indenne da squilibri: i politici vennero trattati con molta più severità delle aziende (quasi si trattasse di casi di concussione e non di corruzione), alcuni partiti vennero passati al pettine fine, mentre per altri si usò un pettine a denti assai più larghi, il comportamento mutò da Procura a Procura, in particolare nel trattamento dei “collaboranti” ed i processi ebbero velocità differenziate. Soprattutto si produsse una giurisprudenza assai discutibile. In particolare, sulla scia della giurisprudenza contro il terrorismo, che dilatava il reato associativo oltre ogni limite sino a ribaltare l’onere della prova (“se sei delle Br sei ipso facto ritenuto responsabile di ogni delitto loro ascritto, salvo dimostrazione di prova contraria”), che, nel caso di “Mani Pulite” assunse la forma apodittica del “non poteva non sapere”.
In realtà di processi giunti a sentenza definitiva con regolare dibattimento ce ne furono molto pochi. Un un quarto si arenò in istruttoria con proscioglimento. Poco meno di un decimo, più piccola, non superò l’udienza preliminare o con l’assoluzione definitiva degli imputati. Ma più della metà dei casi si risolse con il rito abbreviato o il patteggiamento e pene irrisorie. Dal punto di vista dell’esito finale, Mani Pulite non fu caratterizzata da nessun particolare rigore (salvo per singoli personaggi come Bettino Craxi) nè portò all’affermazione di verità processuali particolarmente chiare e sconvolgenti. Ma segnò la fine di una classe politica attraverso il solo avviso di garanzia. Ciò accadde per il circuito mediatico-giudiziario che si determinò (6).
Lo stesso accadde con il primo governo Berlusconi a seguito dell’avviso di garanzia non casualmente consegnato nel quadro del G7.
Ma un metodo del genere può essere efficace nel breve periodo, mentre oltre una certa soglia provoca assuefazione e diventa un’arma spuntata.
Sul piano politico ci fu un tentativo di varare una legislazione di contrasto alla corruzione: abrogazione dell’immunità parlamentare –salvo che per l’arresto- nuova disciplina degli appalti, il passaggio al sistema uninominale che “eliminava” il voto di preferenza (individuato come una delle cause principali del malaffare), introduzione del reato di “voto di scambio” ecc. ma i risultati furono irrisori.
Infatti, una parte di queste misure era semplicemente incongrua o utilizzava il tema della corruzione come pretesto surrettizio in funzione di altri obiettivi politici. Ad esempio, l’abolizione del voto di preferenza fu solo un’illusione ottica: anche il candidato del collegio uninominale ha il problema di raccogliere voti ed il fatto che il voto personale non sia disgiungibile da quello del partito ripropone le logiche precedenti, anzi le esaspera.
L’abrogazione dell’immunità parlamentare ebbe effettivamente qualche effetto pratico, consentendo ai pm di indagare su un parlamentare senza dover chiedere l’autorizzazione alla Camera di pertinenza, ma aprì problemi di altro genere.
Tuttavia l’effetto maggiore fu essenzialmente di ordine simbolico ed ebbe una valenza “punitiva” nei confronti della classe politica come anche l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti (peraltro, subito compensata da più lauti rimborsi elettorali e da una più robusta legislazione di finanziamento indiretto).
Molto timide furono le innovazioni in materia di riforma degli appalti che tuttavia ebbero qualche effetto provvisorio, così come lo ebbero l’introduzione del reato di “voto di scambio” e qualche norma in materia di concorsi pubblici. Ma, nel complesso la manovra non ebbe efficacia perché mancò del minimo di organicità necessaria e perchè non toccò il nodo degli assetti di potere sociali e politici che erano alla base del fenomeno.
Mancò probabilmente la volontà di una seria azione di risanamento, sicuramente le misure furono dettate da una analisi assai superficiale del fenomeno di cui non si coglievano i tratti sistemici nella società e nel sistema politico. Nel complesso, passò l’idea che bastasse decapitare la classe politica del pentapartito per risanare il paese (7).
3- I mutamenti della magistratura.
Peraltro anche alcune scelte del Parlamento contribuirono a porre le premesse di quel che sarebbe accaduto da lì a poco. Nel 1989 venne approvata la riforma del codice di procedura penale, sostituendo il rito accusatorio al precedente rito inquisitorio. Quel che avrebbe comportato un deciso protagonismo della Procura nella fase istruttoria, soprattutto grazie all’eliminazione della figura del giudice istruttore. Il passaggio al rito accusatorio si rivelerà uno degli elementi determinanti per dar vita a quel “circuito mediatico-giudiziario” di cui sarebbe vissuta “Mani Pulite”8.
Successivamente si affermò (in particolare presso l’opinione pubblica di destra) una “vulgata” che possiamo definire delle “toghe rosse” e riassumere in questi termini: negli anni settanta si affermò fra i magistrati una corrente di contestatori (Magistratura Democratica) che, in breve, divenne la longa manus del Pci nel potere giudiziario. Lentamente questa corrente ed i suoi amici nelle correnti confinanti, conquistarono le Procure della Repubblica e –complice il nuovo codice di procedura penale- sferrarono l’attacco che portò alla distruzione di Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli. Quella stessa corrente sarebbe poi passata all’attacco di Berlusconi per punirlo del fatto di aver impedito la vittoria del Pds nel 1994.
In realtà, il fenomeno fu assai più complesso e non solo italiano. Infatti, l’ondata di inchieste per corruzione riguardò, pur se con diversa intensità, anche Francia, Spagna, Germania e, con particolarità diverse, Belgi. Paesi nei quali esisteva un debole partito comunista e nulla di paragonabile a Md (salvo, in parte, la Francia). In tutti questi casi si è assistito al protagonismo dei Pm che sfidavano apertamente il potere politico, un fenomeno inedito, per lo meno nel periodo della guerra fredda, durante il quale la magistratura ha agito in costante sintonia con il potere politico.
In parte questo era il prodotto della crescita senza precedenti della corruzione politica che aveva effetti di delegittimazione del sistema. E tale effetto era ulteriormente accentuato dalla conclusione della guerra fredda, che toglieva molte giustificazioni agli abusi della classe politica.
Ma esso fu soprattutto la conseguenza della metamorfosi del potere giudiziario indotto dalla globalizzazione. Come autorevoli giuristi (Taubner, Cassese, Galgano) hanno segnalato, la globalizzazione ha prodotto la moltiplicazione delle fonti del diritto extra legem (dove per legge intendiamo un testo derivato da una autorità pubblica, parlamentare o governativa): trattati e contratti internazionali, giurisprudenza di corti internazionali, decisioni arbitrali, indicazioni di organismi internazionali di diritto privato ecc. Al punto che alcuni (come appunto Taubner e Galgano) si sono spinti a parlare di una nuova lex mercatoria convenzionale, pattizia, privatistica ed espressa direttamente dal mercato, senza mediazione dell’autorità politica. In questo contesto, la giurisprudenza, sia nazionale che internazionale, assume un peso maggiore della legge e, di conseguenza, assegna al giudice una funzione primaria nella produzione del diritto, che sopravanza quella dei Parlamenti e Governi. Ed è già qui la ragione del nuovo protagonismo dei magistrati, accentuato, nel caso europeo, dalla loro selezione esclusivamente per concorso e non per elezione, come accade negli Usa. Il corpo dei magistrati viene quindi a porsi come produttore di diritto in quanto depositario di un sapere specialistico, dunque come articolazione tecnocratica del sapere, sottratta alla formazione democratica che, invece, caratterizza il Parlamento.
In secondo luogo, il progetto di globalizzazione neo liberista implica una alleanza diretta fra il potere finanziario e gli apparati tecnici dello stato (esercito, polizia, magistratura, servizi segreti) e confina il potere politico ad una funzione meramente servente, come espressione di questo nuovo “blocco storico” che indichiamo come l’ “alleanza fra la spada e la moneta” (dove la spada non è solo quella delle forze armate ma anche quella delle forze di polizia e della magistratura che se ne serve).
Determinante in questa funzione ormai politica della magistratura è l’esser chiamata a combattere alcuni fenomeni criminali come mafia o terrorismo: “la magistratura contro il terrorismo” o “contro la Mafia”. Dimenticando che alla magistratura spetta il compito di giudicare singoli imputati di questo o quel reato –magari di appartenenza ad una organizzazione terroristica o della grande criminalità-, ma non combattere fenomeni criminali in quanto tali, compito che spetta, semmai, al potere politico attraverso la legislazione e l’azione di polizia. Vice versa, come si è detto, la lotta al terrorismo produsse mutamenti giurisprudenziali come la dilatazione del reato associativo.
Ed essa è passato, pari pari, dalla lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata, alla lotta alla corruzione ed il giudice è stato chiamato a partecipare alla rifondazione del sistema politico o, in contesti diversi, alla eliminazione, di determinati soggetti, come accaduto a Bernard Tapie, o agli ex presidenti Collor de Mello o Fujimori (che, per la verità, lo meritavano ad abbundantiam). Determinante in questa funzione fu l’uso selettivo dell’azione penale anche in quei paesi (come il nostro) che prevedono l’obbligo dell’azione penale che, tuttavia, resta una pura istanza del dover essere, piuttosto che una realtà concreta (come dimostra il fatto che oltre la metà dei reati è archiviata, per decorrenza dei termini, senza che ci sia stato alcun atto istruttorio).
In questo quadro la magistratura assume anche un ruolo arbitrale fra i diversi potentati finanziari o una funzione di indirizzo politico, suggerendo le norme che sarebbe opportuno adottare e, magari in sinergia con i medesimi potentati (e i casi Enron, Madoff o Lehman Brothers negli Usa, oppure Antonveneta-Banca d’Italia, Parmalat, ecc. in Italia, forniscono abbondante materiale di studio in questo senso).
A favorire questa metamorfosi del giudice fu anche l’ibridazione del classico modello basato sulla codificazione, sino agli anni ottanta nettamente prevalente nell’Europa continentale, con quello di Common law che, come si sa, ha natura spiccatamente privatistica e giurisprudenziale.
Questa particolare miscela con l’introduzione del rito accusatorio nel nostro paese, ha prodotto dinamiche impreviste e non coincidenti con quelle dell’esperienza americana. Fra le dinamiche impreviste c’è quella del corto circuito mediatico-giudiziario: un giornalismo, reso sempre più compulsivo e sensazionalistico dall’irrompere della televisione commerciale, placava la sua fame di scoop divorando avidamente i comunicati e le conferenze stampa delle Procure della Repubblica. Un avviso di reato valeva un titolo di prima pagina che, oggettivamente, suonava come una sentenza di condanna.
Tutto questo ha prodotto –in particolare in Italia, ma non solo in Italia- una diffusa aspettativa di “giustizia sociale” nei confronti del potere giudiziario e dell’ufficio di Pm in particolare. Di fronte alla sordità del ceto politico ed, in particolare, all’inefficacia dei meccanismi di controllo parlamentare, larghe fasce di opinione pubblica rivolsero alla magistratura la propria domanda di giustizia. E sorsero due populismi simmetrici e speculari: un populismo giudiziario, che cerca nella giustizia penale l’eliminazione dell’avversario politico “scorretto”, ed il “populismo antigiudiziario” di chi pensa che l’investitura popolare valga una immunità totale e definitiva.
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Ovviamente, questo implicava la distribuzione di quote-tangente per ciascuna opera pubblica ad ogni corrente di partito coinvolta nella trattativa.
Questo sistema funzionava a patto di ottenere una certa acquiescenza del Pci, perché spesso uno dei tre livelli istituzionali (Regione, Provincia o Comune capoluogo) era retto da una amministrazione di sinistra e non sarebbe stato possibile spartire “equamente” il monte-appalti senza che esso fosse considerato nella sua interezza.
Pertanto si provvide ad estendere il sistema anche al Pci, che, però, vi partecipò in modo diverso dagli altri: ovviamente nel Pci non vi erano correnti e il partito trattava in quanto tale, ma, in linea di massima, non per chiedere alcuna tangente, quanto per garantire una quota dei lavori per le società della Lega delle Cooperative.
Poi la Lega trovava modo di sovvenzionare il partito in altro modo (pubblicità sui giornali di partito, partecipazione ai festival dell’Unità, assorbimento di funzionari in eccesso, facilitazioni varie).
E’ per questo che la corruzione negli anni ottanta divenne sistemica, cioè basata su un funzionamento combinato che metteva in relazione necessaria i diversi soggetti della pratica corruttiva a livello generalizzato. E non ammetteva eccezioni.
Alcune forme di finanziamento surrettizio non erano neppure nascoste: quando nei primissimi anni ottanta emersero contributi di alcuni enti a Ppss a favore di alcune correnti della Dc e del Psi, l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, sostenne che quello del finanziamento alla politica era uno dei “fini sub-istituzionali” delle Ppss.
Tutto questo, insieme al proliferare delle pratiche clientelari, determinò un irrigidimento del sistema politico che, ben presto, perse ogni capacità di auto riforma. A concorrere a tanto fu anche la sostanziale inerzia del sistema giudiziario nei confronti della dilagante corruzione.
Nei primi anni ottanta esplose un vistoso scandalo a Savona, che ebbe come protagonista un assessore socialista aderente alla P2, Alberto Teardo. Nel caso erano presenti in nuce tutti gli elementi di quella che, 10 anni più tardi, verrà chiamata “Tangentopoli”, ma l’inchiesta ebbe vita difficile ed il magistrato Michele Del Gaudio andò incontro a molte traversie disciplinari. E’ da notare anche l’isolamento politico del magistrato, determinato anche dall’atteggiamento del locale Pci.
Nella seconda metà degli anni ottanta il sistema iniziò ad andare in crisi. L’eccessiva frammentazione correntizia dei partiti, la sempre minore produttività del sistema politico, l’incomprensibilità dei suoi riti (in particolare in occasione delle crisi di governo), iniziarono a produrre un forte rigetto.
Sin dal 1979, l’astensionismo elettorale aveva iniziato a crescere, mentre i tassi reali di adesione ai partiti (iscrizioni, vendita della stampa, sottoscrizioni, partecipazione a manifestazioni di partito ecc.) crollarono parallelamente, spingendo ancor più verso la ricerca di risorse attraverso la corruzione.
Nello stesso periodo iniziò a profilarsi una tendenza al “leaderismo carismatico”: Pannella prima e Craxi subito dopo, tentarono di proporsi come leader che parlavano direttamente al corpo elettorale, senza la mediazione del proprio partito, ridotto ad appendice personale.
Il piccolo partito radicale fu, sin dagli inizi degli anni settanta, il supporto personale del suo leader e lo statuto adottato in quel periodo fu modellato esattamente in questa funzione.
Diversa la vicenda del Psi, dove Craxi doveva comunque fare i conti con i “boiardi” del partito, i cui seguiti clientelari rappresentavano una quota maggioritaria dell’elettorato socialista. A partire dal congresso di Palermo (1981) si stabilì una sorta di compromesso: al segretario la linea politica, in un clima di crescente unanimismo (la “maggioranza bulgara” di cui si dirà imbarazzato lo stesso Craxi -congresso di Verona, 1984), ai boiardi mano libera negli “affari”.
Una sorta di “leaderismo imperfetto” che, tuttavia rivitalizzò il Psi che dal 1963 in poi aveva conosciuto un costante declino elettorale.
In questo quadro (che si traduceva sul piano interno nel declino inarrestabile del Pci) la mediazione del ceto politico di governo non appariva più necessaria come nel passato e le sue pretese sempre meno accettabili.
Il meccanismo che aveva garantito ampia messe di consensi alla classe politica subiva un’improvvisa battuta d’arresto: “Mani pulite” fu l’ “infarto” del sistema, le cui premesse erano in quelle dinamiche.
A determinare il crollo fu la convergenza fra le inchieste giudiziarie e il referendum sulle leggi elettorali ed il passaggio dal proporzionale al maggioritario.
Il sistema dei partiti si disintegrò nel giro di pochi mesi e con esso, entrò in crisi anche quello della corruzione che vi si era sovrapposto ed identificato. Molti pensarono ad una sorta di catarsi nazionale che avrebbe messo fine alla piaga eterna della corruzione. Ma non fu questo, si trattò solo di una sua metamorfosi, per quanto profonda.
Ci fu un reale battuta d’arresto nella corruzione per qualche anno, ma essa fu frutto da un lato del blocco delle opere pubbliche per oltre un lustro, dall’altro dal contraddittorio e lento processo di riorganizzazione del sistema politico. E, più di tutto, incise la particolare prassi giudiziaria che investì la classe politica.
Peraltro, lo stesso intervento dell’Autorità giudiziaria non andò indenne da squilibri: i politici vennero trattati con molta più severità delle aziende (quasi si trattasse di casi di concussione e non di corruzione), alcuni partiti vennero passati al pettine fine, mentre per altri si usò un pettine a denti assai più larghi, il comportamento mutò da Procura a Procura, in particolare nel trattamento dei “collaboranti” ed i processi ebbero velocità differenziate. Soprattutto si produsse una giurisprudenza assai discutibile. In particolare, sulla scia della giurisprudenza contro il terrorismo, che dilatava il reato associativo oltre ogni limite sino a ribaltare l’onere della prova (“se sei delle Br sei ipso facto ritenuto responsabile di ogni delitto loro ascritto, salvo dimostrazione di prova contraria”), che, nel caso di “Mani Pulite” assunse la forma apodittica del “non poteva non sapere”.
In realtà di processi giunti a sentenza definitiva con regolare dibattimento ce ne furono molto pochi. Un un quarto si arenò in istruttoria con proscioglimento. Poco meno di un decimo, più piccola, non superò l’udienza preliminare o con l’assoluzione definitiva degli imputati. Ma più della metà dei casi si risolse con il rito abbreviato o il patteggiamento e pene irrisorie. Dal punto di vista dell’esito finale, Mani Pulite non fu caratterizzata da nessun particolare rigore (salvo per singoli personaggi come Bettino Craxi) nè portò all’affermazione di verità processuali particolarmente chiare e sconvolgenti. Ma segnò la fine di una classe politica attraverso il solo avviso di garanzia. Ciò accadde per il circuito mediatico-giudiziario che si determinò (6).
Lo stesso accadde con il primo governo Berlusconi a seguito dell’avviso di garanzia non casualmente consegnato nel quadro del G7.
Ma un metodo del genere può essere efficace nel breve periodo, mentre oltre una certa soglia provoca assuefazione e diventa un’arma spuntata.
Sul piano politico ci fu un tentativo di varare una legislazione di contrasto alla corruzione: abrogazione dell’immunità parlamentare –salvo che per l’arresto- nuova disciplina degli appalti, il passaggio al sistema uninominale che “eliminava” il voto di preferenza (individuato come una delle cause principali del malaffare), introduzione del reato di “voto di scambio” ecc. ma i risultati furono irrisori.
Infatti, una parte di queste misure era semplicemente incongrua o utilizzava il tema della corruzione come pretesto surrettizio in funzione di altri obiettivi politici. Ad esempio, l’abolizione del voto di preferenza fu solo un’illusione ottica: anche il candidato del collegio uninominale ha il problema di raccogliere voti ed il fatto che il voto personale non sia disgiungibile da quello del partito ripropone le logiche precedenti, anzi le esaspera.
L’abrogazione dell’immunità parlamentare ebbe effettivamente qualche effetto pratico, consentendo ai pm di indagare su un parlamentare senza dover chiedere l’autorizzazione alla Camera di pertinenza, ma aprì problemi di altro genere.
Tuttavia l’effetto maggiore fu essenzialmente di ordine simbolico ed ebbe una valenza “punitiva” nei confronti della classe politica come anche l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti (peraltro, subito compensata da più lauti rimborsi elettorali e da una più robusta legislazione di finanziamento indiretto).
Molto timide furono le innovazioni in materia di riforma degli appalti che tuttavia ebbero qualche effetto provvisorio, così come lo ebbero l’introduzione del reato di “voto di scambio” e qualche norma in materia di concorsi pubblici. Ma, nel complesso la manovra non ebbe efficacia perché mancò del minimo di organicità necessaria e perchè non toccò il nodo degli assetti di potere sociali e politici che erano alla base del fenomeno.
Mancò probabilmente la volontà di una seria azione di risanamento, sicuramente le misure furono dettate da una analisi assai superficiale del fenomeno di cui non si coglievano i tratti sistemici nella società e nel sistema politico. Nel complesso, passò l’idea che bastasse decapitare la classe politica del pentapartito per risanare il paese (7).
3- I mutamenti della magistratura.
Peraltro anche alcune scelte del Parlamento contribuirono a porre le premesse di quel che sarebbe accaduto da lì a poco. Nel 1989 venne approvata la riforma del codice di procedura penale, sostituendo il rito accusatorio al precedente rito inquisitorio. Quel che avrebbe comportato un deciso protagonismo della Procura nella fase istruttoria, soprattutto grazie all’eliminazione della figura del giudice istruttore. Il passaggio al rito accusatorio si rivelerà uno degli elementi determinanti per dar vita a quel “circuito mediatico-giudiziario” di cui sarebbe vissuta “Mani Pulite”8.
Successivamente si affermò (in particolare presso l’opinione pubblica di destra) una “vulgata” che possiamo definire delle “toghe rosse” e riassumere in questi termini: negli anni settanta si affermò fra i magistrati una corrente di contestatori (Magistratura Democratica) che, in breve, divenne la longa manus del Pci nel potere giudiziario. Lentamente questa corrente ed i suoi amici nelle correnti confinanti, conquistarono le Procure della Repubblica e –complice il nuovo codice di procedura penale- sferrarono l’attacco che portò alla distruzione di Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli. Quella stessa corrente sarebbe poi passata all’attacco di Berlusconi per punirlo del fatto di aver impedito la vittoria del Pds nel 1994.
In realtà, il fenomeno fu assai più complesso e non solo italiano. Infatti, l’ondata di inchieste per corruzione riguardò, pur se con diversa intensità, anche Francia, Spagna, Germania e, con particolarità diverse, Belgi. Paesi nei quali esisteva un debole partito comunista e nulla di paragonabile a Md (salvo, in parte, la Francia). In tutti questi casi si è assistito al protagonismo dei Pm che sfidavano apertamente il potere politico, un fenomeno inedito, per lo meno nel periodo della guerra fredda, durante il quale la magistratura ha agito in costante sintonia con il potere politico.
In parte questo era il prodotto della crescita senza precedenti della corruzione politica che aveva effetti di delegittimazione del sistema. E tale effetto era ulteriormente accentuato dalla conclusione della guerra fredda, che toglieva molte giustificazioni agli abusi della classe politica.
Ma esso fu soprattutto la conseguenza della metamorfosi del potere giudiziario indotto dalla globalizzazione. Come autorevoli giuristi (Taubner, Cassese, Galgano) hanno segnalato, la globalizzazione ha prodotto la moltiplicazione delle fonti del diritto extra legem (dove per legge intendiamo un testo derivato da una autorità pubblica, parlamentare o governativa): trattati e contratti internazionali, giurisprudenza di corti internazionali, decisioni arbitrali, indicazioni di organismi internazionali di diritto privato ecc. Al punto che alcuni (come appunto Taubner e Galgano) si sono spinti a parlare di una nuova lex mercatoria convenzionale, pattizia, privatistica ed espressa direttamente dal mercato, senza mediazione dell’autorità politica. In questo contesto, la giurisprudenza, sia nazionale che internazionale, assume un peso maggiore della legge e, di conseguenza, assegna al giudice una funzione primaria nella produzione del diritto, che sopravanza quella dei Parlamenti e Governi. Ed è già qui la ragione del nuovo protagonismo dei magistrati, accentuato, nel caso europeo, dalla loro selezione esclusivamente per concorso e non per elezione, come accade negli Usa. Il corpo dei magistrati viene quindi a porsi come produttore di diritto in quanto depositario di un sapere specialistico, dunque come articolazione tecnocratica del sapere, sottratta alla formazione democratica che, invece, caratterizza il Parlamento.
In secondo luogo, il progetto di globalizzazione neo liberista implica una alleanza diretta fra il potere finanziario e gli apparati tecnici dello stato (esercito, polizia, magistratura, servizi segreti) e confina il potere politico ad una funzione meramente servente, come espressione di questo nuovo “blocco storico” che indichiamo come l’ “alleanza fra la spada e la moneta” (dove la spada non è solo quella delle forze armate ma anche quella delle forze di polizia e della magistratura che se ne serve).
Determinante in questa funzione ormai politica della magistratura è l’esser chiamata a combattere alcuni fenomeni criminali come mafia o terrorismo: “la magistratura contro il terrorismo” o “contro la Mafia”. Dimenticando che alla magistratura spetta il compito di giudicare singoli imputati di questo o quel reato –magari di appartenenza ad una organizzazione terroristica o della grande criminalità-, ma non combattere fenomeni criminali in quanto tali, compito che spetta, semmai, al potere politico attraverso la legislazione e l’azione di polizia. Vice versa, come si è detto, la lotta al terrorismo produsse mutamenti giurisprudenziali come la dilatazione del reato associativo.
Ed essa è passato, pari pari, dalla lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata, alla lotta alla corruzione ed il giudice è stato chiamato a partecipare alla rifondazione del sistema politico o, in contesti diversi, alla eliminazione, di determinati soggetti, come accaduto a Bernard Tapie, o agli ex presidenti Collor de Mello o Fujimori (che, per la verità, lo meritavano ad abbundantiam). Determinante in questa funzione fu l’uso selettivo dell’azione penale anche in quei paesi (come il nostro) che prevedono l’obbligo dell’azione penale che, tuttavia, resta una pura istanza del dover essere, piuttosto che una realtà concreta (come dimostra il fatto che oltre la metà dei reati è archiviata, per decorrenza dei termini, senza che ci sia stato alcun atto istruttorio).
In questo quadro la magistratura assume anche un ruolo arbitrale fra i diversi potentati finanziari o una funzione di indirizzo politico, suggerendo le norme che sarebbe opportuno adottare e, magari in sinergia con i medesimi potentati (e i casi Enron, Madoff o Lehman Brothers negli Usa, oppure Antonveneta-Banca d’Italia, Parmalat, ecc. in Italia, forniscono abbondante materiale di studio in questo senso).
A favorire questa metamorfosi del giudice fu anche l’ibridazione del classico modello basato sulla codificazione, sino agli anni ottanta nettamente prevalente nell’Europa continentale, con quello di Common law che, come si sa, ha natura spiccatamente privatistica e giurisprudenziale.
Questa particolare miscela con l’introduzione del rito accusatorio nel nostro paese, ha prodotto dinamiche impreviste e non coincidenti con quelle dell’esperienza americana. Fra le dinamiche impreviste c’è quella del corto circuito mediatico-giudiziario: un giornalismo, reso sempre più compulsivo e sensazionalistico dall’irrompere della televisione commerciale, placava la sua fame di scoop divorando avidamente i comunicati e le conferenze stampa delle Procure della Repubblica. Un avviso di reato valeva un titolo di prima pagina che, oggettivamente, suonava come una sentenza di condanna.
Tutto questo ha prodotto –in particolare in Italia, ma non solo in Italia- una diffusa aspettativa di “giustizia sociale” nei confronti del potere giudiziario e dell’ufficio di Pm in particolare. Di fronte alla sordità del ceto politico ed, in particolare, all’inefficacia dei meccanismi di controllo parlamentare, larghe fasce di opinione pubblica rivolsero alla magistratura la propria domanda di giustizia. E sorsero due populismi simmetrici e speculari: un populismo giudiziario, che cerca nella giustizia penale l’eliminazione dell’avversario politico “scorretto”, ed il “populismo antigiudiziario” di chi pensa che l’investitura popolare valga una immunità totale e definitiva.
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